Lo storico Roberto de Mattei descrive le prime persecuzioni contro i Cristiani

I primi tre secoli della Chiesa: un’epoca di persecuzioni e martirio.

Trascrizione di una conferenza radiofonica di Roberto De Mattei sulle persecuzioni dei primi cristiani nell’Impero Romano, veramente imperdibile! Il prof. de Mattei (di Corrispondenza Romana e della Fondazione Lepanto) descrive le diverse fasi delle persecuzioni, evidenziando le motivazioni religiose e politiche alla base, il ruolo dell’imperatore e del Senato, e il coraggio dei martiri che testimoniavano la loro fede, subendo ogni forma di tortura e barbarie. La conferenza si conclude riflettendo sul significato del martirio nella storia della Chiesa e nella vita dei credenti oggi.

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qui invece l’audio originale pubblicato con l’autorizzazione dell’Autore:

Viviamo sotto tutti gli aspetti un’epoca difficile, un’epoca di crisi, crisi economica, crisi politica, crisi soprattutto spirituale e morale ed è questo aspetto della crisi odierna quello che ci interessa di più, che tocca la nostra vita, perché siamo fatti non solo di corpo, come credono e praticano in più, ma siamo fatti di corpo e di anima e l’anima non è solo la parte più nobile del nostro essere, ma è propriamente ciò che ha il nostro essere dalla vita, ciò per cui respiriamo e viviamo. Abbiamo un’anima, abbiamo quindi o dovremmo avere una vita spirituale, questa vita spirituale nasce con il dono della fede.

Quella fede che c’è infusa dal battesimo e si alimenta a sua volta con la grazia che c’è comunicata dai sacramenti della Chiesa. Tutto ciò che riguarda la Chiesa tocca la nostra fede e ciò che tocca la fede ha delle conseguenze per la nostra anima, per noi stessi e per quelli che ci sono cari e vicini. Ed è anche per questo che dobbiamo interessarci della Chiesa e della sua storia, delle sue vicende di oggi.

E delle sue vicende di ieri, perché capire quello che è successo ieri ci aiuta a comprendere e a vivere quello che accade oggi.

Quando parliamo di Chiesa dobbiamo ricordarci che ci sono in realtà tre Chiese che ne formano una.

La Chiesa militante che è quella formata da tutti i battezzati che vivono su questa terra, che professano la stessa fede sotto i medesimi pastori.

Poi c’è la Chiesa sofferente o purgante che è invece composta da tutti quei defunti che si purificano in purgatorio attendendo di entrare in paradiso.

E poi c’è finalmente la Chiesa trionfante che è quella formata dai Santi che già vivono eternamente felici nella Gloria Divina.

Insieme queste tre realtà, la Chiesa militante, la Chiesa sofferente, la Chiesa trionfante, formano la Comunione dei Santi; quella Comunione dei Santi che è un dogma che professiamo nel nostro Credo.

Ecco, per comprendere la storia della Chiesa, non solo quella di ieri o di 2000 anni fa, ma anche soprattutto quella di oggi, che poi è quella che a noi più di tutto interessa, dobbiamo tener a mente la parola militante.

Chiesa militante significa Chiesa che combatte, San Paolo spiega in molti passi delle sue Epistole.

Bonum certamen, una buona battaglia che va combattuta, dice, da buon soldato di Gesù Cristo, spogliamoci —aggiunge nella lettera ai Romani — delle opere delle tenebre e indossiamo l’armatura della luce.

La Chiesa sulla terra soffre certamente, ma prima di tutto combatte, soffre perché e quando combatte, ma per la Chiesa — e per noi cristiani — il tempo della sofferenza propriamente non è la terra, è il Purgatorio perché non siamo nati per soffrire, ma siamo nati per combattere e per vincere, anche se poi di fatto la sofferenza accompagna tutta la nostra vita.

Di questa sofferenza però non dobbiamo compiacerci perché è la conseguenza del peccato, ma la vita in terra è innanzitutto lotta. Lotta tra due città che combattono l’una contro l’altra fino alla fine dei tempi: la Chiesa e i suoi nemici, Sant’Agostino lo spiega molto bene nel suo capolavoro la Città di Dio.

Nella nostra rubrica Radici cristiane vogliamo ricordare gli episodi più importanti di questa lotta, che si rinnova ogni giorno, e che non ci deve vedere spettatori ma protagonisti. Dobbiamo immaginare la scena del mondo come un grande teatro a cui in Cielo assistono gli angeli e i santi e, nella tribuna d’onore, Gesù e Maria.

Scegliamo dunque di fare la nostra parte studiando il copione della storia. Per questo vorrei parlare oggi con voi dei primi secoli della Chiesa, tanto lontani ma anche tanto vicini.

Ebbene, i primi tre secoli di vita della Chiesa, quelli di cui vogliamo parlare oggi, furono un’epoca di persecuzione e di martirio, ma furono proprio per questo un’epoca di lotta. La lotta, condotta prima dagli Apostoli e poi dai loro successori, per adempiere il mandato di Cristo, che era quello di diffondere il Vangelo fino ai confini della terra.

In quel momento il Cristianesimo aveva di fronte a sé l’Impero romano, il più grande impero che abbia mai conosciuto la storia, e che si estendeva fino ai confini di larga parte della terra allora conosciuto.

Cristianesimo e Impero romano erano, per così, dire coetanei, perché se la storia di Roma era iniziata 753 anni prima di Cristo, quando la città di Roma era stata fondata da Romolo e Remo, però la nascita propriamente dell’Impero romano si deve all’imperatore Augusto, sotto il cui regno nacque Gesù in Palestina, in questo senso nascono insieme l’impero romano e Gesù.

E l’Impero romano e il Cristianesimo nascente si trovarono di fronte e non vi fu accordo né compromesso ma lotta senza tregua tra queste due realtà. La lotta non fu dichiarata dal Cristianesimo ma dall’Impero che non tollerava la pretesa di verità assoluta del Cristianesimo, il suo messaggio di salvezza integrale.

Il primo grande scontro fu il processo a Gesù, quel processo a Gesù che fu promosso dagli ebrei nel Sinedrio, ma poi fu portato davanti a Pilato, giudice supremo in Palestina, e Pilato che rappresentava l’Impero romano, consegnò Cristo ai carnefici.

