Dal diario segreto di uno dei partecipanti al Conclave, pubblicato nel 2009.
Emerge per la prima volta la vera storia che portò Benedetto XVI alla guida della Chiesa. Al terzo scrutinio, l’argentino Bergoglio sembrava in grado di bloccarlo. Ma poi…
«Domenica 17 aprile. Nel pomeriggio ho preso possesso della camera alla Casa Santa Marta. Posati i bagagli ho provato ad aprire le persiane, perché la stanza era buia. Non ci sono riuscito. Un mio confratello, per lo stesso problema, si è rivolto alle suore governanti. Pensava si trattasse di un inconveniente tecnico. Le religiose gli hanno spiegato che le persiane erano state sigillate. Clausura del conclave… Un’esperienza nuova, per quasi tutti noi: su 115 cardinali solo due hanno già partecipato all’elezione di un papa»…
Inizia così il diario di un autorevole porporato che nel suo quaderno ha appuntato non solo impressioni e notazioni di colore ma anche l’esito delle quattro votazioni che hanno portato all’elezione di Benedetto XVI. Un documento di cui, ovviamente, non possiamo svelare l’autore: ne siamo venuti in possesso grazie al rapporto di fiducia che ci lega da anni alla nostra fonte.
Pochissime indiscrezioni sono trapelate finora sull’andamento del conclave che lo scorso 19 aprile ha scelto il successore di Giovanni Paolo II. Pochissime e in alcuni casi contraddittorie, ad esempio sull’effettivo ruolo svolto dal cardinale Carlo Maria Martini. Il diario cui ci è stato possibile attingere – e successivi colloqui riservati con altri porporati – consentono di tentare una prima completa ricostruzione delle 24 ore di clausura che hanno dato alla Chiesa cattolica il 265°pontefice.
Ne emerge un quadro inedito, più mosso, della elezione del cardinale Joseph Ratzinger: al terzo scrutinio la minoranza riluttante a votare l’ex prefetto della fede aveva fatto blocco sul cardinale argentino Jorge Maria Bergoglio, raggiungendo l’obiettivo dei 40 voti: troppo pochi per eleggere il primo papa latinoamericano della storia, ma sufficienti a impedire, in termini astratti, puramente aritmetici, il raggiungimento del tetto minimo dei 77 voti necessari per eleggere il papa (115-40=75).
«L’esito del conclave, per alcune ore, dopo la terza votazione di martedì mattina, 19 aprile, sembrò ancora aperto».
Ma prima di addentrarci nei retroscena del conclave ancora qualche parola circa la natura e l’attendibilità delle informazioni su cui è basata questa ricostruzione. Quale grado di precisione, ci siamo chiesti, può avere un resoconto delle votazioni basato sulla buona memoria dei partecipanti? Bisogna sapere che ad ognuno dei 115 cardinali elettori, all’inizio di ogni votazione, veniva distribuita non solo la scheda elettorale ma anche un foglio contenente tutti i nomi dei porporati. Quanti lo desideravano avevano così la possibilità di annotare le preferenze. Al termine d’ogni scrutinio la scheda e il foglio dovevano essere riconsegnati e finivano entrambi nella vecchia stufa di ghisa della Cappella Sistina. Molti porporati, però, (tra questi l’autore del diario) per conservare un ricordo esatto di quanto avvenuto in conclave, appena rientrati nella Casa Santa Marta si appuntavano su un altro foglio, personale, l’esito della votazione. Inoltre un buon numero di porporati ha ricevuto l’incarico di cardinale scrutatore o cardinale revisore e quindi ha dovuto controllare l’esito delle votazioni e controfirmare i dati ufficiali finiti poi nella relazione finale stilata dal camerlengo. Operazioni che hanno permesso così di meglio memorizzare e verificare i numeri.
E l’obbligo del segreto? Le nostre fonti erano coscienti di violare almeno in parte un impegno assunto («obbligo grave», anche se per i cardinali non è menzionata, come pena, la scomunica). Se hanno acconsentito, sia pure in forma anonima, a rendere possibile tale ricerca è perché hanno creduto all’intenzione non scandalistica ma rigorosamente storica di questo lavoro. L’imposizione del segreto, poi, è stata decisa dai papi innanzitutto per tutelare la libertà del conclave: una fuga di notizie prima o durante il conclave, con i «seggi» nella Sistina ancora aperti, potrebbe condizionare le successive votazioni. Altra cosa, meno grave, crediamo, è una violazione del segreto post factum. Non c’è qui alcuna possibilità di condizionare o influenzare un fatto che è già avvenuto e può essere ormai consegnato alla storia nei suoi contorni più obiettivi.
«Lunedì 18 aprile, ore 16,33. La lenta processione dei cardinali dall’Aula delle Benedizioni inizia a muoversi verso la Cappella Sistina; attraversa la Sala Regia, al canto delle litanie dei santi. Pochi minuti ed eccoci al cospetto del Giudizio di Michelangelo. I 115 cardinali – il più affollato conclave della storia moderna! – si dispongono nei sei grandi tavoli sistemati ai lati della cappella. Intoniamo il Veni Creator Spiritus, l’emozione è palpabile ». Il cardinale decano, Joseph Ratzinger, pronuncia a nome di tutti la solenne formula del giuramento: «Noi tutti e singoli Cardinali elettori presenti in questa elezione del Sommo Pontefice promettiamo, ci obblighiamo e giuriamo di osservare fedelmente e scrupolosamente tutte le prescrizioni contenute nella Costituzione apostolica del Sommo Pontefice Giovanni Paolo II, Universi Dominici Gregis, emanata il 22 febbraio 1996. Parimenti, promettiamo, ci obblighiamo e giuriamo che chiunque di noi, per divina disposizione, sia eletto Romano Pontefice, si impegnerà a svolgere fedelmente e strenuamente i diritti spirituali e temporali, nonché a difendere la libertà della Santa Sede. Soprattutto, promettiamo e giuriamo di osservare con la massima fedeltà e con tutti, sia chierici che laici, il segreto su tutto ciò che in qualsiasi modo riguarda l’elezione del romano pontefice e su ciò che avviene nel luogo dell’elezione, concernente direttamente o indirettamente lo scrutinio; di non violare in alcun modo questo segreto sia durante sia dopo l’elezione del nuovo Pontefice, a meno che non ne sia stata concessa esplicita autorizzazione dallo stesso Pontefice; di non prestare mai appoggio o favore a qualsiasi interferenza, opposizione o altra qualsiasi forma di intervento con cui autorità secolari di qualunque ordine e grado, o qualunque gruppo di persone o singoli volessero ingerirsi nell’elezione del Romano Pontefice».
