Padri e Dottori

Esortazioni di Sant’Atanasio ai cristiani che soffrivano sotto l’eresia ariana che era dilagata nella Chiesa

PREMESSA (da Korazym)

Dove sta andando la Chiesa Cattolica Romana? La Chiesa di Gesù Cristo è Una, Santa, Cattolica e Apostolica è viva e immacolata nel Suo Sposo. E Cristo ha promesso che “le porte dell’inferno non prevarranno contro di essa” (Cfr. Mt 16,18). Le caratteristiche principali della Chiesa Cattolica sanciscono la sua unità, santità, universalità e apostolicità.

Una perché corpo mistico del Signore, che si compone di un capo e delle sue membra che svolgono funzioni e cercano di conformarsi in esso.
Santa perché voluta da colui che è il tre volte Santo.
Cattolica perché cerca l’unità di tutto il genere umano nella fratellanza e nella comunione.
Apostolica perché fedele alla tradizione che ci è stata trasmessa dagli Apostoli.

La Chiesa che è Madre va conosciuta e amata. Ma come interpretare il male all’interno della Chiesa? Sant’Agostino scrisse, che la Chiesa è corpus permixtum. Nel corpo frammisto insieme al grano vi cresce la zizzania. La Chiesa dei Giusti avrà la sua manifestazione quando Dio vorrà. Occorre distinguere la santità della Chiesa da quella dei suoi membri, i quali possono anche essere peccatori.

Oggi, una parte di quel corpo frammisto visibile rischia di subire una “mutazione genetica” o questa è già avvenuta nostro malgrado e ne stiamo vedendo gli effetti?

Anche per i fedeli del nostro tempo, spesso perseguitati all’interno della stessa Chiesa, sono di consolazione le parole limpide del Patriarca di Alessandria d’Egitto e Padre della Chiesa, Sant’Atanasio detto il Grande (Alessandria d’Egitto, 295 circa – Alessandria d’Egitto, 2 maggio 373) ai cristiani che soffrivano sotto l’eresia ariana che era dilagata nella Chiesa. Ascoltiamo e meditiamo:

«Che Dio vi consoli!… Quello che rattrista… è il fatto che gli altri hanno occupato le chiese con violenza, mentre in questo periodo voi vi trovate fuori. È un dato di fatto che hanno la sede, ma voi avete la fede apostolica. Possono occupare le nostre chiese, ma sono al di fuori della vera fede. Voi rimanete al di fuori dei luoghi di culto, ma la fede abita in voi. Vediamo: che cosa è più importante, il luogo o la fede? La vera fede, ovviamente: Chi ha perso e chi ha vinto in questa lotta – quella che mantiene la sede o chi osserva la fede? È vero, gli edifici sono buoni, quando vi è predicata la fede apostolica; essi sono santi, se tutto vi si svolge in modo santo… Voi siete quelli che sono felici, voi che rimanete dentro la Chiesa per la vostra fede, che mantenete salda nei fondamenti come sono giunti fino a voi dalla tradizione apostolica, e se qualche esecrabile gelosamente cerca di scuoterla in varie occasioni, non ha successo. Essi sono quelli che si sono staccati da essa nella crisi attuale. Nessuno, mai, prevarrà contro la vostra fede, amati fratelli, e noi crediamo che Dio ci farà restituire un giorno le nostre chiese. Quanto i più violenti cercano di occupare i luoghi di culto, tanto più essi si separano dalla Chiesa. Essi sostengono che rappresentano la Chiesa, ma in realtà sono quelli che sono a loro volta espulsi da essa e vanno fuori strada. Anche se i cattolici fedeli alla tradizione sono ridotti a una manciata, sono loro che sono la vera Chiesa di Gesù Cristo» (Sant’Atanasio. Coll. Selecta SS. Eccl. Patrum, a cura di  Caillaud e Guillon, vol. 32, pp 411-412).

SCARICA QUI un file completo su Sant’Atanasio 


Decreto del Santo Padre per il conferimento del titolo di Dottore della Chiesa a Sant’Ireneo di Lione

Sant’Ireneo di Lione, venuto dall’Oriente, ha esercitato il suo ministero episcopale in Occidente: egli è stato un ponte spirituale e teologico tra cristiani orientali e occidentali. Il suo nome, Ireneo, esprime quella pace che viene dal Signore e che riconcilia, reintegrando nell’unità. Per questi motivi, dopo aver avuto il parere della Congregazione delle Cause dei Santi, con la mia Autorità Apostolica lo

DICHIARO
Dottore della Chiesa con il titolo di Doctor unitatis.

