La tesi che l’ultramontanismo (il papismo), ovvero un’eccessiva centralizzazione del potere papale, sia la causa dei problemi attuali della Chiesa cattolica, è sbagliata. La causa di questa crisi invece è il modernismo, quel pensiero che vuole adattare la fede ai cambiamenti culturali.
di José A. Ureta (25-01-2022)
Negli ambienti tradizionalisti americani, sta diventando di moda incolpare l’“ultramontanismo” per i mali che affliggono il cattolicesimo oggi. Presumibilmente, Papa Francesco è in grado di imporre un’agenda rivoluzionaria alla Chiesa a causa delle azioni degli ultramontani durante il Concilio Vaticano I. I detrattori ammettono che gli ultramontani hanno trasformato l’insegnamento tradizionale della Chiesa sull’infallibilità papale e sulla giurisdizione universale in dogma. Continuano affermando, falsamente, che gli ultramontani hanno corrotto l’obbedienza dei fedeli al papa trasformandola in ossequio, avendo avvolto la sua persona in un’aura di esagerata venerabilità. Questo sviluppo avrebbe presumibilmente portato a una centralizzazione e alla conseguente abuso di potere nella Chiesa. Per evitare la “papolatria” favorita dall’ultramontanismo, alcuni autori suggeriscono di ripensare il papato in termini del primo millennio, prima di San Gregorio VII, riguardo alla nomina dei vescovi e all’esercizio del potere magisteriale del papa(1).
Questa accusa è recentemente apparsa in un articolo di Stuart Chessman intitolato Ultramontanism: Its Life and Death. Secondo l’autore, un certo “spirito del Vaticano I” ha portato le persone a interpretare le definizioni dogmatiche di quel Concilio ben oltre i limiti imposti dal loro testo. Ciò avrebbe inaugurato un “regime ultramontano” in cui “ogni autorità in materia di fede, organizzazione e liturgia fu centralizzata in Vaticano,” e “l’obbedienza all’autorità ecclesiastica fu elevata a posizione centrale nella fede cattolica” con una corrispondente diminuzione dell’autorità episcopale. Un vescovo della corrente anti-infallibilista minoritaria commentò ironicamente: “Sono entrato vescovo e sono uscito sacrestano.”
I Patti Lateranensi e la creazione dello Stato del Vaticano, così come le nuove tecnologie di comunicazione, avrebbero presumibilmente aumentato l’importanza di questo elemento “ultramontano” nella vita della Chiesa. Ciò ebbe alcuni vantaggi – “fu raggiunta una grande uniformità di credo e di pratica” – ma anche gravi inconvenienti, principalmente la burocratizzazione della Chiesa e la sua inevitabile conseguenza: vescovi manager mediocri che cessarono di essere “leader spirituali” capaci di convertire il mondo. Questa “strategia difensiva,” “mirata all’unità a blocco, al controllo centralizzato e alla subordinazione assoluta ai superiori,” portò a “una rinascita del cattolicesimo progressista.” Quest’ultimo sarebbe nato “come [un sentimento di] frustrazione per la natura timida ‘borghese’ della testimonianza cattolica ultramontanista e per l’eccessiva conformità della Chiesa a questo mondo,” e come reazione alle “restrizioni sul discorso cattolico.”
Secondo la narrazione di Mr. Chessman, l’“ultramontanismo” si alleò in seguito con “forze progressiste interne” che si materializzarono al Concilio Vaticano II. Arriva a dichiarare: “La gestione del Concilio e la sua successiva attuazione furono veramente il più grande trionfo dell’ultramontanismo.” I cambiamenti rivoluzionari imposti da Paolo VI incontrarono poca resistenza perché “le usanze e le tradizioni della Chiesa avevano probabilmente perso la loro presa su gran parte del mondo cattolico attraverso la comprensione ultramontana dell’obbedienza all’autorità e dell’adesione alle norme legali come fonte della loro legittimità.”
