Gesù di Nazaret. La Preghiera del Signore (2)

LA PREGHIERA DEL SIGNORE (*) – qui la prima parte

Dacci oggi il nostro pane quotidiano

La quarta domanda del Padre nostro ci appare come la più «umana» di tutte: il Signore che orienta il nostro sguardo su ciò che è essenziale, sull’«unica cosa necessaria», sa però anche delle nostre necessità terrene e le riconosce. Egli, che ai suoi discepoli dice: «Per la vostra vita non affannatevi di quello che mangerete» (Mt 6,25), ci invita tuttavia a pregare per il nostro cibo e a trasmettere così la nostra preoccupazione a Dio.

Il pane è «frutto della terra e del lavoro dell’uomo», ma la terra non porta alcun frutto, se non riceve dall’alto sole e pioggia. Questa sinergia delle forze cosmiche, che non è stata consegnata nelle nostre mani, si contrappone alla tentazione della nostra superbia di darci la vita da soli e con le sole nostre capacità.

Tale superbia rende violenti e freddi. Finisce per distruggere la terra; non può essere altrimenti, perché contrasta con la verità, che cioè noi esseri umani siamo destinati a superarci, e che solo nell’apertura a Dio diventiamo grandi, liberi e noi stessi. Possiamo chiedere e dobbiamo chiedere. Lo sappiamo: se già i padri terreni danno cose buone ai figli quando le chiedono, così Dio non ci rifiuterà i beni che solo Lui può donare (cfr. Lc.11,9-13).

Nella sua interpretazione della preghiera del Signore, san Cipriano richiama l’attenzione su due aspetti importanti della domanda. Come già nell’invocazione «Padre nostro» aveva sottolineato la parola «nostro» nel suo ampio significato, così anche qui pone in risalto che si parla del pane «nostro». Anche qui preghiamo nella comunione dei discepoli, nella comunione dei figli di Dio, e pertanto nessuno può pensare solo a se stesso. Ne consegue un secondo passo: noi preghiamo per il nostro pane – chiediamo quindi anche il pane per gli altri. Chi ha pane in abbondanza è chiamato alla condivisione. San Giovanni Crisostomo, nella sua spiegazione della Prima Lettera ai Corinzi – a proposito dello scandalo che davano i cristiani a Corinto -, sottolinea «che ogni boccone di pane è in qualche modo un boccone del pane che appartiene a tutti, del pane del mondo». Padre Kolvenbach aggiunge: «Come si può, invocando il Padre nostro sulla mensa del Signore e durante la celebrazione eucaristica nel suo insieme, dispensarsi dall’esprimere l’inalterabile volontà di aiutare tutti gli uomini, propri fratelli, ad ottenere il pane quotidiano?» (p. 98). Con la domanda alla prima persona plurale il Signore ci dice: «Voi stessi date loro da mangiare» (Mc.6,37).

È importante ancora una seconda osservazione di Cipriano. Chi chiede il pane per l’oggi è povero. La preghiera presuppone la povertà dei discepoli. Presuppone persone che, a causa della fede, hanno rinunciato al mondo, alle sue ricchezze e alle sue lusinghe e chiedono ormai solo quanto è necessario per la vita. «A ragione il discepolo chiede il necessario per vivere solo per il giorno stesso, perché gli è vietato di preoccuparsi del domani. Per lui sarebbe anche contraddittorio voler vivere a lungo in questo mondo, dal momento che chiediamo, appunto, che il regno di Dio venga presto» (De dom. or. 19). Nella Chiesa devono sempre esserci persone che abbandonano tutto per seguire il Signore; persone che in modo radicale si affidano a Dio, alla sua bontà che ci nutre – persone, cioè, che in questa maniera propongono un segno di fede che ci scuote dalla nostra spensieratezza e debolezza nel credere. Le persone che si affidano a Dio al punto da non cercare altra sicurezza, riguardano anche noi. Ci incoraggiano a fidarci di Dio – a contare su di Lui nelle grandi sfide della vita. Questa povertà motivata totalmente dall’impegno per Dio e il suo regno è allo stesso tempo un atto di solidarietà con i poveri del mondo – un atto che nel corso della storia ha creato nuove valutazioni e una nuova disponibilità al servizio, all’impegno per gli altri.