Dopo il giuramento solenne pronunciato dal decano Ratzinger, ogni porporato secondo l’ordine di precedenza stabilito (prima i cardinali vescovi, poi i cardinali presbiteri infine i cardinali diaconi) ripete la formula abbreviata poggiando la mano sul Vangelo: «Io prometto, mi obbligo e giuro. Così Dio mi aiuti e questi santi Evangeli che tocco con la mia mano». Il primo e l’ultimo a giurare sono due cardinali italiani: rispettivamente Angelo Sodano, vice decano del sacro collegio e Attilio Nicora.
Sono le 17 e 24 quando il maestro delle celebrazioni liturgiche pontificie, monsignor Piero Marini, intima con un soffio di voce l’extra omnes. Le telecamere del Centro televisivo vaticano vengono spente. Oltre ai cardinali elettori restano nella Sistina solo monsignor Marini e l’ecclesiastico incaricato di tenere l’ultima meditazione, il cardinale ultraottantenne Tomásˇ Sˇpidlik. Conclusa la meditazione anche loro escono dalla Sistina.
All’esterno, per circa due ore, non trapela più alcuna informazione. I numerosi giornalisti accreditati non sono in grado di sapere se i cardinali stanno procedendo ad una prima votazione o se hanno deciso di rinviarla al mattino seguente. Entrambe le opzioni sono state annunziate come possibili, sabato 16 aprile, in un briefing del direttore della sala stampa vaticana, Joaquin Navarro Valls. Ma molti pensano che il lungo cerimoniale farà slittare troppo in avanti l’orario della votazione, rendendola impossibile. «In realtà», annota nel suo diario il nostro cardinale, «non si è fatto così tardi. E nessun cardinale desidera allungare inutilmente i tempi del conclave. Come prescritto dal regolamento, tocca proprio al “papabile” numero uno, il cardinale decano Joseph Ratzinger, sottoporre la questione al Collegio degli elettori. La maggioranza dei presenti è favorevole a votare subito. Sono circa le 18».
Vengono distribuite le schede. Sono di forma rettangolare, fatte in modo da essere piegate in due; nella metà superiore recano la scritta Eligo in Summo Pontifice, in quella inferiore c’è lo spazio per scrivere il nome del prescelto. Si procede quindi all’estrazione a sorte, fra tutti i cardinali elettori, di tre scrutatori, di tre revisori e di tre incaricati a raccogliere i voti degli infermi, denominati infirmarii. «Questi ultimi, però, di fatto resteranno disoccupati. Tutti i 115 elettori sono stati infatti in grado di raggiungere la Sistina, anche il cardinale Baum, quello in più precarie condizioni di salute: in caso contrario gli Infirmarii si sarebbero recati nella Casa Santa Marta per raccogliere in un’apposita urna il voto dei confratelli malati».
Tutto è pronto, ora, per l’inizio della prima votazione. «Secondo lo stesso ordine di precedenza i cardinali si alzano uno ad uno dalla sedia e tenendo la scheda in modo ben visibile, con la mano alzata, si muovono verso l’altare». Prima di deporre la scheda nell’urna ogni cardinale pronuncia ancora, ad alta voce, un nuovo giuramento: «Chiamo a testimone Cristo Signore, il quale mi giudicherà, che il mio voto è dato a colui che, secondo Dio, ritengo debba essere eletto». Dopo di che ogni cardinale depone la scheda nel piatto che copre l’urna e con lo stesso piatto la introduce nel recipiente. Le urne, in argento e bronzo dorati, sono state realizzate exnovoper questo conclave. Sono tre: nella prima sono inserite le schede al momento della votazione, la seconda è destinata a raccogliere il voto degli eventuali cardinali infermi, nella terza trovano posto le schede già esaminate.
Sono passate da pochi minuti le 19 quando l’ultimo cardinale, l’italiano Nicora, torna al suo posto dopo aver votato. Può iniziare il conteggio delle schede, per accertare che corrispondano esattamente al numero degli elettori. Il primo scrutatore agita più volte l’urna. Poi estrae una scheda alla volta e la mostra a tutti i presenti prima di deporla nella terza urna. È tutto in regola: 115 votanti, 115 schede. Ed ecco il momento più atteso, lo spoglio delle schede. Anche qui, si osserva alla lettera il «manuale» per il conclave emanato da Wojtyla. Il primo scrutatore prende la scheda, la apre, osserva il nome dell’eletto, e la passa al secondo scrutatore che, accertato a sua volta il nome dell’eletto, la passa al terzo, il quale la legge a voce alta e intelligibile, per consentire a tutti gli elettori di segnare il voto sull’apposito foglio che è stato loro fornito. Nel momento in cui proclama il nome lo scrutatore perfora ogni scheda con un ago nel punto esatto in cui si trova la parola Eligo e la inserisce con le altre in un filo: alla fine dello scrutinio i due capi del filo saranno stretti a formare un nodo.
Procedure arcaiche per garantire la più sicura conservazione delle schede e impedire manomissioni. «Procedure che potrebbero apparire eccessive, avendo a che fare con elettori almeno sulla carta timorati di Dio e degni di fiducia. La Chiesa non è per natura un’istituzione parlamentare ma quando decide di seguire la prassi democratica-elettorale lo fa con una scrupolosità, un culto della legalità, che non ammette privilegi o eccezioni».
Ma è arrivato il momento della verità. Il primo scrutinio è terminato. Nel suo diario la nostra fonte trascriverà solo i voti andati alle personalità più in vista, con maggiori chance, tralasciando i numerosi voti dispersi (una trentina):
I votazione, lunedí 18 aprile, ore 18
Joseph Ratzinger, decano del Sacro collegio 47
Jorge Mario Bergoglio, arcivescovo di Buenos Aires, Argentina 10
Carlo Maria Martini, arcivescovo emerito di Milano 9
Camillo Ruini, già vicario apostolico di Sua Santità per la diocesi di Roma 6
Angelo Sodano, già segretario di Stato vaticano 4
Oscar Rodríguez Maradiaga, arcivescovo di Tegucigalpa, Honduras 3
Dionigi Tettamanzi, arcivescovo di Milano 2
La prima votazione sembra confermare i più accreditati pronostici della vigilia. Il conclave si apre con un’unica candidatura «organizzata» e in grado di contare su un blocco di voti predefiniti, quella del cardinale Ratzinger. Le previsioni dei vaticanisti più informati oscillavano tra i trenta e i cinquanta voti già sicuri per l’ex prefetto della Congregazione per la dottrina della fede. Ne ottiene infatti 47. Un’ottima base di partenza ma a Ratzinger mancano ancora 30 voti per raggiungere i due terzi necessari per l’elezione.
Molto inferiori alle stime ipotizzate sono invece le preferenze raccolte dal cardinale Martini. Diversi organi d’informazione hanno immaginato un testa a testa nel primo scrutinio fra le due eminenti personalità e qualcuno (nei giorni successivi) si è spinto a sostenere che Martini abbia addirittura sopravanzato Ratzinger nella prima votazione. «Lo scarto è stato invece molto ampio e netto. Bisogna ricordare che, mentre quella del porporato bavarese era una candidatura reale, il nome del cardinale italiano era stato indicato solo come eventuale “candidato di bandiera”. Capace di raccogliere e unire una parte del “dissenso” all’ipotesi Ratzinger. Ma il cardinale Martini non si è mai sentito un vero “papabile”, e non solo per i noti problemi di salute».