A causa della crescita della corrente progressista – continua il racconto – gli ultramontani non riuscirono a consolidare l’autorità del Romano Pontefice all’indomani del Vaticano II e in particolare dopo il rifiuto dell’Humanae Vitae. Tuttavia, Giovanni Paolo II intraprese una “rinascita neo-ultramontana” che enfatizzò l’infallibilità papale e trasformò il papa in una “sorta di avvocato spirituale mondiale.” A livello domestico, però, e in particolare sotto Benedetto XVI, “il Vaticano funzionò sempre più come un mero centro amministrativo,” portando ancora oltre la burocratizzazione della Chiesa e trasformandola in una “cloaca di carrierismo, incompetenza e corruzione finanziaria.”
L’elezione di Papa Francesco ha comportato “un nuovo impegno per l’agenda progressista degli anni ’60 insieme a una radicale rinascita dell’autoritarismo ultramontano.” Usando “il linguaggio e le tecniche dell’ultramontanismo,” il papa argentino “stabilisce l’unità della Chiesa e l’inviolabilità del Concilio come valori assoluti” per silenziare e opprimere i tradizionalisti. Quindi, “veramente il regime di Francesco può essere chiamato ultramontanismo totalitario!”
In breve, per tali critici tradizionalisti, tutti i mali di cui soffre ora la Chiesa derivano dagli ultramontani, il cui grande errore fu di aver cercato “di raggiungere obiettivi spirituali attraverso l’applicazione di tecniche organizzative.” Paradossalmente, l’ultramontanismo alla fine ottenne l’opposto del suo obiettivo: “Un insieme di politiche che avrebbe dovuto garantire la dottrina della Chiesa dai nemici interni e preservare la sua indipendenza dal controllo secolare ha invece facilitato la più grande crisi di fede nella storia della Chiesa insieme alla sua più abietta soggezione al ‘potere temporale’ – non quello dei monarchi come in passato, ma dei media, delle banche, delle ONG, delle università e, sempre più, dei governi ‘democratici’ (inclusa la Cina!).”
Da quanto sopra, si potrebbe quasi dire che il “misterioso processo di auto-demolizione” della Chiesa a causa dell’infiltrazione del “fumo di Satana,” di cui parlava Paolo VI, è nato, si è sviluppato e ha raggiunto il suo apice grazie all’ultramontanismo, la nuova sintesi di tutti i mali! Quale potrebbe essere la via d’uscita da questa crisi? L’autore afferma che “la via d’uscita dal vicolo cieco ultramontano/progressista” richiede un tradizionalismo anti-ultramontano perché non si basa “sull’autorità del clero” ma “sull’impegno individuale dei laici” alla “pienezza della tradizione cattolica,” con il dovuto rispetto per “la libertà di coscienza del singolo credente.”
La costruzione intellettuale di Mr. Chessman soffre di due difetti. Primo, attribuisce l’origine dell’attuale crisi della Fede a fattori puramente naturali – il modo in cui il potere papale è strutturato ed esercitato. La verità è che essa deriva da una crisi morale e religiosa che è cresciuta in tutto l’Occidente a partire dal Rinascimento e dal Protestantesimo, come il Prof. Plinio Corrêa de Oliveira ha acutamente analizzato in Rivoluzione e Contro-Rivoluzione(2). Secondo, la teoria di Mr. Chessman è anacronistica.
In recenti articoli, ho brevemente trattato l’errore che consiste nell’attribuire alla corrente ultramontana e a un cosiddetto “spirito del Vaticano I” l’espansione dell’autorità magisteriale e disciplinare del papa oltre i limiti stabiliti dalla costituzione dogmatica Pastor Aeternus.
Nel primo articolo(3), ho mostrato come il principale rappresentante dell’ultramontanismo, il Cardinale Louis-Edouard Pie, avesse un concetto perfettamente equilibrato e non assolutistico della monarchia papale ed fosse un grande sostenitore dei concili plenari provinciali. Nel secondo articolo(4), ho mostrato che Papa Leone XIII – ortodosso nella dottrina ma liberale nella politica – fu colui che cominciò a esigere che i laici cattolici aderissero incondizionatamente al suo “Ralliement,” sostenendo il regime repubblicano e massonico della Francia. Coloro che applaudirono l’imposizione dell’obbedienza incondizionata in materia politica furono rappresentanti della corrente liberale che si era opposta alle definizioni dogmatiche del Vaticano I. Uno di questi prelati liberali, il Cardinale Lavigerie, arrivò a dichiarare: “L’unica regola di salvezza e di vita nella Chiesa è stare con il papa, con il papa vivente. Chiunque egli sia.” Ho inoltre mostrato che i rappresentanti dell’Ultramontanismo furono coloro che resistettero a quella estensione abusiva dell’autorità papale e dell’obbedienza oltre i loro limiti definiti. Erano così acutamente consapevoli di quei limiti che, ancora nel XIX secolo, uno di loro sollevò la questione della possibilità teologica di un papa eretico.