La domanda per il pane, per il pane solo per l’oggi, suscita però anche il ricordo dei quarant’anni di peregrinazione di Israele nel deserto, quando il popolo visse di manna – di quel pane che Dio mandava dal cielo. Ciascuno poteva raccoglierne sempre solo la quantità necessaria per quel giorno; solo nel sesto giorno se ne poteva raccogliere la razione necessaria per due giorni, per osservare così il precetto del sabato (cfr.Es.16,16-22). La comunità dei discepoli, che ogni giorno rivive della bontà di Dio, rinnova l’esperienza del popolo di Dio peregrinante, che veniva nutrito da Dio anche nel deserto.

Così la domanda per il pane solo per l’oggi apre prospettive che vanno oltre l’orizzonte del necessario nutrimento quotidiano. Presuppone la sequela radicale della comunità più ristretta dei discepoli, la quale rinuncia al possesso in questo mondo e si associa al cammino di chi stima «l’obbrobrio di Cristo ricchezza maggiore dei tesori d’Egitto» (Eb.11,26). Appare l’orizzonte escatologico – le cose future che sono più importanti e più reali di quelle presenti.

Con ciò tocchiamo adesso una parola di questa domanda che, nelle nostre abituali traduzioni, suona innocua: dacci oggi il nostro pane «quotidiano».

Con «quotidiano» viene resa la parola greca epiousios.

Uno dei grandi maestri della lingua greca – il teologo Origene (+ 254 circa) – dice che in greco questo termine non esiste altrove, è stato creato dagli evangelisti. È vero che nel frattempo è stata trovata una testimonianza di questa parola in un papiro del V secolo dopo Cristo. Ma da sola anch’essa non può dare una certezza sul significato della parola, in ogni caso molto insolita e rara. Si deve pertanto dipendere dalle etimologie e dallo studio del contesto.

Esistono oggi due interpretazioni principali. Una dice che la parola significherebbe «[il pane] necessario per l’esistenza»; dunque la domanda sarebbe: dacci oggi il pane di cui abbiamo bisogno per poter vivere.

L’altra interpretazione dice che la traduzione giusta sarebbe «[il pane] futuro» – quello per il prossimo giorno. Ma la domanda di ricevere oggi il pane per domani, alla luce del modo di vivere dei discepoli, non sembra avere molto senso. Il rimando al futuro sarebbe più comprensibile, se si pregasse per il pane veramente futuro: per la vera manna di Dio. Allora si tratterebbe di una domanda escatologica, della domanda per un’anticipazione del mondo a venire, che cioè il Signore voglia donare già «oggi» il pane futuro, il pane del mondo nuovo – se stesso. Allora la domanda otterrebbe un senso escatologico.

 Alcune traduzioni antiche vanno in questa direzione, come per esempio la Vulgata di san Girolamo che traduce la misteriosa parola con supersubstantialis, interpretandola nel senso della «sostanza» nuova, superiore, che il Signore ci dona nel santo Sacramento quale vero pane della nostra vita.

I Padri della Chiesa, di fatto, hanno inteso in modo praticamente unanime la quarta domanda del Padre nostro come domanda per l’Eucaristia; in questo senso la preghiera del Signore si trova nella liturgia della santa Messa come preghiera eucaristica. Questo non vuol dire che, con ciò, sia stato tolto alla domanda dei discepoli il semplice significato terreno, che poc’anzi abbiamo chiarito quale significato immediato del testo. I Padri pensano a diverse dimensioni di una parola che inizia dalla domanda dei poveri per il pane del giorno corrente, ma proprio così – guardando al Padre celeste che ci nutre – ricorda il popolo di Dio peregrinante che venne nutrito da Dio stesso. Per i cristiani, alla luce del grande discorso di Gesù sul pane, il miracolo della manna rimandava quasi automaticamente al di là di se stesso al nuovo mondo, nel quale il Logos – l’eterna parola di Dio – sarà il nostro pane, il cibo dell’eterno banchetto nuziale.

