“.. l’essere sacerdoti non è qualcosa che dobbiamo costruire accanto alla nostra vita come fosse un nostro possesso, è la nostra stessa vita. E non c’è compito più grande che essere testimone dell’amore di Gesù Cristo.” (Ratzinger-Benedetto XVI)
(1) Non ci siamo forse tutti quanti abituati agli standard del mondo occidentale, ritenendo assolutamente normale pretendere di vivere anche noi conformemente ad essi? Certo, grazie a Dio, oggi sono comuni espressioni come “vivere in modo diverso”, ricercare “stili di vita alternativi”: ma quando si arriva al dunque, quando cioè è lo stile di vita cristiano che si propone come alternativa, allora ce ne veniamo fuori con tutti i luoghi comuni su ciò che oggi va considerato come normale e misconosciamo che l’alternativa potrebbero essere le beatitudini, la fede della Chiesa e lo stile di vita fondato sulla fede, alternativa che davvero ci tocca nella carne e che dovremmo accettare perché la fede divenga credibile.
E le persone attendono qualcuno che sia loro di esempio nel credere, perché anche per loro sarebbe bello poter di nuovo credere, se potessero di nuovo osare credere che c’è un Dio, che c’è un Cristo che mi ama fino all’ora della mia morte. Una volta Albert Camus ha detto: «Je n’aime pas le prêtres anticléricaux» (non amo i preti anticlericali); proprio lui, l’anticlericale. E tuttavia voleva uomini integrali. Non voleva chi, per così dire, minimizza ciò che gli è proprio e dice all’altro: “Non prenderlo troppo sul serio, anch’io non lo faccio. Appartengo anch’io a questo mondo di oggi”. Cercava l’uomo integrale, chi è “se” stesso e chi è fedele a ciò che è. Questo è quello che ci chiede non solo il Vangelo, ma proprio questo tempo che cerca alternative.
Dovremmo nuovamente avere di più il coraggio di mettere da parte questa civetteria. Tutti abbiamo un po’ civettato con questo “prêtre anticlérical”, abbiamo giocato con la figura del prete anticlericale. Il sacerdote deve avere il coraggio di essere integralmente tale, di essere fedele a quella alternativa che egli stesso rappresenta e di testimoniarla. Rientra in questa sfera – non ci piace sentirlo, lo so – anche l’ammonimento del Papa sull’obbligo che ha il sacerdote di essere riconoscibile, grazie anche al suo abbigliamento.
Nel 1968 a Tubinga ho vissuto in prima persona la rivolta degli studenti ed è stato stimolante osservare come quei giovani che rifiutavano i loro padri e il mondo nel quale erano cresciuti, lo evidenziavano drammaticamente anche nel loro modo di vestire: perché sapevano che quel che si è, si deve anche mostrarlo, è necessario che trovi una sua espressione. E poi molto presto ci sono stati dei simpatizzanti che ugualmente davano grande valore all’apparire con la barba e altri segni di quel tipo!
Credo che ci sia in questo qualcosa d’importante: una posizione che ci interessa non può rimanere solo interiore, deve anche mostrarsi, apparire. Chi si nasconde non testimonia e non infervora gli altri, perché si deve presumere che egli stesso dubiti del fatto che quello che a suo tempo ha fatto proprio continui a rimanere la cosa giusta e valga ancora la pena di essere vissuto.
In questo contesto il Papa (Giovanni Paolo II) ha scritto alcune pagine molto interessanti sul tema dell’aggiornamento. Ci ricorda le grandi figure sacerdotali della modernità: Vincenzo de’ Paoli, Giovanni di Dio, il Curato d’Ars, Massimiliano Kolbe. Ognuno di loro era diverso dagli altri, era figlio del suo tempo e ha annunciato il vangelo nel suo tempo, con quella forza caustica e risanante che esso stesso possiede e che deve di volta in volta curare ferite diverse. Da questo punto di vista essi hanno aggiornato il vangelo, ne hanno fatto un vangelo del loro tempo; ma non nel senso che si sono camuffati o che hanno elaborato tattiche, bensì nel senso che ciascuno ha dato una risposta originale al vangelo, perché ognuno, rimanendo se stesso, ha lottato nel suo intimo con il vangelo e con il Signore trovando la sua personale risposta, che poi è stata la risposta del vangelo nel cuore di quel tempo.
Chi vuole usare dell’io di Gesù Cristo, deve credere. E chi crede, prega. E chi prega, testimonia. E chi testimonia, vive di ciò che testimonia. Per questo: siate pastori, non stipendiati. Non come quelli che calcolano quante ore restano per sé e per le proprie occupazioni private. Questo sono costretti a farlo quelli per i quali il lavoro sta accanto alla loro vita. Ma l’essere sacerdoti non è qualcosa che dobbiamo costruire accanto alla nostra vita come fosse un nostro possesso, è la nostra stessa vita. E non c’è compito più grande che essere testimone dell’amore di Gesù Cristo.