San Pio X fu un papa ultramontano e un grande ammiratore del cardinale Pie. Gli scritti del prelato francese lo ispirarono a scegliere “instaurare omnia in Christo” come motto del suo pontificato. È vero, Pio X esigeva piena obbedienza in materia di Fede ed era molto fermo nel denunciare e reprimere l’eresia. Scomunicò i leader modernisti e impose il giuramento antimodernista. Tuttavia, non abusò dell’autorità papale né cercò di imporre un pensiero uniforme in questioni in cui i cattolici hanno il diritto di formarsi un’opinione personale. Giustificò persino i fratelli Scotton, proprietari di un giornale antimodernista, per il loro zelo nell’opporsi al Cardinale Ferrari, arcivescovo di Milano. Disse che usarono un linguaggio eccessivo perché “per difendersi, usano le stesse armi con cui sono stati colpiti”(5).
Con l’applauso della corrente liberale, i papi non-ultramontani richiesero successivamente ai fedeli di obbedire alla loro agenda di stretto appeasement nei confronti dei poteri politici rivoluzionari. Questo iniziò con Benedetto XV. Nella sua prima enciclica (Ad Beatissimi Apostolorum), egli zittì coloro che difendevano un’adesione incondizionata agli insegnamenti della Chiesa e la loro validità nella società, etichettandoli come “integristi.” Lo fece “per sedare le dissidenze e le contese di qualsiasi genere tra i cattolici e impedire che ne sorgessero di nuove, affinché tutti siano uniti nel pensiero e nell’azione.”
Per raggiungere ciò, tutti dovevano allinearsi con la Santa Sede:
“Ogni volta che l’autorità legittima ha dato un comando chiaro, nessuno trasgredisca quel comando, perché non gli accade di essergli gradito; ma ognuno sottoponga la propria opinione all’autorità di colui che gli è superiore, e gli obbedisca per motivi di coscienza. Ancora, nessun privato cittadino, né nei libri né nella stampa, né nei discorsi pubblici, assuma su di sé la posizione di maestro autorevole nella Chiesa. Tutti sanno a chi Dio ha dato l’autorità di insegnamento della Chiesa: egli, dunque, possiede un diritto perfetto di parlare come vuole e quando lo ritiene opportuno. Il dovere degli altri è ascoltarlo con reverenza quando parla e mettere in pratica ciò che dice”(6).
Opinioni divergenti erano permesse in materie diverse dalla fede e dalla morale, come l’azione politica dei laici cattolici o l’approccio giornalistico da adottare nei confronti del modernismo, a condizione che il papa non avesse dato una sua linea: “Per quanto riguarda le materie in cui senza danno alla fede o alla disciplina – in assenza di qualsiasi intervento autorevole della Sede Apostolica – c’è spazio per opinioni divergenti, è chiaramente diritto di ognuno esprimere e difendere la propria opinione”(7). Un’applicazione pratica di questa restrizione al dibattito fu il porre il giornale di proprietà dei fratelli Scotton sotto il rigoroso controllo del vescovo di Vicenza, rovesciando la libertà di opinione che San Pio X aveva difeso(8).
