Il “Sillabo”, Documento inserito nell’Enciclica “Quanta Cura” del Beato Pio IX, è di una attualità sconvolgente, poiché la riscontriamo – purtroppo – nella “pastorale” moderna (modernista??) non come correzione degli errori dottrinali lì trascritti, ma come stravolgimento della dottrina e capovolgimento della sana dottrina. Per quanti non lo sapessero, SILLABO, significa “raccolta”, una sorta di sommario, di indice che, in questo caso, fu fatto da Pio IX per correggere lo tsunami – un vero fiume in piena – di errori dottrinali che da tempo, penetrati nella Chiesa, erano diventati non solo invadenti, ma anche prepotentemente in grado di modificare il pensiero e il modo di pensare del cattolicesimo.
“Quanta cura”, dunque, è la XXVII enciclica di Papa Pio IX, pubblicata nel 1864, allegandovi il Sillabo degli errori moderni. Con esse venivano condannate tutte le ideologie “moderne”, dal liberalismo al socialismo… un fiume di eresie che lo stesso san Pio X, poi, facendo proprio il contenuto di questa Enciclica, svilupperà e tornerà a condannare con la “Pascendi Dominici Gregis“, sintetizzando il concetto al MODERNISMO, “la cloaca di tutte le eresie”…
Il Sillabo compendia in dieci paragrafi gli errori dell’epoca:
- panteismo, naturalismo e razionalismo assoluto (propp. I-VII);
- razionalismo moderato (VIII-XIV);
- indifferentismo e latitudinarismo (XV-XVIII);
- Socialismo, comunismo, società segrete, società bibliche, società clerico-liberali;
- errori sopra la Chiesa e i suoi diritti (XIX-XXXVIII);
- errori sulla società civile considerata in sé stessa e nei suoi rapporti con la Chiesa (XXXIX-LV);
- errori intorno all’etica naturale e cristiana (LVI-LXIV);
- errori sul matrimonio cristiano (LXV-LXXIV);
- errori intorno al civile principato del Romano Pontefice (LXXV-LXXVI);
- errori riguardanti il liberalismo odierno (LXXVII-LXXX).
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ENCICLICA
QUANTA CURA
DEL SOMMO PONTEFICE
PIO IX
A tutti i Venerabili Fratelli Patriarchi, Primati, Arcivescovi e Vescovi che hanno grazia e comunione con la Sede Apostolica.
Il Papa Pio IX. Venerabili Fratelli, salute e Apostolica Benedizione.
Con quanta cura e pastorale vigilanza i Romani Pontefici Predecessori Nostri, eseguendo l’ufficio loro affidato dallo stesso Cristo Signore nella persona del Beatissimo Pietro, Principe degli Apostoli, e l’incarico di pascere gli agnelli e le pecore, non abbiano mai tralasciato di nutrire diligentemente tutto il gregge del Signore con le parole della fede, di educarlo con la salutare dottrina e di rimuoverlo dai pascoli velenosi, a tutti ed a Voi in particolare, Venerabili Fratelli, è chiaro e manifesto. Invero i predetti Nostri Predecessori dell’augusta Religione cattolica – difensori e garanti della verità e della giustizia, sommamente solleciti della salute delle anime – non ebbero a cuore niente di più che individuare e condannare, con le loro sapientissime Lettere e Costituzioni, tutte le eresie e gli errori i quali, avversando la divina nostra fede, la dottrina della Chiesa cattolica, l’onestà dei costumi e l’eterna salute degli uomini, spesso suscitarono gravi tempeste e funestarono in modo devastante la cristiana e la civile repubblica. Pertanto i suddetti Nostri Predecessori con apostolica forza continuamente resistettero alle nefande macchinazioni di uomini iniqui che, schizzando come i flutti di procelloso mare la spuma delle loro fallacie e promettendo libertà mentre sono schiavi della corruzione, con le loro opinioni ingannevoli e con i loro scritti perniciosissimi si sono sforzati di demolire le fondamenta della Religione cattolica e della società civile, di levare di mezzo ogni virtù e giustizia, di depravare gli animi e le menti di tutti, di sviare dalla retta disciplina dei costumi gl’incauti, e principalmente la gioventù impreparata, e di corromperla miseramente, di imprigionarla nei lacci degli errori e infine di strapparla dal seno della Chiesa cattolica.
Intanto, come a Voi, Venerabili Fratelli, è ben noto, poiché per un’arcana decisione della divina provvidenza, non certo per qualche Nostro merito, fummo innalzati a questa Cattedra di Pietro, vedendo Noi con estremo dolore del Nostro animo l’orribile procella sollevata da tante prave opinioni e i gravissimi, e non mai abbastanza lacrimabili danni che da tanti errori ridondano sul popolo cristiano, per dovere del Nostro Apostolico Ministero, seguendo le vestigia illustri dei Nostri Predecessori, alzammo la Nostra voce e con parecchie Lettere Encicliche divulgate per mezzo della stampa, con le Allocuzioni tenute nel Concistoro e con altre Lettere Apostoliche condannammo i principali errori della tristissima età nostra, e stimolammo la Vostra esimia vigilanza episcopale, ammonimmo con ogni Nostro potere ed esortammo tutti i figli della Chiesa cattolica a Noi carissimi che avessero in sommo abominio l’infezione di una peste così crudele e la fuggissero. Specialmente poi con la Nostra prima Lettera Enciclica del 9 novembre 1846 e con due Allocuzioni (delle quali una fu tenuta da Noi nel Concistoro del 9 dicembre 1854, e l’altra in quello del 9 giugno 1862) condannammo le mostruose enormità delle opinioni che segnatamente dominano in questa nostra età, con grandissimo danno delle anime e con detrimento della stessa civile società, le quali non solo avversano la Chiesa cattolica, la sua salutare dottrina e i suoi venerandi diritti, ma altresì la sempiterna legge naturale scolpita da Dio nei cuori di tutti e la retta ragione; da tali opinioni traggono origine quasi tutti gli altri errori.