La dottrina di così grande Maestro possa incoraggiare sempre più il cammino di tutti i discepoli del Signore verso la piena comunione.

Dal Vaticano, 21 gennaio 2022

FRANCESCO


2024-2025

L’imponente statura culturale e spirituale di Newman servirà d’ispirazione a nuove generazioni

SCARICA QUI in pdf una breve raccolta di Sant’Ireneo “contro le eresie”

Cosa dice San Tommaso sull’immigrazione?


Archivio dal 2017 al 2022


Sant’Ilario di Poitiers fu un vero gigante della Fede, davanti al dilagare dell’eresia, fino al punto di dissociarsi pubblicamente da tutti i vescovi che avevano abbracciato l’arianesimo, e senza attendere altri ordini, indisse un concilio nelle Gallie per riportare la sana Dottrina.
Con sant’Atanasio fu difensore della dottrina Trinitaria. Eravamo nei primi tre secoli della giovane Chiesa, e forse faremo bene a rimeditare su quei fatti che non sono dissimili dalle apostasie moderniste di oggi. Buona meditazione


ci è stato chiesto durante una diretta : quanti sono fino ad oggi i Dottori della Chiesa? riportiamo anche qui la risposta:
del 14 ottobre, 2021 / (ACI Stampa).- 😇
Nei giorni scorsi, Papa Francesco ha annunciato l’intenzione di proclamare a breve Sant’Ireneo di Lione Dottore della Chiesa. Si tratta di un titolo di particolare rilevanza che viene riconosciuto dal Papa in prima persona o da un concilio a quei santi che hanno brillato, oltre che per le loro virtù cristiane, anche per la eminente dottrina.
Fino ad oggi sono stati 36 – tra loro 4 donne – i Santi riconosciuti Dottori della Chiesa. A individuare i primi fu Papa Bonifacio VIII nel 1298 con San Gregorio Magno, Sant’Agostino, Sant’Ambrogio e San Girolamo.
Bisogna aspettare san Pio V per avere altri cinque Dottori della Chiesa: tra il 1567 e il 1568 vengono annoverati San Tommaso d’Aquino, San Giovanni Crisostomo, San Basilio Magno, San Gregorio Nazianzeno e Sant’Atanasio.
Nel 1588 è la volta di San Bonaventura da Bagnoregio, individuato da Papa Sisto V.
Papa Clemente XI nel 1720 definì Dottore della Chiesa Sant’Anselmo d’Aosta. Nel 1722 è invece Innocenzo XIII a riservare analogo trattamento a Sant’Isidoro di Siviglia mentre nel 1729 Papa Benedetto XIII sceglierà San Pietro Crisologo. Nel 1754 è la volta di Papa Clemente XII elevare a Dottore della Chiesa San Leone I.
Quasi un secolo dopo – è il 1828 – San Pier Damiani viene annoverato tra i Dottori della Chiesa da Papa Leone XII. Due anni dopo toccherà a San Bernardo di Chiaravalle, per volere di Papa Pio VIII.
Tre i Dottori della Chiesa proclamati da Papa Pio IX tra il 1851 ed il 1877: si tratta di Sant’Ilario di Poitiers, Sant’Alfonso Maria de Liguori e San Francesco di Sales. Quattro, invece, quelli scelti da Papa Leone XIII tra il 1883 ed il 1899: San Cirillo di Alessandria, San Cirillo di Gerusalemme, San Giovanni Damasceno e San Beda il Venerabile.
Il primo Dottore della Chiesa del XX Secolo è stato – nel 1920 – Sant’Efrem il Siro, per decisione di Papa Benedetto XV.
Tra il 1925 ed il 1931 Pio XI annovera tra i Dottori della Chiesa San Pietro Canisio, San Giovanni della Croce, San Roberto Bellarmino e Sant’Alberto Magno.
Nel 1946 è la volta di Sant’Antonio da Padova con Pio XII mentre nel 1959 è Giovanni XXIII ad individuare San Lorenzo da Brindisi.
E’ Papa Paolo VI nel 1970 ad elevare le prime due donne al titolo di Dottore della Chiesa: Santa Teresa d’Avila e Santa Caterina da Siena.
Un’altra donna è scelta da Papa Giovanni Paolo II nel 1997: Santa Teresa di Lisieux.
Nel 2012 Papa Benedetto XVI individua Santa Ildegarda di Bingen e San Giovanni d’Avila.
L’ultimo Dottore della Chiesa in ordine temporale è San Gregorio di Narek, proclamato da Papa Francesco nel 2015.


