L’ultima prova della Chiesa

Quando il nemico si traveste da zelo.

di Don Mario Proietti (17 luglio 2025)

Non nascondo un certo disagio nel leggere alcuni commenti, soprattutto da parte di sacerdoti, a delle riflessioni pubblicate su Facebook che facevano riferimento a episodi recenti di celebrazioni della Messa “verso Oriente” o all’uso di forme liturgiche più tradizionali. Ho cercato di tacere, di lasciar correre, ma alla fine non ci sono riuscito. Così, desidero condividere con voi, cari amici, questa mia riflessione ad alta voce. Con rispetto, ma anche con franchezza. Perché amare la Chiesa significa anche aiutarsi a non perdersi lungo la strada.

C’è un passaggio poco citato, ma straordinariamente profetico, del Catechismo della Chiesa Cattolica. È il numero 675, e recita così: “Prima della venuta di Cristo, la Chiesa deve passare attraverso una prova finale che scuoterà la fede di molti credenti. La persecuzione che accompagna il suo pellegrinaggio sulla terra svelerà il ‘mistero di iniquità’ sotto la forma di una impostura religiosa che offrirà agli uomini una soluzione apparente ai loro problemi, al prezzo dell’apostasia dalla verità. L’impostura religiosa suprema è quella dell’Anticristo, cioè di uno pseudo-messianismo in cui l’uomo glorifica se stesso al posto di Dio e del suo Messia venuto nella carne.”

Non si parla di un nemico esterno, brutale e dichiarato, ma di una tentazione interna, religiosa, seducente, che propone una “soluzione apparente” al prezzo della rottura ecclesiale. Non un errore grossolano, ma una falsificazione dello spirito cristiano, travestita da ortodossia, da purezza, da zelo.

Conosco personalmente tanti sacerdoti e laici che amano e vivono con dignità il Vetus Ordo. Ho celebrato io stesso la forma antica del Rito Romano, ho gustato la profondità liturgica che può offrire. Ma accanto a questo tesoro, che può edificare davvero il popolo di Dio, esiste un atteggiamento spirituale pericoloso, sempre più diffuso: la tentazione dell’illuminazione separata.

Si parte dal giusto desiderio di “recuperare la bellezza”, si prosegue con una comprensibile critica a certi abusi liturgici o banalizzazioni teologiche, e poi… scatta qualcosa. Chi ha “scoperto” il Rito antico inizia a sentirsi diverso, migliore, più autentico. E da lì il passo è breve verso il disprezzo degli altri, verso una vera e propria sindrome del messia: “Io ho capito, gli altri sono ciechi”. Questo stato d’animo non è più cristiano, è l’anticamera dell’eresia, e nella storia della Chiesa ha prodotto sempre gli stessi frutti marci: gnosticismo, pelagianesimo, puritanesimo, spiritualità dualiste, i fraticelli ribelli, e via via tutte quelle forme in cui l’uomo spirituale, isolandosi, si illude di difendere Dio… contro la Chiesa.

Spesso chi si riconosce nella Tradizione ha denunciato, con ragione, le derive moderniste che hanno infettato il linguaggio ecclesiale, la dottrina, la liturgia. Il rischio reale di una Chiesa “liquida”, che smarrisce il dogma, svuota il sacro, e relativizza il Vangelo, è stato denunciato con coraggio da papi come san Giovanni Paolo II e Benedetto XVI.

Ma, ed è qui il punto cruciale, non si combatte il modernismo usando le sue stesse armi. Se il modernismo ha generato confusione dottrinale, non lo si corregge con l’arroganza teologica. Se ha sfigurato la liturgia, non lo si raddrizza con un culto senza carità. Se ha prodotto disobbedienza, non si risponde con una disobbedienza più raffinata, travestita da “fedeltà superiore”.

Perché quando il tradizionalismo si fa giudice del Papa, accusatore dei vescovi, disprezzatore dei confratelli, non è più Tradizione: è un’altra forma di scisma, solo più elegante, ma ugualmente avvelenata. Entrambi, modernisti e neotradizionalisti, si pongono fuori dalla comunione reale: gli uni perché dissolvono il deposito della fede, gli altri perché lo recintano come proprietà esclusiva. Ma entrambi rifiutano la Chiesa concreta, quella che Cristo ha voluto, con la sua gerarchia, le sue ferite, la sua storia.

Il Catechismo è chiaro: “La suprema impostura religiosa è quella dell’Anticristo, uno pseudo-messianismo in cui l’uomo glorifica se stesso al posto di Dio e del suo Messia venuto nella carne.” Ogni volta che un cristiano, o peggio, un sacerdote, usa la verità per glorificare se stesso, per farsi paladino di un’idea contro la Chiesa reale, sta già vivendo dentro questo inganno. Sta glorificando sé, la sua intelligenza, la sua purezza, la sua ortodossia, al posto dell’umile obbedienza del Figlio. E così perseguita la Chiesa nel nome della Chiesa. Non brucia le basiliche, ma corrode l’unità, umilia i fratelli, si pone come arbitro delle coscienze, dimenticando che “chi odia il proprio fratello è omicida” (1Gv 3,15).

