Una critica storica e teologica della politica di Papa Leone XIII nei confronti della Terza Repubblica francese.
di José Antonio Ureta (19-010-2021)
In un precedente articolo, ho chiarito il malinteso che ha portato alcuni tradizionalisti a incolpare gli ultramontani e un cosiddetto spirito del Vaticano I per la “papolatria” manifestata da alcuni cattolici, i quali credono che si debba obbedire al papa anche quando agisce contro l’insegnamento tradizionale della Chiesa. Dimostrerò ora che non furono gli ultramontani, ma i cattolici liberali, a spingere i limiti dell’infallibilità papale ben oltre quelli stabiliti dalla costituzione dogmatica Pastor Aeternus del Vaticano I. [Nota del redattore: nel XIX secolo, “liberale” si riferiva ai cattolici che volevano scendere a compromessi con il mondo liberale creato dalla Rivoluzione francese massonica. Questa terminologia e il suo significato sono simili ma anche diversi dal termine “liberale” come usato oggi in inglese per riferirsi agli ecclesiastici viventi.]
Questa deriva verso l’assolutismo iniziò con il ralliement (1884), una politica papale di adesione alla Repubblica che Papa Leone XIII impose ai cattolici francesi. I cattolici liberali, desiderosi di riconciliare la Chiesa con la modernità rivoluzionaria, accolsero con entusiasmo questa linea d’azione. Al contrario, i cattolici ultramontani sottolinearono i limiti del potere magisteriale del papa e si opposero alla sua indebita ingerenza negli affari temporali della Francia.
L’episodio è stato magistralmente analizzato dal professor Roberto de Mattei nel suo libro Le ralliement de Léon XIII – L’échec d’un projet pastoral (Il Ralliement di Leone XIII – Il fallimento di un progetto pastorale). Per evitare la separazione tra la Chiesa e lo Stato francese, Papa Pecci esortò i cattolici a unirsi alla Repubblica e a combattere le leggi anticlericali dall’interno del sistema. La diplomazia vaticana cercava di ottenere la benevolenza del governo francese per recuperare i territori che il Regno d’Italia le aveva sottratto.
La nuova politica di Leone XIII presentava due grandi difficoltà. In primo luogo, sfidava le convinzioni monarchiche della maggioranza del clero e del laicato francese. In secondo luogo, le elezioni francesi avevano portato al potere governi massonici e laicisti. Questi governi avevano introdotto il divorzio, espulso i Gesuiti, proibito a sacerdoti e religiosi di insegnare nelle scuole pubbliche, abolito l’istruzione religiosa nelle scuole e imposto il servizio militare agli ecclesiastici.
Papa Leone XIII era un intellettuale con solidi principi, ma di animo liberale. Credeva ingenuamente che l’anticlericalismo repubblicano potesse essere disinnescato convincendo i liberali che la Chiesa non si opponeva alla Repubblica, ma solo al suo laicismo. A differenza del papa, i fedeli francesi vedevano chiaramente che la scristianizzazione della Francia non era un elemento accessorio, ma la vera e propria raison d’être del regime repubblicano. Per questi cattolici, accettare la Repubblica significava acconsentire allo “spirito repubblicano”, cioè al pregiudizio egualitario e antireligioso dell’ideologia rivoluzionaria del 1789, che avrebbe così potuto permeare la società nel suo complesso.
Leone XIII scelse il cardinale Charles Lavigerie (1825-1892), arcivescovo di Algeri, come “intermediario autorizzato” tra Parigi e il Vaticano per attuare la politica del ralliement. Brindando a un ricevimento per gli ufficiali della flotta da guerra francese del Mediterraneo, riuniti ad Algeri nel 1890, li esortò ad accettare la forma di governo repubblicana, sostenendo che l’unione di tutti i buoni cittadini era il bisogno supremo della Francia e “il primo desiderio della Chiesa e dei suoi Pastori”.