Il successore di Benedetto XV, Pio XI – che apparteneva alla stessa corrente non ultramontana – arrivò a scomunicare gli abbonati del giornale monarchico Action Française a causa delle opinioni agnostiche del suo direttore Charles Maurras(9). (Sarebbe come se Papa Francesco scomunicasse i lettori di Breitbart o Fox News per aver sostenuto politiche anti-immigrazione.) Rimosse persino il cappello cardinalizio al gesuita Louis Billot, uno dei più grandi teologi del ventesimo secolo, per aver espresso opposizione a quella misura(10). Lo stesso Pio XI, non ultramontano, approvò l’accordo tra i vescovi liberali del Messico e il governo massonico, negoziato dall’ambasciatore degli Stati Uniti, che fece pressione sui Cristeros affinché deponessero le armi. Come è noto, il governo non onorò l’accordo, giustiziò migliaia di combattenti cattolici e mantenne la maggior parte delle sue leggi anticlericali(11). All’interno della Chiesa, Pio XI centralizzò l’apostolato laicale a livello mondiale in Azione Cattolica, un’organizzazione infiltrata da tendenze liberali e secolari. Le diede preminenza su tutti i movimenti tradizionali e autonomi dell’apostolato laicale come i Terzi Ordini, le Congregazioni Mariane e l’Apostolato della Preghiera.
Papa Pio XII fu una figura piena di contrasti. Prima di nominare Padre Augustin Bea, S.J. (poi creato cardinale) suo confessore, mantenne una posizione tradizionale vicina a quella degli eredi dell’ultramontanismo. Condannò gli errori progressisti emergenti, in particolare nell’ambito della liturgia. In seguito, ispirato da Padre Bea e aiutato dall’allora Padre Bugnini, lo stesso Pio XII rivoluzionò i riti liturgici della Settimana Santa e permise l’uso del metodo storico-critico (di origine protestante) per gli studi biblici.
Colui che mise in guardia dal pericolo di una “strumentalizzazione” del Magistero non fu un liberale anti-ultramontano, ma una figura di spicco della scuola romana (la roccaforte di ciò che rimaneva dell’ultramontanismo nell’accademia). In un articolo pubblicato su L’Osservatore Romano il 10 febbraio 1942, Mons. Pietro Parente denunciò “la strana identificazione della Tradizione (fonte della Rivelazione) con il Magistero vivente della Chiesa (custode e interprete della Parola Divina)”(12). Se Tradizione e Magistero sono la stessa cosa, allora la Tradizione cessa di essere il deposito immutabile della Fede e varia secondo l’insegnamento del papa regnante.
Tutto questo dimostra che incolpare l’ultramontanismo per gli errori di identificare la Tradizione con il Magistero vivente e imporre un pensiero uniforme in questioni non dogmatiche è storicamente errato. Fu la corrente liberal-progressista a fare queste cose. Coloro che si proclamavano eredi dell’ultramontanismo resistettero ai tentativi di costringerli ad accettare la politica liberale del papa di apertura al mondo durante tutto quel periodo.
Il centralismo e l’autoritarismo ora attribuiti all’ultramontanismo non furono un frutto del Vaticano I o del suo cosiddetto “spirito.” Furono il frutto del liberalismo che si infiltrava nella Chiesa. Come spiega Plinio Corrêa de Oliveira: “Al liberalismo non interessa la libertà per ciò che è bene. Gli interessa unicamente la libertà per il male. Quando è al potere, facilmente, e persino gioiosamente, restringe il più possibile la libertà del bene. Ma in molti modi, protegge, favorisce e promuove la libertà del male”(13). Proprio come i liberali denunciarono “la Bastiglia” prima della Rivoluzione Francese ma imposero il Terrore una volta al potere, i liberali e modernisti cattolici denunciarono il presunto autoritarismo del Beato Pio IX e di San Pio X. Tuttavia, non appena occuparono le più alte cariche nella Chiesa, imposero una rigida obbedienza alla loro agenda di abbraccio del mondo anche in affari strettamente politici che non riguardavano questioni di Fede e Morale.
Un’altra delle imprecisioni storiche di Mr. Chessman è la presunta alleanza tra ultramontanismo e progressismo al Concilio Vaticano II. Giuseppe Angelo Roncalli non era ultramontano, ma un simpatizzante del modernismo in gioventù. All’apertura dell’assemblea conciliare, Giovanni XXIII fustigò i “profeti di sventura,” intendendo gli ultramontani. Tutti gli storici di quel Concilio riconoscono che ci fu uno scontro tra le minoranze progressista e conservatrice, con la prima che riuscì gradualmente a tirare dalla sua parte la vasta maggioranza moderata. La manciata di prelati con spirito ultramontano, riuniti nel Coetus Internationalis Patrum, furono coloro che lavorarono di più per includere nei testi del Concilio verità tradizionali opposte alle novità moderniste. Il Beato Pio IX deve essersi rivoltato nella tomba quando il Vaticano II approvò l’introduzione di una “duplice” autorità suprema nella Chiesa, implicita nella teoria della collegialità. Come si può pretendere che “la gestione del Concilio e la sua successiva attuazione furono veramente il più grande trionfo dell’ultramontanismo”?