Ma quantunque non abbiamo omesso di bandire spesso e di riprovare i più capitali errori di tal fatta, nondimeno la causa della Chiesa cattolica, la salute delle anime a Noi divinamente affidate e il bene della stessa società umana richiedono assolutamente che di nuovo eccitiamo la Vostra pastorale sollecitudine a sconfiggere altre prave opinioni, che scaturiscono dai predetti errori come da fonte. Tali false e perverse opinioni tanto più sono da detestare, in quanto mirano in special modo a far sì che sia impedita e rimossa quella salutare forza che la Chiesa cattolica, per istituzione e mandato del suo divino Autore, deve liberamente esercitare fino alla consumazione dei tempi, sia verso i singoli uomini, sia verso le nazioni, i popoli e i supremi loro Principi: esse operano affinché sia tolta di mezzo quella mutua società e concordia fra il Sacerdozio e l’Impero, che sempre riuscirono fauste e salutari alle cose sia sacre, sia civili [Gregor. XVI, Epist. Encycl.Mirari, 15 Aug. 1832]. Infatti Voi sapete molto bene, Venerabili Fratelli, che in questo tempo si trovano non pochi i quali, applicando al civile consorzio l’empio ed assurdo principio del naturalismo (come lo chiamano) osano insegnare che “l’ottima regione della pubblica società e il civile progresso richiedono che la società umana si costituisca e si governi senza avere alcun riguardo per la religione, come se questa non esistesse o almeno senza fare alcuna differenza tra la vera e le false religioni”. Contro la dottrina delle sacre Lettere della Chiesa e dei Santi Padri, non dubitano di affermare “essere ottima la condizione della società nella quale non si riconosce nell’Impero il dovere di reprimere con pene stabilite i violatori della Religione cattolica, se non in quanto lo chieda la pubblica pace”. Con tale idea di governo sociale, assolutamente falsa, non temono di caldeggiare l’opinione sommamente dannosa per la Chiesa cattolica e per la salute delle anime, dal Nostro Predecessore Gregorio XVI di venerata memoria chiamata delirio [Eadem Encycl. Mirari], cioè “la libertà di coscienza e dei culti essere un diritto proprio di ciascun uomo che si deve proclamare e stabilire per legge in ogni ben ordinata società ed i cittadini avere diritto ad una totale libertà che non deve essere ristretta da nessuna autorità ecclesiastica o civile, in forza della quale possano palesemente e pubblicamente manifestare e dichiarare i loro concetti, quali che siano, sia con la parola, sia con la stampa, sia in altra maniera”. E mentre affermano ciò temerariamente, non pensano e non considerano che essi predicano “la libertà della perdizione” [S. August., Epist. 105, al. 166], e che “se in nome delle umane convinzioni sia sempre libero il diritto di disputare, non potranno mai mancare coloro che osano resistere alla verità e confidano nella loquacità della sapienza umana, mentre la fede e la sapienza cristiane debbono evitare questa nociva vanità, in linea con la stessa istituzione del Signor Nostro Gesù Cristo” [S. Leo, Epist. 164, al. 133, § 2, edit. Rall].
E poiché nei luoghi nei quali la religione è stata rimossa dalla società civile o nei quali la dottrina e l’autorità della rivelazione divina sono state ripudiate, anche lo stesso autentico concetto della giustizia e del diritto umano si copre di tenebre e si perde, ed in luogo della giustizia vera e del diritto legittimo si sostituisce la forza materiale, quindi si fa chiaro il perché alcuni, spregiando completamente e nulla valutando i principi certissimi della sana ragione, ardiscono proclamare che “la volontà del popolo manifestata attraverso l’opinione pubblica (come essi dicono) o in altro modo costituisce una sovrana legge, sciolta da qualunque diritto divino ed umano, e nell’ordine Politico i fatti consumati, per ciò stesso che sono consumati, hanno forza di diritto”. Ma chi non vede e non sente pienamente che una società di uomini sciolta dai vincoli della religione e della vera giustizia non può avere altro proposito fuorché lo scopo di acquisire e di accumulare ricchezze, e non può seguire nelle sue operazioni altra legge fuorché un’indomita cupidigia di servire alle proprie voluttà e comodità? Conseguentemente questi uomini, con odio veramente acerbo, perseguitano le Famiglie Religiose, quantunque sommamente benemerite della cosa cristiana, civile e letteraria, e vanno dicendo che esse non hanno alcuna ragione di esistere, e con ciò applaudono le idee degli eretici. Infatti, come sapientissimamente insegnava Pio VI, Nostro Predecessore di venerata memoria, “l’abolizione dei regolari lede lo stato di pubblica professione dei consigli evangelici, lede una maniera di vita raccomandata nella Chiesa come consentanea alla dottrina Apostolica, lede gli stessi insigni fondatori che veneriamo sopra gli altari, i quali non ispirati che da Dio istituirono queste società” [Epist. ad Card. De la Rochefoucault, 10 Martii 1791]. Ed affermano altresì empiamente doversi togliere ai cittadini e alla Chiesa la facoltà “di potere pubblicamente erogare elemosine per motivo di cristiana carità”, e doversi abolire la legge “che per ragione del culto divino proibisce le opere servili in certi determinati giorni” con il fallace pretesto che quella facoltà e quella legge contrastano con i principi della migliore economia pubblica. Né contenti di allontanare la religione dalla pubblica società, vogliono rimuoverla anche dalle famiglie private. Infatti, insegnando e professando il funestissimo errore del Comunismo e del Socialismo dicono che “la società domestica, cioè la famiglia, riceve dal solo diritto civile ogni ragione della propria esistenza, e che pertanto dalla sola legge civile procedono e dipendono tutti i diritti dei genitori sui figli, principalmente quello di curare la loro istruzione e la loro educazione”. Con tali empie opinioni e macchinazioni codesti fallacissimi uomini intendono soprattutto eliminare dalla istruzione e dalla educazione la dottrina salutare e la forza della Chiesa cattolica, affinché i teneri e sensibili animi dei giovani vengano miseramente infettati e depravati da ogni sorta di errori perniciosi e di vizi. Infatti, tutti coloro che si sono sforzati di turbare le cose sacre e le civili, e sovvertire il retto ordine della società e cancellare tutti i diritti divini ed umani, rivolsero sempre i loro disegni, studi e tentativi ad ingannare specialmente e a corrompere l’improvvida gioventù, come sopra accennammo, e nella corruzione della medesima riposero ogni loro speranza. Pertanto non cessano mai con modi totalmente nefandi di vessare l’uno e l’altro Clero da cui, come viene splendidamente attestato dai certissimi monumenti della storia, tanti grandi vantaggi derivarono alla cristiana, civile e letteraria repubblica; e vanno dicendo che “il Clero, come nemico del vero ed utile progresso della scienza e della civiltà, deve essere rimosso da ogni ingerenza ed ufficio nella istruzione e nella educazione dei giovani”.