Non è il caso qui di discutere se la responsabilità maggiore fosse la sua o di chi lo avesse a lui consegnato sobillandolo, quello che importa sottolineare è che Gesù volle mostrare, fin dall’inizio, che tra la Chiesa e il mondo ci sarebbe stata una radicale incompatibilità. E la passione e morte di Gesù furono il modello di tutte le sofferenze che sono state e di tutti i dolori fisici, ma soprattutto spirituali e morali, che i cristiani avrebbero dovuto seguire nella loro storia.

L’Impero romano non solo condannò Gesù per mano di Pilato, ma dopo che Pilato fu rimosso dalla Palestina continuò a condannare Cristo rifiutando di riconoscere al Cristianesimo lo statuto di religio licita, religione lecita, cioè tollerata, ammessa nell’Impero romano.

La persecuzione contro i cristiani iniziò, si può dire, in Palestina con la lapidazione di Stefano voluta da Caifa, il sommo sacerdote, nell’anno 34, poco dopo la morte di Gesù, e poi questa persecuzione continuò con la morte di Giacomo di Zebedeo, il primo martire fra gli Apostoli mandato a morte da re Erode Agrippa I.

Gli apologisti, soprattutto Giustino e Tertulliano, parlano di una relazione che l’imperatore Tiberio da Roma chiese al procuratore in Galilea, Ponzio Pilato, dopo questi eventi per capire cosa stava succedendo in Palestina e secondo Tertulliano la relazione di Pilato non ostile a proporre al Senato romano di riconoscere la divinità di Gesù e a concedere al Cristianesimo lo statuto di religio licita, però il Senato romano avrebbe opposto un rifiuto a questo riconoscimento. L’aristocrazia senatoriale romana fin dall’inizio manifestò la sua avversione al Cristianesimo, alimentando le persecuzioni contro la fede nascente,  soprattutto nelle sfere più alte della società, mentre come ricordano gli atti l’antipatia popolare fu attizzata soprattutto dagli ebrei.

L’avvio delle persecuzioni su larga scala avvenne però solo a partire dall’anno 64 d.C.

L’anno 64, nella notte dal 18 al 19 luglio di quell’anno le trombe delle scolte risuonarono in Roma dando l’allarme per il fuoco, un violento incendio era scoppiato nel quartiere popolare del Circo Massimo. Tra le drogherie e le botteghe di stoffe, e alimentato dalle riserve d’olio e da mille materie molto combustibili, il fuoco improvvisamente raggiunse tutta la regione circostante, il palatino ed il celio. Invano si tentò di spegnerlo, per sei giorni e sei notti le fiamme avvolsero Roma. Quattro dei quattordici quartieri che la città contava furono distrutti fino al suolo. Di sei altri non restavano che pezzi di muri, gruppi di case, annerite ormai rese inabitabili, quattro quartieri soltanto sui quattordici che ne contava Roma potevano dirsi intatti.

Era allora imperatore Nerone. Oggi di Nerone si cerca di riabilitare la memoria, ma dobbiamo ricordare che Nerone era l’uomo che aveva fatto uccidere la madre Agrippa, colei che per mezzo di un delitto gli aveva dato il trono, era l’uomo che aveva ripudiato la moglie legittima Ottavia calunniandola in modo abietto prima di farla giustiziare, era l’uomo per la sua ferocia ora era accusato dalla Vox Populi di essere addirittura il responsabile di questo terribile incendio di Roma, e fu diffusa la voce che si erano visti i suoi servi per correre con torce in pugno i quartieri bassi della città. Svetonio raccoglie la diceria secondo cui Nerone durante l’incendio in cima alla torre di Micene rivestito con di un costume da teatro e con la lira in mano avesse cantato un poema da lui composto sulla presa di Troia e sul fuoco appiccato dai guerrieri di Agamennone.

Quel che è certo è che Nerone sfogò la sua furia sui cristiani accusandoli di essere gli autori della distruzione di Roma e da un giorno all’altro per suo ordine le prigioni si riempirono al punto che Tacito scrive di una vasta moltitudine di cristiani arrestati. Sono parole importanti — una vasta moltitudine — perché ci offrono una preziosa indicazione sull’estensione che la nuova fede aveva già a Roma, meno di trent’anni dopo la morte di Cristo.

Un terribile destino attendeva però i cristiani di Roma. Non ci si limitò soltanto, per ordine di Nerone, a torturare, a decapitare, a crocifiggere le vittime nel circo di Nerone che si trovava proprio sullo stesso luogo dove ora sorge l’attuale chiesa di San Pietro. Si fecero partite di caccia nei parchi imperiali dove i cristiani erano le prede, cusciti nelle pelli delle bestie feroci, poi dovevano venire sbranati dai molossi. Si riprodussero le più scabrose scene mitologiche o le più barbare, dove le cristiane nella parte di comparsa erano esposte ad ogni oltraggio. E alla sera, lungo i viali popolati da una gentaglia abbrutita, Nerone con la livrea da cocchiere guidava il suo carro, mentre le torce illuminavano esseri viventi, cristiani, che bruciavano cosparsi di pece e di resina.

Di quella notte del 15 agosto 64, San Clemente Romano, futuro Papa che ne fu testimonio oculare, conservò un indimenticabile ricordo di orrore che ci testimonia. E un altro testimone, e un altro storico di parte pagana Tacito, confessa che un attale eccesso di atrocità attirò da parte delle coscienze rette, una forte compassione verso i cristiani.

San Pietro e San Paolo morirono nel corso delle terribili persecuzioni promosse da Nerone, assieme a migliaia di altri cristiani. Ma oggi sulla tomba di Pietro sorge la Basilica madre della cristianità, a lui intitolata, e nello stesso luogo dove Nerone cercò di soffocare per sempre la voce di Pietro, le parole dei suoi successori continuano ancora oggi ad essere rivolte al mondo.

Dopo la morte di Nerone seguì per i cristiani un periodo di quiete fino a un nuovo imperatore, Domiziano. Siamo attorno al 90 d.C. e la fede cristiana in 27 anni dalla morte di Nerone ha molto allargato le sue posizioni estendendosi questa volta fino ai vertici della scala sociale.

E questa volta i primi colpiti tra i cristiani furono proprio gli appartenenti alla aristocrazia. Flavio Clemente, sospettato da molto tempo per la sua inerzia in materia di culto ufficiale, il culto che doveva essere reso agli dei pagani all’Imperatore.