Leone XIII si gettò nella mischia qualche mese dopo, concedendo un’intervista (la prima in assoluto di un pontefice) a un quotidiano parigino filogovernativo, Le Petit Journal. Dichiarò: “Ognuno può mantenere le proprie preferenze personali, ma sul campo d’azione non c’è che il governo che la Francia si è data. La repubblica è una forma di governo legittima come ogni altra”. La sua enciclica Au Milieu des sollicitudes [Sulle relazioni tra Stato e Chiesa in Francia] uscì tre giorni dopo, seguita a breve dalla Lettera Apostolica Notre consolation a été grande [La Nostra consolazione è stata grande]. In quest’ultima, il papa insisteva sulla sua idea di “accettare il potere civile così com’è di fatto, senza secondi fini e con quella perfetta lealtà che si addice al cristiano”.
Per i cattolici abituati a combattere la Repubblica massonica, questo voltafaccia pose un problema di coscienza. È simile a quello sollevato dal cardinale Joseph Zen e dai cattolici della Chiesa clandestina di fronte al nefasto accordo firmato tra la Santa Sede e il regime comunista cinese.
All’epoca, la maggioranza dell’episcopato francese riservò una fredda accoglienza alla politica del ralliement. Alcune eminenti figure ultramontane, come il vescovo Charles-Émile Freppel di Angers, si opposero apertamente. Il cardinale Lavigerie scagliò la prima salva di “magisterialismo”, l’errore di dare più importanza agli insegnamenti e ai gesti di un pontefice che a quelli della Tradizione. Scagliandosi contro quei cattolici “intransigenti” che pretendevano di seguire Pio IX per opporsi a Leone XIII, il cardinale dichiarò: “L’unica regola di salvezza e di vita nella Chiesa è stare con il papa, con il papa vivo. Chiunque egli sia.”[1]
La stessa istruzione giunse presto dalla penna stessa del papa. L’occasione fu una lettera del cardinale Jean-Baptiste Pitra, uno dei principali rappresentanti del “partito piano” (il partito di Pio IX), a un corrispondente olandese. Il destinatario pubblicò prontamente il testo ricevuto dal cardinale. Il suo passaggio più cruciale difendeva i giornalisti ultramontani ed elogiava l’espansione cattolica avvenuta sotto Pio IX, senza dire una parola sul suo successore. Fu allora scatenata una campagna stampa contro l’anziano cardinale, accusandolo di voler contrapporre la propria politica a quella di Leone XIII. Un giornale belga lo accusò persino di essere “il capo scismatico di una piccola chiesa che vuole fare la predica al papa, atteggiandosi a più papista del papa”. La stampa laica si unì ai giornali cattolici liberali nel chiedere che il cardinale fosse punito.
Su istigazione del cardinale Lavigerie, il papa pubblicò sull’Osservatore Romano una lettera indirizzata al cardinale-arcivescovo di Parigi. La missiva esigeva che i fedeli gli obbedissero in una questione esclusivamente politica che non aveva nulla a che fare con la fede, la morale o la disciplina ecclesiastica. Sarebbe un po’ come se Papa Francesco rendesse obbligatorie le sue convinzioni sull’immigrazione o sul cambiamento climatico. L’abuso di potere magisteriale manifestato nella lettera di Leone XIII meriterebbe di essere trascritto per intero. Tuttavia, ciò andrebbe oltre lo scopo di questo articolo. Citerò quindi le sue parti più significative (con i miei commenti in corsivo tra parentesi quadre).
“Non è difficile vedere che, forse a causa della sventura dei tempi, ci sono alcuni cattolici che, non contenti del ruolo di sottomissione che la Chiesa ha loro assegnato, credono di poterne assumere uno nel suo governo. O almeno immaginano che sia loro permesso di esaminare e giudicare gli atti delle autorità secondo il loro modo di vedere le cose. Questo sarebbe un grave disordine se gli fosse permesso di prevalere nella Chiesa di Dio, dove, per espressa volontà del suo divino Fondatore, sono stati stabiliti molto chiaramente due ordini distinti: la Chiesa docente e la Chiesa discente, i Pastori e il gregge, e tra i Pastori, uno che è il Capo e Pastore Supremo per tutti. Solo ai Pastori è stato dato il pieno potere di insegnare, di giudicare, di dirigere; ai fedeli è stato imposto il dovere di seguire questi insegnamenti, di sottomettersi con docilità a questi giudizi, di lasciarsi governare, correggere e condurre alla salvezza. [Sì, è vero in materia di fede, morale e disciplina ecclesiastica, ma per tutto il resto i fedeli sono liberi di avere opinioni personali.]