Altri poi, rinnovando le prave e tante volte condannate affermazioni dei novatori, ardiscono con rilevante impudenza sottomettere all’arbitrio dell’autorità civile la suprema autorità della Chiesa e di questa Sede Apostolica, ad essa affidata da Cristo Signore, e di negare alla Chiesa e alla Sede Apostolica tutti i diritti che a loro appartengono intorno alle cose che si riferiscono all’ordine esterno. Infatti costoro non si vergognano di affermare che “le leggi della Chiesa non obbligano in coscienza se non quando vengono promulgate dal potere civile; che gli atti e i decreti dei Romani Pontefici relativi alla Religione e alla Chiesa hanno bisogno della sanzione e dell’approvazione, o almeno dell’assenso, del Potere civile; che le Costituzioni Apostoliche [Clement. XII, In eminenti; Benedict. XIV,Providas Romanorum; Pii VII, Ecclesiam; Leonis XII, Quo graviora] con le quali sono condannate le associazioni clandestine, sia che in esse si esiga, sia che non si esiga il giuramento di mantenere il segreto, e con le quali sono fulminati di anatema i loro seguaci e fautori, non hanno vigore in quelle contrade dove siffatte associazioni sono tollerate dal governo civile; che la scomunica inflitta dal Concilio di Trento e dai Romani Pontefici a coloro i quali invadono ed usurpano i diritti e i beni della Chiesa si appoggia alla confusione dell’ordine spirituale col civile e politico, per promuovere il solo bene mondano; che la Chiesa non deve decretare nulla che possa costringere le coscienze dei fedeli in ordine all’uso delle cose temporali; che alla Chiesa non compete il diritto di reprimere con pene temporali i violatori delle sue leggi; che sia conforme alla sacra teologia ed ai principi del diritto pubblico attribuire e rivendicare al governo civile la proprietà dei beni posseduti dalle Chiese, dalle Famiglie Religiose e dagli altri luoghi pii”.
Né arrossiscono di professare apertamente e pubblicamente le parole e i principi degli eretici, da cui nascono tante perverse sentenze ed errori. Essi ripetono che “la potestà ecclesiastica non è per diritto divino distinta ed indipendente dalla potestà civile, e che questa distinzione e questa indipendenza non possono essere mantenute senza che da parte della Chiesa non si usurpino i diritti essenziali della potestà civile”. Né possiamo passare sotto silenzio l’audacia di coloro che, intolleranti della sana dottrina, pretendono “che si possa, senza peccato e pregiudizio della professione cattolica, negare l’assenso e l’obbedienza a quei decreti e a quelle disposizioni della Sede Apostolica che hanno per oggetto il bene generale della Chiesa, i suoi diritti e la sua disciplina, purché essi non tocchino i dogmi della fede e dei costumi”. Quanto ciò grandemente contrasti con il dogma cattolico della piena potestà del Romano Pontefice, divinamente conferitagli dallo stesso Cristo Signore in ordine a pascere, reggere e governare la Chiesa universale, non è chi apertamente e chiaramente non vegga ed intenda. Noi dunque, in tanta perversità di depravate opinioni, ben memori del Nostro apostolico ufficio e massimamente solleciti della santissima nostra religione, della sana dottrina e della salute delle anime affidateci da Dio, e del bene della stessa società umana, abbiamo ritenuto di dovere nuovamente elevare la Nostra apostolica voce. Pertanto, tutte e singole le prave opinioni e dottrine espresse nominatamente in questa Lettera, con la Nostra autorità apostolica riproviamo, proscriviamo e condanniamo; e vogliamo e comandiamo che esse siano da tutti i figli della Chiesa cattolica tenute per riprovate, proscritte e condannate.
Ma, oltre a queste, Voi ben sapete, Venerabili Fratelli, che nel presente tempo altre empie dottrine d’ogni genere vengono disseminate dai nemici di ogni verità e giustizia con pestiferi libri, libelli e giornali sparsi per tutto il mondo, con i quali essi illudono i popoli e maliziosamente mentiscono. Né ignorate come anche in questa nostra età si trovino alcuni che, mossi ed incitati dallo spirito di Satana, pervennero a tanta empietà da non paventare di negare con scellerata impudenza lo stesso Dominatore e Signore Nostro Gesù Cristo ed impugnare la sua Divinità. E qui non possiamo astenerci dall’elogiare con massime e meritate lodi Voi, Venerabili Fratelli, che in nessun modo tralasciaste di elevare con tutto zelo la Vostra voce episcopale contro tanta nequizia.