La vera sorpresa del primo scrutinio è il cardinale argentino Bergoglio. Anche lui gesuita, come Martini, sebbene fra i due confratelli non vi sia sempre stata una perfetta sintonia: negli anni Settanta, al tempo del generalato Arrupe e degli infuocati dibattiti sulla teologia della liberazione, Bergoglio si era dovuto dimettere da provinciale della Compagnia di Gesù perché non condivideva la linea «aperturista» dei vertici dell’ordine ignaziano. L’arcivescovo di Buenos Aires si è però guadagnato specialmente negli ultimi anni una diffusa fama d’uomo di Dio. «Uomo di preghiera, che rifugge la scena mediatica e conduce uno stile di vita sobrio ed evangelico». Sicuro sul piano dottrinale, aperto su quello sociale, insofferente sul piano pastorale verso la rigidezza mostrata da alcuni collaboratori di Wojtyla sui temi d’etica sessuale («vogliono mettere tutto il mondo in un preservativo», commentava con gli amici alla vigilia del conclave). Caratteristiche che, in mancanza di un vero candidato di «sinistra», alternativo alla linea Ratzinger, faranno di Bergoglio l’uomo di riferimento per l’intero gruppo dei cardinali più riluttanti a votare il decano del Sacro collegio. «Un gruppo il cui nocciolo pensante è costituito da Karl Lehmann, presidente della Conferenza episcopale tedesca e da Godfried Danneels, arcivescovo di Bruxelles, e al quale fanno capo un significativo drappello di cardinali statunitensi e latinoamericani, oltre che qualche porporato della curia romana».
Da notare, in questa prima votazione, la manciata di voti ottenuti da Ruini (6) e Sodano (4). Risultato numericamente modesto, ma «politicamente» non privo di rilevanza. I sostenitori del presidente della Cei e del segretario di Stato vaticano uscente, entrambi scelti da Wojtyla, non riversano da subito i voti su Ratzinger. Un appoggio che, in questo modo, peserà di più nelle successive votazioni, quando ogni singolo voto diventerà prezioso per raggiungere il quorum necessario per l’elezione (77 voti).
Ma torniamo alla cronaca minuto per minuto nella cappella Sistina. «Benché il risultato negativo sia già chiaro a tutti, scrutatori e revisori devono completare il loro lavoro. I primi facendo la somma precisa dei voti che ciascun candidato ha riportato. I secondi procedendo al controllo sia delle schede sia del conteggio degli scrutatori per accertare che questi abbiano seguito esattamente e fedelmente il loro compito». Non resta ora, dopo tanto certosino lavoro, che… distruggere l’intero materiale elettorale. Schede e fogli sono immessi nella stufa e bruciati con l’aiuto del segretario del Collegio (monsignor Nicola Monterisi, ex nunzio in Bosnia) e dei cerimonieri chiamati nel frattempo dall’ultimo cardinale diacono. In piazza San Pietro l’esercito dei media punta invano da oltre un’ora i propri obiettivi sul comignolo montato sul tetto della Sistina. Quando già qualcuno inizia ad allentare la guardia, ecco una prima folata di fumo s’innalza incerta sul cielo sopra San Pietro. Bianca o nera? L’incertezza dura secondi che sembrano un’eternità alle agenzie di stampa. Sono le 20 e 04 del 18 aprile. Il mancato suono delle campane conferma la mancata elezione.
Lassù, nella Sistina, numerosi cardinali si attardano attorno ai fuochisti per assistere alla bruciatura delle schede. Evento imperdibile. La maggior parte degli elettori (ben 113 su 115!) non ha mai partecipato ad un conclave. Effetto collaterale, anche questo, del lungo pontificato di Giovanni Paolo II. Sono solo due i cardinali non «wojtyliani» che partecipano al conclave. Uno è l’americano William Baum, 79 anni, già arcivescovo di Washington e penitenziere maggiore; ora in pensione, quasi cieco, costretto in una sedia a rotelle. L’altro è il tedesco Joseph Ratzinger, che di anni ne ha 78 ma si presenta come l’uomo del futuro. Furono entrambi creati cardinali da Paolo VI. Curioso che ad interpretare la continuità dottrinale col pontificato di Giovanni Paolo II sia proprio uno dei pochi cardinali «montiniani» superstiti.
Ma adesso si è fatto davvero tardi ed è ora di tornare a Santa Marta. Sei minibus, 15-20 posti ognuno, sono pronti a trasferire i cardinali elettori nella nuova residenza ufficiale del conclave. Fino al 1978, i porporati erano alloggiati in celle ricavate alla buona nel palazzo apostolico. Spesso in condizioni disagevoli, con i servizi igienici lontani dalla stanza. Il conclave 2005 sarà ricordato anche per questa novità. La nuova residenza è una palazzina che si trova di fronte alla stazione di rifornimento vaticana, tra gli uffici del Pontificio consiglio per le comunicazioni sociali e l’aula Paolo VI (ex aula Nervi) per le udienze generali.
Dal 1996 Santa Marta funziona come il più esclusivo hotel al mondo. Riservato solo ad una stretta cerchia di ecclesiastici residenti o di passaggio. Fu il cardinale venezuelano Rosario Castillo Lara nei primi anni Novanta, quando era titolare dei più importanti uffici economici della Santa Sede, a proporre al papa di ristrutturare il vecchio ospizio Santa Marta per trasformarlo in un albergo che potesse ospitare anche i partecipanti ai conclavi. Non ebbe coraggio, però, di menzionare la parola conclave: sembrava di cattivo gusto, col papa vivo e felicemente regnante. Lo tolse dall’imbarazzo il segretario polacco del papa, don Stanislao, e Wojtyla approvò subito il progetto.
Lunedì sera la cena è alle 20 e 30. «L’isolamento è davvero totale. Inaccessibili televisori, radio e giornali. Bloccati telefoni e cellulari. Ma parlare si può. Si conversa a tavola, scambiandosi le impressioni sulla prima votazione andata a vuoto. Altri colloqui, con la massima discrezione, avvengono dopo cena nelle camere. Piccoli gruppi, due-tre persone, non ci sono maxi riunioni. Come in tutti gli alberghi, ai mille divieti già esistenti si aggiunge quello del fumo. Il cardinale portoghese José Policarpo da Crux, fama di fumatore incallito, non resiste ed esce all’aperto per accendersi un buon sigaro».