Flavio Clemente che, dice Svetonio, fu mandato a morte per un leggerissimo sospetto e poi sua moglie Domitilla Flavia che fu relegata nell’isola di Pandataria, il cui nome designa ancora oggi una delle più importanti catacombe di Roma, quelle di Santa Domitilla.

Domitilla e il marito appartenevano all’agenza Flavia, che era la più nobile di Roma, erano cugini di Domiziano, ma questo non valse a risparmiarli e neppure fu risparmiato uno degli esponenti migliori, migliori per rettitudine e valore dell’aristocrazia romana del tempo, il console Acilio Glabrione, il cui cimitero di famiglia sulla via Salaria dove sono ora le catacombe di Priscila, è considerato una delle più antiche necropoli cristiane.

Mallio Acilio Glabrione era un senatore romano, console nell’anno 91, fu sospettato dall’imperatore Domiziano di essere cristiano e fu fatto uccidere. Ed Eusebio nella storia ecclesiastica dice che Domiziano nutriva per lui un rancore invidioso soprattutto da quando, avendolo chiamato ai giochi invernali sul monte Albano, lo aveva costretto a combattere con un enorme leone e Glabrione non solo non ne aveva riportate ferite ma era riuscito ad ammazzarlo. Questi erano i cristiani, schiavi o aristocratici, donne inermi e uomini capaci di uccidere a mani nude un leone.

E fu in questo periodo che Domiziano esiliò l’evangelista Giovanni, San Giovanni, nell’isola di Patmos e addirittura fece cercare Domiziano in Palestina ai discendenti di colui che si era detto re dei Giudei fino al punto di far trasferire a Roma, prelevare dalla Palestina, e portare a Roma i figli dell’Apostolo Giuda per interrogarli sulla discendenza del re di Giudei, cosa che ovviamente non portò a nessun risultato.

Siamo alla fine del primo secolo e un odio profondo già circondava i cristiani, un odio alimentato soprattutto dai circoli degli ebrei e dei pagani. Era un odio senza precise motivazioni, la voce dell’opinione pubblica, non sempre questa voce è quella di Dio, tanto meno è quella della ragione e del buon senso, e accadeva che i riti cristiani, conosciuti evidentemente molto male anche perché i cristiani tenevano una certa riserva nei confronti dei loro riti, non era propriamente un segreto, ma erano riti che non venivano diffusi a chiunque.

Questi riti venivano intenzionalmente interpretati nel modo peggiore e le accuse contro i cristiani a proposito delle loro pratiche religiose già lanciate da quei giudei che avevano perseguitato e crocifisso Gesù furono le più diverse, le più oltraggiose, sono esposte da Minuccio Felice nel suo Ottavio, da Tertulliano nell’Apologeticum, da Atenagora, da Tertulliano nell’ Apologeticum, nella sua supplica per i cristiani.

Quali erano queste accuse di volte cristiani? Li accusavano di ateismo perché rifiutavano di sacrificare agli dei di Roma, li accusavano di incesto per la familiarità che dicevano che esisteva tra di loro, perché si chiamavano tra di loro fratelli/sorelle, per il bacio di pace che si davano nelle assemblee cristiane, cosa che faceva pensare a relazioni incestuose, poi erano accusati di adorare una testa di asino, di adorare i genitali dei loro sacerdoti, di scannare un bambino e di berne il sangue nel rito dell’iniziazione cristiana, di non avere altari, templi, di radunarsi di nascosto, in ultima analisi di essere la causa delle calamità e delle disgrazie dell’Impero.

E anche il sacrificio eucaristico con le parole — Questo è il mio Corpo. Questo è il mio Sangue — facevano diffondere la voce che si trattava di pratiche di antropofagia e invano tutti gli apologeti, Giustino, Atenagora, Tertulliano, tanti altri smontavano queste accuse assurde, le calunnie continuavano a circolare, ad ampliarsi.

Controbatte continuamente i numerosi che accusano i cristiani di adorare un asino, una croce, il sole e racconta come nella stessa Cartagena fosse stato esposto in pubblico un quadro che rappresentava il Dio dei cristiani con orecchi d’asino, piede di caprone, libro alla mano e indosso in una toga.

E Tertulliano scrive se il Tevere straripa, se il Nilo non allaga le campagne, se il cielo è chiuso, se la terra trema, se capita una carestia, una guerra, una peste, allora si alza subito un grido ai cristiani, ai leoni, a morte i cristiani. E aggiunge Tertulliano, la maggior parte degli uomini ha dedicato al nome cristiano un odio talmente cieco da non essere capace di rendere una testimonianza favorevole a un cristiano senza mescolarvi il rimprovero di portare questo nome. Dice uno: che uomo onesto è quel Gaio Seio, peccato che sia cristiano! Aggiunge l’altro, da parte mia trovo strano che Lucio Tizio, un uomo così illuminato, sia immediatamente divenuto cristiano. Nessuno, continua  Tertulliano, si domanda se Gaio non sia onesto e lucido o illuminato proprio perché sono cristiani, e se non sono divenuti cristiani proprio per il fatto che uno è onesto e l’altro illuminato.

Abbiamo detto che tra i primi accusatori dei cristiani erano stati gli ebrei e dobbiamo ricordare che anche gli ebrei veneravano come i cristiani un Dio unico, ma benché il simulacro del loro Dio non figurasse nel Pantheon come non figurava il Dio dei cristiani, però gli ebrei venivano accettati a differenza dei cristiani perché rappresentavano una nazione, per la quale Roma aveva promulgato leggi di tolleranza. Invece i cristiani in questo momento non erano e non sarebbero mai stati una nazione, proprio perché il messaggio cristiano era un messaggio universale, i cristiani erano solo sudditi di Roma e la maggior parte di loro, almeno fino all’editto di Caracalla del 212, che fu un edito grazie al quale tutti i sudditi dell’Impero potevano divenire cittadini romani, fino a quel momento, quindi nei primi due secoli, la maggioranza dei cristiani che non vivevano a Roma era priva della cittadinanza romana.