Pertanto, con questa Nostra Lettera riprendiamo con tanto affetto il discorso con Voi che, chiamati a partecipare della Nostra sollecitudine, Ci siete di sommo conforto, letizia e consolazione in mezzo alle gravissime Nostre angosce, per l’egregia religione e pietà per cui Vi siete segnalati, e per quel meraviglioso amore, per la fedeltà e per l’osservanza con cui, stretti a Noi ed a quest’Apostolica Sede con cuori concordi, Vi sforzate di adempiere strenuamente e diligentemente al Vostro gravissimo ministero episcopale. In verità, dall’esimio Vostro zelo pastorale Ci aspettiamo che, impugnando la spada dello spirito, che è la parola di Dio, e confortati nella grazia del Signore Nostro Gesù Cristo, vogliate con rinforzate cure ogni giorno più provvedere a che i fedeli affidati alla Vostra sollecitudine “si astengano dalle erbe nocive che Gesù Cristo non coltiva perché non sono piantagione del Padre” [S. Ignatius M. Ad Philadelph., 3]. Né mancate d’inculcare sempre agli stessi fedeli che ogni vera felicità ridonda negli uomini dall’augusta nostra religione, dalla sua dottrina e dalla sua pratica: è beato quel popolo il cui Signore è il suo Dio (Sal 144,15). Insegnate “che sul fondamento della fede cattolica restano saldi i regni [S. Caelest., Epist. 22 ad Synod. Ephes., apud Coust., p. 1200], e nulla è così mortifero, così vicino al precipizio, così esposto a tutti i pericoli, come il credere che ci possa bastare di aver ricevuto, quando nascemmo, il libero arbitrio, e non occorra domandare più altro al Signore: questo è dimenticare il nostro creatore e rinnegare, per mostrarci liberi, la sua potenza” [S. Innocent. I, Epist. 29 ad Episc. Conc. Carthag., apud Coust., p. 891]. Né trascurate parimenti d’insegnare “che la reale potestà non fu data solamente per il governo del mondo, bensì soprattutto per il presidio della Chiesa [S. Leo, Epist. 156, al. 125], e nulla vi è che ai Principi e ai Re possa recare maggior profitto e gloria quanto, come un altro sapientissimo e fortissimo Nostro Predecessore, San Felice, inculcava a Zenone imperatore: lasciare che la Chiesa cattolica… si serva delle sue leggi, e non permettere che alcuno si opponga alla sua libertà… Giacché è certo che sarà loro utile che, quando si tratta della causa di Dio, si studino, secondo la Sua legge, non di anteporre ma di sottoporre la regia volontà ai Sacerdoti di Cristo” [Pius VII, Epist. Encycl. Diu satis, 15 Mai 1800].
Ma se fu sempre necessario, Venerabili Fratelli, ora specialmente, in mezzo a così grandi calamità della Chiesa e della società civile, in tanta cospirazione di avversari contro il cattolicesimo e questa Sede Apostolica, e fra così gran cumulo di errori, è assolutamente indispensabile che ricorriamo con fiducia al trono della grazia per ottenere misericordia e trovare benevolenza nell’aiuto opportuno. Perciò abbiamo ritenuto giusto eccitare la devozione di tutti i fedeli affinché, insieme con Noi e con Voi, con fervidissime ed umilissime preci preghino e supplichino incessantemente il clementissimo Padre della luce e delle misericordie; nella pienezza della fede ricorrano sempre al Signore Nostro Gesù Cristo, che ci redense a Dio nel Sangue Suo; e caldamente e continuamente implorino il Suo dolcissimo Cuore, vittima della Sua ardentissima carità verso di noi, perché coi vincoli del Suo amore attiri tutto a se stesso, e tutti gli uomini, infiammati del Suo santissimo amore, camminino rettamente secondo il Cuore Suo, in tutto piacendo a Dio e fruttificando in ogni opera buona. Ed essendo, senza dubbio, più gradite a Dio le preghiere degli uomini se questi ricorrono a Lui con l’animo mondo da ogni macchia, perciò abbiamo creduto giusto aprire con apostolica liberalità i celesti tesori della Chiesa affidati alla Nostra dispensazione, perché gli stessi fedeli più intensamente accesi alla vera pietà e lavati dalle macchie dei peccati nel Sacramento della Penitenza, con maggiore fiducia volgano a Dio le loro preghiere e conseguano la Sua grazia e la Sua misericordia.
Dunque con questa Lettera, con la Nostra autorità Apostolica, a tutti e ai singoli fedeli del mondo cattolico di ambo i sessi concediamo l’Indulgenza Plenaria in forma di Giubileo per il periodo solamente di un mese, fino a tutto il prossimo anno 1865, e non oltre, da stabilirsi da Voi, Venerabili Fratelli, e dagli altri legittimi Ordinari, nello stesso modo e forma in cui all’inizio del sommo Nostro Pontificato lo concedemmo con l’apostolica Nostra Lettera in forma di Breve del 20 novembre 1846 e mandata a tutto il vostro Ordine episcopale, la quale comincia “Arcanae Divinae Providentiae consilio”, e con tutte le stesse facoltà che con detta Lettera furono da Noi concesse. Vogliamo però che si osservino tutte quelle cose che sono prescritte in detta Lettera, e si eccettuino quelle che dichiarammo eccettuate. Ciò concediamo, nonostante le cose contrarie, qualunque siano, ancorché degne di speciale ed individua menzione e deroga. E perché siano eliminati ogni dubbio e difficoltà, abbiamo disposto che Vi si mandi copia di tale Lettera.
“Preghiamo, Venerabili Fratelli, dall’intimo del cuore e con tutta l’anima, la misericordia di Dio, perché Egli stesso disse: “Non disperderò la mia misericordia da loro”. Domandiamo e riceveremo, e se vi saranno indugio e ritardo nel ricevere, poiché peccammo gravemente, bussiamo, perché a chi bussa verrà aperto, purché alla porta si bussi con le preghiere, con i gemiti e con le lacrime nostre, con le quali bisogna insistere e durare; e se sia unanime la nostra orazione… ciascuno preghi Dio non solamente per sé, ma per tutti i fratelli, così come il Signore ci insegnò a pregare” [S. Cyprian., Epist. 11]. E perché il Signore più facilmente si pieghi alle preghiere Nostre, Vostre e di tutti i fedeli, con ogni fiducia adoperiamo presso di Lui come interceditrice l’Immacolata e Santissima Vergine Maria, Madre di Dio, la quale uccise tutte le eresie nell’universo mondo, e madre amantissima di tutti noi “è tutta soave… e piena di misericordia… a tutti si offre indulgente, a tutti clementissima; e con un sicuro amplissimo affetto ha compassione delle necessità di tutti” [S. Bernard., Serm. de duodecim praerogativis B. M. V. ex verbis Apocalyp.]; come Regina che sta alla destra dell’Unigenito Figlio suo, il Signore Nostro Gessù Cristo, in manto d’oro e riccamente vestita, nulla esiste che da Lui non possa impetrare. Domandiamo anche l’aiuto del Beatissimo Pietro, Principe degli Apostoli, e del suo Coapostolo Paolo e di tutti i Santi che, divenuti già amici di Dio, pervennero al regno celeste e, coronati, posseggono la palma; sicuri della loro immortalità, sono solleciti della nostra salvezza.
