La complessa vicenda ebbe inizio nel settembre del 1569 allorché papa Pio V invitò il cardinale Carlo Borromeo a riformare l’Ordine degli Umiliati, sorto nel 1162 secondo un’antica leggenda, quando alcuni nobili milanesi, costretti a inchinarsi davanti al Barbarossa, si sentirono “umiliati” e decisero di coalizzarsi contro di lui. Per la verità, l’Ordine venne promosso da papa Innocenzo III nel 1201, quale associazione di laici non coniugati e di chierici provenienti da ogni ceto.
Si espanse ben presto e si occupò principalmente della lavorazione della lana, fondando ricche e floride manifatture tessili. Malgrado alcune regole interne proibissero il lusso e certe spese voluttuarie, la congregazione scivolò gradualmente verso evidenti tentazioni terrene, decisamente non in linea con lo statuto originale. Nel XVI secolo, gli Umiliati vennero addirittura sospettati di calvinismo e i contrasti con Carlo Borromeo si fecero accesi. Le frizioni con il cardinale si accentuarono ancor più quando precise direttive di Pio V, vennero loro presentate a Cremona, sede del Capitolo dell’Ordine: si doveva insomma fare ritorno a un tenore di vita più modesto e più discreto. Il complotto contro Carlo Borromeo venne ordito da diversi monaci, tra cui: Geronimo Legnano, Lorenzo Campagna, Clemente Marisio e Gerolamo Donati, soprannominato “Farina”.
L’Ordine degli Umiliati era stato fondato nel XII secolo come confraternita di tessitori, Ordine fondato su regole religiose assai severe, la cui operosità concorse allo sviluppo economico del ducato di Milano. Tuttavia, con l’arrivo degli spagnoli a Milano, gli Umiliati, abbandonate le antiche regole, si arricchirono ben presto, conducendo una vita all’insegna della mondanità. Proprietari di molti terreni e di numerosi fabbricati, vivevano oziosamente di rendita.
Il cardinale Borromeo, interprete ben preciso della Controriforma, stava avviando un’opera moralizzatrice nei confronti di tutto il clero ambrosiano. Pertanto, anche sugli Umiliati, vennero avviate ispezioni, disposti alcuni trasferimenti di beni considerati non compatibili con l’Ordine stesso e revoche dei prevosti non residenti. Risultato: gli Umiliati vedevano il Borromeo come il fumo negli occhi e si appellarono a Roma e alle autorità politiche milanesi, sempre denigrando l’arcivescovo. Per la verità, il cardinale non intendeva porre fine all’Ordine, ma semplicemente riformarlo e rinnovarlo. Tuttavia, papa Pio V, da tempo venuto a conoscenza dell’archibugiata, decretò la sua soppressione nel febbraio del 1571. Contemporaneamente fu deciso che i beni degli Umiliati fossero assegnati ad altre istituzioni religiose, più povere e meritevoli.
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L’attentato
La sera del 26 ottobre 1569, l’arcivescovo Carlo Borromeo si trovava immerso in un momento di raccoglimento e preghiera, circondato dai familiari e dal personale di servizio, riuniti sotto il portico superiore dell’Arcivescovado di Milano. La scelta di quel luogo insolito si rese necessaria poiché la sua cappella privata era inagibile a causa di alcuni lavori di ristrutturazione.
All’improvviso, un uomo camuffato da soldato con un cappello che gli copriva il viso, si avvicinò indisturbato all’arcivescovo. Dopo aver estratto un archibugio da sotto il mantello, con un atto tanto fulmineo quanto brutale, sparò a Carlo Borromeo alle spalle. In quei concitati momenti, la tensione crebbe velocemente, e il suono dello sparo ruppe l’atmosfera di quiete.
La scena che seguì fu caratterizzata dal caos: i presenti, scioccati e travolti dal panico, rimasero attoniti di fronte alla brutalità dell’attacco e alla vista del sangue che imbrattava i gradini. In mezzo alla confusione e alla sorpresa generale, l’attentatore riuscì a fuggire, dileguandosi senza lasciare tracce. Fortunatamente, nonostante l’intenzione omicida, la ferita inferta non fu grave. Il proiettile non colpì parti vitali e l’arcivescovo riuscì a sopravvivere all’attentato.
Le indagini
Le indagini sull’attentato iniziarono immediatamente. Il Capitano di Giustizia, affiancato dagli Inquisitori e dagli amici dell’arcivescovo, si attivò immediatamente per catturare il colpevole.
Ma fu durante una perquisizione condotta dai Birri di Carlo Borromeo nella sede milanese degli Umiliati che avvenne una svolta decisiva. Uno degli uomini a conoscenza del complotto, tale Nassino, fece per la prima volta il nome di Fra Gerolamo Donati, detto il Farina.
L’arcivescovo, pur colpito dal tradimento, scelse di non farsi sopraffare dall’istinto di vendetta. Pubblicamente predicava il perdono, ma in privato rifletteva e agiva con precisione, pianificando i suoi prossimi passi. Solo poche settimane dopo, grazie ad ulteriori informazioni fornite da Nassino, l’arcivescovo scoprì che un altro monaco, Geronimo Legnano, era implicato nel complotto.