Non c’è dubbio che il pontificato di Giovanni Paolo II fu un primo tentativo di dare alle novità del Concilio un’interpretazione moderata secondo le linee di ciò che fu poi chiamato “ermeneutica della continuità.” I suoi sostenitori difesero questa posizione moderata principalmente facendo appello all’immagine mediatica di celebrità del Romano Pontefice (Padre Chad Ripperger la chiamò “magisterialismo”[14]). Tuttavia, non ha senso caratterizzare questa offensiva moderata come una “rinascita ultramontana.” Giovanni Paolo II è l’autore di Ut Unum Sint. Questa enciclica intendeva “trovare un modo di esercitare il primato che, pur non rinunciando in alcun modo a ciò che è essenziale alla sua missione, sia tuttavia aperto a una nuova situazione” cercando di soddisfare “le aspirazioni ecumeniche della maggior parte delle comunità cristiane”(15). Questa ambizione era precisamente l’opposto di quanto gli ultramontani ottennero al Concilio Vaticano I: il dogma del primato di giurisdizione del papa – che le comunità cristiane eretiche e scismatiche rifiutano.
Come già detto, uno degli errori nell’articolo di Mr. Chessman è attribuire l’origine dell’attuale crisi della Fede a un fattore puramente naturale: l’esercizio burocratico e centralizzato dell’autorità papale. La crescente centralizzazione del potere papale nelle mani di papi non-ultramontani e persino anti-ultramontani (Leone XIII, Benedetto XV, Pio XI e i papi conciliari) non è la ragione per cui la crisi della Fede è peggiorata alla fine del XIX secolo e per tutto il XX secolo. La crisi è nata ed è stata aggravata dalla penetrazione dei miasmi liberali putrefacenti del mondo nella Chiesa Cattolica. La mentalità della modernità è nata dalla Rivoluzione anticristiana e ha iniziato a dominare la vita culturale, intellettuale e politica dell’Occidente dal Rinascimento in poi. La Chiesa fu sottoposta a pressione per adattarsi al nuovo mondo emergente, principalmente dal XIX secolo. “Non si tratta di scegliere tra i principi del 1789 e i dogmi della religione cattolica,” esclamò il Duca Albert de Broglie, uno dei leader del blocco cattolico liberale, “ma di purificare i principi con i dogmi e farli camminare fianco a fianco. Non si tratta di affrontarsi in un duello ma di fare pace”(16).
Tale infiltrazione di errori rivoluzionari nella Chiesa raggiunse il suo culmine con il modernismo, che professa che i dogmi della Fede devono adattarsi all’esperienza religiosa in evoluzione dell’umanità e che il culto dovrebbe evolvere secondo gli usi e i costumi di ogni epoca. Pio IX e Pio X emisero condanne esplicite contro ogni tentativo di conciliare la Chiesa con gli errori moderni. Esortarono i cattolici ad affrontare coraggiosamente ciò che San Pio X chiamò “la sintesi di tutte le eresie.” Questa opposizione li rese modelli di un papato ultramontano. Tuttavia, i loro successori furono meno energici e persino conciliatori. Con Giovanni XXIII e l’apertura del Concilio Vaticano II, la posizione ultramontana, anti-liberale di combattimento contro la modernità e i suoi errori fu ufficialmente abbandonata e sostituita da un atteggiamento di dialogo benevolo e sottomissione al mondo moderno.
Come i modernisti del ventesimo secolo, Papa Francesco cerca apertamente di adattare la Chiesa ai “cambiamenti antropologici e culturali.” Secondo lui, l’impulso divino presente nel progresso dell’umanità giustifica i cambiamenti odierni. Attribuisce questi impulsi e nuove dinamiche nell’azione umana all’azione divina: “Dio si manifesta nella rivelazione storica, nella storia… Dio è nella storia, nei processi,”(17) afferma. Eugenio Scalfari, il fondatore agnostico de La Repubblica, aveva ragione quando intitolò il suo articolo su Laudato Si’: “Francesco, il Papa-Profeta che incontra la Modernità”(18). L’applauso dei leader moderni per le dichiarazioni e le iniziative dell’attuale papa conferma tale valutazione.