Infine, invocando da Dio, con tutto l’animo, su di Voi l’abbondanza di tutti i doni celesti, come pegno della singolare Nostra benevolenza verso di Voi, con tanto amore impartiamo l’Apostolica Benedizione che viene dall’intimo del Nostro cuore a Voi stessi, Venerabili Fratelli, ed a tutti i Chierici e Laici fedeli affidati alle Vostre cure.
Dato a Roma, presso San Pietro, 1’8 dicembre dell’anno 1864, decimo dopo la dogmatica Definizione dell’Immacolata Concezione della Vergine Maria Madre di Dio, anno decimonono del Nostro Pontificato.
SILLABO
[ELENCO] DEI PRINCIPALI ERRORI DELL’ETÀ NOSTRA, CHE SON NOTATI NELLE ALLOCUZIONI CONCISTORIALI, NELLE ENCICLICHE E IN ALTRE LETTERE APOSTOLICHE DEL SS. SIGNOR NOSTRO PAPA PIO IX
I – Panteismo, naturalismo e razionalismo assoluto
I. Non esiste niun Essere divino, supremo, sapientissimo, provvidentissimo, che sia distinto da quest’universo, e Iddio non è altro che la natura delle cose, e perciò va soggetto a mutazioni, e Iddio realmente vien fatto nell’uomo e nel mondo, e tutte le cose sono Dio ed hanno la sostanza stessissima di Dio; e Dio è una sola e stessa cosa con il mondo, e quindi si identificano parimenti tra loro, spirito e materia, necessità e libertà, vero e falso, bene e male, giusto ed ingiusto.
Alloc. Maxima quidem, 9 giugno 1862.
II. È da negare qualsiasi azione di Dio sopra gli uomini e il mondo.
Alloc. Maxima quidem, 9 giugno 1862.
III. La ragione umana è l’unico arbitro del vero e del falso, del bene e del male indipendentemente affatto da Dio; essa è legge a se stessa, e colle sue forze naturali basta a procurare il bene degli uomini e dei popoli.
Alloc. Maxima quidem, 9 giugno 1862.
IV. Tutte le verità religiose scaturiscono dalla forza nativa della ragione umana; laonde la ragione è la prima norma, per mezzo di cui l’uomo può e deve conseguire la cognizione di tutte quante le verità, a qualsivoglia genere esse appartengano.
Encicl. Qui pluribus, 9 novembre 1846.
Encicl. Singulari quidem, 17 marzo 1856.
Alloc. Maxima quidem, 9 giugno 1862.
V. La rivelazione divina è imperfetta, e perciò soggetta a processo continuo e indefinito, corrispondente al progresso della ragione umana.
Encicl. Qui pluribus, 9 novembre 1846.
Alloc. Maxima quidem, 9 giugno 1862.
VI. La fede di Cristo si oppone alla umana ragione; e la rivelazione divina non solo non giova a nulla, ma nuoce anzi alla perfezione dell’uomo.
Encicl. Qui pluribus, 9 novembre 1846.
Alloc. Maxima quidem, 9 giugno 1862.
VII. Le profezie e i miracoli esposti e narrati nella sacra Scrittura sono invenzioni di poeti, e i misteri della fede cristiana sono il risultato di indagini filosofiche; e i libri dell’Antico e Nuovo Testamento contengono dei miti; e Gesù stesso è un mito.
Encicl. Qui pluribus, 9 novembre 1846.
Alloc. Maxima quidem, 9 giugno 1862.
II – Razionalismo moderato
VIII. Siccome la ragione umana si equipara colla stessa religione, perciò le discipline teologiche si devono trattare al modo delle filosofiche.
Alloc. Singulari quadam perfusi, 9 dicembre 1854.
IX. Tutti indistintamente i dommi della religione cristiana sono oggetto della naturale scienza ossia filosofia, e l’umana ragione, storicamente solo coltivata, può colle sue naturali forze e principi pervenire alla vera scienza di tutti i dommi, anche i più reconditi, purché questi dommi siano stati alla stessa ragione proposti.
Lett. all’Arciv. di Frisinga Gravissimas, 11 dicembre 1862.
Lett. al medesimo Tuas libenter, 21 dicembre 1862.
X. Altro essendo il filosofo ed altro la filosofia, quegli ha diritto e ufficio di sottomettersi alle autorità che egli ha provato essere vere: ma la filosofia né può, né deve sottomettersi ad alcuna autorità.
Lett. all’Arciv. di Frisinga Gravissimas, 11 dicembre 1862.
Lett. al medesimo Tuas libenter, 21 dicembre 1862.
XI. La Chiesa non solo non deve mai correggere la filosofia, ma anzi deve tollerarne gli errori e lasciare che essa corregga se stessa.
Lett. all’Arciv. di Frisinga Gravissimas, 11 dicembre 1862.
XII. I decreti della Sede apostolica e delle romane Congregazioni impediscono il libero progresso della scienza.
Lett. all’Arciv. di Frisinga Tuas libenter, 21 dicembre 1862.
XIII. Il metodo e i principi, coi quali gli antichi Dottori scolastici coltivarono la teologia, non si confanno alle necessità dei nostri tempi e al progresso delle scienze.