PADRI DELLA CHIESA

I. NOZIONE.

Il nome di Padri è di origine orientale. Gli antichi popoli d’Oriente, infatti, onoravano con questo appellativo i maestri, considerati come autori della vita intellettuale, originata dal loro insegnamento. In tale senso i discepoli delle scuole profetiche furono denominati filii prophetarum, e il loro maestro fu detto Pater (I Reg. 10, 12; 1 Sam. 40, 35).
Nella Chiesa primitiva, con questo nome vennero designati i vescovi, i quali, appunto perché ministri dei Sacramenti e depositari del patrimonio dottrinale della Chiesa, erano ritenuti generatori di quella vìta in Cristo di cui parla S. Paolo nel testo citato (cf. Martyrium Polycarpi, 12, 2; Acta Cypriani, 3, 3). A partire dal sec. IV, quando i vescovi primitivi incominciarono a essere considerati testimoni autorevoli della tradizione e giudici nelle controversie dogmatiche, si valutò soprattutto l’autorità dottrinale, e il nome di Padri si restrinse agli assertori della fede, che avevano lasciato testimonianza scritta. Ben presto però questo titolo si estese anche ai non vescovi per opera di S. Agostino, il quale citò a testimone della dottrina cattolica circa il peccato originale il contemporaneo S. Girolamo, semplice prete(Contra Iul., 1, 34; Il, 36). Però non tutti gli scrittori ecclesiastici erano atti a testimoniare la fede della Chiesa, essendo taluni caduti in gravi errori. Perciò gli scrittori ecclesiastici antichi vennero distinti in due categorie; quelli riconosciuti dalla Chiesa come testimoni della fede, e quelli che non lo erano. Il primo esempio di tale distinzione si trova nella decretale De libris recipiendis et non recipiendis del sec. VI, che va sotto il nome di papa Gelasio e che, per conseguenza, costituisce il più antico catalogo di scrittori cristiani riconosciuti come Padri della Chiesa.

Tenendo conto delle varie determinazioni a cui andò soggetto questo appellativo, quattro elementi entrano a formarne il concetto:
a) dottrina ortodossa : quali custodi infatti della tradizione ricevuta dai maggiori, debbono trasmetterla inalterata alle generazioni successive; tale ortodossia si intende nel senso di una fedele comunione di dottrina con la Chiesa, non già come immunità totale da errori anche materiali: per tutti vale l’esempio di S. Cipriano;
b) santità di vita : come maestri, occorre che i Padri della Chiesa presentino in grado elevato le virtù cristiane, non solo predicate, ma praticate; tale nota costituisce una garanzia e una sublimazione della ortodossia stessa;
c) approvazione della Chiesa: solo la Chiesa, come può definire il canone delle Scritture, così può determinare i testimoni autentici della Tradizione; non occorre tuttavia un’approvazione esplicita, è sufficiente l’implicita, quale potrebbe aversi, ad es., nella citazione di un Padre fatta da un concilio ecumenico;
d) antichità: su questo punto si è alquanto oscillato e, per vario tempo, vennero classificati tra i Padri della Chiesa anche scrittori medievali dell’epoca precedente alla scolastica. Poi prevalse una maggiore severità, ed ora l’evo patristico si fa comunemente concludere, in Occidente, con la morte di S. Isidoro di Siviglia (636), in Oriente con quella di S. Giovanni Damasceno (ca. 750).

Praticamente il nome di Padri si estende talvolta, in senso largo, ad alcuni scrittori della prima età che non furono santi, o che, in qualche momento della loro produzione, non furono ortodossi, come, p. es. , Tertulliano, Origene, Eusebio di Cesarea. Gli eminenti servigi resi da tali uomini, per altri motivi, spiegano le eccezioni: a costoro più propriamente si addice il titolo di “scrittori ecclesiastici”. La categoria dei Padri della Chiesa si identifica solo in parte con quella dei Dottori della Chiesa, per i quali se non è necessaria la nota dell’antichità, è però richiesta una eminens eruditio e il riconoscimento esplicito da parte della Chiesa.