L’attuale papa e alcuni precedenti hanno abusato dell’autorità papale per portare avanti l’agenda modernista di conciliare la Chiesa con il mondo rivoluzionario. Questo non li rende papi ultramontani. I prelati carrieristi che gestivano le loro diocesi come mediocri impiegati pubblici e ignoravano l’infiltrazione di errori modernisti tra i fedeli – errori con cui simpatizzavano – non erano nemmeno ultramontani. I chierici e i fedeli che abbracciarono gli errori modernisti non lo fecero a causa di una falsa nozione di obbedienza. Lo fecero perché erano imbevuti dello spirito liberale e rivoluzionario del mondo.
Durante questa lunga apostasia dalla Fede, una piccola minoranza ultramontana di clero e laici si sforzò di contrastare l’infiltrazione dell’eresia e difendere l’insegnamento tradizionale della Chiesa. Se alcuni di loro non fecero di più o addirittura si tirarono indietro dalla lotta, fu per codardia, non per un’eccessiva reverenza ultramontana per il papato. Incolpare l’ultramontanismo per l’attuale crisi della Chiesa e ignorare il ruolo fondamentale del modernismo nella sua gestazione e nel suo percorso verso il parossismo è come incolpare una diga per non essere in grado di resistere a un’alluvione, esonerando le acque spumeggianti e turbolente che l’hanno travolta.
Gli ultramontani hanno sempre ammirato e rispettato l’ordine gerarchico nell’universo, nella società e nella Chiesa, specialmente nel papato, la più alta autorità sulla terra. Lo stesso amore per l’ordine gerarchico li ha portati a venerare e obbedire al Creatore e Signore Sovrano del mondo e al Divino Fondatore della Chiesa. Essi quindi rifiutano ogni errore o trasgressione della Legge divina perché si deve “obbedire a Dio piuttosto che agli uomini.” Per il loro amore ben ordinato al principio di autorità, coloro che più amano il papato sono anche meglio preparati a resistere fermamente, sebbene rispettosamente, a qualsiasi deviazione dalla Tradizione. Nessuno ebbe un amore più ardente per il primato di Pietro di San Paolo, che “salì a Gerusalemme per incontrare Cefa” (Gal 1,18) e vi tornò quattordici anni dopo per esporre il Vangelo che predicava ai Gentili “per non correre invano” (Gal 2,2). Nessuno, tuttavia, fu più fermo di San Paolo nel “resistergli [a Pietro] in faccia” “perché era da riprendere” (Gal 2,11).
Nel breve periodo, la proposta di “ridimensionare” il papato per evitare abusi potrebbe attenuare i problemi di coscienza creati da una serie di papi che hanno promosso l’autodemolizione della Chiesa. Tuttavia, a lungo termine, aiuterebbe gli autodemolitori della Chiesa, intenti a distruggere o almeno indebolire la Roccia su cui è stata edificata. Paradossalmente, sia gli ultra-progressisti che i nuovi “tradizionalisti anti-ultramontani” propongono di non chiamare più il papa “Vicario di Cristo,” come fece l’editore della rivista Crisis. Egli sosteneva che questo titolo si presta a un’eccessiva venerazione se applicato solo al papa, mentre potrebbe applicarsi anche a tutti i vescovi.
Paradossalmente, un articolo che denunciava l’“ultramontanismo totalitario” è apparso per la prima volta sul blog di una società fondata per onorare Sant’Ugo di Cluny. Egli fu il grande consigliere dei Papi San Leone IX, Niccolò II e specialmente del grande San Gregorio VII. Quest’ultimo, suo confratello cluniacense, elevò l’autorità papale al suo apice. Ristabilì la disciplina interna della Chiesa con la riforma gregoriana. Riguardo all’investitura di vescovi e abati, affermò vittoriosamente la supremazia papale sull’autorità civile. Sant’Ugo fu con San Gregorio VII nel famoso episodio di Canossa, che gli storici rivoluzionari considerano il punto di partenza dell’ultramontanismo.
