Il vero ultramontanismo (papismo) è una posizione equilibrata e fedele alla Tradizione, perché difende il primato petrino e l’infallibilità pontificia senza cadere nella “papolatria”. Il problema odierno non è dunque il papismo ma il magisterialismo dei modernisti.
di José Antonio Ureta (12 ottobre 2021)
Non si può che concordare con la posizione editoriale pubblicata su OnePeterFive riguardo all’unire i clan in una singola crociata per ricostruire la Cristianità e “restaurare ogni cosa in Cristo”. Mi unisco alla squadra editoriale nel lamentare la catastrofe di alcuni rappresentanti del cattolicesimo tradizionale che “discutono tra loro su minuzie mentre gli eretici trionfano contro il dogma”.
Non è con questo spirito polemico che accetto il vostro invito a presentare un contributo come ospite. Piuttosto, spero di contribuire al fulcro del vostro nuovo focus: l’atteggiamento corretto che un fedele cattolico deve adottare verso gli errori promossi da Papa Francesco e numerosi vescovi. Concordo pienamente con il vostro rifiuto di due false soluzioni: il sedevacantismo e qualsiasi favoreggiamento dello scisma greco-ortodosso. Tuttavia, vorrei condividere le mie riserve sull’uso di due nuove etichette: il “falso spirito del Vaticano I” e “l’ultramontanismo estremo”. Entrambe sono usate in modo scorretto per descrivere l’atteggiamento riprovevole di coloro che preferirebbero sbagliare con il papa piuttosto che avere ragione e contro di lui.
Ho denunciato il falso concetto di obbedienza che paralizza molti cattolici conservatori nel mio libro, Il Cambiamento di Paradigma di Papa Francesco: Continuità o Rottura nella Missione della Chiesa? Una Valutazione dei Primi Cinque Anni del Suo Pontificato. L’ho chiamato magisterialismo. Questo errore si è insinuato negli ultimi decenni tra gli ammiratori di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI. I magisterialisti criticavano i neo-modernisti non perché rigettavano l’insegnamento tradizionale della Chiesa, ma perché attaccavano il magistero del papa regnante(1).
Con il team editoriale di OnePeterFive, rifiuto come falsa l’idea che “tutta la vita cattolica debba ruotare attorno al papa che è, per così dire, una sorta di oracolo de facto a Delfi, il cui ogni capriccio diventa una legge vincolante nella Chiesa”. Ciononostante, credo sia pericoloso attribuire questo errore a un “falso spirito del Vaticano I” e a un “ultramontanismo estremo”. Posso capire come sia tentante tracciare un semplice parallelo tra i due concili insinuando che alcune persone abbiano distorto i loro documenti nel periodo post-conciliare.
Tuttavia, vedo tre problemi con questo approccio:
- suggerisce un’approvazione impossibile per il Concilio Vaticano II — proprio come il magisterialismo sarebbe derivato da un “falso spirito del Vaticano I”, l’attuale crisi della Chiesa sarebbe dovuta allo “spirito del Vaticano II” che sarebbe in contraddizione con i testi di quel concilio;
- getta ingiustamente un’ombra di sospetto sul movimento ultramontano del XIX secolo, ponendolo sullo stesso piano del progressismo responsabile del Concilio Vaticano II;
- distorce la documentazione storica perché la papolatria non è un frutto avvelenato dell’ultramontanismo ma la prole distorta dei suoi oppositori, i cattolici liberali. Questi ultimi la usarono durante il pontificato di Leone XIII, cercando di costringere i cattolici tradizionali ad accettare la sua politica sbagliata di ralliement — raggruppamento attorno alla Repubblica Francese massonica.