(1) Da J. Ratzinger, Opera Omnia, vol. XII, Annunciatori della Parola e servitori della vostra gioia, Città del Vaticano, LEV, 2013, pp. 597-599
Ordinazione delle donne: la questione
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Credo che siano necessarie alcune precisazioni. La prima è che san Paolo ha compiuto qualcosa di nuovo in nome di Cristo e non a titolo personale. Ha anche posto in risalto molto chiaramente che chi riconosce valida la rivelazione veterotestamentaria, ma, d’altro canto, varia qualcosa di propria iniziativa, non agisce correttamente. Il Nuovo è potuto arrivare, perché Dio ha posto il Nuovo in Cristo. E come servitore di questo Nuovo, egli sapeva che non si trattava di una propria invenzione, ma che ciò derivava dalla novità di Gesù Cristo stesso.
Questa, a sua volta, poneva dei vincoli, e su questo egli era molto severo. Pensi, per esempio, al racconto dell’ultima cena, in cui Paolo così scrive: «Io stesso ho ricevuto ciò che vi ho trasmesso». Paolo afferma, quindi, di essere vincolato molto chiaramente a ciò che il Signore ha fatto l’ultima notte e che gli è stato trasmesso. Pensi ancora all’annuncio della resurrezione, in cui egli ripete ancora: «L’ho ricevuto e l’ho anche incontrato personalmente».
Così noi insegniamo e così lo insegniamo noi tutti; chi non lo fa, si allontana da Cristo. Paolo distingue chiaramente tra il Nuovo che deriva da Cristo, e il legame con Cristo, l’unica cosa che lo possa legittimare a mettere in pratica questo Nuovo.
Questo è il primo punto.
Il secondo è che, difatti, in tutti quei campi, in cui non sono stati posti vincoli o direttamente dal Signore o per tramite della tradizione apostolica, avvengono – anche oggi – continui mutamenti. La domanda è, appunto, se una certa realtà viene dal Signore o no, e da che cosa sia possibile capirlo. La risposta, confermata anche dal papa, che noi, come Congregazione per la Dottrina della Fede, abbiamo dato in merito al problema dell’ordinazione delle donne non dice che ora il papa ha posto un atto dottrinale infallibile.
Egli ha piuttosto constatato che la Chiesa, i vescovi di ogni luogo e tempo, hanno sempre insegnato questo e hanno sempre agito in questo modo. Il concilio Vaticano II dice: dove accade che vescovi nel corso di un tempo molto lungo convengano su una dottrina e attuino una condotta unitaria, si tratta di un insegnamento infallibile, che è espressione di un vincolo, che non hanno creato loro stessi. La nostra risposta si riferisce proprio a questo passo del concilio (Lumen gentium, 25).
Non si tratta dunque, come detto precedentemente, di un atto di infallibilità posto dal papa, ma il suo carattere vincolante si basa sulla continuità della tradizione. Infatti questa continuità dall’origine è già qualcosa di molto importante. Tanto più che allora non era affatto una cosa ovvia. Infatti, le antiche religioni conoscevano l’istituzione delle sacerdotesse, e lo stesso avveniva anche nei movimenti gnostici. Uno studioso italiano ha recentemente scoperto che nei secoli V-VI, in Italia meridionale alcuni gruppi avevano istituito delle sacerdotesse, suscitando l’immediata opposizione dei vescovi e del papa. La tradizione non è nata dal mondo circostante, ma dall’interno del cristianesimo.
Ora, però, vorrei aggiungere un’altra informazione, che mi sembra estremamente interessante. Si tratta di una diagnosi fatta da Elisabeth Schüssler-Fiorenza, una delle femministe cattoliche più importanti. È una tedesca, una esegeta importante che ha studiato esegesi a Münster, dove ha sposato un italoamericano, e ora insegna in America. Ha partecipato in modo convinto alla lotta a favore dell’ordinazione delle donne, ma ora pensa che quello sia stato un obiettivo sbagliato. L’esperienza dei sacerdoti-donna nella Chiesa anglicana l’ha portata a concludere che ordination is not a solution, che l’ordinazione sacerdotale non è una soluzione, non è quello che volevamo. Ella ne spiega anche il motivo: ordination is subordination, l’ordinazione significa subordinazione – inserimento organico e dipendenza, è proprio ciò che non vogliamo. Si tratta davvero di una diagnosi corretta.
Entrare in un ordo significa sempre entrare in un rapporto di inserimento organico e dipendenza. Nel nostro movimento di liberazione, dice la signora Schüssler-Fiorenza, non vogliamo entrare né in un «ordine», né in una «subordinazione», ma superare proprio questa realtà. La nostra lotta non deve mirare all’ordinazione delle donne, bensì alla eliminazione dell’ordinazione in quanto tale perché la Chiesa diventi una società di uguali, in cui ci sia solo una shifting leadership, un avvicendamento nella guida.
Dal punto di vista delle motivazioni interne, che stanno all’origine della lotta per l’ordinazione delle donne, e che, di fatto, mirano alla condivisione del potere e alla liberazione dalla dipendenza, la signora Schüssler-Fiorenza ha visto le cose in modo coerente.
Il punto cruciale è, infatti, dato dalla domanda: che cosa è il sacerdozio?
Siamo qui di fronte a un sacramento oppure abbiamo solo a che fare con un avvicendamento nella guida nel quale a nessuno è consentito accedere stabilmente al «potere»? In questo senso, credo che negli anni a venire anche il dibattito su questo tema sarà impostato in modo diverso.
(Joseph Ratzinger – da “IL SALE DELLA TERRA”. Un colloquio con Peter Seewald)
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