È lecito pensare in tali dimensioni o ciò costituisce una «teologizzazione» sbagliata di una parola che ha invece un significato semplicemente terreno? Oggi queste «teologizzazioni» incutono un timore che non è del tutto infondato, ma che non si può nemmeno esagerare. Io penso che nella spiegazione della domanda del pane non si debba perdere di vista il più ampio contesto delle parole e delle opere di Gesù, nel quale hanno un ruolo importante contenuti essenziali della vita umana: l’acqua, il pane e – come segni della festosità e della bellezza del mondo – la vite e il vino. Il tema del pane occupa un posto rilevante nel messaggio di Gesù – dalla tentazione nel deserto attraverso la moltiplicazione dei pani fino all’Ultima Cena.

Il grande discorso sul pane nel sesto capitolo del Vangelo di Giovanni dischiude l’intero spettro di significato di questo tema. All’inizio c’è la fame degli uomini che hanno ascoltato Gesù e che Egli non congeda senza averli sfamati, c’è quindi il «pane necessario» di cui abbiamo bisogno per vivere. Ma Gesù non permette poi che ci si fermi lì, non permette di ridurre il bisogno dell’uomo al pane, alle necessità biologiche e materiali. «Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio» (Mt.4,4; Dt 8,3). Il pane miracolosamente moltiplicato evoca il ricordo del miracolo della manna nel deserto e rimanda così al contempo oltre se stesso: indica che il vero cibo dell’uomo è il Logos, la Parola eterna, il senso eterno da cui proveniamo e in attesa del quale viviamo. Se questo primo superamento dell’ambito fisico dice inizialmente solo ciò che anche la grande filosofia ha trovato ed è in grado di trovare, ecco giungere però immediatamente il secondo superamento: il Logos eterno diventa concretamente pane per l’uomo solo perché Egli «si è fatto carne» e ci parla con parole umane.

A questo segue il terzo ed essenziale superamento che ora, però, diviene uno scandalo per la gente di Cafarnao: Colui che è diventato uomo si dà a noi nel Sacramento, e solo così la Parola eterna diventa pienamente manna, il dono del pane futuro già oggi. Poi, però, il Signore unisce ancora una volta il tutto: questa estrema corporeizzazione è appunto la vera spiritualizzazione: «È lo Spirito che dà la vita, la carne non giova a nulla» (Gv 6,63). Bisogna forse supporre che nella domanda del pane Gesù abbia escluso tutto ciò che ci dice sul pane e che voleva darci come pane?

Se prendiamo il messaggio di Gesù nella sua interezza, allora non si può cancellare la dimensione eucaristica nella quarta domanda del Padre nostro. La domanda del pane quotidiano per tutti è essenziale proprio nella sua concretezza terrena. Altrettanto, però, essa ci aiuta anche a superare l’aspetto puramente materiale e a chiedere già ora la realtà del «domani», il nuovo pane. E pregando oggi per la realtà del «domani», veniamo esortati a vivere già ora del «domani», dell’amore di Dio che ci chiama tutti alla responsabilità reciproca.

A questo punto vorrei dare la parola ancora una volta a Cipriano che sottolinea  entrambe le dimensioni di significato. Egli riferisce però la parola «nostro», di cui abbiamo parlato più sopra, proprio anche all’Eucaristia che in un senso particolare è pane «nostro», pane dei discepoli di Gesù Cristo. Egli dice: noi, che possiamo ricevere l’Eucaristia come il nostro pane, dobbiamo tuttavia sempre pregare, affinché nessuno sia tagliato fuori, separato dal Corpo di Cristo. «Per questo preghiamo, affinché il “nostro” pane, cioè Cristo, ci sia dato quotidianamente, affinché noi che rimaniamo e viviamo in Cristo non ci allontaniamo dalla sua forza santificante e dal suo Corpo» (De dom. or. 18).