A loro merito, gli ultramontani furono i grandi difensori dei due dogmi di fede riguardo al papa che furono solennemente definiti al Concilio Vaticano I. Questi erano (a) la giurisdizione piena, suprema, immediata e universale del papa (supremazia papale) e (b) la sua infallibilità. La difesa energica di queste verità da parte degli ultramontani scatenò all’epoca la falsa accusa che fossero “teologi dell’assolutismo” e avessero immolato la verità “come un sacrificio all’idolo che si sono eretti nel Vaticano”(2). Il loro accusatore era il noto scrittore cattolico liberale, il conte Charles de Montalembert.
Gli ultramontani amarono questi due privilegi del Vicario di Cristo in modo esagerato, distorto? Niente affatto. Una panoramica del pensiero e dell’azione di Sua Eminenza Louis-Édouard Cardinal Pie, vescovo di Poitiers, lo dimostra. Al Concilio Vaticano I, l’allora vescovo Pie fu una figura di spicco insieme a Henry Edward Cardinal Manning. Uso il Cardinal Pie come esempio perché vivo una buona parte dell’anno in Francia, e quindi ho più familiarità con la sua vita. La Francia era anche il centro intellettuale del movimento ultramontano. Infine, il vescovo di Poitiers fu il grande difensore della regalità sociale di Cristo e ispirò il motto di San Pio X, che il vostro sito web ha anche adottato per definire la sua posizione editoriale: Instaurare omnia in Christo.
Cominciamo con la falsa accusa di Montalembert secondo cui gli ultramontani avessero una certa simpatia per l’assolutismo. È completamente priva di fondamento sia per quanto riguarda la sfera temporale che quella religiosa. Gli ultramontani — e in particolare il futuro Cardinal Pie — erano monarchici legittimisti. Essi rigettarono il centralismo imperiale bonapartista e difesero una monarchia temperata. “La regalità cristiana, specialmente quella francese” — scrisse il Vescovo Pie in un programma monarchico su richiesta del Conte di Chambord, erede al trono francese — “non è mai stata una regalità arbitraria o addirittura assoluta. Questo temperamento è nel midollo stesso della dinastia, come si vede nell’esistenza di vari ordini del regno, le assemblee provinciali, gli Stati Generali, i Parlamenti, le libertà locali e, soprattutto, nella morale cristiana”(3).
Il Vescovo Pie applicò la stessa visione di autorità temperata alla Chiesa. Fu un grande difensore delle prerogative di quelli che allora venivano chiamati concili particolari o provinciali. Lavorò per farli tenere nella sua provincia ecclesiastica, eseguì i loro decreti e, seguendo lo spirito che li aveva ispirati, redasse le regole che essi elaborarono. Riguardo a una lettera di Pio IX ai vescovi austriaci che li esortava a tenere un concilio provinciale, il Vescovo Pie commentò che era una “risposta inoppugnabile a quelle accuse avventate di monopolizzare tutte le attribuzioni e di una tendenza a una centralizzazione illimitata, che alcune persone non hanno avuto paura di sollevare negli ultimi tempi contro la Chiesa romana”.
Aggiunse: “I concili particolari sono un elemento e una garanzia di libertà e nazionalità per le varie province del mondo cattolico; diversi concili ecumenici hanno dato loro questo carattere. Ora, lungi dal offendersi per lo svolgimento di questi stati provinciali, il capo della Chiesa stessa ne chiede la ripresa, ne lamenta l’abbandono e ne evidenzia i benefici”(4). Quali? Finché rimarranno diversità di origine, lingua, governo, direi persino di clima… l’esistenza di una legge comune, una legislazione assoluta, uniforme senza modifiche e dispensazioni sarà impossibile su un numero piuttosto ampio di punti della disciplina ecclesiastica. … [Una legge comune] ammette come elemento della legge stessa il principio di eccezioni, deroghe, modifiche, purché siano fatte in condizioni normali. Ora, il tribunale che offre la maggiore garanzia… è la gerarchia della provincia canonicamente riunita, conciliariamente, subordinando i propri decreti alla revisione apostolica(5).