In queste poche ore, con gran riservatezza, prendono forma le strategie dei diversi schieramenti per la mattina successiva. I sostenitori di Ratzinger si concentrano sul vasto blocco degli incerti: oltre una trentina le preferenze disperse. Gli amici del cardinale Ruini fanno sapere che il loro piccolo pacchetto di voti (6) si riverserà sul cardinale decano. Sul fronte opposto, di coloro che contrastano l’elezione di Ratzinger, prevale l’orientamento a fare blocco su Bergoglio. Anche i cardinali che hanno votato Martini si convincono a puntare sull’arcivescovo di Buenos Aires. Sarebbe il primo papa latinoamericano della storia, e sicuramente almeno una parte dei 20 cardinali provenienti dall’America latina lo sostiene. Una parte. È noto a tutti i partecipanti al conclave, infatti, che almeno due cardinali dello stesso continente sono schieratissimi con Ratzinger: il colombiano Alfonso López Trujillo, ministro vaticano per la famiglia, aspro avversario della teologia della liberazione, e il cileno Jorge Arturo Medina Estévez, prefetto emerito della Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti, già responsabile dell’edizione cilena della rivista Communio, creatura teologica di Ratzinger. Per le sue virtù spirituali il mite Bergoglio gode di una stima trasversale ai continenti e agli schieramenti tradizionali. Tutti sono coscienti però che è pressoché impossibile che il gesuita argentino possa diventare il successore di Wojtyla. Non è certo nemmeno che accetterebbe l’elezione. «Lo guardo mentre va a deporre la sua scheda nell’urna, sull’altare della Sistina: ha lo sguardo fisso sull’immagine di Gesù che giudica le anime alla fine dei tempi. Il volto sofferente, come se implorasse: Dio non mi fare questo».
L’obiettivo realistico dello schieramento di minoranza che intende sostenere Bergoglio è creare una situazione di stallo, che porti al ritiro della candidatura Ratzinger. In termini concreti centrare tale obiettivo significa sfondare il muro delle 39 preferenze. Ovvero un terzo più uno dei voti. In modo da rendere matematicamente impossibile, al candidato più forte, di raggiungere i 77 voti. Poi si vedrà. I giochi si potrebbero riaprire.
Martedì 19 aprile la sveglia suona alle 6 e 30 nelle stanze dell’Hotel Conclave. Alle 7 e 30 celebrazione della messa nella Casa Santa Marta. L’appuntamento nella Cappella Sistina è alle 9, con la recita delle lodi. «La maggior parte dei cardinali ha utilizzato il servizio minibus per il trasferimento. Ma alcuni hanno preferito una panoramica e salutare passeggiata a piedi. Fra questi il cardinale tedesco Walter Kasper».
Le votazioni iniziano alle 9 e 30. Secondo lo stesso rituale della sera precedente. Queste le preferenze annotate dalla nostra fonte. Anche questa volta, tralascia i voti dispersi che però si riducono sensibilmente (sono 9):
II votazione, martedì 19 aprile, ore 9,30
Ratzinger 65
Bergoglio 35
Martini 0
Ruini 0
Sodano 4
Tettamanzi 2
Come previsto Ratzinger sale ancora, ma resta a 12 punti dalla vetta. I voti guadagnati rispetto al primo scrutinio sono 18: in parte gli arrivano dai sostenitori di Ruini (6), in parte dagli indecisi (12). Non convergono ancora sul suo nome, invece, i sostenitori di Sodano (4). Distaccato di 30 punti ma in netta crescita è Bergoglio, che aggiunge altri 25 voti alla sua dote iniziale. Sul suo nome confluiscono come previsto i sostenitori di Martini (9), che infatti non ottiene alcuna preferenza, e anche un discreto numero di cardinali che la sera precedente avevano disperso il loro voto (16). Il gesuita argentino è ad un passo dalla soglia numerica dei 39 voti che, teoricamente, può consentire ad una minoranza organizzata di bloccare l’elezione di qualsiasi candidato.
Alle undici si procede alla seconda votazione del mattino prevista dal regolamento. E le speranze della minoranza sembrano sul punto di diventare realtà. Riportiamo di seguito l’esito dello scrutinio che la nostra fonte trascrive nel suo diario. Mancano all’appello solo due voti, ininfluenti, andati a cardinali ritenuti totalmente privi di chance. La fonte segna invece il nome di Darío Castrillón Hoyos, colombiano della curia romana, perché era uno dei nomi circolati come «papabili» alla vigilia del conclave. E annota la scomparsa dei due voti andati nei precedenti scrutini a un altro papabile di carta, il cardinale di Milano Dionigi Tettamanzi. Ma l’attenzione di tutti è puntata sui due veri candidati in lizza.
III votazione, martedì 19 aprile, ore 11
Ratzinger 72
Bergoglio 40
Castrillón 1
Tettamanzi 0
Ratzinger cresce ancora, da 65 a 72. Gli mancano appena 5 voti per diventare il 264°successore dell’apostolo Pietro.
Ma anche Bergoglio cresce, da 35 a 40. Supera di poco, ma la supera, la soglia che rende matematicamente impossibile l’elezione di Ratzinger. Se i sostenitori dell’arcivescovo di Buenos Aires decidessero compatti di resistere ad oltranza, alzando le barricate a quota 40, il cardinale tedesco potrebbe raggiungere al massimo 75 voti. E vedrebbe così sfumare l’elezione per appena due voti. I cardinali elettori sono consapevoli che questo è il momento cruciale del conclave. Il suo destino si deciderà nei colloqui informali delle prossime ore, prima della prossima votazione, la quarta, in programma nel pomeriggio. «Già nella Sistina, prima del trasferimento a Santa Marta per il pranzo, ci sono i primi commenti e i primi contatti. Grande preoccupazione fra i porporati che auspicano l’elezione del cardinale Ratzinger; s’infittiscono i contatti, il più attivo è il cardinale López Trujillo…». Trujillo è visto da molti avvicinare in particolare i cardinali latinoamericani; cerca di convincerli che non ci sono vere alternative a Ratzinger; insiste sul paradosso che a sostenere un candidato latinoamericano siano proprio i cardinali del primo mondo, tedeschi e americani.
Sull’altro fronte inizia a farsi strada un cautissimo ottimismo sulla possibilità di bloccare, a pochi metri dal traguardo, la corsa del cardinale bavarese. «Domani grandi novità», sussurra il cardinale Martini con un sorriso sibillino a un suo collega, durante la pausa del pranzo. Richiesto di un chiarimento Martini confida di prevedere un cambiamento di candidati la mattina del giorno seguente, nel caso in cui anche le due prossime votazioni del pomeriggio si concludessero con un nulla di fatto. L’arcivescovo emerito di Milano compie persino qualche sondaggio informale alla ricerca di nuovi possibili candidati del giorno dopo. Alcuni testimoni lo vedono accostare il cardinale portoghese José Saraiva Martins («uomo ponte fra l’Europa e l’America latina» l’hanno definito alcuni quotidiani alla vigilia del conclave): i due si conoscono dagli anni Settanta, quando erano entrambi rettori di università pontificie a Roma.