Anche questa volta, Carlo Borromeo mantenne la calma. Con astuzia, invitò Nassino e Legnano a Palazzo per un pranzo formale, senza lasciar trapelare alcun sospetto. Solo dopo l’incontro, l’arcivescovo ordinò il loro arresto, l’incarcerazione e l’interrogatorio sotto tortura per ottenere ulteriori dettagli.
Le confessioni iniziarono a fare chiarezza sull’attentato. L’esecutore materiale era Gerolamo Donati, detto il Farina, un ex frate dell’Ordine degli Umiliati. I mandanti dell’attentato erano alcuni membri dello stesso Ordine. Tra i cospiratori uscirono i nomi, oltre che di Geronimo Legnano, anche di Lorenzo Campagna e Clemente Marisio.
Le origini del complotto
I motivi di risentimento da parte degli appartenenti all’Ordine degli Umiliati verso l’arcivescovo Borromeo erano evidenti. Un giorno Gerolamo Donati si fece avanti con una proposta audace: eliminare l’arcivescovo in cambio di un sostanzioso compenso. Tuttavia, quando i cospiratori pensarono di coinvolgere il priore Toso per finanziare l’operazione, questi si rifiutò categoricamente di contribuire o partecipare. A quel punto, sorse una domanda cruciale: come racimolare la somma di 100 scudi chiesti dal “Farina”? Di fronte a questo ostacolo, i congiurati si trovarono a dover escogitare un piano per raccogliere la somma richiesta.
Una notte, decisero di agire. Si introdussero furtivamente nella sede degli Umiliati a Milano, rubando vari oggetti preziosi. Il bottino fu rivenduto ad un ricettatore, permettendo loro di ottenere circa 40 scudi. Tuttavia, nonostante il colpo riuscito, la cifra era ancora insufficiente. Non soddisfatto, il “Farina” decise di agire personalmente, tentando di forzare la cassaforte del priore Toso per racimolare il denaro restante. Ma il colpo fallì. Senza farsi prendere dal panico, Donati decise di lasciare Milano per un po’ di tempo, aspettando che le indagini su di lui si calmassero. Dopo alcuni mesi, tornò in città con lo stesso obiettivo in mente: assassinare Carlo Borromeo. Questa volta, grazie all’aiuto di nuovi complici, riuscì a procurarsi la somma mancante e l’accordo venne finalmente concluso.
La fuga e la cattura
Dopo l’attentato, approfittando del caos generale, il “Farina” fuggì dall’arcivescovado, ma non lasciò Milano. Il governatore spagnolo, infatti, fece subito sbarrarle le porte, imponendo meticolosi controlli ai viaggiatori. Così, Donati si rifugiò presso un fratello, dove nascose l’arma utilizzata nel tentato omicidio. Dopo alcuni giorni, quando i controlli si erano affievoliti, decise di guadagnare la campagna. Solitamente, i fuggiaschi cercavano rifugio nella repubblica di Venezia, attraversando il confine a Gera d’Adda, oppure si dirigevano verso la vicina Svizzera italiana. È probabile che Donati scelse di dirigersi verso la Svizzera come prima tappa, per poi proseguire verso Gemonio, Mombello, Intra e le valli del novarese, seguendo il percorso che conduceva al Ducato di Savoia. Una volta entrato nel Ducato, riuscì a farsi arruolare nell’esercito, pronto a ricominciare la sua vita lontano dal tumulto che lo aveva segnato.
Ma il 17 aprile venne arrestato a Chivasso per ordine del duca di Savoia. Dopo poche ore, si ritrovò a Milano, di fronte a coloro che bramavano la sua morte. Subì torture indicibili e il peso del suo gesto ricadde su molti. Altri membri dell’Ordine degli Umiliati (anche non coinvolti nell’attentato) vennero arrestati e torturati a causa delle sue azioni.
L’epilogo
Il 2 agosto del 1570, i cospiratori Lorenzo Campagna e Geronimo Legnano furono condannati a morte e giustiziati tramite decapitazione. Anche Clemente Marisio e Gerolamo Donati “il Farina”, subirono lo stesso destino, ma vennero impiccati. A Donati fu prima mozzata la mano destra, con cui aveva compiuto il sacrilego attentato alla vita del futuro santo, Carlo Borromeo.
La veste liturgica che Borromeo indossava quella fatidica notte, perforata dalla pallottola, divenne un simbolo di devozione e fu venerata come reliquia. La pallottola stessa, recuperata dagli investigatori, fu inserita in una teca e successivamente donata alla chiesa di San Sepolcro.
Nonostante la punizione dei colpevoli, la vicenda non si chiuse qui. Papa Pio V, informato da tempo dell’attentato, prese una decisione drastica: nel febbraio del 1571 decretò la soppressione dell’Ordine degli Umiliati. I beni dell’Ordine furono redistribuiti a istituzioni religiose più povere e meritevoli, segnando così la fine di una congregazione ormai corrotta, caduta in disgrazia dopo secoli di prestigio.
(Fonte: Stefano Brigati)
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