Altrove il Vescovo Pie scrisse: “Mai la Sede Apostolica ha insistito più [che sotto Pio IX] sullo svolgimento periodico di concili particolari, nei quali i vescovi tuttavia adempiono in comune quella funzione di giudici, che a Roma si accusa di contestare”(6). Mi sia concessa una digressione. I padri del Concilio Vaticano II furono mal consigliati quando accusarono il primo di aver squilibrato la struttura della Chiesa. Esso affrontò questo non-problema introducendo una “collegialità” sconosciuta alla tradizione, prendendo in prestito dagli scismatici orientali. Prese in prestito persino la parola, una traduzione scadente del termine russo sobornost(7). Contrariamente a Lumen Gentium (n. 22) e alla Nota preliminare aggiunta da Paolo VI, il collegio dei vescovi unito al papa non esercita un potere supremo permanente sulla Chiesa universale. La Chiesa cattolica non ha due teste. Ha una sola testa: il successore di Pietro. A meno che il papa non convochi i vescovi in un concilio, la loro autorità è ordinariamente limitata alla singola diocesi dove hanno giurisdizione, come suo pastore. Essi possono riunirsi in concili provinciali, tuttavia, sotto la supervisione della Santa Sede, che deve vegliare sull’unità della Chiesa. La Santa Sede rifiuta di esercitare questa supervisione oggi riguardo al Cammino Sinodale tedesco, anche se questa assemblea della Chiesa tedesca usurpa un potere dottrinale che i vecchi concili provinciali non ebbero mai. Questi erano limitati a legiferare su questioni disciplinari.
Tuttavia, torniamo al nostro argomento e andiamo al cuore della questione: gli ultramontani erano papolatri che volevano fare del Successore di Pietro una specie di Pizia che consegnava gli oracoli di Apollo a Delfi? Niente affatto! A questo riguardo, l’atteggiamento del Vescovo Pie prima e durante il Concilio Vaticano I è molto illuminante. Essendo stato nominato consultore da Pio IX ancor prima che il concilio fosse pubblicamente annunciato, il Vescovo Pie scrisse un piano per la commissione preparatoria sui temi attuali che, a suo parere, il futuro concilio avrebbe dovuto affrontare. Era convinto che il grande problema del momento fosse il negazionismo della regalità sociale di Cristo da parte del secolarismo. Pertanto, il suo piano proposto si concentrava specialmente sugli errori del razionalismo e del naturalismo, che la Costituzione Dogmatica Dei Filius affrontava.
L’infallibilità papale non era inclusa nel suo piano. Sebbene fosse un ardente sostenitore dell’infallibilità papale, il vescovo Pie non era ossessionato da questo dogma non ancora proclamato. Propose persino come consultore conciliare Arthur-Marie Le Hir, un sacerdote di Saint-Sulpice e professore di Sacra Scrittura nel famoso seminario parigino, che era il baluardo del Gallicanismo. Dopo l’inaugurazione ufficiale del concilio, furono i liberali a scatenare una controversia sull’infallibilità, che non era ancora all’ordine del giorno. Incalzato da diversi vescovi amici a entrare nell’arena di questa controversia, il vescovo Pie rifiutò. In una lettera alla sua diocesi, spiegò le sue ragioni:
“Abbiamo deciso d’ora in poi di evitare di trattare a nostro nome le questioni capitali che si impongono a questa santa assemblea. Ci è sembrato che il rispetto dovuto ai nostri venerabili colleghi nell’episcopato, così come quello che dobbiamo a noi stessi, ci imponesse questa riserva. Non dovremmo né anticipare il giudizio degli altri, né formulare in anticipo il nostro giudizio personale, disposti come siamo a trarre profitto dallo scambio di pensieri, dal frutto delle discussioni, e soprattutto a obbedire alle luci e ai movimenti dello Spirito Santo, la cui assistenza non ci mancherà al momento opportuno”(8).