Abbiamo parlato delle voci, delle calunnie che circondavano i cristiani, erano naturalmente accuse di natura non giuridica e sappiamo che i romani invece avevano una mentalità molto giuridica, quindi queste accuse non erano tali da portare alla condanna e alla morte dei cristiani, occorreva dare un fondamento giuridico alle accuse e questo fondamento fu riassunto in una formula semplice che oggi è conosciuta con il nome di inastitutum neuronianum, cioè un decreto, un istituto dovuto a Nerone, una formula che si compendiava in queste parole, in questo aforisma giuridico: Christianus esse non licet, non è permesso di essere cristiani, punto e basta; con questa frase diceva tutto. Dal punto di vista giuridico nell’Impero Romano non è permesso essere cristiani. In seguito ci sono stati studiosi che hanno voluto dimostrare che i cristiani furono perseguitati non per motivi religiosi ma per motivi civili, a causa di una legge che esisteva contro i delitti di lesa maestà contro l’Imperatore, oppure che venivano perseguitati per motivi di tranquillità sociale, per motivi di ordine pubblico, ma in realtà dobbiamo dire da un punto di vista storico che la ragione di fondo primaria e unica della persecuzione dei cristiani fu religiosa. Era il nome stesso di cristiano che era condannato.

Va ricordato, per capire questo, che la religione romana era, a differenza delle altre religioni, una religione essenzialmente politica, perché l’Impero romano era un impero politico e regolare il culto pubblico degli dei, indipendentemente dalla religione privata dei cittadini, quindi distingueva fra la religione privata e la religione pubblica di Roma. Ebbene il Cristianesimo fu accusato, i cristiani vennero accusati di ateismo perché negavano la religione della “Dea Roma” che era incarnata dall’Imperatore a cui tutti dovevano rendere omaggio e venerazione. L’Impero romano lasciava libero a tutti i cittadini di adorare altri numi, altri dei, purché si adorasse, prima di tutto, Roma e Cesare, altrimenti se si rifiutava di adorare l’Imperatore si compiva un delitto di sacrilegio e di lesa maestà.

E questo fin da quando Augusto, il primo imperatore, aveva fatto divinizzare il suo padre adottivo, Cesare, con un decreto del Senato, poi una venerazione divina per loro stessi fu pretesa dagli imperatori Caligola, da Domiziano e pressoché da tutti gli altri, cioè a un certo punto si impose il culto dell’Imperatore come espressione della lealtà politica e religiosa. I cristiani non si opponevano, non si opposero perché ritenevano che questo potere derivasse da Dio, ma si opponevano alla divinizzazione del potere, perché Gesù aveva detto date a Dio quel che è di Dio e a Cesare quel che è di Cesare, e l’Impero romano arrogava a se stesso i diritti di Dio, cioè pretendeva di autodivinizzarsi. E quindi questo è il motivo che spiega e che fonda il capitolo delle persecuzioni contro i cristiani.

La posizione giuridica del cristianesimo fu definita per la prima volta nell’Impero nell’anno 112 attraverso una corrispondenza che fu tra l’Imperatore e il suo legato imperiale in Bitinia, Plinio il Giovane. Noi abbiamo ancora oggi uno scambio di corrispondenza, una lettera di Plinio il Giovane a Traiano e poi la risposta di Traiano a proposito del Cristianesimo, di come trattare i cristiani. È un documento molto importante per capire la natura delle persecuzioni. La questione che Plinio pone all’Imperatore, al suo superiore, è questa, gli chiede: ma è il nome stesso di cristiani che si deve punire? Questa è la domanda, e in questo caso però, come mi devo regolare? Devo mandare a morte solo quelli che si dicono cristiani o anche quelli che poi a un certo punto vengono arrestati come cristiani, però poi rinnegano la loro fede e la loro dottrina? Non è una domanda secondaria, Plinio pone questa domanda perché in questa provincia orientale, la Bitinia, il numero dei cristiani era molto grande e lui comprendeva che una certa clemenza, una certa politica di tolleranza verso i cristiani era necessaria. E allora riteneva che la politica migliore fosse quella di arrestare i cristiani e di spingerli all’apostasia, cioè ad abbandonare la Fede. Quindi il suggerimento che qualche modo dava all’Imperatore era questo: va bene arrestiamoli, però se rinnegano la loro fede risparmiamogli, perché una politica di questo genere forse potrebbe rendere più sicura la pace sociale e religiosa della provincia.

La lettera di Plinio è articolata, ma la risposta di Traiano è molto breve, pochi punti in cui fissa la linea di condotta che il suo funzionario dovrà seguire ma che sarà quella che poi seguirà tutto l’Impero nei due secoli seguenti. Cosa risponde Traiano? Non bisogna ricercare i cristiani, ma se essi sono denunciati e si confessano tali, siano castigati. Se tuttavia qualcuno nega di essere cristiano e lo prova supplicando i nostri dei, ottenga il perdono. Questa è la regola che dà Traiano. Cioè, dice, non dobbiamo promuovere le ricerche dei cristiani, però una volta che essi fossero stati denunciati o riconosciuti come tali, avrebbero dovuto essere processati e condannati. Però, offrendo loro il perdono, se avessero appostatati, cioè se avessero rinnegato la loro fede.

Ora dobbiamo riflettere su questa formula, perché al di là di una certa clemenza dimostrata da Traiano rispetto ai suoi predecessori, Traiano sicuramente è più clemente di Nerone o di Domiziano, però resta chiaro che il fondamento giuridico delle persecuzioni, stava nel solo fatto di dirsi cristiani. Attenzione, non nell’essere cristiani, non nel vivere da cristiani, ma nel dirsi, cioè nel proclamarsi, nel dire: io sono cristiano. E perché questo? perché bastava dire il contrario, bastava negare di essere cristiano e nel momento in cui uno diceva: no, non sono cristiano, non seguo Cristo; e dicendo queste parole rinnegava la propria fede e di conseguenza sacrificare all’Imperatore. Bastava questo per ottenere il perdono.

Cioè, che cosa significava questo? Che i cristiani non è che erano puniti perché si comportavano male, perché commettevano dei delitti, perché nella loro condotta c’era qualcosa di censurabile, perché se così fosse stato avrebbero dovuto essere puniti sia che si fossero detti cristiani sia no, ma semplicemente ciò che era punito era il nome di cristiano. E questo Tertulliano lo osserva in una frase ironica. Dice Tertulliano che il cristiano deve essere punito non perché colpevole, ma perché scoperto, sebbene non si avesse dovuto ricercarlo, non si deve ricercarlo se poi però lo si scopre, lo si deve colpire, ma siccome si condannava il nome e non i crimini eventualmente riconducibili a quel nome, cioè il nome cristiano, bastava rinnegare il nome per ottenere il perdono. E questo era qualcosa che riguardava solo i cristiani, perché i romani avevano un codice penale molto rigoroso e non accadeva a nessuno che avesse compiuto dei crimini e poi fosse perdonato semplicemente perché diceva no, mi sono sbagliato.