II. AUTORITA’.

L’importanza dei Padri della Chiesa non è soltanto di ordine letterario o storico, ma soprattutto si fonda sulla loro dottrina, desunta dalla Tradizione come fonte di fede. Ciò deriva dalla connessione strettissima che essi ebbero con il magistero infallibile della Chiesa. Furono in gran parte vescovi e la loro azione intellettuale fu come il respiro della Chiesa stessa. Ai loro tempi costituivano di fatto il magistero o almeno la parte principale di esso, in quanto tutta la Chiesa docente e discente mirava ad essi, delegava loro la propria difesa, ne accoglieva gli scritti e li circondava di approvazione e di lode. Questo complesso di circostanze li costituiva voce autorevole nella Chiesa e legava il loro operato alla responsabilità del suo magistero. Se avessero errato, l’organo stesso dell’infallibilità sarebbe stato compromesso. Da ciò si deduce che i Padri della Chiesa hanno tutti i requisiti per essere considerati testimoni garantiti e qualificati della inalterata tradizione divina.
Tale concezione, naturalmente, esula dalla dottrina dei protestanti, i quali, rigettando il concetto cattolico di Tradizione, nel campo della fede non ammettono altra guida che la S. Scrittura: non possono quindi attribuire ai Padri altra autorità che l’umana.
D’altra parte, non in tutto i Padri della Chiesa sono strumenti sicuri delle verità rivelate.
Prescindendo dalle dottrine che rientrano nel dominio della ragione, pure in ciò che riguarda la fede e la morale molte espressioni e detti loro valgono solo come punti di passaggio, non già come formulazione definitiva della dottrina. Più di una volta infatti hanno corretto se stessi, e, non di rado, solo dopo un severo esame e vivaci dispute sono giunti a una più esatta esposizione della dottrina tramandata. Occorre inoltre tenere presente che i loro talenti intellettuali sono assai diversi; che sono anelli nella trasmissione della dottrina, non il termine; che non sono ispirati ed esenti da errori; che i loro scritti sono per lo più occasionali, di circostanza e non esposizioni sistematiche delle verità di fede; che prima delle controversie parlano spesso senza precauzioni. Quindi, secondo il detto di S. Agostino, “bisogna pesare le loro voci e non contarle” (Contra Iul., 2, 35). Ciò fa distinguere in essi un duplice aspetto : quello di teste della Tradizione, su cui si estende la garanzia della Chiesa, e quello di dottore privato, che non ha quella garanzia, ma tanto è attendibile quanto sono la sua eccellenza intellettuale, la santità, e, soprattutto, le ragioni che adduce.

Per valutare convenientemente l’autorità dei Padri della Chiesa, i teologi sogliono proporre le seguenti norme: 
a) nessun Padre per sé è infallibile, eccetto il caso che sia stato papa e abbia insegnato ex cathedra, o se ed in quanto i singoli passi dei suoi scritti siano stati convalidati da un concilio ecumenico; è stata perciò giustamente riprovata da Alessandro VII l’esagerazione dei giansenisti, che giunsero a preferire l’autorità di un solo Padre (in concreto, S. Agostino) al magistero vivente della Chiesa (Denz-U, 320);
b) il consenso unanime dei Padri in materia di fede e di costumi è da considerarsi autorità irrefragabile, perché equivale alla dottrina stessa della Chiesa: questo è stato l’insegnamento dei Concili Tridentino (sess. IV) e Vaticano I (sess. III, 22), che proibirono di dare alla S. Scrittura un significato contrario alla dottrina concorde dei Padri della Chiesa; tale consenso non richiede tuttavia l’unanimità numerica, è sufficiente quella morale, quale potrebbe aversi anche dalla testimonianza di pochi, purché dalle circostanze in cui fu emessa si possa arguire che essa rispecchia la fede comune della Chiesa;
c) qualora manchi tale consenso, la dottrina di uno o più Padri, specialmente se contrasta con quella di altri, non è da ammettersi come certa, non per questo però deve essere trascurata.
d) I Padri che, con l’approvazione della Chiesa, si sono distinti nel combattere speciali eresie, valgono come autorità classiche nei dogmi relativi. Così S. Cirillo Alessandrino nella cristologia e S. Agostino nella dottrina della Grazia.

III. EPOCA DEI PADRI.

E’ delimitata entro i confini dell’antichità cristiana sopra stabiliti, e si suddivide in tre periodi d’ineguale estensione, ma sotto certi aspetti di eguale importanza.