Il vescovo di Poitiers non fu turbato dalla feroce polemica mediatica tra i due schieramenti su questo argomento scottante:
“Che i singoli scrittori, sotto la loro personale responsabilità, formulino supposizioni e si impegnino in discussioni a questo riguardo. La Chiesa, che è molto liberale nelle sue procedure e dà libero sfogo all’espressione di tutti i pensieri e sentimenti durante la durata delle sessioni conciliari, non si allarma né si offende per questi dibattiti pubblici quando sono contenuti entro giusti limiti. Purché il falso liberalismo non rivendichi un monopolio della libertà, come è già accaduto, e, nella sua abitudine di assolutismo pratico, non reprima le opinioni e non gridi allo scandalo a causa della libertà concessa ai suoi oppositori”(9).
Si direbbe che egli parli profeticamente dei nostri giorni! Il futuro cardinale Pie non abbandonò la sua riserva finché il vescovo Henri Maret, decano dell’Università della Sorbona, non pubblicò due volumi. In essi, il vescovo Maret definì assolutismo la presunta “onnipotenza” che sarebbe stata creata dalla definizione dell’infallibilità personale del papa (non subordinata ad alcuna approvazione da parte del collegio dei vescovi). Invece, il prelato gallicano sosteneva che i vescovi avrebbero dovuto ordinariamente partecipare al governo generale della Chiesa. Questo sarebbe avvenuto tramite concili ecumenici tenuti ogni dieci anni! (Se fosse vivo oggi, il vescovo Maret sarebbe un fervente promotore della Chiesa Sinodale a piramide invertita di Papa Francesco). Nel ventesimo anniversario della sua consacrazione episcopale, il vescovo Pie affermò nel suo sermone che subordinare le decisioni dottrinali dei papi all’assenso positivo o silenzioso della gerarchia mondiale sarebbe stato un insulto alla promessa di Nostro Signore Gesù Cristo a San Pietro. Fedele alla consuetudine, tuttavia, si affrettò ad aggiungere che non intendeva “provocare o pregiudicare in alcun modo una definizione conciliare, la cui opportunità prima, e poi la forma, devono essere interamente riservate al giudizio della grande assemblea sinodale e alla volontà suprema dello Spirito Santo”(10). Conformando le azioni alle parole, pubblicò la risposta del vescovo Maret nel settimanale diocesano, aggiungendo che, “In ogni giusta polemica, è regola che una difesa possa essere presentata dove è avvenuto un attacco”(11).
La riserva del Vescovo Pie continuò quando il Vescovo Dupanloup, il campione liberale, pubblicò due scritti polemici alla vigilia dell’apertura del concilio. Affermando l’inopportunità di una solenne definizione del potere magisteriale del pontefice romano, il Vescovo Félix Dupanloup sferrò un attacco su vasta scala all’infallibilità stessa. In risposta, il vescovo di Angoulême, Mons. Antoine-Charles Cousseau, pronunciò le famose parole: Quod inopportunum dixerunt, necessarium fecerunt. In altre parole, coloro che dicevano che la proclamazione del dogma era inopportuna l’avevano resa necessaria. Dom Prosper Guéranger, abate di Solesmes, commentò che l’intervento del Vescovo Dupanloup era ciò che mancava per concludere che era giunto il momento di definire l’infallibilità papale. Ciononostante, il Vescovo Pie si limitò a riaffermare, in una lettera confidenziale alla madre, che, “Nonostante tutto questo, siamo decisi a rimanere in silenzio. Il concilio ne trarrà vantaggio”(12).
L’8 dicembre 1869, festa dell’Immacolata Concezione, il concilio fu solennemente aperto. Il 14 dicembre, con 470 voti su 700, il vescovo Pie fu il secondo padre conciliare eletto alla Commissione della Dottrina e della Fede. Questa prima vittoria per le dottrine ultramontane che egli rappresentava lo trovò rispettoso verso la minoranza liberale come prima. In una lettera a padre Gervais, Vicario Generale dell’arcidiocesi di Bordeaux, che era rimasto in Francia, disse: “Sarebbe stato utile se alcuni teologi dell’altra parte, come il vescovo di Grenoble [Mons. Jacques Ginoulhiac], fossero stati nominati nelle prime commissioni”. Per prime, intendeva quelle sulla dottrina e la disciplina(13).