Tutto questo per dire e per sottolineare come, fin dai primi secoli della Chiesa, il fondamento delle persecuzioni che si sviluppano contro i cristiani sono legati soprattutto, se non addirittura solo alla professione della fede a dirsi cristiani. Tutto era tollerato nella civiltà sincretistica dell’Impero del II e del III secolo, nel Pantheon erano ospitate tutte le religioni, l’unica religione interdetta proibita era quella che si proponeva in termini, diciamo, di verità di questa, non doveva essere professato neppure il nome.

La politica di Traiano, il suo rescritto, ciò per cui si proibiva il nome stesso dei cristiani, cioè per cui non era lecito essere, o meglio, non era lecito dirsi cristiani, ecco questa formula guidò i successori di Traiano nei 150 anni successivi. Questo che cosa significava? Che dipendeva dagli imperatori applicare con maggiore o minore severità la legge, nel senso che Traiano diceva che non bisogna ricercare i cristiani, c’era chi li ricercava di più, c’era chi li ricercava di meno.

Sotto questo aspetto ogni cristiano era, potremmo dire un candidato, al martirio, perché sapeva che sul suo capo incombeva una condanna a morte, anche se questa condanna non era sempre comunque applicata. Dipendeva appunto dagli imperatori applicare con maggiore o minore severità la legge. E questo spiega come i primi tre secoli furono sì un’epoca di persecuzioni, ma non di persecuzioni sistematiche quotidiane; cioè ci furono periodi di maggiori persecuzioni ma anche periodi di maggiore tranquillità in cui le autorità romane lasciavano i cristiani liberi di condurre la propria vita, malgrado fosse proibito professarsi cristiani.

Accettavano le istituzioni romane, pregavano per l’Imperatore, per il potere costituito, pregavano, non sacrificavano all’Imperatore, pagavano le tasse, rispettavano le leggi dello Stato, vivevano pubblicamente, quindi la Chiesa dei primi tre secoli non dobbiamo immaginarla come una Chiesa nascosta o clandestina, i cristiani erano conosciuti più o meno come quindi erano note le autorità, chi erano i capi dei cristiani, vescovi, sacerdoti. Per esempio, alla metà del secondo secolo, il filosofo cristiano Giustino teneva aperta una pubblica scuola a Roma, pubblicava i suoi scritti come gli altri apologisti e Giustino poteva indirizzare le sue apologie; a Marco Aurelio, a Antonino Pio, a Lucio Vero, a diversi imperatori prima di essere poi arrestato e ucciso per la sua fede.

I cristiani vivevano nelle proprie famiglie, esercitavano le loro professioni come ogni cittadino, avevano le loro funzioni religiose e si radunavano nei loro luoghi di culto che erano modesti, non vivevano nelle città.

Le catacombe non erano luoghi nascosti dove i cristiani si nascondevano, le catacombe erano semplicemente aree sepolcrali dove i cristiani venivano sepolti, perché i cristiani seguivano il rito della inumazione, cioè della sepoltura e non quello dell’incinerazione dei loro corpi, che potremmo dire oggi della cremazione. Fin dall’inizio rifiutavano la cremazione dei loro defunti, ed è per questo che avevano questi cimiteri sotterranei, che più tardi furono definiti catacombe, dal greco kata kumbas che significa ad specus, e il diritto romano riconosceva a tutti indistintamente, anche ai condannati, quindi anche ai cristiani condannati, l’ius sepulchri il diritto di seppellimento, e quindi il giudice poteva far consegnare le spoglie di un condannato a morte per la sepoltura a chiunque le richiedesse.

Quindi l’età delle persecuzioni, iniziata con Nerone e proseguita con Domiziano e Traiano, conobbe fasi alterne nell’arco di tre secoli. Vale la pena, sia pure in maniera breve e sintetica, ricordare alcune di queste fasi.

Fu l’africano Settimio Severo, imperatore tra la fine del II secolo e l’inizio del II secolo, che emanò per primo un decreto per il quale si proibiva la conversione al Cristianesimo, sotto di lui. Sotto Settimio Severo fu chiusa la celebre scuola cristiana di Alessandria e vennero martirizzati molti cristiani tra i quali a Cartagena,  Perpetua e Felicita. L’editto anticristiano di Severo fu applicato anche sotto il figlio, Caracalla, specialmente in Africa.

Fu il suo successore, Alessandro Severo, ma poi dopo la morte di Alessandro Severo nel 235, quindi una 15-20 anni di tranquillità, l’Imperatore Massimino il Trace, anno 235, fu il primo di lunga serie di imperatori soldati che pretese di distruggere la Chiesa, condannando a morte con editti vari i vescovi, i presbiteri, i dottori. Nel 249 dopo una breve parentesi di un imperatore cristiano, Filippo l’arabo, arabo ma cristiano, tra il 244 e il 249 i militari portarono al potere un altro imperatore, Filippo il Marconi, l’anticristiano Decio.

Decio si propose di far scomparire ogni traccia di Cristianesimo dall’Impero e dunque istituì in ogni città, in ogni provincia delle commissioni apposite dedicate a perseguire i cristiani ed emanò nell’anno 250 un edito con il quale ordinava che tutti i cittadini dell’Impero bruciassero obbligatoriamente l’incenso davanti alle divinità, partecipassero a questi banchetti di venerazione dell’Imperatore e delle divinità pagane in cerimoni apposite che dovevano svolgersi pubblicamente davanti alla pubblica autorità, chi si opponeva che non partecipava era imprigionato e sottoposto a ogni sorta di sevizia fino alla morte. Non immediatamente condannato, perché in realtà quello che Decio voleva ottenere ad ogni costo più che la morte, era l’apostasia dei cristiani, il rinnegamento attraverso le torture della loro fede.