Atteggiamenti poco diplomatici del legato di San Leone IX irritarono i Greci e favorirono lo Scisma d’Oriente. Gli stili di vita scandalosi dei Papi rinascimentali irritarono i Tedeschi e favorirono l’eresia di Lutero. Oggi, gli insegnamenti palesemente erronei e le azioni egregiamente non pastorali di Papa Francesco non devono suscitare rabbia emotiva nelle sue vittime. Mentre i cattolici possono legittimamente nutrire riserve dottrinali e resistere a un occupante sviato del trono di Pietro, non devono mai soccombere a riserve sul papato stesso. Queste sono sempre illegittime. Imitiamo i monarchici francesi durante la Restaurazione, che, nonostante la politica liberale di Luigi XVIII – che favoriva bonapartisti e repubblicani e perseguitava i difensori del trono – gridavano: “Vive le roi, quand même!” in altre parole, “Nonostante tutto, viva il re!”
L’attuale eclissi del papato è probabilmente la più drammatica nella storia bimillenaria della Chiesa. La crisi ci chiede di accrescere il nostro amore per questa santissima delle istituzioni terrene. Gesù Cristo l’ha stabilita come la chiave di volta della Sua Chiesa e l’ha dotata del potere delle chiavi, il potere più tremendo e sacro che lega Cielo e Terra.
NOTE
- Eric Sammons, “Rethinking the Papacy,” Crisis Magazine, 28 settembre 2021.
- Plinio Corrêa de Oliveira, Revolution and Counter-Revolution, 3a ed. (Spring Grove, Penn.: The American Society for the Defense of Tradition, Family, and Property, 1993).
- José Antonio Ureta, “Understanding True Ultramontanism,” OnePeterFive, 12 ottobre 2021.
- José Antonio Ureta, “Leo XIII: The First Liberal Pope Who Went Beyond His Authority,” OnePeterFive, 19 ottobre 2021.
- Romana beatificationis et canonizationis servi Dei Papae Pii X disquisitio circa quasdam obiectiones modum agendi servi Dei respicientes in modernismi debellationem, Typis poliglottis Vaticanis 1950 (redatta dal cardinale Ferdinando Antonelli), 178, in Roberto de Mattei, “Modernismo e antimodernismo nell’epoca di Pio X”, in Don Orione negli anni del modernismo, 60.
- Benedetto XV, enciclica Ad Beatissimi Apostolorum, 1 novembre 1914, n. 22.
- Ibid., n. 23.
- Giovanni Vian, “Il modernismo durante il pontificato di Benedetto XV, tra riabilitaziioni e condanne,” n. 23, consultato il 20 gennaio 2022.
- “Taming the Action—II The Decree,” Rorate Caeli, 21 gennaio 2012.
- Vedere Peter J. Bernardi, S.J., “Louis Cardinal Billot, S.J. (1846–1931): Thomist, Anti-Modernist, Integralist,” Journal of Jesuit Studies, 8, 4 (2021): 585-616.
- Vedere Brian Van Hove, S.J., “Blood-Drenched Altars,” EWTN, consultato il 20 gennaio 2022.
- Pietro Parente, “Supr. S. Congr. S. Officii Decretum 4 febr. 1942—Annotationes,” Periodica de Re Morali, Canonica, Liturgica 31 (Feb. 1942): 187 [originariamente pubblicato come “Nuove tendenze teologiche,” L’Osservatore Romano, 9–10 febbraio 1942].
- Corrêa de Oliveira, Revolution and Counter-Revolution, 52.
- Chad Ripperger, “Operative Points of View,” Christian Order (marzo 2001).
- Giovanni Paolo II, enciclica Ut Unum Sint (25 maggio 1995), n. 95.
- Albert de Broglie, Questions de religion et d’histoire (Parigi: Michel Lévy Frères, 1860), 2:199.
- Antonio Spadaro, S.J., “A Big Heart Open to God: An Interview With Pope Francis,” America, 30 settembre 2013.
- Eugenio Scalfari, “Francesco, papa profeta che incontra la modernità,” La Repubblica, 1 luglio 2015.
Traduzione del nostro Staff
(fonte: rorate-caeli.blogspot.com)