Umori, battute, contatti, che riferiamo per dare l’idea dell’atmosfera che si respira all’ora di pranzo di martedì 19 aprile nella sigillata residenza del conclave. Almeno nei gruppi più impegnati. Dell’uno e dell’altro fronte. «Nessun esito sembra ancora scontato». Ma la condizione perché i piani della minoranza riescano è che non si aprano crepe nel blocco che si è formato attorno alla candidatura Bergoglio.
Invece una crepa, e nemmeno tanto piccola, si sta per aprire. Quando i 115 elettori, alle ore 16, tornano nella Sistina, l’esito del conclave è già deciso.
Questo il risultato dell’ultima e decisiva votazione del conclave. È la trascrizione più analitica. Mancano all’appello solo due voti, andati a singole personalità che la nostra fonte ha ritenuto inutile segnare. Mentre invece ha annotato, perché più «curiose», le preferenze ottenute dai cardinali in pensione Bernard Law, già arcivescovo di Boston costretto alle dimissioni per lo scandalo del clero pedofilo, e Giacomo Biffi, battagliero arcivescovo emerito di Bologna. Curiosa anche l’altra preferenza dispersa, andata al giovane cardinale di Vienna, Christoph Schönborn, personalità legata a Ratzinger da un antico sodalizio d’amicizia e affinità intellettuale. Ma ecco i numeri definitivi della elezione di Ratzinger.
IV votazione, martedì 19 aprile, ore 16,30
Ratzinger 84
Bergoglio 26
Schönborn 1
Biffi 1
Law 1
Ratzinger aggiunge altri 12 voti ai 72 già ottenuti al terzo scrutinio. Bergoglio ne perde ben 14 e la matematica ci dice che sono andati tutti al cardinale tedesco. Non sappiamo chi siano questi porporati e con quali motivazioni, al quarto scrutinio, abbiano deciso di ritirare il loro voto al cardinale argentino per offrirlo al decano del Sacro collegio. Forse hanno semplicemente ritenuto che fosse inopportuno puntare ad uno stallo prolungato, col rischio di una grave spaccatura, in mancanza di un’alternativa reale e convincente a Ratzinger.
«Questo conclave ci dice che la Chiesa non è ancora pronta ad un papa latinoamericano», sarà il commento laconico del cardinale belga Danneels. Questi gli ultimi ricordi annotati sul diario: «Anche il cardinale Ratzinger, man mano che si svolge lo spoglio delle schede, annota i voti con cura, sul suo foglio. Poi quando alle 17 e 30 ha superato il quorum dei 77 voti, nella Sistina c’è un momento di silenzio, seguito da un lungo cordiale applauso».
I dati trascritti dalla nostra fonte, e confermati da altri partecipanti al conclave, ci dicono che non si è trattato di un’elezione plebiscitaria: 84 preferenze, un margine di appena 7 voti. I suoi immediati predecessori, Wojtyla e Luciani, secondo una ricostruzione del senatore Giulio Andreotti (cfr. A ogni morte di papa, p. 176) avrebbero ottenuto rispettivamente 99 e 98 voti in conclavi ai quali parteciparono un minor numero di cardinali (111). Quello che ha eletto Ratzinger è stato in ogni caso uno dei conclavi più rapidi della storia contemporanea. Nel Novecento il record spetta a Pio XII, eletto nel 1939 con appena tre scrutini. A Benedetto XVI ne è stato sufficiente uno solo in più, quattro, come a Giovanni Paolo I. Cinque scrutini furono invece necessari per eleggere Paolo VI (1963); otto scrutini per Giovanni Paolo II (1978); undici per Giovanni XXIII (1958).
Quanto ai motivi che hanno spinto la maggioranza dei cardinali a scegliere Ratzinger, sono stati già dichiarati da numerosi partecipanti (cfr. 30Giorni, n. 5/2005). L’indiscussa autorevolezza morale ed intellettuale del personaggio; la continuità con il pontificato di Wojtyla, pur dentro una maggiore sobrietà di stile e di dottrina; la garanzia (fornita dall’età) di un pontificato meno lungo del precedente; il modo convincente con cui Ratzinger ha gestito nella veste di decano del Sacro collegio prima i funerali di Wojtyla poi le congregazioni generali che hanno preparato il conclave: quasi una prova (superata) da papa. Un merito che un’ampia maggioranza dei cardinali elettori gli ha riconosciuto. Anche se, nel diario della nostra fonte, resta annotata la perplessità di alcuni porporati di fronte al potenziale conflitto d’interessi in cui viene a trovarsi un decano che sia anche un papabile. «Per ovviare ad un simile inconveniente alcuni cardinali propongono che, in futuro, a ricoprire la carica di decano sia scelto un cardinale ultraottantenne e quindi escluso per limiti anagrafici dal conclave».
Lucio Brunelli, 31 agosto 2009

Conclave 2005, che cosa ho detto al futuro papa, prima della sua elezione (del cardinale Giacomo Biffi che partecipò a quel conclave)
I giorni più faticosi per i cardinali sono quelli che precedono immediatamente il conclave. Il Sacro Collegio si raduna quotidianamente dalle ore 9,30 alle ore 13, in un’assemblea dove ciascuno dei presenti è libero di dire tutto ciò che crede.

S’intuisce però che non si possa trattare pubblicamente l’argomento che più sta a cuore agli elettori del futuro vescovo di Roma: chi dobbiamo scegliere?
E così va a finire che ogni cardinale è tentato di citare più che altro i suoi problemi e i suoi guai: o meglio, i problemi e i guai della sua cristianità, della sua nazione, del suo continente, del mondo intero. È senza dubbio molto utile questa generale, spontanea, incondizionata rassegna delle informazioni e dei giudizi. Ma senza dubbio il quadro che ne risulta non è fatto per incoraggiare.
Quale fosse nell’occasione il mio stato d’animo e quale la mia riflessione prevalente emerge dall’intervento che dopo molte perplessità mi sono deciso a pronunciare il venerdì 15 aprile 2005. Eccone il testo:
“1. Dopo aver ascoltato tutti gli interventi – giusti opportuni appassionati – che qui sono risonati, vorrei esprimere al futuro papa (che mi sta ascoltando) tutta la mia solidarietà, la mia simpatia, la mia comprensione, e anche un po’ della mia fraterna compassione. Ma vorrei suggerirgli anche che non si preoccupi troppo di tutto quello che qui ha sentito e non si spaventi troppo. Il Signore Gesù non gli chiederà di risolvere tutti i problemi del mondo. Gli chiederà di volergli bene con un amore straordinario: ‘Mi ami tu più di costoro?’ (cfr. Giovanni 21,15). In una ‘striscia’ e ‘fumetto’ che ci veniva dall’Argentina, quella di Mafalda, ho trovato diversi anni fa una frase che in questi giorni mi è venuta spesso alla mente: ‘Ho capito; – diceva quella terribile e acuta ragazzina – il mondo è pieno di problemologi, ma scarseggiano i soluzionologi’.