E se molti testimoniarono con il martirio, altri si sottrassero con la fuga, però ricordiamo anche coloro che apostatarono, ma poi, dopo aver apostatato la fede, dopo aver negato la fede si pentivano della loro apostasia e volevano e ritornavano cristiani, e allora nacque quello che allora si chiamò il problema dei lapsi, che erano proprio questi cristiani che tornavano al Cristianesimo dopo l’apostasia.

Da questo momento le persecuzioni, sono gli ultimi 50 anni del III secolo, si svolsero in maniera sistematica, in maniera generalizzata; molti furono i papi da Fabiano, Cornelio, Lucio, che morirono sotto queste, o nelle persecuzioni o in esilio.

Un altro imperatore, Valeriano, si propose di colpire i capi della Chiesa, quindi i vescovi soprattutto, convinto che distrutti vertici si sarebbe persa, dissolta anche la base e quindi emanò un nuovo editto, nel 258, con il quale era combinata la pena capitale ai capi delle Chiesa, ai vescovi e anche ai nobili cristiani e si vietavano tutte le riunioni di culto di qualunque sorte, e in qualunque luogo si facessero. Un Papa, San Sisto II, nel 261, fu sorpreso mentre celebrava una messa, presiedeva una cerimonia liturgica nelle catacombe di San Callisto e fu immediatamente decapitato con i quattro diaconi che lo assistevano.

Sotto Lorenzo,  sottoposto al martirio della Graticola e sepolto poi al Verano, nella Basilica di San Lorenzo al Verano, sulla via Tiburtina, ci fu poi una tregua quando un imperatore, Gallieno, revocò l’editto del padre Valeriano contro i cristiani, ma alla fine del III secolo l’Imperatore Diocleziano Dalmata, imperatore dal 284 al 305, scatenò quella che fu l’ultima e la più violenta persecuzione contro i cristiani. Nel 297 fu decisa l’epurazione dall’esercito di tutti i cristiani; non si poteva essere cristiani ed essere soldati o ufficiali. Tenendo che l’Impero romano era soprattutto un impero si possono immaginare le conseguenze di questo editto.

Poi uscirono altri editti. Un primo editto ordinava la distruzione delle chiese dei cristiani, mentre tutti i nobili cristiani venivano privati della loro dignità, i plebei venivano privati della libertà. Poi con altri editti di Diocleziano, il clero, tutto il clero venne arrestato e costretto a sacrificare, pena il martirio. E, finalmente, un quarto edito, nel 304, dispose che tutta la popolazione dell’Impero dovesse offrire un sacrificio, quindi ogni cittadino doveva offrire un sacrificio agli dei, pena la morte. E questa è stata forse la più terribile persecuzione in cui sono morti Sebastiano, Pancrazio, Agnese, Pancrazio, Proto e Giacinto, Pietro Marcellino. Non abbiamo tempo ma sarebbe bello parlare del martirio di ognuno di questi santi.

Era l’anno 304, il Cristianesimo sembrava dover ormai finire sotto questa terribile persecuzione, chi mai avrebbe potuto immaginare che sei anni dopo un altro imperatore, Costantino, avrebbe restituito libertà, libera cittadinanza ai cristiani, e l’epoca delle persecuzioni sarebbe finita con l’editto di Milano di Costantino e una nuova epoca per la Chiesa si sarebbe aperta. Ma di questo parleremo un’altra volta, quello che vogliamo sottolineare è questo, che i martiri dei santi di cui stiamo parlando non sono delle pie leggende, ma sono dei fatti storici documentati su cui abbiamo delle fonti non solo di parte cristiana ma anche di parte pagana.

Le relazioni più veritiere, più interessanti per noi sono quelle di origine cristiana che sono normalmente in tre gruppi, cioè abbiamo i cosiddetti act, gli atti che sono appunto i verbali ufficiali dei processi, quindi documenti pubblici. Poi abbiamo i martiri o le passiones, che sono dei documenti di carattere privato, sempre risalenti a quel periodo. E poi abbiamo invece le cosiddette Gesta che sono delle narrazioni successive, cioè delle narrazioni storiche che sono state fatte dopo la fine delle persecuzioni. Queste sono, diciamo, di parte cristiane, ma poi abbiamo tutte le fonti letterarie pagane da Tacito a Svetonio.

I martiri davano la loro testimonianza a Cristo in due modi: con la parola e con il sangue. Perché non solo con il sangue ma anche con la parola, perché approfittavano dell’occasione del loro processo per testimoniare pubblicamente la loro fede, per gridare pubblicamente, proclamare la loro fede. Talvolta si trattava di un’affermazione semplicissima come quella intesa dalle labbra dei martiri africani: io sono cristiano. Eppure, la richiesta dell’identità: Come ti chiami, qual è il tuo nome cristiano? Ciò basta, non c’è bisogno d’altro, era la morte.

Qualche volta si tratta di un atto di fede più esplicito, qual è quello di San Giustino. Abbiamo parlato prima di San Giustino a Roma, ucciso nel 163: “Noi adoriamo il Dio dei cristiani; crediamo che il Dio unico, creatore fin dall’origine e ordinatore di ogni creatura visibile e invisibile. Crediamo nel Signore Gesù Cristo, figlio di Dio, annunciato dai profeti, inviato per salvare gli uomini, Messia redentore, maestro di sublime lezioni”. È una proclamazione di fede.

E poi il martirio del sangue. Per quanto riguarda questo aspetto, forse è il martirio più celebre, più significativo, è quello di Sant’Ignazio di Antiochia. Ignazio, condannato ad Antiochia con due suoi compagni, Rufo e Zosimo, fu mandato a Roma per essere divorato dai leoni, ma conoscendo il destino che lo attendeva, manifestò un fervore, un entusiasmo per la sorte che lo attendeva che umanamente non si può spiegare, cioè si può dare solo dare una spiegazione soprannaturale, un aiuto speciale dello Spirito Santo. Scriveva ai cristiani di Smirne: “Sotto la lama del carnefice o fra le bestie feroci, e vicino a Dio, che io sarò sempre” E di fronte alla sorte più spaventosa che si poteva immaginare in quel tempo, quella di essere sbranato dai leoni, come accadde, scriveva: “Poiché l’altare è pronto lasciate che io compia il mio sacrificio, lasciate che io sia preda delle belve e mediante esse che io raggiungerò Dio. Io sono il frumento di Dio, per diventare il pane bianco di Cristo bisogna che sia macinato dalla dente delle fiere”. Così si esprimevano i martiri. E la Leggenda dorata, che era un libro molto popolare nel Medioevo, interpretando il soprannome di Teoforo, che avevano dato a Ignazio, lo aveva portato tutta la vita a questo nome di Ignazio, Teoforo, affermerà che aprendo il suo cuore, dopo la morte vi si trova in lettere d’oro, il nome di Cristo. Mezzo secolo dopo, sotto il regno dell’imperatore Antonino, morì un altro grande santo e vescovo d’Oriente, Policarpo.