E per mancare a un dovere così sacro, non è necessario compiere un atto di aperta opposizione ai vescovi o al Capo della Chiesa: basta fare opposizione in modo indiretto, tanto più pericoloso quanto più si cerca di nasconderlo con apparenze contrarie. [Questo è un riferimento agli ultramontani, che erano i campioni dell’infallibilità papale.]
È anche una prova di sottomissione insincera stabilire un’opposizione tra un Sommo Pontefice e un altro Sommo Pontefice. [Suona familiare…] Coloro che, [scegliendo] tra due direzioni diverse, rifiutano quella presente e si attengono al passato, non mostrano obbedienza all’autorità, che ha il diritto e il dovere di dirigerli. Per certi aspetti, assomigliano a coloro che, dopo una condanna, vorrebbero appellarsi a un futuro concilio o a un papa meglio informato”. [Questo è un altro attacco agli ultramontani, che li accusa di essere conciliaristi.]
Mostrando un centralismo e un autoritarismo fino ad allora sconosciuti, Leone XIII aggiunse:
Ciò che si deve ritenere su questo punto, dunque, è che nel governo generale della Chiesa, a parte i doveri essenziali del ministero apostolico imposti a tutti i pontefici, spetta a ciascuno di essi seguire la regola di condotta che ritiene migliore secondo i tempi e le altre circostanze. In questo, egli è l’unico giudice, avendo in questa materia non solo intuizioni speciali ma anche una conoscenza della situazione generale e dei bisogni della Cattolicità, secondo cui la sua sollecitudine apostolica deve essere regolata. [Ma il papa è infallibile in tutto ciò che fa? Se no, si può legittimamente avere un’opinione contraria.] È lui che deve procurare il bene della Chiesa universale, con cui si coordina il bene delle sue varie parti. Tutti gli altri, soggetti a questo coordinamento, devono assistere l’azione del Direttore Supremo e servire ai suoi scopi. [Non se credono in coscienza che egli stia sbagliando.] Poiché la Chiesa è una, come uno è il suo Capo, così è il suo governo, al quale tutti devono conformarsi. [L’attuale diritto canonico riconosce il diritto dei fedeli di esprimere il proprio disaccordo con il dovuto rispetto verso i pastori.]
Sei giorni dopo, un importante parroco di Parigi descrisse così il nuovo clima nella Chiesa:
“I vescovi devono riconoscere e proclamare che il papa ha sempre ragione. I parroci devono proclamare e riconoscere che il loro vescovo ha sempre ragione. I fedeli devono riconoscere e proclamare che il loro parroco, unito al suo vescovo e unito al papa, ha sempre ragione. È come la gendarmeria, ma non è molto pratico, e la storia testimonia che non lo è stato”.[2]
Da parte sua, il cardinale Lavigerie si congratulò con Leone XIII per aver resistito ai venti di scontento dei fedeli e dei giornali ultramontani: “Con questo atto di vigore veramente pontificio, Vostra Santità ha condannato una tirannia di nuovo genere, che cercava di imporsi alla gerarchia cattolica”.[3]
Dopo aver pubblicato l’enciclica Au milieu des sollicitudes, il papa piantò un altro chiodo nella bara. Pur riconoscendo che la sua politica riguardava una questione temporale, scrisse al vescovo di Grenoble:
“Ce ne sono alcuni, ci duole dirlo, che, pur dichiarandosi cattolici, credono di avere il diritto di opporsi alla direzione data dal Capo della Chiesa con il pretesto che si tratta di una direzione politica. Ebbene! Di fronte alle loro pretese erronee, manteniamo in tutta la loro pienezza ciascuno degli atti da Noi precedentemente emanati e continuiamo a dire: ‘No, indubbiamente, non cerchiamo di fare politica; ma quando la politica è strettamente connessa con gli interessi religiosi, come sta accadendo in Francia al presente, se qualcuno ha la missione di determinare la condotta che può salvaguardare efficacemente gli interessi religiosi, in cui consiste il fine supremo delle cose, questi è il Romano Pontefice”.[4]
Non appena l’enciclica apparve, Émile Ollivier ─ ex ministro dell’imperatore Napoleone III, tutt’altro che ultramontano ─ scrisse in un articolo sul quotidiano Le Figaro:
“In attesa che il futuro decida tra Pio IX e Leone XIII, si può liberamente scegliere tra due opinioni; perché, come i nostri antenati, possiamo dire: non de fide — non è di fede. Quanto a coloro che considerano la lettera papale una definizione ex-cathedra, sarebbe una perdita di tempo discutere con loro. Bisogna rispedirli a scuola”.[5]
L’ex ministro bonapartista non esagerava. Dopo che i professori di teologia morale conclusero che le direttive papali obbligavano sotto pena di peccato mortale, due giornali cattolici liberali scrissero che coloro che continuavano a sostenere pubblicamente la monarchia commettevano un peccato grave. Fu riferito che ad alcuni fedeli era stata negata l’assoluzione per aver commesso il “peccato di monarchia”. Nelle sue memorie, il cardinale Domenico Ferrata, ex nunzio a Parigi, commentò che la Lettera Apostolica Notre Consolation “escludeva d’ora in poi ogni equivoco: bisognava accettarla o dichiararsi ribelli alla parola del papa”.[6]
Gli ultramontani evitarono entrambi i trabocchetti. Non si unirono alla Repubblica massonica come voleva Leone XIII, né si ribellarono alla sua autorità. Semplicemente gli resistettero come San Paolo aveva resistito a San Pietro “a viso aperto” (Gal 2,11) o, mutatis mutandis, come Plinio Corrêa de Oliveira resistette all’Ostpolitik di Paolo VI.[7]
Tra l’ottobre 1891 e il febbraio 1894, un piccolo gruppo di religiosi e laici si riunì mensilmente in un’associazione ad hoc chiamata Nostra Signora di Nazareth. Il suo scopo era “agire sul prossimo conclave e ottenere che all’attuale papa non fosse dato un successore che continuasse le sue deviazioni liberali e politiche, così disastrose per la Chiesa”. Nel luglio 1892, il principale leader del gruppo, padre Charles Maignen, pubblicò uno studio “le cui conclusioni [erano] atte a placare le preoccupazioni dei cattolici francesi che, per ragioni di coscienza, si rifiutano di aderire a un governo che perseguita la Chiesa”. Egli affermò: “Leone XIII non ha agito in virtù del potere spirituale che il Sommo Pontefice può esercitare indirettamente nell’ordine temporale [ratione peccati], e di conseguenza, i suoi insegnamenti, consigli, o anche ordini, non vincolano in coscienza i cattolici francesi”. In un altro studio mai pubblicato, intitolato Un pape légitime, peut-il cesser d’être pape? (Un papa legittimo può cessare di essere papa?), padre Maignen affrontò il delicato problema di un papa-eretico.[8]
Pertanto, possiamo concludere senza esitazione che la devozione e la sottomissione esagerate al papa, al punto da credersi obbligati a obbedirgli in questioni non attinenti alla fede o quando insegna o comanda l’errore, non derivano affatto da un “ultramontanismo” esagerato o da un presunto “spirito del Vaticano I”. Al contrario, provengono dalla corrente cattolica liberale.
Quale fu il risultato della politica di “adesione” alla repubblica? Come riconobbe lo stesso Leone XIII, fu un completo fallimento. In un’udienza poco prima della sua morte a Jules Méline, ex Presidente del Consiglio francese, disse:
“Mi sono sinceramente legato alla Repubblica, e ciò non ha impedito al governo attuale di non riconoscere i miei sentimenti e di ignorarli. Hanno scatenato una guerra religiosa che io lamento e che nuoce alla Francia ancor più che alla Chiesa”.[9]
Se Papa Francesco è sincero, come il suo predecessore, dovrà presto dire la stessa cosa del suo accordo con Xi Jinping. E riconoscere che il cardinale Zen aveva ragione.
[1] Roberto de Mattei, Le ralliement de Léon XIII – L’échec d’un projet pastoral, CERF, 2016, p. 95.
[2] Ibid., pp. 111-112.
[3] Ibid., p. 111.
[4] Ibid., p. 322.
[5] Ibid., p. 164.
[6] Ibid., p. 170.
[7] Cfr. “La politica vaticana di distensione con i governi comunisti – Le TFP dovrebbero farsi da parte? O dovrebbero resistere?“.
[8] Roberto de Mattei, op. cit., pp. 248-249.
[9] Ibid., p. 223.
Traduzione del nostro Staff
(Fonte: OnePeterFive)