E rimetti a noi i nostri debiti; come anche noi li abbiamo rimessi ai nostri debitori

La quinta domanda del Padre nostro presuppone un mondo nel quale esistono debiti – debiti di uomini verso uomini, debiti di fronte a Dio; ogni colpa tra uomini comporta in qualche modo un ferimento della verità e dell’amore e si oppone così a quel Dio che è la Verità e l’Amore. Il superamento della colpa è una questione centrale di ogni esistenza umana; la storia delle religioni gira intorno a tale questione.

Colpa chiama ritorsione; si forma così una catena di indebitamenti, in cui il male della colpa cresce di continuo e diventa sempre più difficile sfuggirvi.

Il Signore, con questa domanda, ci dice: la colpa può essere superata solo attraverso il perdono, non attraverso la ritorsione. Dio è un Dio che perdona, perché ama le sue creature; ma il perdono può penetrare, può diventare efficace solo in colui che, da parte sua, perdona.

Il tema «perdono» pervade tutto il Vangelo. Lo incontriamo subito all’inizio del Discorso della montagna nella nuova interpretazione del quinto comandamento, in cui il Signore ci dice: «Se dunque presenti la tua offerta sull’altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia lì il tuo dono davanti all’altare e va’ prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna ad offrire il tuo dono» (Mt.5,23s). Non si può presentare al cospetto di Dio chi non si è riconciliato con il fratello; prevenirlo nel gesto della riconciliazione, andargli incontro – questo è il presupposto per un giusto culto a Dio. Al riguardo è spontaneo pensare che Dio stesso, sapendo che noi uomini come ribelli eravamo in contrasto con Lui, dalla sua divinità si è mosso incontro a noi, per riconciliarci.

Ci ricorderemo che, prima del dono dell’Eucaristia, Egli si è inginocchiato davanti ai suoi discepoli e ha lavato i loro piedi sporchi, li ha purificati con il suo umile amore. A metà del Vangelo di Matteo (cfr. 18,23-35) c’è la parabola del servo spietato: a lui che era un alto dignitario del re è stato condonato il debito inimmaginabile di diecimila talenti; ma lui poi non è disposto a condonare la somma, al confronto addirittura ridicola, di cento denari: qualunque cosa abbiamo da perdonarci a vicenda, è sempre piccola cosa rispetto alla bontà di Dio che perdona a noi. E infine sentiamo dalla croce la preghiera di Gesù: «Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno» (Lc.23,34).

_010 Preghiera Jesus Ratzinger parte 6Se vogliamo comprendere fino in fondo e fare nostra la domanda del Padre nostro, dobbiamo andare ancora un passo avanti e chiedere: che cos’è veramente il perdono? Che cosa avviene lì?

La colpa è una realtà, una forza oggettiva; essa ha causato una distruzione che deve essere superata. Perciò perdonare deve essere più di un ignorare, di un semplice voler dimenticare. La colpa deve essere smaltita, sanata e così superata. Il perdono ha il suo prezzo – innanzitutto per colui che perdona: egli deve superare in sé il male subito, deve come bruciarlo dentro di sé e con ciò rinnovare se stesso, così da coinvolgere poi in questo processo di trasformazione, di purificazioni interiori anche l’altro, il colpevole, e ambedue, soffrendo fino in fondo il male e superandolo, diventare nuovi. A questo punto ci imbattiamo nel mistero della croce di Cristo. Ma innanzitutto ci imbattiamo nei limiti della nostra forza di guarire, di superare il male. Ci imbattiamo nello strapotere del male che, con le sole nostre forze, non riusciamo a dominare. Reinhold Schneider commenta: «Il male vive in mille forme; occupa i vertici del potere […] sgorga dall’abisso. L’amore ha un’unica forma; è il tuo Figlio» (p. 68).