Policarpo che aveva conosciuto Ignazio d’Antiochia e ne aveva raccolto le lettere, ne aveva meditato l’esempio e ne conosce lo stesso destino, e sul processo di Policarpo, sulla sua morte, possediamo molte notizie. Per una lettera che la comunità di Smirne, di cui era vescovo, mandò ai fratelli di Frigia in seguito alla loro richiesta, perché volevano sapere che cosa era accaduto. Policarpo era un vecchio ottuagenario, aveva quasi novant’anni, ma non c’è limite di età per rendere testimonianza allo Spirito, e anzi Dio spesso dona proprio ai più deboli la forza di combattere.

Ci viene proprio trascritto il colloquio con il proconsole che lo incalzava. “Abiura, giura e io ti lascio libero: insulta Cristo!”. E Policarpo risponde: “Sono 84 anni che lo servo e non mi ha mai fatto del male, perché dunque bestemmierei il mio Re, il mio Salvatore?”. “Giura per la fortuna di Cesare”. “Tu mi lusinghi e speri di persuadermi. In verità, te lo dichiaro: sono cristiano”. “Io ho delle fiere a mia disposizione”. “Dai i tuoi ordini. Noi, quando cambiamo, non cambiamo dal meglio al peggio. È bello passare dal male alla giustizia”. E il proconsole: “Se tu non ti penti, ti farò perire su di un rogo dato che sdegni le fiere”. E Policarpo: “Tu mi minacci con un fuoco che brucia un’ora e poi si spegni, ma conosci tu il fuoco della giustizia che deve venire? Conosci il castigo che divorerà gli empi? Via, non tardare. Decidi come ti piace”. E quel giorno stesso Policarpo fu ucciso e si uni a Sant’Ignazio e a tutti gli altri martiri in Paradiso.

Ascoltiamo un altro bellissimo testo, quello invece della passione di Perpetua e Felicita.

Perpetua era una giovane donna di nobile nascita che, quando viene arrestata, sotto l’accusa di essere cristiana ha ancora suo padre e sua madre, due fratelli, di cui uno è catecumeno, e porta un piccolo bambino al petto. Il vecchio padre di Perpetua è un pagano convinto e moltiplica gli sforzi per ricondurre la figlia alla religione tradizionale.

Il padre accorre in fretta a trovarla — ed è interessante perché fa vedere il contesto in cui vivevano i cristiani in quel momento, i problemi che avevano anche con le proprie famiglie. E il padre le dice: “Figlia mia, abbi pietà dei miei capelli bianchi, abbi pietà di tuo padre, se sono ancora degno che tu mi chiami padre. Se è vero che queste mani ti hanno allevato fino al fiore dell’età. Se, fra tutti i miei figli, sei tu la preferita, non mi consegnare all’irrisione del mondo, pensa ai tuoi fratelli, a tua madre, a tua zia, a tuo figlio che non potrebbe vivere senza di te. Ritorna sulla tua decisione e non far perdere l’intera famiglia. Nessuno di noi avrà infatti il diritto di parlare da uomo libero se tu sarai condannata”. Ecco, è Perpetua che racconta questo; ecco dice Perpetua: “Ciò che diceva mio padre nel suo affetto, e al tempo stesso mi baciava le mani, si gettava ai miei piedi, non mi chiamava più figlia, ma signora, e io soffrivo nel vedere mio padre in questo stato, solo di tutta la mia famiglia non gioiva per la mia passione. Io cercavo di consolarlo dicendogli, sul palco del tribunale: Avverrà ciò che Dio vorrà, sappilo, noi non siamo padroni di noi stessi, ma apparteniamo a Dio”. Un altro giorno il povero padre pagano si presentò al tribunale col bambino di Perpetua in braccio e insiste: “Abbi pietà dei capelli bianchi di tuo padre e della giovinezza del tuo bambino, sacrifica per la salvezza degli imperatori”.

Ma Perpetua continua a dichiararsi cristiana e il padre le resta al fianco, non si muove, allora l’autorità imperiale scaccia il padre, lo fa colpire con un colpo di verga per allontanarlo dalla figlia e Perpetua dice: “Questo colpo ricevuto da mio padre mi ferisce come se fossi stata colpita io, tanto soffrivo per questo padre già vecchio e così disgraziato”. Fino al giorno del supplizio, in cui un’ultima volta il vecchio padre viene a rivedere la figlia, e Perpetua dice: “Il dolore lo struggeva, nel suo dolore si strappava la barba, si gettava per terra, si prosternava con il viso contro il suolo, malediceva ai suoi anni e trovava parole che avrebbero sconvolto chiunque. Io piangevo sulle disgrazie della sua vecchiaia”. È molto significativo perché fa vedere che l’affetto così forte per il padre, l’affetto per il figlio non valgono a allontanare, a sviare Perpetua dalla via di testimonianza e di fedeltà a Cristo, che ella ha scelto.

Perché nella concezione cristiana il martirio è il più perfetto atto di carità, perché ci fa perfetti imitatori di Gesù, secondo quelle che sono le parole del Vangelo: avendo Gesù, Figlio di Dio, manifestato la sua carità dando per noi la sua vita, nessuno ha più grande amore di colui che dà la sua vita per Lui e per i suoi fratelli. E Gesù ha tante espressioni di questo genere, nel grande discorso per la missione degli Apostoli dice: “Io vi mando come pecore in mezzo ai lupi”. E dice: “Guardatevi dagli uomini, perché vi trascineranno nei tribunali e vi flagelleranno nelle loro sinagoghe”. E dice anche: “Sarete condotti per causa mia davanti ai governatori e ai re per rendermi testimonianza davanti a loro e davanti ai gentili”.  Ecco soprattutto queste parole — rendere testimonianza — questo è l’aspetto più significativo del martirio che raggiunge il suo apice, nella professione della frase: Christianum sum.