“2. Vorrei dire al futuro papa che faccia attenzione a tutti i problemi. Ma prima e più ancora si renda conto dello stato di confusione, di disorientamento, di smarrimento che affligge in questi anni il popolo di Dio, e soprattutto affligge i ‘piccoli’.
“3. Qualche giorno fa ho ascoltato alla televisione una suora anziana e devota che così rispondeva all’intervistatore: ‘Questo papa, che è morto, è stato grande soprattutto perché ci ha insegnato che tutte le religioni sono uguali’. Non so se Giovanni Paolo II avrebbe molto gradito un elogio come questo.
“4. Infine vorrei segnalare al nuovo papa la vicenda incredibile della ‘Dominus Iesus’: un documento (vedi qui) esplicitamente condiviso e pubblicamente approvato da Giovanni Paolo II; un documento per il quale mi piace esprimere al cardinal Ratzinger la mia vibrante gratitudine. Che Gesù sia l’unico necessario Salvatore di tutti è una verità che in venti secoli – a partire dal discorso di Pietro dopo Pentecoste – non si era mai sentito la necessità di richiamare. Questa verità è, per così dire, il grado minimo della fede; è la certezza primordiale, è tra i credenti il dato semplice e più essenziale. In duemila anni non è stata mai posta in dubbio, neppure durante la crisi ariana e neppure in occasione del deragliamento della Riforma protestante. L’averla dovuta ricordare ai nostri giorni ci dà la misura della gravità della situazione odierna. Eppure questo documento, che richiama la certezza primordiale, più semplice, più essenziale, è stato contestato. È stato contestato a tutti i livelli: a tutti i livelli dell’azione pastorale, dell’insegnamento teologico, della gerarchia.
“5. Mi è stato raccontato di un buon cattolico che ha proposto al suo parroco di fare una presentazione della ‘Dominus Iesus’ alla comunità parrocchiale. Il parroco (un sacerdote per altro eccellente e ben intenzionato) gli ha risposto: ‘Lascia perdere. Quello è un documento che divide’. ‘Un documento che divide’. Bella scoperta! Gesù stesso ha detto: ‘Io sono venuto a portare la divisione’ (Luca 12,51). Ma troppe parole di Gesù oggi risultano censurate dalla cristianità; almeno dalla cristianità nella sua parte più loquace“.
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Giacomo Biffi, “Memorie e digressioni di un italiano cardinale” (pp. 614-615) , Cantagalli, Siena, 2007, pp. 640, euro 23,90.
Biffi è ricordato soprattutto come arcivescovo di Bologna, dal 1984 al 2003. Ma nel libro egli ripercorre l’intera sua vita, dalla nascita nella Milano operaia a quando divenne sacerdote, poi professore di teologia, parroco, vescovo e infine cardinale.
Nel prologo, Biffi riporta queste parole di sant’Ambrogio, grande vescovo della Milano del IV secolo, suo amato “padre e maestro”:
“Per un vescovo non c’è nulla tanto rischioso davanti a Dio e tanto vergognoso davanti agli uomini, quanto non proclamare liberamente il proprio pensiero”.
E puntualmente, nelle 640 pagine del volume, il pensiero di Biffi prorompe in piena libertà, pungente, ironico, anticonformista.
Non c’è passaggio cruciale della vita della Chiesa che non cada sotto il suo giudizio acuminato e spesso sorprendente.
È una sorpresa, ad esempio, che egli indichi “il papa più grande del secolo ventesimo” in Pio XI, che è forse il papa oggi più trascurato e dimenticato.
È una sorpresa lo scoprire che, quand’era arcivescovo di Bologna, lui, tanto criticato per aver definito preferibile accogliere in Italia immigrati cristiani rispetto a immigrati musulmani, ospitò per molte notti in una chiesa un folto gruppo di magrebini senza casa, nelle settimane più rigide dell’inverno.
Anche i silenzi sono eloquenti. A Joseph Ratzinger il libro dedica solo rari accenni. Ma il lettore capisce da molti indizi che Biffi ha una altissima stima dell’attuale papa. Una stima ricambiata dall’invito fattogli da Benedetto XVI di predicare in Vaticano gli esercizi spirituali della Quaresima del 2007.
Viceversa, il quasi totale silenzio sul cardinale Carlo Maria Martini – di cui Biffi fu vescovo ausiliare per quattro anni a Milano – fa trasparire un giudizio inesorabilmente critico. Immediatamente prima di liquidare in poche righe la nomina del celebre gesuita ad arcivescovo di Milano, alla fine del 1979, Biffi mette in chiaro che l’epoca luminosa dei grandi vescovi di Milano del Novecento – eredi genuini di sant’Ambrogio e san Carlo Borromeo – si è comunque conclusa col predecessore di Martini, Giovanni Colombo.
E da un altro silenzio – quello che nel libro avvolge il successore di Martini, il cardinale Dionigi Tettamanzi – si ricava che neppure con l’attuale vescovo di Milano la stagione dei grandi pastori “ambrosiani” e “borromaici” dia segni di ripresa.
Il perché è ben spiegato. Per Biffi un vescovo è grande quando governa la Chiesa “con il calore e la certezza della fede, la concretezza delle iniziative e delle opere, la capacità di rispondere alle interpellanze dei tempi non con cedimenti e mimetismi ma attingendo al patrimonio inalienabile della verità”. Evidentemente, a giudizio di Biffi, né Martini né Tettamanzi corrispondono a questo profilo.
Un’ altra personalità che Biffi sottopone a critica severa è don Giuseppe Dossetti, in gioventù importante uomo politico – ammirato in quegli anni dallo stesso Biffi – poi sacerdote e monaco, attivissimo consulente del cardinale Giacomo Lercaro nel Concilio Vaticano II e capostitpite della “scuola di Bologna” e dell’interpretazione del Concilio come rottura col passato e nuovo inizio.
Biffi scrive che Dossetti mantenne sino all’ultimo “un’ossessione primaria e permanente per la politica, che alterava la sua prospettiva generale”. Inoltre gli addebita una “insufficiente fondazione teologica”.
Dossetti è stato l’uomo che nell’ultimo mezzo secolo ha più influito sugli orientamenti dell’élite intellettuale della Chiesa italiana.
Invece, il leader spirituale che a giudizio di Biffi ha intuito con più lucidità la missione e i pericoli della Chiesa nel mondo d’oggi è stato don Divo Barsotti, più volte ricordato con ammirazione nel libro.
Le memorie del cardinale Biffi sono una lettura obbligata, per chi voglia osservare la vicenda attuale della Chiesa da una visuale fuori dagli schemi, e nello stesso tempo autorevole. Ma sono anche una lettura avvincente, che afferra fin dalle prime pagine per la brillantezza della scrittura, sempre sobria ed essenziale.