Lett. all’Arciv. di Frisinga Tuas libenter, 21 dicembre 1862.
XIV. La filosofia si deve trattare senza aver riguardo alcuno alla soprannaturale rivelazione.
Lett. all’Arciv. di Frisinga Tuas libenter, 21 dicembre 1862.
N. B. – Col sistema del razionalismo sono in massima parte uniti gli errori di Antonio Günther, che vengono condannati nella Lett. al Card. Arciv. di Colonia, Eximiam tuam, 15 giugno 1847, e nella Lett. al Vesc. di Breslavia, Dolore haud mediocri, 30 aprile 1860.
III – Indifferentismo, latitudinarismo
XV. È libero ciascun uomo di abbracciare e professare quella religione che, sulla scorta del lume della ragione, avrà reputato essere vera.
Lett. Apost. Multiplices inter, 10 giugno 1851.
Alloc. Maxima quidem, 9 giugno 1862.
XVI. Gli uomini nell’esercizio di qualsivoglia religione possono trovare la via della eterna salvezza, e conseguire l’eterna salvezza.
Encicl. Qui pluribus, 9 novembre 1846.
Alloc. Ubi primum, 17 dicembre 1847.
Encicl. Singulari quidem, 17 marzo 1856.
XVII. Almeno si deve bene sperare della eterna salvezza di tutti coloro che non sono nella vera Chiesa di Cristo.
Alloc. Singulari quadam, 9 dicembre 1854.
Encicl. Quanto conficiamur, 17 agosto 1863.
XVIII. Il protestantesimo non è altro che una forma diversa della medesima vera religione cristiana, nella quale egualmente che nella Chiesa cattolica si può piacere a Dio.
Encicl. Noscitis et Nobiscum, 8 dicembre 1849.
IV – Socialismo, comunismo, società segrete, società bibliche, società clerico-liberali
Tali pestilenze, spesso, e con gravissime espressioni, sono riprovate nella Epist. Encicl. Qui pluribus, 9 novembre 1846; nella Alloc.Quibus quantisque, 20 aprile 1849: nella Epist. Encicl. Nostis et Nobiscum, 8 dicembre 1849; nella Alloc. Singulari quadam, 9 dicembre 1854; nell’Epist. Quanto conficiamur, 10 agosto 1863.
V – Errori sulla Chiesa e suoi diritti
XIX. La Chiesa non è una vera e perfetta società pienamente libera, né è fornita di suoi propri e costanti diritti, conferitile dal suo divino Fondatore, ma tocca alla potestà civile definire quali siano i diritti della Chiesa e i limiti entro i quali possa esercitare detti diritti.
Alloc. Singulari quadam, 9 dicembre 1854.
Alloc. Multis gravibusque, 18 dicembre 1860.
Alloc. Maxima quidem, 9 giugno 1862.
XX. La potestà ecclesiastica non deve esercitare la sua autorità senza licenza e consenso del governo civile.
Alloc. Meminit unusquisque, 30 settembre 1861.
XXI. La Chiesa non ha potestà di definire dommaticamente che la religione della Chiesa cattolica sia l’unica vera religione.
Lett. Apost. Multiplices inter, 10 giugno 1851.
XXII. L’obbligazione che vincola i maestri e gli scrittori cattolici, si riduce a quelle cose solamente, che dall’infallibile giudizio della Chiesa sono proposte a credersi da tutti come dommi di fede.
Lett. all’Arciv. di Frisinga Tuas libenter, 21 dicembre 1862.
XXIII. I Romani Pontefici ed i Concilii ecumenici si scostarono dai limiti della loro potestà, usurparono i diritti dei Principi, ed anche nel definire cose di fede e di costumi errarono.
Lett. Apost. Multiplices inter, 10 giugno 1851.
XXIV. La Chiesa non ha potestà di usare la forza, né alcuna temporale potestà diretta o indiretta.
Lett. Apost. Ad Apostolicae, 22 agosto 1851.
XXV. Oltre alla potestà inerente all’episcopato, ve n’è un’altra temporale che è stata ad esso concessa o espressamente o tacitamente dal civile impero il quale per conseguenza la può revocare, quando vuole.
Lett. Apost. Ad apostolicae, 22 agosto 1851.
XXVI. La Chiesa non ha connaturale e legittimo diritto di acquistare e di possedere.
Alloc. Nunquam fore, 15 dicembre 1856.
Lett. Encicl. Incredibili, 17 settembre 1863.
XXVII. I sacri ministri della Chiesa ed il Romano Pontefice debbono essere assolutamente esclusi da ogni cura e da ogni dominio di cose temporali.
Alloc. Maxima quidem, 9 giugno 1862.
XXVIII. Ai Vescovi, senza il permesso del Governo, non è lecito neanche promulgare le Lettere apostoliche.
Alloc. Nunquam fore, 15 dicembre 1856.
XXIX. Le grazie concesse dal Romano Pontefice si debbono stimare irrite, quando non sono state implorate per mezzo del Governo.
Alloc. Nunquam fore, 15 dicembre 1856.
XXX. L’immunità della Chiesa e delle persone ecclesiastiche ebbe origine dal diritto civile.
Lett. Apost. Multiplices inter, 10 giugno 1851.
XXXI. Il foro ecclesiastico per le cause temporali dei chierici, siano esse civili o criminali, dev’essere assolutamente abolito, anche senza consultare la Sede apostolica, e nonostante che essa reclami.
Alloc. Acerbissimum, 27 settembre 1852.
Alloc. Nunquam fore, 15 dicembre 1856.
XXXII. Senza violazione alcuna del naturale diritto e delle equità, si può abrogare l’immunità personale, in forza della quale i chierici sono esenti dalla leva e dall’esercizio della milizia; e tale abrogazione è voluta dal civile progresso, specialmente in quelle società le cui costituzioni sono secondo la forma del più libero governo.
Epist. al Vescovo di Monreale Singularis Nobisque, 29 sett. 1864.