Abbiamo visto che il fondamento giudico delle persecuzioni sta nella proibizione di dirsi cristiani e nella professione di fede: “Sono cristiano” sta il culmine della testimonianza, l’essenza del martirio, una testimonianza che deve essere resa pubblicamente, non solo privatamente, ma pubblicamente fino al punto dell’effusione del sangue per confermare la testimonianza di colui, Gesù, che era nato, dice il Vangelo di Giovanni, è venuto al mondo per rendere testimonianza alla verità. E questo aspetto, la testimonianza della Verità, non è un aspetto secondario ma direi fondamentale, perché quello che rende il martire è tale, non è la morte violenta, ma è il fatto che la morte sia inflitta in odio alla verità cristiana. Cioè il martire, per essere considerato tale, deve essere messo a morte a motivo della sua fedeltà a uno di quei principi di fede o di morale di cui la Chiesa è custode e maestra.

Sant’Agostino dice non è la morte che fa il martire, ma è il fatto che la sua sofferenza e la sua morte siano ordinate alla verità. E c’è un’unica verità: è la verità di Cristo. La morte subita per testimoniare la verità, per essere fedeli a Cristo, è il martirio, è l’unico martirio. Oggi la parola “martirio” si usa per indicare la sofferenza e la morte di tante persone che però non hanno offerto la loro vita per la verità di Cristo, per la verità della Chiesa. E invece ancora oggi esistono verità, esistono valori morali, per i quali si deve essere disposti a dare anche la vita.

È una simile testimonianza — questa volta sono parole di Giovanni Paolo II —, questa testimonianza della verità, che non è necessariamente una testimonianza cruenta, ma può essere una testimonianza nel posto di lavoro, nella famiglia, in pubblico, ovunque ce ne sia l’occasione, offre — dice Giovanni Paolo II — offre un contributo di straordinario valore, perché non si precipiti nella crisi più pericolosa che può affliggere l’uomo, la confusione del bene e del male: quella confusione che rende impossibile costruire e conservare l’ordine morale dei singoli e delle comunità. I martiri — dice ancora Giovanni Paolo II — e più ampiamente tutti i santi nella Chiesa, con l’esempio eloquente e affascinante di una vita totalmente trasfigurata dallo splendore della verità morale, illuminano ogni epoca della storia risvegliandone il senso morale.

Ma questa testimonianza, il martirio, come ogni sofferenza presuppone il combattimento; lo abbiamo detto all’inizio e mi piace ripeterlo avviandosi verso la conclusione della nostra conversazione. La vita del cristiano è lotta. Questo è uno dei concetti che risuona più spesso nel Vangelo. Il Vangelo stesso, la parola “Vangelo” nel suo significato originale, e significa “annuncio di vittoria militare”. Dice San Paolo: Non sarà coronato se non colui che avrà legittimamente combattuto.

Ma l’epopea dei martiri dei primi tre secoli di cui abbiamo parlato questa sera ci mostra l’intima unione che deve esistere tra lo Sposo e la Sposa, tra Cristo e la Chiesa, che è il suo Corpo mistico. San Paolo dice che il marito deve amare la moglie come Cristo ha amato la Chiesa. Ebbene la massima espressione dell’amore è offrire la vita per l’amato: Gesù l’ha fatto per la Chiesa. E i primi membri della Chiesa, gli Apostoli, i loro successori, hanno voluto fare lo stesso per Cristo. Ed è in questo amore, in questo sacrificio che sta la fecondità della Chiesa, che attraverso il sangue dei martiri generò migliaia di cristiani e iniziò da allora la sua conquista del mondo, perché dopo tre secoli di persecuzioni iniziò l’altrettanto irresistibile scesa della Chiesa di Cristo. E nella persona del suo vicario, del vicario di Cristo, il Papa, Gesù Cristo, iniziò a regnare in quella stessa città di Roma in cui si era stabilito il più grande impero della storia e l’impero che con maggior ferocia aveva perseguitato il Cristianesimo.

Questa lezione della storia è come viva e presente qui a Roma, è il Colosseo, l’anfiteatro dei Flavi costruito da Vespasiano che oggi è una meta turistica, ma un tempo era un luogo di meditazione, dove San Leonardo di Porto Maurizio fece erigere una grande croce in ricordo dei cristiani martirizzati e dove Santa Teresina del Bambin Gesù, bambina in visita a Roma, s’inchinò a baciare la terra del Colosseo, quasi a cercare nelle solle di questa terra il profumo del sangue versato dai martiri. L’epopea dei martiri non è un episodio chiuso nel tempo, circoscritto nella storia.

Le persecuzioni accompagnano la vita della Chiesa fino alla fine dei tempi, fino all’ultima grande persecuzione che attende la sposa di Cristo, che è la persecuzione dell’anticristo. Quell’epoca che si concluderà con il ritorno di Cristo stesso in terra, che poi porterà in cielo con lui la Chiesa militante. E fino a quel giorno il compito dei cristiani è quello di combattere in difesa della verità che non muta, che è sempre la stessa. Ieri, oggi e sempre, perché è Cristo stesso via, verità e vita. Non una via, una verità, una vita, ma l’unica Verità che ci comunica, l’unica vera Vita che ci indica, l’unica sola Via.

E il martirio ci richiama a professare pubblicamente la nostra fede, un atto di fedeltà. L’esempio dei martiri ci spinge a farlo, a professare anche noi questa fedeltà fino alla morte alla parola di Cristo, quella parola da Lui trasmessa agli Apostoli e da questi loro successori. Fedeltà dunque alla Chiesa e alla sua Tradizione, una Tradizione che è la verità del Vangelo trasmesso fino a noi a voce e per scritto di generazione in generazione.

Noi siamo gli eredi dei cristiani dei primi secoli e dobbiamo imitarne lo spirito. Non è facile, non è sempre facile, ma dobbiamo chiedere questa grazia. Se essi furono fedeli, fu grazia allo Spirito Santo che li trasformò e che li santificò. E anche noi possiamo essere trasformati e santificati chiedendo, come loro facevano, l’intercessione della Madonna, Madre della Chiesa, Regina degli Apostoli e Regina dei martiri. E aiuto di tutti coloro che nel corso della storia. combattono la buona battaglia.

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