Fu il relatore dello schema su “Fede e Ragione”. Confidò a sua madre che la congregazione generale aveva ben accolto la sua presentazione, “vescovi di quasi tutte le sfumature mi hanno fatto i complimenti”(14). Non c’è da meravigliarsi che la Costituzione Dogmatica Dei Filius, che conteneva questo schema, sia stata approvata all’unanimità dall’assemblea. Il giorno di questa approvazione, il 24 aprile 1870, il peggioramento della situazione internazionale e le minacce di guerra spinsero 150 padri conciliari riuniti dal futuro Cardinale Manning, arcivescovo di Westminster e grande leader della corrente ultramontana nei paesi di lingua inglese, a presentare a Papa Pio IX un postulatum che chiedeva la pronta discussione dell’infallibilità del Romano Pontefice. Contrariamente a quanto alcuni potrebbero pensare, il Vescovo Pie non fu tra i firmatari della petizione.
Sebbene fosse il campione ultramontano di lingua francese, non era l’irruente che gli ultramontani a volte vengono definiti. La sua moderazione spicca nella spiegazione che in seguito diede ai suoi sacerdoti. Pur riconoscendo l’importanza della questione, credeva che “non ogni concilio debba risolvere ogni controversia e definire ogni dottrina”(15). Ragionò inoltre che non era ancora il turno dell’infallibilità papale nell’ordine logico del programma del concilio. Questo, perché la seconda parte dello schema De Fide sulla grazia, il peccato originale e la redenzione, quasi interamente scritta allora, non era ancora stata discussa. Pensava che solo dopo aver terminato questa grande sintesi dogmatica i padri conciliari avrebbero dovuto affrontare il capitolo sulla Chiesa e il sommo pontefice. È lì che la questione dell’infallibilità papale avrebbe trovato il suo posto naturale.
Infine, credeva che la sua posizione nella Commissione della Dottrina e della Fede richiedesse questa reticenza “dal momento che era probabile che fossi chiamato a intervenire personalmente nell’introduzione ufficiale della causa, cosa che effettivamente accadde”(16). Un commento del suo biografo è interessante per lo scopo di questo saggio:
“Era sorprendente che non appartenesse a nessun gruppo militante e che, accessibile a tutti, di solito incontrasse molte persone di varie opinioni, studiando ognuna di esse, evitando di scioccarle con un assolutismo partitismo e pregiudizio, ma diventando immediatamente molto fermo agli occhi dei vescovi che si erano fatti capi dell’opposizione. Il suo entourage e gli amici avrebbero voluto che egli guidasse la maggioranza, ma egli evitò qualsiasi intervento personale perché lo vedeva come un fraintendimento dello spirito della Chiesa”(17).
Ciononostante, il Vescovo Pie fu pronto a riconoscere l’urgenza di affrontare l’infallibilità papale per non lasciarla nello stato di tumulto in cui era stata posta dalle polemiche scatenate dalla minoranza gallicano-liberale. Quest’ultima protestò in fretta per voce di sessantasette vescovi contro ogni possibile modifica al programma del concilio. Il 9 maggio 1870, vedendo che cinquecento vescovi si erano ormai uniti alla richiesta di trattare la questione, Pio IX ordinò la distribuzione dello schema sull’infallibilità papale. La Commissione della Dottrina e della Fede incaricò il Vescovo Pie di riferire su questo nuovo argomento. Lo fece quattro giorni dopo, davanti alla congregazione generale. A nome della commissione, si scusò per aver presentato uno schema fuori luogo ma imposto dalla passione con cui l’opinione pubblica aveva affrontato l’argomento. Spiegò i primi tre capitoli sul potere pontificio. Nel quarto, affrontò l’infallibilità, il corollario logico e obbligatorio del papa come giudice supremo e universale. Concluse con queste parole rassicuranti ai padri conciliari: “Senza dubbio, lo schema proposto non è stato perfezionato. Per questo la commissione che avete incaricato di prepararlo non ha desiderio maggiore di vedere il suo abbozzo perfezionato da voi”(18).