1. Periodo delle origini. – Arriva fino al Concilio di Nicea (325) ed è quello che maggiormente interessa la critica moderna, la cui attenzione è rivolta in modo particolare alle origini cristiane. La lettera scritta da Clemente Romano alla comunità di Corinto in Grecia verso il 96-98 d.C., la si assume generalmente come il documento patristico più antico. Appartengono a quest’epoca i Padri Apostolici , i cui scritti, sebbene scarsi di valore letterario o filosofico, riflettono tuttavia l’eco immediata della predicazione apostolica offrendo un quadro autentico ed immediato della vita, dei sentimenti, delle aspirazioni e delle idee delle prime comunità cristiane sparse nel bacino orientale del Mediterraneo a cavallo tra il I e il II secolo della nostra era ed informano come venne intesa e realizzata fin dagli inizi la costituzione impressa da Cristo alla sua Chiesa. Tale autorità è condivisa solo in parte dai Padri apologisti del sec. II, e ancor meno dai Padri controversisti del secolo successivo; in compenso questi ultimi offrono i primi saggi di sistemazione dottrinale, che ne fanno dei veri precursori dei grandi maestri del periodo aureo.

2. Periodo aureo. – E’ il più breve, in quanto termina con la morte di S. Agostino (431), ma è anche quello del massimo splendore della letteratura patristica. Crisi dottrinali profonde, come l’ariana e la pelagiana, travagliarono in questo tempo la Chiesa. I Padri di quest’epoca, impegnati nelle grandi dispute, seppero dare un contributo decisivo alla sistemazione della scienza teologica. Emergono tra essi le figure di S. Atanasio, S. Basilio, S. Gregorio Nazianzeno, S. Giovanni Crisostomo, considerati come i Dottori massimi della Chiesa orientale; mentre in Occidente dominano incontrastati S. Girolamo, il Dottore delle Scritture, S. Ambrogio, il Dottore dell’indipendenza della Chiesa, S. Agostino, che non è soltanto il Dottore della Grazia, ma il Dottore universale, colui che per vari secoli fu il principale, se non l’unico ispiratore del pensiero cristiano occidentale.

3. Periodo della decadenza. – Si estende dalla morte di S. Agostino fino al termine dell’evo patristico. E’ un periodo di lento decadimento, causato dalle invasioni barbariche in Occidente, e dal dispotismo degli imperatori in Oriente. Le grandi opere vennero quasi del tutto a mancare, e quelle poche che si scrissero risentono la stanchezza e la mancanza di originalità. Ciò non impedisce che emergano ancora qua e là figure grandissime, come quelle di S. Giovanni Damasceno e di S. Gregorio Magno. Ma queste non sono che felici eccezioni, che non distruggono l’impressione dell’insieme. L’importanza dei Padri di quest’epoca consiste soprattutto nell’aver conservato i tesori dell’antico sapere teologico, cosicché, posti come anello di congiunzione tra il mondo antico che tramonta. e quello nuovo che s’inizia, ebbero il merito di porre i fondamenti della successiva civiltà medievale.

IV. STUDIO DEI PADRI.

Di queste figure di scrittori e pensatori si occupano due scienze importanti, che comunemente sogliono considerarsi come distinte: la patrologia, che studia il momento storico-letterario dei Padri, cioè direttamente gli scritti e, in relazione ad essi, la vita dei singoli autori; la patristica, che riguarda l’aspetto dottrinale, e si considera come l’esposizione sistematica delle prove dedotte dagli scritti patristici in dimostrazione dei dogma

V. LINGUA DEI PADRI.

Fino a quasi tutto il sec. II la lingua dei Padri fu il greco. Ciò non fa meraviglia, se si pensa che il cristianesimo reclutò i suoi primi seguaci fra elementi di origine prevalentemente orientale. Il greco inoltre era in quel tempo la lingua internazionale per eccellenza, compresa non solo in Oriente, ma ancora in tutte le regioni bagnate dal Mediterraneo, almeno per quanto riguarda il ceto colto. Era del resto la lingua che, per l’alto grado del suo sviluppo, meglio si prestava ad esprimere la ricchezza del pensiero cristiano.