Sono il racconto di una vita integralmente dedicata alla Chiesa. Qui di seguito ne sono riportati alcuni brani: su Giovanni XXIII, sul Concilio Vaticano II e le sue ricadute, sui “mea culpa” di Giovanni Paolo II e, infine, sull’ultimo conclave, con il discorso integrale – fino a ieri segreto – rivolto dal cardinale Biffi al futuro papa.
Un papa – Benedetto XVI – a quella data ancora da eleggere. Eppure già così somigliante alle attese di questo suo grande elettore.
Giovanni XXIII: papa buono, cattivo maestro
(pp.177-179)
Papa Roncalli morì nella solennità di Pentecoste, il 3 giugno 1963. Anch’io lo rimpiangevo, perché avevo un’invincibile simpatia per lui. M’incantavano i suoi gesti “irrituali”, ed ero rallegrato dalle sue parole spesso sorprendenti e dalle sue uscite estemporanee.
Solo la valutazione di alcune frasi mi lasciava esitante. Ed erano proprio quelle che più facilmente di altre conquistavano gli animi, perché apparivano conformi alle istintive aspirazioni degli uomini.
C’era, per esempio, il giudizio di riprovazione sui “profeti di sventura”.
L’espressione divenne e rimase popolarissima ed è naturale: la gente non ama i guastafeste; preferisce chi promette tempi felici a chi avanza timori e riserve. E anch’io ammiravo qui il coraggio e lo slancio, negli ultimi anni della sua vita, di questo “giovane” successore di Pietro.
Ma ricordo che una perplessità mi prese però quasi sùbito. Nella storia della Rivelazione, annunziatori anche di castighi e calamità furono solitamente i veri profeti, quali adesempio Isaia (capitolo 24), Geremia (capitolo 4), Ezechiele (capitoli 4-11).
Gesù stesso, a leggere il capitolo 24 del Vangelo di Matteo, andrebbe annoverato tra i “profeti di sventura”: le notizie di futuri successi e di prossime gioie non riguardano di norma l’esistenza di quaggiù, bensì la “vita eterna” e il “Regno dei Cieli”.
A proclamare di solito l’imminenza di ore tranquille e rasserenate, nella Bibbia sono piuttosto i falsi profeti (si veda il capitolo 13 del Libro di Ezechiele).
La frase di Giovanni XXIII si spiega col suo stato d’animo del momento, ma non va assolutizzata. Al contrario, sarà bene ascoltare anche quelli che hanno qualche ragione di mettere all’erta i fratelli, preparandoli alle possibili prove, e coloro che ritengono opportuni gli inviti alla prudenza e alla vigilanza.
“Bisogna guardare più a ciò che ci unisce che non a ciò che ci divide”. Anche questa sentenza – oggi molto ripetuta e apprezzata, quasi come la regola aurea del “dialogo” – ci viene dall’epoca giovannea e ce ne trasmette l’atmosfera.
È un principio comportamentale di evidente assennatezza, che va tenuto presente quando si tratta di semplice convivenza e di decisioni da prendere nella spicciola quotidianità.
Ma diventa assurdo e disastroso nelle sue conseguenze, se lo si applica nei grandi temi dell’esistenza e particolarmente nella problematica religiosa.
È opportuno, per esempio, che si usi di questo aforisma per salvaguardare i rapporti di buon vicinato in un condominio o la rapida efficienza di un consiglio comunale.
Ma guai se ce ne lasciamo ispirare nella testimonianza evangelica di fronte al mondo, nel nostro impegno ecumenico, nelle discussioni coi non credenti. In virtù di questo principio, Cristo potrebbe diventare la prima e più illustre vittima del dialogo con le religioni non cristiane. Il Signore Gesù ha detto di sé, ma è una delle sue parole che siamo inclini a censurare: “Io sono venuto a portare la divisione” (Luca 12,51).
Nelle questioni che contano la regola non può essere che questa: noi dobbiamo guardare soprattutto a ciò che è decisivo, sostanziale, vero, ci divida o non ci divida.
“Bisogna distinguere tra l’errore e l’errante”. È un’altra massima che fa parte dell’eredità morale di Giovanni XXIII e ha anch’essa influenzato il cattolicesimo successivo.
Il principio è giustissimo e attinge la sua forza dallo stesso insegnamento evangelico: l’errore non può che essere deprecato, odiato, combattuto dai discepoli di colui che è la Verità; mentre l’errante – nella sua inalienabile umanità – è sempre un’immagine viva, pur se incoativa, del Figlio di Dio incarnato; e pertanto va rispettato, amato, aiutato per quel che è possibile.
Io però non potevo dimenticare, riflettendo su questa sentenza, che la storica saggezza della Chiesa non ha mai ridotto la condanna dell’errore a una pura e inefficace astrazione.
Il popolo cristiano va messo in guardia e difeso da colui che di fatto semina l’errore, senza che per questo si cessi di cercare il suo vero bene e pur senza giudicare la responsabilità soggettiva di nessuno, che è nota solo a Dio.
Gesù a questo proposito ha dato ai capi della Chiesa una direttiva precisa: colui che scandalizza col suo comportamento e con la sua dottrina, e non si lascia persuadere né dalle ammonizioni personali, né dalla più solenne riprovazione della ecclesìa, “sia per te come un pagano e un pubblicano” (cfr. Matteo 18,17); prevedendo e prescrivendo così l’istituto della scomunica.
Gli inganni del Vaticano II: “aggiornamento” e “pastoralità”
(pp. 183-184)
Papa Roncalli aveva assegnato al Concilio, come compito e come traguardo, il “rinnovamento interno della Chiesa”; espressione più pertinente del vocabolo “aggiornamento” (esso pure giovanneo), che però ebbe un’immeritata fortuna.
Non era certo l’intenzione del sommo pontefice, ma “aggiornamento” includeva l’idea che la “nazione santa” si proponesse di ricercare la sua miglior conformità non al disegno eterno del Padre e alla sua volontà di salvezza (come aveva sempre creduto di dover fare nei suoi tentativi di giusta “riforma”), ma alla “giornata” (alla storia temporale e mondana); e così si dava l’impressione di indulgere alla “cronolatrìa”, per usare il termine di biasimo coniato poi da Maritain.
Giovanni XXIII vagheggiava un Concilio che ottenesse il rinnovamento della Chiesa non con le condanne, ma con la “medicina della misericordia”. Astenendosi dal riprovare gli errori, il Concilio per ciò stesso avrebbe evitato di formulare insegnamenti definitivi, vincolanti per tutti. E di fatto ci si attenne sempre a questa indicazione di partenza.
La ragione sorgiva e sintetica di questi indirizzi era il proposito dichiarato di mirare a un “Concilio pastorale”. Tutti, dentro e fuori l’aula vaticana, si mostravano contenti e compiaciuti di tale qualifica.