In trentaquattro congregazioni generali ogni mattina e particolari nel pomeriggio, sia gli ultramontani “infallibili” che il partito “anti-infallibile” e “inopportuno” discussero approfonditamente l’argomento. I gallicani continuarono a sostenere che l’infallibilità della Chiesa non poteva riposare sulla persona del papa da solo, ma richiedeva l’accordo di papa e concilio. D’altra parte, i cattolici liberali non si opposero alla tesi dell’infallibilità personale del papa, ma la considerarono inappropriata proclamare questo dogma perché il suo carattere assolutista avrebbe potuto offendere lo spirito democratico del mondo moderno. Temevano anche che gli ultramontani estendessero retroattivamente l’infallibilità papale al Syllabus, che aveva condannato i loro piani per una “cristianizzazione del liberalismo”.
Beneficiando della sua influenza, il Vescovo Pie ricevette copie di tutti i discorsi, specialmente quelli dei suoi oppositori, e prese appunti per adattare le sue posizioni. A volte lasciava trasparire la sua tristezza: “Ci si stupisce di vedere come anche uomini di Chiesa giudichino le cose esclusivamente dal punto di vista umano”(19). La minoranza liberale-gallicana cercò di fare ostruzionismo, prolungando indefinitamente i dibattiti. Il 4 luglio 1870, un telegramma fu inviato da Parigi a un padre conciliare. Diceva: “Resistete ancora qualche giorno. La Provvidenza vi sta inviando un aiuto inatteso”. Era la guerra. Riconosciuta come inevitabile ai più alti livelli del governo francese, avrebbe causato il rinvio del concilio a data indefinita.
Il telegramma era arrivato troppo tardi, però. Quel 4 luglio e il giorno precedente, un totale di cinquantasei oratori rinunciarono al loro tempo di parola. La discussione era ora chiusa. Diversi leader della minoranza lasciarono Roma. Il 13 luglio, la congregazione generale approvò l’intero schema. I voti furono 451 placet, 88 non placet, e 62 placet juxta modum, cioè un voto sì, ma suggerendo miglioramenti. Alcuni della maggioranza volevano una definizione ancora più chiara. Quelli in opposizione proposero di inserire che, per essere infallibile, il papa doveva basarsi sulla testimonianza delle Chiese: nixus testimonio Ecclesiarum, il che subordinava l’infallibilità papale all’assenso dei vescovi.
Il risultato fu l’opposto. “Così, la maggioranza migliorò il significato delle frasi contestate”, dice il Vescovo Pie:
«E, di fronte a queste minacce interne ed esterne, la Chiesa affermò la sua costituzione. Nel canone IV, fu aggiunto che il papa non solo aveva la parte maggiore — potiores partes — ma l’intera pienezza del potere supremo. Allo stesso modo, queste parole furono aggiunte al paragrafo dogmatico del quarto capitolo: “Pertanto, tali definizioni del Romano Pontefice sono di per sé, e non per il consenso della Chiesa, irreformabili”»(20).
Così chiarita, l’infallibilità papale fu solennemente proclamata il 18 luglio 1870, all’unanimità dei padri conciliari presenti meno due, uno dei quali andò a deporre il suo atto di fede davanti a Pio IX la sera stessa, e l’altro la mattina seguente. La maggior parte degli oppositori del dogma si astenne dalla sessione. Il 19 luglio, come il misterioso telegramma da Parigi aveva previsto, scoppiò la guerra franco-prussiana. Due mesi dopo, i piemontesi invasero Roma, rendendo Pio IX prigioniero in Vaticano. Egli fu incapace di continuare l’assemblea conciliare, che fu interrotta sine die.