Il pensiero che Dio per il perdono della colpa, per la guarigione degli uomini dal di dentro abbia pagato il prezzo della morte del suo Figlio, ci è diventato oggi assai estraneo: che il Signore si sia «caricato delle nostre sofferenze e addossato i nostri dolori», che Egli sia «stato trafitto per i nostri delitti, schiacciato per le nostre iniquità», che «per le sue piaghe noi siamo stati guariti» (Is 53,4-6) – di tutto ciò non riusciamo più a capacitarci. Vi si oppone, da una parte, la banalizzazione del male, nella quale ci rifugiamo, mentre, dall’altra, prendiamo tuttavia gli orrori della storia, proprio anche di quella più recente, come pretesto irrefutabile per negare un Dio buono e diffamare la sua creatura, l’uomo. Alla comprensione del grande mistero dell’espiazione è poi di ostacolo, però, anche la nostra concezione individualistica dell’uomo: non riusciamo più a capire il significato della vicarietà, perché secondo noi ogni uomo vive isolato in se stesso; non siamo più in grado di capire il profondo intreccio di tutte le nostre esistenze e il loro essere abbracciate dall’esistenza dell’Uno, del Figlio fattosi uomo. Quando parleremo della crocifissione di Cristo, dovremo riprendere questi temi.

Per il momento basti un pensiero del Cardinale John Henry Newman, il quale disse una volta che Dio fu sì capace di creare il mondo intero dal nulla con una parola, ma la colpa e la sofferenza degli uomini poté superarle solo mettendosi Egli stesso in gioco, divenendo nel suo Figlio Egli stesso un sofferente che ha portato questo peso e lo ha superato per mezzo del dono di se stesso. Il superamento della colpa richiede il prezzo dell’impegno del cuore – di più: l’impegno dell’intera nostra esistenza. E anche questo impegno non basta; può divenire efficace solo mediante la comunione con Colui che ha portato il peso di tutti noi.

La domanda del perdono è più di un appello morale – è anche questo, e come tale ci sfida nuovamente ogni giorno. Ma nel più profondo essa è – come anche le altre domande – una preghiera cristologica. Ci ricorda Colui che per il perdono ha pagato il prezzo della discesa nella miseria dell’esistenza umana e della morte in croce. Così ci invita innanzitutto alla gratitudine e poi anche a smaltire con Lui il male mediante l’amore, a consumarlo soffrendo. E se ogni giorno dobbiamo riconoscere quanto poco a ciò bastino le nostre forze, quanto spesso torniamo a essere noi stessi debitori, allora questa domanda ci dona la grande consolazione che il nostro pregare è assunto nella forza del suo amore e con esso, per esso e in esso può, nonostante tutto, divenire forza di guarigione.

– E non c’indurre in tentazione

Le parole di questa domanda sono di scandalo per molti: Dio non ci induce certo in tentazione! Di fatto, san Giacomo afferma: «Nessuno, quando è tentato, dica: “Sono tentato da Dio”; perché Dio non può essere tentato dal male e non tenta nessuno al male» (1,13).

Ci aiuta a fare un passo avanti il ricordarci della parola del Vangelo: «Allora Gesù fu condotto dallo Spirito nel deserto per essere tentato dal diavolo» (Mt.4,1). La tentazione viene dal diavolo, ma nel compito messianico di Gesù rientra il superare le grandi tentazioni che hanno allontanato e continuano ad allontanare gli uomini da Dio. Egli deve, come abbiamo visto, sperimentare su di sé queste tentazioni fino alla morte sulla croce e aprirci in questo modo la via della salvezza. Così, non solo dopo la morte, ma in essa e durante tutta la sua vita deve in certo qual modo «discendere negli inferi», nel luogo delle nostre tentazioni e sconfitte, per prenderci per mano e portarci verso l’alto.

La Lettera agli Ebrei ha sottolineato in modo tutto particolare questo aspetto, mettendolo in risalto come parte essenziale del cammino di Gesù:

«Infatti, proprio per essere stato messo alla prova ed avere sofferto personalmente, è in grado di venire in aiuto a quelli che subiscono la prova» (2,18). «Infatti non abbiamo un sommo sacerdote che non sappia compatire le nostre infermità, essendo stato Lui stesso provato in ogni cosa, a somiglianza di noi, escluso il peccato» (4,15).