Dopo il sec. III, nell’Oriente, pur restando sempre in onore il greco, vennero usati anche idiomi locali, specialmente l’armeno e il siriaco, mentre nell’Occidente, a partire dall’anno 380, incominciarono le prime manifestazioni letterarie in lingua latina; questa in seguito diventò la lingua esclusiva dei Padri occidentali.

I più antichi documenti patristici restano fuori dalla tradizione letteraria greca. Da principio, infatti, sull’esempio dei redattori della versione dei Settanta e degli agiografi neotestamentari, i Padri, per meglio adattarsi all’intelligenza del popolo, si servirono del greco volgare della coiné, quale si era sviluppato in Alessandria, sotto l’influsso dei circoli giudeo-ellenistici. Ma già negli apologisti del sec. II si riscontra un certo avvicinamento alle norme linguistiche tradizionali. Fu Clemente Alessandrino ad operare il distacco definitivo dalle forme popolari: dopo di lui, l’utilizzazione degli autori classici rientrò nella prassi comune dei Padri greci, e il sec. IV, che vide un vero fiorire di umanesimo cristiano, produsse capolavori tali del pensiero cristiano che, per la purezza della lingua, possono gareggiare con i più autentici modelli della letteratura greca.

Per quanto riguarda l’uso del latino, è già stata rilevata la sua tardiva comparsa tra i Padri occidentali, dovuta non solo alle cause sopra accennate, ma ancora all’indole stessa di questo idioma che, a differenza del greco, è poco malleabile per esprimere idee nuove e astratte. In compenso, sotto l’influenza creatrice degli scrittori cristiani, specialmente di Tertulliano e S. Cipriano, la lingua di Roma entrò in una nuova fase di sviluppo. Il suo lessico, di cui Seneca aveva già lamentato la povertà, si arricchì sostanzialmente di elementi nuovi, derivati in parte dal tesoro linguistico greco, in parte da molti idiotismi dell’epoca e da forme in uso nella tecnica giuridica, e finalmente da neologismi. Ne risultò il latino ecclesiastico, lingua freschissima, piena di vita, strumento docile del pensiero. Per lungo tempo questo latino dei Padri venne ingiustamente disprezzato dagli eruditi, quasi che la letteratura latina avesse detto la sua ultima parola verso la fine del sec. II. I più recenti studi sulla lingua di S. Cipriano, S. Ambrogio, S. Girolamo, S. Agostino e altri hanno dimostrato che i Padri non hanno scritto in maniera indegna dei migliori rappresentanti della latinità classica, pur avendo fatto uso di termini e costruzioni inedite. Per opera loro la letteratura latina, rinnovellata dall’ideale evangelico, da romana si è fatta cristiana; ad essi anzi spetta quasi esclusivamente il merito di aver conservato alto, in tempo di decadenza letteraria, il prestigio della cultura e delle lettere di Roma.


Dal «Commento sui salmi» di sant’Agostino, vescovo
(Sal 32, 29; CCL 38, 272-273)
Coloro che si trovano al di fuori, lo vogliano o no, sono nostri fratelli