Il vescovo Xavier de Mérode diede un’eloquente testimonianza del temperamento armonizzatore del vescovo Pie. Quell’ex soldato, proveniente da una famiglia principesca belga, aveva organizzato i famosi Zuavi per la difesa degli Stati Pontifici. Sebbene fosse amico personale del vescovo di Poitiers, era cognato di Montalembert e proveniva da un ambiente liberale. Nel concilio, si era unito alla minoranza. Il giorno dopo la proclamazione del dogma, e quando il vescovo Pie era già in treno, il vescovo de Mérode andò al suo scompartimento. Dopo aver chiesto all’entourage di lasciarli soli per un po’, i due oppositori dottrinali ebbero una lunga conversazione in cui il vescovo de Mérode versò molte lacrime. Il vescovo Pie mostrò la stessa benevolenza verso tutti i membri della minoranza e fece registrare nel settimanale diocesano di Poitiers le adesioni e le sottomissioni che essi indirizzarono al sommo pontefice.
Attraverso i suoi sforzi caritatevoli, il vescovo Pie ottenne anche la sottomissione in articulo mortis di padre Alphonse Gratry. Gli scritti anti-infallibilità di questo sacerdote erano stati una delle armi più potenti usate dalla stampa liberale contro le dottrine ultramontane. Le disposizioni caritatevoli del vescovo Pie avevano una fonte dottrinale. Contrariamente alle tendenze gianseniste dei gallicani, aveva aiutato il cardinale-arcivescovo di Reims, l’arcivescovo Thomas Gousset, a importare il Liguorismo dall’Italia. Invece del concetto di un Dio terribile, questa dottrina morale sviluppata da Sant’Alfonso Maria de’ Liguori promuoveva l’idea che il nostro Dio fosse un Dio di amore e fiducia.
Ottenuta la vittoria della verità sugli errori liberali e gallicani, il campione ultramontano francese fu portato a esagerare la portata della definizione conciliare? Considerava il papa infallibile anche nel suo magistero ordinario? Ed era infallibile in questioni che non toccavano la fede e la morale? Il futuro cardinale Pie sarebbe rimasto stupito se qualcuno gli avesse posto tali domande. Era ben consapevole della debolezza umana e sapeva che l’assistenza divina era stata promessa al papa solo a condizioni molto restrittive:
“L’assistenza a lui [il papa] garantita dall’alto non è ispirazione o scienza infusa. Pertanto, il suo dovere non è quello di trascurare alcun elemento naturale e soprannaturale che possa aiutare il trionfo della verità e l’opera della grazia. Alcuni di questi elementi sono lo studio, il consiglio, la discussione, la raccolta di tutte le intuizioni ed esperienze. … Prima di pronunciarsi, ci sono esempi di come il capo della Chiesa abbia chiesto per iscritto il parere dei suoi fratelli in tutto il mondo e incoraggiato la discussione tra coloro che poteva riunire attorno a sé. Fu a queste condizioni che Pio IX pubblicò la bolla dogmatica che definisce l’Immacolata Concezione di Maria(21)”.
Da qui anche il ruolo appropriato del buon consiglio: “Ciò che il linguaggio teologico più moderno chiama il papa che insegna ex cathedra, era chiamato nelle epoche precedenti il papa che parla con consiglio: papa loquens cum consilio“(22). Il vescovo Pie era anche consapevole che l’infallibilità non si estendeva al magistero ordinario del Santo Padre, e nel suo insegnamento straordinario, solo la sentenza dogmatica stessa si imponeva all’assenso dei fedeli. “Infatti, la teologia ammette che se gli atti dottrinali più solenni della Chiesa docente si impongono all’intelligenza e alla fede dei cristiani per quanto riguarda la loro decisione finale, i preliminari e le considerazioni della decisione rimangono nel campo della controversia”. Pertanto, “il potere magisteriale supremo soprannaturale… rafforzato dalla sua infallibilità riguardo all’essenza delle cose, consegna in sicurezza a un esame proprio e rispettoso tutto ciò che non è oggetto di questo privilegio”(23).