Uno sguardo al Libro di Giobbe, in cui sotto tanti aspetti si delinea già il mistero di Cristo, può fornirci ulteriori chiarimenti. Satana schernisce l’uomo per schernire in questo modo Dio: la sua creatura, che Egli ha formato a sua immagine, è una creatura miserevole. Quanto in essa sembra bene, è invece solo facciata.

In realtà all’uomo – a ogni uomo – interessa sempre e solo il proprio benessere. Questa è la diagnosi di Satana, che l’Apocalisse definisce «l’accusatore dei nostri fratelli, colui che li accusava davanti al nostro Dio giorno e notte» (Ap.12,10).

La diffamazione dell’uomo e della creazione è in ultima istanza diffamazione di Dio, giustificazione del suo rifiuto.

Satana vuole dimostrare la sua tesi con Giobbe, il giusto: se solo gli venisse tolto tutto, allora egli lascerebbe presto perdere anche la sua religiosità. Così Dio concede a Satana la libertà di mettere alla prova Giobbe, anche se entro limiti ben definiti: Dio non lascia cadere l’uomo, ma permette che venga messo alla prova. Qui traspare già in modo sommesso e non ancora esplicito il mistero della vicarietà, che prende una forma grandiosa in Isaia 53: le sofferenze di Giobbe servono alla giustificazione dell’uomo. Mediante la sua fede provata nella sofferenza, egli ristabilisce l’onore dell’uomo. Così le sofferenze di Giobbe sono anticipatamente sofferenze in comunione con Cristo, che ristabilisce l’onore di noi tutti al cospetto di Dio e ci indica la via per non perdere, neppure nell’oscurità più profonda, la fede in Dio.

Il Libro di Giobbe può anche esserci d’aiuto nel discernimento tra prova e tentazione. Per maturare, per trovare davvero sempre più la strada che da una religiosità di facciata conduce a una profonda unione con la volontà di Dio, l’uomo ha bisogno della prova. Come il succo dell’uva deve fermentare per divenire vino di qualità, così l’uomo ha bisogno di purificazioni, di trasformazioni che per lui sono pericolose, che possono provocarne la caduta, che però costituiscono le vie indispensabili per giungere a se stessi e a Dio. L’amore è sempre un processo di purificazioni, di rinunce, di trasformazioni dolorose di noi stessi e così una via di maturazione.

Se Francesco Saverio poté pregare Dio dicendo: «Ti amo, non perché puoi donarmi il paradiso o l’inferno, ma semplicemente perché sei quello che sei – mio re e mio Dio», era stato certamente necessario un lungo percorso di purificazioni interiori per giungere a quest’ultima libertà – un percorso di maturazioni, in cui era in agguato la tentazione, il pericolo della caduta – e tuttavia un percorso necessario.

Così possiamo ora interpretare la sesta domanda del Padre nostro già in maniera un po’ più concreta.

Con essa diciamo a Dio: «So che ho bisogno di prove affinché la mia natura si purifichi. Se tu decidi di sottopormi a queste prove, se – come nel caso di Giobbe – dai un po’ di mano libera al Maligno, allora pensa, per favore, alla misura limitata delle mie forze. Non credermi troppo capace. Non tracciare troppo ampi i confini entro i quali posso essere tentato, e siimi vicino con la tua mano protettrice quando la prova diventa troppo ardua per me».

In questo senso san Cipriano ha interpretato la domanda. Dice: quando chiediamo «e non c’indurre in tentazione», esprimiamo la consapevolezza «che il nemico non può fare niente contro di noi se prima non gli è stato permesso da Dio; così che ogni nostro timore e devozione e culto si rivolgano a Dio, dal momento che nelle nostre tentazioni niente è lecito al Maligno, se non gliene vien data di là la facoltà» (De dom. or. 25).

E poi, ponderando il profilo psicologico della tentazione, egli spiega che ci possono essere due differenti motivi per cui Dio concede al Maligno un potere limitato. Può accadere come penitenza per noi, per smorzare la nostra superbia, affinché sperimentiamo di nuovo la povertà del nostro credere, sperare e amare e non presumiamo di essere grandi da noi: pensiamo al fariseo che racconta a Dio delle proprie opere e crede di non aver bisogno di alcuna grazia. Cipriano, purtroppo, non specifica poi il significato dell’altro tipo di prova: la tentazione che Dio ci impone ad gloriam – per la sua gloria.