Fratelli, vi esortiamo ardentemente a questa carità, non soltanto verso i vostri compagni di fede, ma anche verso quelli che si trovano al di fuori, siano essi pagani che ancora non credono in Cristo, oppure siano divisi da noi, perché, mentre riconoscono con noi lo stesso capo, sono però separati dal corpo. Fratelli, proviamo dolore per essi, come per nostri fratelli. Cesseranno di essere nostri fratelli, quando non diranno più «Padre nostro» (Mt 6, 9).
Il Profeta ha detto ad alcuni: «A coloro che vi dicono: Non siete nostri fratelli, rispondete: Siete nostri fratelli» (Is 66, 5 secondo i LXX). Riflettete di chi abbia potuto usare questa espressione: forse dei pagani? No, perché secondo il linguaggio scritturistico ed ecclesiastico non li chiamiamo fratelli. Forse dei giudei che non hanno creduto in Cristo?
Leggete l’Apostolo e noterete che quando egli dice «fratelli» senza alcuna aggiunta, vuoi intendere i cristiani: «Ma tu, perché giudichi il tuo fratello? E anche tu, perché disprezzi il tuo fratello?» (Rm 14, 10). E in un altro passo scrive: «Siete voi che commettete ingiustizia e rubate, e questo ai fratelli!» (1 Cor 6, 8).
Perciò costoro, che dicono: «Non siete nostri fratelli», ci chiamano pagani. Ecco perché ci vogliono ribattezzare, affermando che noi non possediamo ciò che essi danno. Ne viene di conseguenza il loro errore, di negare cioè che noi siamo loro fratelli. Ma per qual motivo il profeta ci ha detto: «Voi dite loro: siete nostri fratelli», se non perché riconosciamo in essi ciò che da loro non viene riconosciuto in noi? Essi quindi, non riconoscendo il nostro battesimo, dicono che noi non siamo loro fratelli; noi invece, non esigendo di nuovo in loro il battesimo, ma riconoscendolo nostro, diciamo loro: «Siete nostri fratelli».
Dicano pure essi: «Perché ci cercate, perché ci volete?». Noi risponderemo: «Siete nostri fratelli». Ci dicano: «Andatevene da noi, non abbiamo niente a che fare con voi». Ebbene, noi invece abbiamo assolutamente parte con voi: confessiamo l’unico Cristo, dobbiamo essere in un solo corpo, sotto un unico Capo.
Perciò vi scongiuriamo, fratelli, per le stesse viscere della carità, dal cui latte siamo nutriti, dal cui pane ci fortifichiamo, per Cristo nostro Signore, per la sua mansuetudine vi scongiuriamo. È tempo che usiamo una grande carità verso di loro, una infinita misericordia nel supplicare Dio per loro perché conceda finalmente ad essi idee e sentimenti di saggezza per ravvedersi e capire che non hanno assolutamente nessun argomento da opporre alla verità. Ad essi è rimasta solo la debolezza dell’animosità, la quale tanto più è inferma quanto più crede di abbondare in forze. Vi scongiuriamo, dicevo, per i deboli, per i sapienti secondo la carne, per gli uomini rozzi e materiali, per i nostri fratelli che celebrano gli stessi sacramenti anche se non con noi, ma tuttavia gli stessi; per i nostri fratelli che rispondono un unico Amen come noi, anche se non con noi. Esprimete a Dio la vostra profonda carità per loro.


LETTERA 153 – SCARICA QUI IL PDF – Agostino risponde ai quesiti di Macedonio sull’intercessione dei vescovi per i colpevoli (n. 1), affermando ch’essi s’ispirano alla, dottrina evangelica d’amore per i peccatori e all’esempio di Cristo, che perdonò la peccatrice condannando però il peccato (nn 2-15);
riafferma la necessità della giustizia umana ma anche della misericordia cristiana, che tempera la severità dei giudici perché sia amata la predicazione della verità. rivelata (nn. 16-19).
Alcune considerazioni sulla restituzione delle cose rubate al prossimo o malamente guadagnate, sulle mance, sulle usure ecc. (nn. 20-26).


VOX VERITATIS PER SAECULA – IL SIGNIFICATO DELLA PROCLAMAZIONE DEI DOTTORI DELLA CHIESA

(Don Mario Proietti cpps) – Dopo la pubblicazione dei due articoli dove mettevo a confronto il documento sinodale della CEI con l’insegnamento di san Tommaso d’Aquino e san John Henry Newman, proclamati da Papa Leone XIV co-patroni della missione educativa della Chiesa, alcuni amici mi hanno scritto sostenendo che non si può applicare oggi il loro insegnamento, poiché essi vissero in epoche lontane e non conobbero il Concilio Vaticano II né le dinamiche della modernità. È una percezione diffusa anche in certi ambienti ecclesiastici, dove si tende a considerare il Concilio come un nuovo inizio che avrebbe superato o relativizzato la teologia classica.

Il problema non è solo ermeneutico, ma teologico. Pensare che il Concilio abbia “superato” l’insegnamento dei Dottori della Chiesa significa attribuirgli un potere che non ha: quello di riscrivere la verità. Il Concilio Vaticano II non è una nuova rivelazione, ma un rinnovato atto di obbedienza alla Rivelazione unica e immutabile. La Dei Verbum lo afferma con chiarezza: “La Tradizione che viene dagli Apostoli progredisce nella Chiesa sotto l’assistenza dello Spirito Santo” DV 8. Progredisce, non cambia. L’approfondimento della fede non si oppone alla Tradizione, ne è la maturazione viva.

I Dottori della Chiesa non appartengono a un’epoca specifica. Loro appartengono alla verità. La loro dottrina risponde alla grazia che salva. Quando la Chiesa proclama un Dottore, non compie un gesto celebrativo. Riconosce una voce perenne dello Spirito Santo che risuona nella storia come criterio di discernimento. San Tommaso d’Aquino e san John Henry Newman, oggi uniti in questa proclamazione, diventano così i riferimenti luminosi di una stagione educativa che rischia di smarrire la rotta tra relativismo e soggettivismo.