Io però, nel mio angolino periferico, sentivo nascere in me, mio malgrado, qualche difficoltà. Il concetto mi pareva ambiguo, e un po’ sospetta l’enfasi con cui la “pastoralità” era attribuita al Concilio in atto: si voleva forse dire implicitamente che i precedenti Concili non intendevano essere “pastorali” o non lo erano stati abbastanza?
Non aveva rilevanza pastorale il mettere in chiaro che Gesù di Nazaret era Dio e consostanziale al Padre, come si era definito a Nicea? Non aveva rilevanza pastorale precisare il realismo della presenza eucaristica e la natura sacrificale della messa, come era avvenuto a Trento? Non aveva rilevanza pastorale presentare in tutto il suo valore e in tutte le sue implicanze il primato di Pietro, come aveva insegnato il Concilio Vaticano I?
Si capisce che l’intenzione dichiarata era quella di mettere a tema particolarmente lo studio dei modi migliori e dei mezzi più efficaci di raggiungere il cuore dell’uomo, senza per questo sminuire la positiva considerazione per il tradizionale magistero della Chiesa.
Ma c’era il pericolo di non ricordare più che la prima e insostituibile “misericordia” per l’umanità smarrita è, secondo l’insegnamento chiaro della Rivelazione, la “misericordia della verità”; misericordia che non può essere esercitata senza la condanna esplicita, ferma, costante di ogni travisamento e di ogni alterazione del “deposito” della fede che va custodito.
Qualcuno poteva addirittura incautamente pensare che il riscatto dei figli di Adamo dipendesse più dalle nostre arti di lusinga e di persuasione, che non dalla strategia soteriologica preordinata dal Padre prima di tutti i secoli, tutta incentrata nell’evento pasquale e nel suo annuncio; un annuncio “senza discorsi persuasivi di sapienza umana” (cfr. 1 Corinti 2,4). Nel postconcilio non è stato soltanto un pericolo.
Sul comunismo aveva ragione papa Wojtyla: il Concilio non doveva tacere
(pp. 184-186)
Comunismo: il Concilio non ne parla. Se si percorre con attenzione l’indice sistematico, fa impressione imbattersi in questo categorico silenzio.
Il comunismo è stato senza dubbio il fenomeno storico più imponente, più duraturo, più straripante del secolo ventesimo; e il Concilio, che pure aveva proposto una Costituzione sulla Chiesa e il mondo contemporaneo, non ne parla.
Il comunismo, a partire dal suo trionfo in Russia nel 1917, in mezzo secolo era già riuscito a provocare molte decine di milioni di morti, vittime del terrore di massa e della repressione più disumana; e il Concilio non ne parla.
Il comunismo (ed era la prima volta nella storia delle insipienze umane) aveva praticamente imposto alle popolazioni assoggettate l’ateismo, come una specie di filosofia ufficiale e di paradossale “religione di stato”; e il Concilio, che pur si diffonde sul caso degli atei, non ne parla.
Negli stessi anni in cui si svolgeva l’assise ecumenica, le prigioni comuniste erano ancora luoghi di indicibili sofferenze e di umiliazioni inflitte a numerosi “testimoni della fede” (vescovi, presbiteri, laici convinti credenti in Cristo); e il Concilio non ne parla.
Altro che i supposti silenzi nei confronti delle criminose aberrazioni del nazismo, che persino alcuni cattolici (anche tra quelli attivi al Concilio) hanno poi rimproverato a Pio XII!
In quegli anni, pur percependo la grande anomalìa di questo riserbo soprattutto da parte di un’assemblea che aveva discorso quasi di tutto, non mi sono affatto scandalizzato. Anzi, devo dire che capivo gli aspetti positivi di quella linea. E non tanto per la possibilità, che così si profilava, di trattare con i regimi comunisti l’auspicabile partecipazione al Concilio dei vescovi da loro controllati, quanto per la previsione che una qualunque presa di posizione, anche la più blanda e la più sorvegliata, avrebbe scatenato un inasprimento della persecuzione, così da appesantire la croce di quei nostri fratelli perseguitati.
In fondo, c’era in tutti, almeno inconsciamente, il convincimento che il comunismo fosse un fenomeno tanto consistente da essere ormai irreversibile: con esso bisognava dunque per forza di cose abituarsi a fare i conti, chissà per quanto tempo ancora.
A ben guardare questa era in sostanza la giustificazione anche dell’Ostpolitik (“politica di dialogo e di augurabili intese con i Paesi dell’Est”) della Santa Sede di Giovanni XXIII e di Paolo VI; tale politica ci pareva sanamente realistica e storicamente opportuna.
Chi non ha mai condiviso questa prospettiva è stato Giovanni Paolo II (come ho capito da un colloquio avuto nel 1985). Ha avuto ragione lui.
Sui “mea culpa” Giovanni Paolo II si è corretto, ma troppo poco
(p. 536)
Il 7 luglio 1997 Giovanni Paolo II ebbe l’amabilità di invitarmi a pranzo ed estese l’invito anche al cerimoniere arcivescovile, don Roberto Parisini, che mi accompagnava e rimane perciò come prezioso testimone dell’episodio.
A tavola il Santo Padre a un certo punto mi disse: “Ha visto che abbiamo cambiato la frase della ‘Tertio millennio adveniente’?”.
La bozza, che era stata inviata in anticipo ai cardinali, recava questa espressione: “La Chiesa riconosce come propri i peccati dei suoi figli”; espressione che – avevo fatto presente con rispettosa franchezza – era improponibile. Nel testo definitivo il ragionamento appare mutato così: “La Chiesa riconosce sempre come propri i suoi figli peccatori”. Il papa in quel momento ci teneva a ricordarmelo, sapendo che mi avrebbe dato piacere.
Ho risposto dicendomi molto grato e manifestando la mia piena soddisfazione sotto il profilo teologico. Mi sono però sentito anche di aggiungere una riserva di indole pastorale: l’iniziativa inedita di chiedere perdono per gli errori e le incoerenze dei secoli passati a mio avviso avrebbe scandalizzato i “piccoli”, i preferiti dal Signore Gesù (cfr. Matteo 11,25): perché il popolo fedele, che non sa fare molte distinzioni teologiche, da quelle autoaccuse vedrebbe insidiata la sua serena adesione al mistero ecclesiale, che (ci dicono tutte le professioni di fede) è essenzialmente un mistero di santità.
Il papa testualmente allora disse: “Sì, questo è vero. Bisognerà pensarci”. Purtroppo non ci ha pensato abbastanza.
SILEGGA ANCHE QUI: Trascrizione storica, meravigliosa, dell’incoronazione di Pio X a Sommo Pontefice
(cliccare sulle immagini per ingrandirle e salvarle…. )


