Ma in questo caso non dovremmo ricordarci che Dio ha messo un carico particolarmente gravoso di tentazioni sulle spalle delle persone a Lui particolarmente vicine, i grandi santi, da Antonio nel deserto fino a Teresa di Lisieux nel pio mondo del suo Carmelo?

Tali persone stanno, per così dire, sulle orme di Giobbe come apologia dell’uomo, che è al contempo difesa di Dio. Ancor più: sono in modo del tutto particolare in comunione con Gesù Cristo, che ha sofferto fino in fondo le nostre tentazioni. Sono chiamate a superare, per così dire, nel proprio corpo, nella propria anima le tentazioni di un’epoca, a sostenerle per noi, anime comuni, e ad aiutarci nel passaggio verso Colui che ha preso su di sé il gravame di tutti noi.

Nella preghiera che esprimiamo con la sesta domanda del Padre nostro deve così essere racchiusa, da un lato, la disponibilità a prendere su di noi il peso della prova commisurata alle nostre forze; dall’altro, appunto, la domanda che Dio non ci addossi più di quanto siamo in grado di sopportare; che non ci lasci cadere dalle sue mani. Pronunciamo questa richiesta nella fiduciosa certezza per la quale san Paolo ci ha donato le parole: «Dio è fedele e non permetterà che siate tentati oltre le vostre forze, ma con la tentazione vi darà anche la via d’uscita e la forza per sopportarla» (1Cor.10,13).

_010 Preghiera Jesus Ratzinger parte 7– Ma liberaci dal male

L’ultima domanda del Padre nostro riprende ancora la penultima e la volge al positivo; pertanto entrambe le domande sono strettamente connesse. Se nella penultima domanda dominava il «non» (non dare spazio al Maligno oltre la misura sopportabile), nell’ultima ci presentiamo al Padre con la speranza centrale della nostra fede. «Salvaci, redimici, liberaci!» In fin dei conti è la domanda della redenzione. Da che cosa vogliamo essere redenti?

Nelle traduzioni recenti del Padre nostro «il male» di cui si parla può indicare sia «il

male» impersonale, sia «il Maligno». In fondo, i due significati non si possono separare. Sì, vediamo davanti a noi il drago di cui parla l’Apocalisse (cfr. capitoli 12 e 13).

Giovanni ha caratterizzato «la bestia» che ha visto «salire dal mare», dagli abissi oscuri del male, con gli attributi del potere politico romano, dando così una forma molto concreta alla minaccia che i cristiani del suo tempo vedevano incombere su di loro: il diritto totale sulla persona che veniva rivendicato attraverso il culto dell’imperatore, portando cosi il potere politico-militare-economico al massimo grado dell’onnipotenza esclusiva – all’espressione del male che minaccia di ingoiarci. A questo si accompagna la disgregazione degli ordini morali mediante una forma cinica di scetticismo e di illuminismo. Sotto questa minaccia, il cristiano del tempo della persecuzione invoca il Signore come l’unica potenza in grado di salvarlo: liberaci dal male!

Anche se l’impero romano e le sue ideologie non esistono più – quanto è ancora attuale tutto ciò! Anche oggi ci sono, da un lato, le potenze del mercato, del traffico di armi, di droghe e di uomini – potenze che gravano sul mondo e trascinano l’umanità in vincoli ai quali non ci si può sottrarre. Anche oggi c’è, dall’altro lato, l’ideologia del successo, del benessere, che ci dice: Dio è solo una finzione, ci fa solo perdere tempo e ci toglie la voglia di vivere. Non ti preoccupare di Lui! Cerca da solo di carpire dalla vita quanto puoi! Anche a queste tentazioni sembra impossibile sottrarsi.