Il pericolo oggi non è solo fuori, è dentro. Non è solo nel mondo che nega Dio, ma anche nei cuori di chi dice “Signore, Signore”, ma non vuole entrare nella comunione del Corpo. Quanti cristiani oggi, nel nome della Tradizione, stanno rinnegando il volto della Chiesa, e diventano pietre di scandalo! Non si tratta di discutere su riti, preferenze, teologia liturgica. Si tratta di discernere lo spirito: se ciò che vivo mi unisce o mi separa. Se mi fa umile o superbo. Se mi porta ad amare la Chiesa reale, o a crearne una ideale in cui l’unico santo sono io. La vera Tradizione è ubbidiente, paziente, feconda. Si china, non schiaccia. Costruisce, non distrugge. E quando soffre, non si separa, ma offre se stessa in sacrificio, come Cristo.

Nel contesto di questa prova, anche i vescovi e i pastori della Chiesa sono chiamati a discernere e correggere con carità, non con durezza cieca. Il dolore di molti fedeli legati alla liturgia tradizionale, o semplicemente desiderosi di adorare Dio in ginocchio, non può essere ridicolizzato, né represso con misure punitive o provocatorie. Quando un vescovo proibisce un gesto devoto, come l’inginocchiarsi alla comunione, o tratta con sufficienza le istanze di chi chiede rispetto per i segni del sacro, non sta esercitando la sua autorità come servizio, ma come imposizione. Questo irrigidimento non favorisce la comunione, ma radicalizza gli animi, calcarizza le opposizioni, offre ai ribelli la scusa per restare tali.

Tutto questo nasce, purtroppo, da una paura malcelata che serpeggia in parte dell’episcopato contemporaneo. Alcuni vescovi sembrano temere la Tradizione come se fosse un avversario da contenere, non un tesoro da custodire, e arrivano a forzare l’interpretazione della Scrittura e della teologia pur di giustificare decisioni contrarie alla sensibilità cattolica più profonda. Così accade che si producano esegesi artificiose, come nel caso di certi argomentazioni bibliche palesemente forzate, pur di difendere un’impostazione preconcetta.

Ma cosa sono queste paure? Si teme lo scandalo esteriore più della perdita della verità. Hanno un’ossessione per la unità apparente, per l’ordine, per la gestione del consenso. Si teme che accogliere certe istanze, come la comunione in ginocchio o in bocca, possa “riaprire” questioni che credevano chiuse o, peggio, mettere in discussione le scelte conciliari (o post-conciliari).

Non possiamo non considerare che c’è un trauma ancora aperto in molti ambienti episcopali: il Concilio Vaticano II non è mai stato serenamente recepito, ma o idolatrato o combattuto. Alcuni vescovi sono cresciuti con l’idea che il “preconcilio” fosse il nemico, e tutto ciò che richiama la Tradizione venga percepito come una minaccia di restaurazione autoritaria. Così, davanti a un fedele che si inginocchia o chiede la comunione in bocca, scattano schemi ideologici, non riflessioni teologiche. E da lì si arriva alla distorsione. Ma così facendo, preferiscono una comunione solo di facciata, e si dimenticano che la vera comunione ecclesiale si fonda sulla verità. Una menzogna liturgica non unisce: corrode silenziosamente.

Inoltre, sembra che alcuni si trovano umanamente disarmati, senza veri strumenti spirituali, culturali o liturgici per sostenere la complessità del momento. Non sono padri forti, sono spesso amministratori stanchi, mediatori politici tra opposte pressioni. In questo stato, ogni differenza, anche legittima, è vissuta come una minaccia personale. E quando si ha paura di perdere il controllo, si impone, si vieta, si forza, anche la verità.

Forse, il problema risiede anche nel fatto che accogliere certe istanze può far apparire un vescovo “tradizionalista”, e questo, in un contesto ecclesiale polarizzato, è percepito come un rischio di carriera o di isolamento. Allora si preferisce falsificare la dottrina pur di mostrarsi “moderati” o “progressisti illuminati”. Ma qui la coscienza episcopale si degrada, perché si serve l’opinione e non la Verità.

Infine, e lo dico tremando, forse la radice più profonda è questa: alcuni non credono più realmente che la Chiesa sia di Cristo, che il culto sia atto di adorazione, che i sacramenti siano reali. Vivono la fede come linguaggio, non come realtà. E allora tutto ciò che richiama il senso del sacro, della presenza reale, della trascendenza, li mette a disagio. Preferiscono l’assemblea gestibile al Mistero che inchina. E quando un fedele si inginocchia, ricorda loro che Dio è più grande di loro, e questo, per chi ha smarrito la fede viva, fa paura.

Il dramma è che queste paure, invece di proteggere la Chiesa, la espongono ancora di più alla divisione profonda. Perché mentre si cerca di impedire un gesto devoto (come inginocchiarsi o ricevere in bocca), si legittimano deviazioni gravi, si lasciano correre abusi, si proteggono retoriche ideologiche che svuotano la fede del popolo. Così si allontanano i fedeli sinceri e si rafforzano i ribelli.

Il tempo della prova è già in atto. L’“ultima prova” non sarà forse un evento spettacolare, ma una lenta corrosione della comunione ecclesiale, fino a renderla irriconoscibile. Chi non veglia, chi non si purifica interiormente, chi non prega e non ama, sarà facilmente sedotto da un cristianesimo senza la Chiesa, da una dottrina senza obbedienza, da una liturgia senza carità.

Per questo oggi più che mai bisogna chiedersi non solo cosa crediamo, ma come viviamo ciò che crediamo, e soprattutto: “lo viviamo con la Chiesa, o contro di essa?”

Chi ama davvero la Tradizione, non la difende dalla Chiesa, ma nella Chiesa. E se deve soffrire per essa, lo fa come i santi: in silenzio, in preghiera, in obbedienza e con mitezza.

(fonte)

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