Chiedo scusa ai lettori per aver superato i limiti di un articolo in questo saggio. Tuttavia, ho ritenuto necessario difendere l’edificante statura intellettuale e morale del vescovo Pie. Infatti, a suo tempo fu chiamato “il martello del liberalismo”. Un tributo appropriato, visto come il suo predecessore, San Ilario di Poitiers, era conosciuto come “il martello degli Ariani” (Malleus Arianorum). Se tale era il grande e indiscusso leader dei vescovi ultramontani francesi al Concilio Vaticano I, la conclusione naturale è che lo “spirito del Vaticano I” era intriso di un amore soprannaturale per la verità e, quindi, era obiettivo, prudente, equilibrato e sfumato anche nel vivo della controversia. Pertanto, non c’è nulla da temere da un “ultramontanismo estremo” poiché rappresenterebbe solo la stessa fede e saggezza cristiana in maggiore perfezione. Lo spirito ultramontano del Concilio Vaticano I è lontano dalla caricatura abbozzata dai suoi oppositori liberali o gallicani e che, a causa di un malinteso, alcuni tradizionalisti oggi stanno ridisegnando.
Né il “falso spirito del Vaticano I” né l’ultramontanismo sono responsabili della successiva deriva verso la fissazione sulla persona e sul magistero del papa regnante a scapito della verità e della tradizione. Questo magisterialismo è la progenie del movimento liberale-progressista all’interno della Chiesa, e iniziò nel pontificato di Leone XIII. I liberali lo usarono per sostenere la politica sbagliata del papa di “radunarsi attorno alla Repubblica [massonica francese]”, una follia a cui gli ultramontani si opposero. Questa è un’altra storia, tuttavia, e deve essere lasciata per un articolo di approfondimento.
NOTE
- Si veda in tal senso, l’illuminante articolo di P. Chad Ripperger, “Operative Points of View,” Christian Order, marzo 2001.
- Édouard Lecanuet, L’Eglise et le Second Empire (1850–1870), vol. 3, Montalembert, 4ª ed. (Parigi: Ancienne Librairie Poussièlgue, 1912), 467, consultato il 26 settembre 2021.
- Louis Baunard, Histoire du cardinal Pie: Évêque de Poitiers (Poitiers: H. Oudin, 1886), 2:488, consultato il 25 settembre 2021. (Tutte le traduzioni sono mie.)
- Lettre pastorale (14 luglio 1866), in Oeuvres de Monseigneur l’évêque de Poitiers, 5ª ed. (Poitiers: Librairie Henri Oudin, 1876), 2:442, consultato il 25 settembre 2021.
- Ibid., 2:443.
- Oeuvres de Monseigneur l’évêque de Poitiers, 9ª ed. (Poitiers: Librairie-Éditeur H. Oudin, 1887), 6:67, consultato il 26 settembre 2021.
- Si veda Albert Kallio, O.P., “Collegialità nel Vaticano II: una nuova dottrina?” consultato il 26 settembre 2021.
- Baunard, Histoire du cardinal Pie, 2:330–31.
- Ibid., 2:331–32.
- Ibid., 2:340.
- Ibid., 2:341.
- Ibid., 2:355.
- Ibid., 2:357.
- Ibid. , 2:365.
- Ibid., 2:375.
- Ibid. , 2:377.
- Ibid ., 2:377–78.
- Ibid., 2:384.
- Ibid., 2:388.
- Ibid. , 2:392.
- Lettre pastorale et Mandement (24 maggio 1869), in Oeuvres, 6:408–9.
- Ibid., 6:408.
- Allocution (dicembre 1861), in Oeuvres, 4:338–39, consultato il 26 settembre 2021.
Traduzione del nostro Staff
(Fonte: OnePeterFive)