La proclamazione che avverrà il 1° novembre non appartiene al folklore religioso né ai titoli accademici. Nella vita della Chiesa non esistono riconoscimenti onorifici. Ogni gesto del Papa ha un significato dottrinale e un orientamento pastorale. Questo atto indica la direzione da seguire: tornare a un’educazione radicata nella verità e fondata sulla grazia.

In un tempo in cui la formazione rischia di farsi ideologica, la scelta di due maestri come patroni della missione educativa diventa un messaggio di grande chiarezza: formare significa illuminare la coscienza e non assecondarla.

Ribadisco il concetto espresso nei precedenti articoli: San Tommaso, con la sua dottrina sull’unità tra verità e bene, ricorda che la libertà si compie solo nell’adesione al vero. San John Henry Newman, con la sua riflessione sulla coscienza, mostra che la voce interiore non è un tribunale soggettivo, ma l’eco della legge divina impressa nel cuore dell’uomo. In entrambi, la conoscenza diventa atto d’amore, e la ragione si apre alla luce della fede. La loro eredità comune afferma che educare non consiste nell’adattare l’uomo al mondo, piuttosto orientarlo a Dio.

Quando la Chiesa proclama un Dottore, riconosce tre segni inseparabili: la dottrina eminente, che illumina la fede; la santità di vita, che conferma la verità nell’esperienza; e il riconoscimento ecclesiale, che sancisce l’universalità del loro insegnamento. Ogni Dottore è un faro che lo Spirito accende nei tempi di confusione per riportare la Chiesa al suo asse. Agostino fu luce contro il pelagianesimo, Tommaso contro il razionalismo aristotelico, Teresa d’Avila contro il formalismo spirituale, Newman contro il relativismo moderno.

La loro parola rimane attuale perché la verità non cambia. “Gesù Cristo è lo stesso ieri, oggi e sempre” (Eb 13,8): questa è la legge della Chiesa. L’educazione cattolica non può essere dedotta dal consenso, perché essa poggia sulla “verità rivelata” sia nella Sacra Scrittura che nella Tradizione. La Verità cattolica non può fondarsi sul sentimento, perché procede dalla grazia. Per questo, il titolo di Dottore Ecclesiae non può essere visto come un premio “ad personam”. Esso è una missione consegnata alla Chiesa di ogni tempo.

La voce dei Dottori, pur se proviene dal passato, è sempre unita alla verità che attraversa i secoli. Chi pensa di poterli relegare a memorie da museo, dimentica che loro sono maestri viventi della fede. Chi riduce la loro dottrina a un patrimonio superato, nega che lo Spirito Santo guidi la Chiesa nella continuità della verità. La loro parola resta la bussola sicura in mezzo alla tempesta delle ideologie e delle interpretazioni arbitrarie che oggi travolgono anche la pastorale.

Pertanto, in un momento in cui il linguaggio ecclesiale sembra farsi orizzontale e sociologico, la proclamazione di Newman e Tommaso come co-patroni dell’educazione non può essere considerato a mo’ di un gesto ornamentale. Occorre che lo si ricentri in quello che è: un segnale profetico. È come se la Chiesa, guidata dal Papa, ricordasse ai vescovi e ai pastori di ogni ordine che non esiste rinnovamento pastorale senza fedeltà dottrinale, e che ogni vera sinodalità nasce dall’ascolto della Verità prima che dal consenso delle voci. A loro il compito, dunque, di rivedere le personali ed ecclesiali operazioni alla luce di questa sapienza antica e sempre nuova.

In loro la ragione e la fede, la dottrina e la vita, la tradizione e l’educazione tornano a incontrarsi. E forse è proprio questa la lezione per il nostro tempo: la Chiesa non ha bisogno di aggiornarsi per essere ascoltata. Il suo aggiornamento, soprattutto nel linguaggio, deve corrispondere alla fedeltà così che ne segua anche credibilità. I Dottori parlano ancora, perché la Verità parla attraverso di loro. E la loro voce, come dice l’iscrizione che abbiamo posto sotto il loro ritratto, è la voce della verità che attraversa i secoli – Vox Veritatis per Saecula. 

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