Il Padre nostro nella sua interezza, e questa domanda in particolare, vogliono dirci: solo quando hai perduto Dio, hai perduto te stesso; allora sei ormai soltanto un prodotto casuale dell’evoluzione. Allora il «drago» ha vinto davvero. Finché egli non riesce a strapparti Dio, tu, nonostante tutte le sventure che ti minacciano, sei ancora rimasto intimamente sano. Così è giusto che la traduzione dica: liberaci dal male. Le sventure possono essere necessarie alla nostra purificazione, ma il male distrugge.

Questo dunque chiediamo nel più profondo: che non ci venga strappata la fede che ci fa vedere Dio, che ci unisce a Cristo. Chiediamo che per i beni non perdiamo il Bene stesso; che anche nella perdita di beni non vada perso per noi il Bene, Dio; che non andiamo persi noi: liberaci dal male!

Anche qui Cipriano, il Vescovo martire, che dovette sostenere di persona la situazione descritta nell’Apocalisse, trovò al riguardo parole splendide: «Quando diciamo “liberaci dal male”, non resta niente che dovremmo ancora oltre ciò chiedere. Una volta ottenuta la protezione chiesta contro il male, noi siamo sicuri e custoditi contro tutto ciò che diavolo e mondo possono mettere in atto. Quale paura potrebbe ancora sorgere dal mondo per colui, il cui protettore nel mondo è Dio stesso?» (De dom. or. 27).

Questa certezza ha sostenuto i martiri e li ha resi lieti e fiduciosi in un mondo colmo di angustie, ha «liberato» essi stessi nel più profondo, li ha liberati alla vera libertà.

È la stessa fiducia che san Paolo ha meravigliosamente espresso con le parole: «Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? […] Chi ci separerà dunque dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? […] In tutte queste cose noi siamo più che vincitori per virtù di colui che ci ha amati. Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, in Cristo Gesù, nostro Signore» (Rm.8,31-39).

Pertanto, con l’ultima domanda ritorniamo alle prime tre: chiedendo la liberazione dal potere del male, chiediamo in definitiva il regno di Dio, la nostra unificazione con la sua volontà, la santificazione del suo nome. Gli oranti di tutti i tempi hanno però interpretato la domanda in senso più vasto. Nelle tribolazioni del mondo pregavano Dio anche di porre un limite ai «mali» che devastano il mondo e la nostra vita.

Questo modo molto umano di interpretare la domanda è entrato nella liturgia: in tutte le liturgie, eccetto solo quella bizantina, l’ultima domanda del Padre nostro viene ampliata in una preghiera particolare che, nell’antica liturgia romana, diceva: «Liberaci, o Signore, da tutti i mali, passati, presenti e futuri. Per l’intercessione […] di tutti i santi, concedi la pace ai nostri giorni, affinché, con l’aiuto della tua misericordia, viviamo sempre liberi dal peccato e sicuri da ogni turbamento».

Si percepisce l’eco delle necessità in tempi turbolenti, si percepisce il grido per una redenzione completa. Questo «embolismo», con cui nelle liturgie viene rafforzata l’ultima domanda del Padre nostro, mostra l’aspetto umano della Chiesa. Sì, noi possiamo, noi dobbiamo pregare il Signore anche di liberare il mondo, noi stessi e i molti uomini e popoli sofferenti dalle tribolazioni che rendono la vita quasi insopportabile.

Possiamo e dobbiamo intendere questo ampliamento dell’ultima domanda del Padre nostro anche come esame di coscienza per noi – come esortazione a collaborare affinché venga infranto lo strapotere dei «mali». Ma con ciò non dobbiamo perdere di vista la vera gerarchia dei beni e il rapporto dei mali con il Male per eccellenza: la nostra richiesta non deve decadere nella superficialità; anche in questa interpretazione della domanda del Padre nostro resta centrale il pensiero che «veniamo liberati dai peccati», che riconosciamo «il Male» come la vera avversità e che non ci venga mai impedito lo sguardo sul Dio vivente.


Note

(*) J. Ratzinger-Benedetto XVI – Gesù di Nazaret – Tomo 1  – Dal Battesimo alla Trasfigurazione – Rizzoli, 2007

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