XXXIII. Non appartiene unicamente alla ecclesiastica potestà di giurisdizione, qual diritto proprio e connaturale, il dirigere l’insegnamento della teologia.
Lett. all’Arciv. di Frisinga Tuas libenter, 21 dicembre 1862.
XXXIV. La dottrina di coloro che paragonano il Romano Pontefice ad un Principe libero che esercita la sua azione in tutta la Chiesa, è una dottrina la quale prevalse nel medio evo.
Lett. Apost. Ad apostolicae, 22 agosto 1851.
XXXV. Niente vieta che per sentenza di qualche Concilio generale, o per opera di tutti i popoli, il sommo Pontificato si trasferisca dal Vescovo Romano e da Roma ad un altro Vescovo e ad un’altra città.
Lett. Apost. Ad apostolicae, 22 agosto 1851.
XXXVI. La definizione di un Concilio nazionale non si può sottoporre a verun esame, e la civile amministrazione può considerare tali definizioni come norma irretrattabile di operare.
Lett. Apost. Ad apostolicae, 22 agosto 1851.
XXXVII. Si possono istituire Chiese nazionali non soggette all’autorità del Romano Pontefice, e del tutto separate.
Alloc. Multis gravibusque, 17 dicembre 1860.
Alloc. Iamdudum cernimus, 18 marzo 1861.
XXXVIII. Gli arbìtri eccessivi dei Romani Pontefici contribuirono alla divisione della Chiesa in quella di Oriente e in quella di Occidente.
Lett. Apost. Ad apostolicae, 22 agosto 1851.
VI – Errori che riguardano la società civile, considerata in sé come nelle sue relazioni con la Chiesa
XXXIX. Lo Stato, come quello che è origine e fonte di tutti i diritti, gode un certo suo diritto del tutto illimitato.
Alloc. Maxima quidem, 9 giugno 1862.
XL. La dottrina della Chiesa cattolica è contraria al bene ed agl’interessi della umana società.
Encicl. Qui pluribus, 9 novembre 1846.
Alloc. Quibus quantisque, 20 aprile 1849.
XLI. Al potere civile, anche esercitato dal signore infedele, compete la potestà indiretta negativa sopra le cose sacre; perciò gli appartiene non solo il diritto del cosidetto exequatur, ma anche il diritto del cosidetto appello per abuso.
Lett. Apost. Ad apostolicae, 22 agosto 1851.
XLII. Nella collisione delle leggi dell’una e dell’altra potestà, deve prevalere il diritto civile.
Lett. Apost. Ad apostolicae, 22 agosto 1851.
XLIII. Il potere laicale ha la potestà di rescindere, di dichiarare e far nulli i solenni trattati (che diconsi Concordati) pattuiti con la Sede apostolica intorno all’uso dei diritti appartenenti alla immunità ecclesiastica; e ciò senza il consenso della stessa Sede apostolica, ed anzi, malgrado i suoi reclami.
Alloc. In Concistoriali, 1° novembre 1850.
Alloc. Multis gravibusque, 17 dicembre 1860.
XLIV. L’autorità civile può interessarsi delle cose che riguardano la religione, i costumi ed il governo spirituale. Quindi può giudicare delle istruzioni che i pastori della Chiesa sogliono dare per dirigere, conforme al loro ufficio, le coscienze, ed anzi può fare regolamenti intorno all’amministrazione dei Sacramenti ed alle disposizioni necessarie per riceverli.
Alloc. In Concistoriali, 1° novembre 1850.
Alloc. Maxima quidem, 9 giugno 1862.
XLV. L’intero regolamento delle pubbliche scuole, nelle quali è istruita la gioventù dello Stato, eccettuati solamente sotto qualche riguardo i Seminari vescovili, può e dev’essere attribuito all’autorità civile; e talmente attribuito, che non si riconosca in nessun’altra autorità il diritto di intromettersi nella disciplina delle scuole, nella direzione degli studi, nella collazione dei gradi, nella scelta e nell’approvazione dei maestri.
Alloc. In Concistoriali, 1° novembre 1850.
Alloc. Quibus luctuosissimis, 5 settembre 1851.
XLVI. Anzi, negli stessi Seminari dei Chierici, il metodo da adoperare negli studi è soggetto alla civile autorità.
Alloc. Numquam fore, 15 dicembre 1856.
XLVII. L’ottima forma della civile società esige che le scuole popolari, quelle cioè che sono aperte a tutti i fanciulli di qualsiasi classe del popolo, e generalmente gl’istituti pubblici, che sono destinati all’insegnamento delle lettere e delle più gravi discipline, nonché alla educazione della gioventù, si esimano da ogni autorità, forza moderatrice ed ingerenza della Chiesa, e si sottomettano al pieno arbitrio dell’autorità civile e politica secondo il placito degli imperanti e la norma delle comuni opinioni del secolo.
Epist. all’Arciv. di Frisinga Quum non sine, 14 luglio 1864.
XLVIII. Può approvarsi dai cattolici quella maniera di educare la gioventù, la quale sia disgiunta dalla fede cattolica, e dall’autorità della Chiesa e miri solamente alla scienza delle cose naturali, e soltanto o per lo meno primieramente ai fini della vita sociale.
Epist. all’Arciv. di Frisinga Quum non sine, 14 luglio 1864.
IL. La civile autorità può impedire ai Vescovi ed ai popoli fedeli di comunicare liberamente e mutuamente col Romano Pontefice.
Alloc. Maxima quidem, 9 giugno 1862.
L. L’autorità laicale ha di per sé il diritto di presentare i Vescovi e può esigere da loro che incomincino ad amministrare le diocesi prima che essi ricevano dalla S. Sede la istituzione canonica e le Lettere apostoliche.
Alloc. Nunquam fore, 15 dicembre 1856.
LI. Anzi il Governo laicale ha diritto di deporre i Vescovi dall’esercizio del ministero pastorale, né è tenuto ad obbedire al Romano Pontefice nelle cose che spettano alla istituzione dei Vescovati e dei Vescovi.
Lett. Apost. Multiplices inter, 10 giugno 1851.
Alloc. Acerbissimum, 27 settembre 1852.
LII. Il Governo può di suo diritto mutare l’età prescritta dalla Chiesa in ordine alla professione religiosa tanto delle donne quanto degli uomini, ed ingiungere alle famiglie religiose di non ammettere alcuno ai voti solenni senza suo permesso.
Alloc. Nunquam fore, 15 dicembre 1856.
LIII. Sono da abrogarsi le leggi che appartengono alla difesa dello stato delle famiglie religiose, e dei loro diritti e doveri; anzi il Governo civile può dare aiuto a tutti quelli i quali vogliono disertare la maniera di vita religiosa intrapresa, e rompere i voti solenni; e parimenti, può spegnere del tutto le stesse famiglie religiose, come anche le Chiese collegiate ed i benefici semplici ancorché di giuspatronato e sottomettere ed appropriare i loro beni e le rendite all’amministrazione ed all’arbitrio della civile potestà.
Alloc. Acerbissimum, 27 settembre 1852.
Alloc. Probe memineritis, 22 gennaio 1855.
Alloc. Cum saepe, 27 luglio 1855.
LIV. I Re e i Principi non solamente sono esenti dalla giurisdizione della Chiesa, ma anzi nello sciogliere le questioni di giurisdizione sono superiori alla Chiesa.
Lett. Apost. Multiplices inter, 10 giugno 1851.
LV. È da separarsi la Chiesa dallo Stato, e lo Stato dalla Chiesa.
Alloc. Acerbissimum, 27 settembre 1852.
VII – Errori circa la morale naturale e cristiana
LVI. Le leggi dei costumi non abbisognano della sanzione divina, né è necessario che le leggi umane siano conformi al diritto di natura, o ricevano da Dio la forza di obbligare.
Alloc. Maxima quidem, 9 giugno 1862.
LVII. La scienza delle cose filosofiche e dei costumi, ed anche le leggi civili possono e debbono prescindere dall’autorità divina ed ecclesiastica.
Alloc. Maxima quidem, 9 giugno 1862.
LVIII. Non sono da riconoscere altre forze se non quelle che sono poste nella materia, ed ogni disciplina ed onestà di costumi si deve riporre nell’accumulare ed accrescere in qualsivoglia maniera la ricchezza e nel soddisfare le passioni.
Alloc. Maxima quidem, 9 giugno 1862.
Epistola encicl. Quanto conficiamur, 10 agosto 1863.
LIX. Il diritto consiste nel fatto materiale; tutti i doveri degli uomini sono un nome vano, e tutti i fatti umani hanno forza di diritto.
Alloc. Maxima quidem, 9 giugno 1862.
LX. L’autorità non è altro che la somma del numero e delle forze materiali.
Alloc. Maxima quidem, 9 giugno 1862.
LXI. La fortunata ingiustizia del fatto non apporta alcun detrimento alla santità del diritto.
Alloc. Iamdudum cernimus, 18 marzo 1861.
LXII. È da proclamarsi e da osservarsi il principio del cosidetto non-intervento.
Alloc. Novos et ante, 28 settembre 1860.
LXIII. Il negare obbedienza, anzi il ribellarsi ai Principi legittimi, è cosa logica.
Encicl. Qui pluribus, 9 novembre 1846.
Alloc. Quisque vestrum, 4 ottobre 1847.
Epist. Encicl. Nostis et Nobiscum, 8 dicembre 1849.
Lett. Apost. Cum catholica, 26 marzo 1860.
LXIV. La violazione di qualunque santissimo giuramento e qualsivoglia azione scellerata e malvagia ripugnante alla legge eterna, non solo non sono da riprovare, ma anzi da tenersi del tutto lecite e da lodarsi sommamente, quando si commettano per amore della patria.
Alloc. Quibus quantisque, 20 aprile 1849.
VIII – Errori circa il matrimonio cristiano
LXV. Non si può in alcun modo tollerare che Cristo abbia elevato il matrimonio alla dignità di Sacramento.
Lett. Apost. Ad apostolicae, 22 agosto 1851.
LXVI. Il Sacramento del matrimonio non è che una cosa accessoria al contratto, e da questo separabile, e lo stesso Sacramento è riposto nella sola benedizione nuziale.
Lett. Apost. Ad apostolicae, 22 agosto 1851.
LXVII. Il vincolo del matrimonio non è indissolubile per diritto di natura, ed in vari casi può sancirsi per la civile autorità il divorzio propriamente detto.
Lett. Apost. Ad apostolicae, 22 agosto 1851.
Alloc. Acerbissimum, 27 settembre 1852.
LXVIII. La Chiesa non ha la potestà d’introdurre impedimenti dirimenti il matrimonio, ma tale potestà compete alla autorità civile, dalla quale debbono togliersi gl’impedimenti esistenti.
Lett. Apost. Multiplices inter, 10 giugno 1851.
LXIX. La Chiesa incominciò ad introdurre gl’impedimenti dirimenti, nei secoli passati non per diritto proprio, ma usando di quello che ricevette dalla civile potestà.
Lett. Apost. Multiplices inter, 10 giugno 1851.
LXX. I canoni tridentini, nei quali s’infligge scomunica a coloro che osano negare alla Chiesa la facoltà di stabilire gl’impedimenti dirimenti, o non sono dommatici, ovvero si debbono intendere dell’anzidetta potestà ricevuta.
Lett. Apost. Ad apostolicae, 22 agosto 1851.
LXXI. La forma del Concilio Tridentino non obbliga sotto pena di nullità in quei luoghi, ove la legge civile prescriva un’altra forma, e ordina che il matrimonio celebrato con questa nuova forma sia valido.
Lett. Apost. Ad apostolicae, 22 agosto 1851.
LXXII. Bonifazio VIII per primo asserì che il voto di castità emesso nella ordinazione fa nullo il matrimonio.
Lett. Apost. Ad apostolicae, 22 agosto 1851.
LXXIII. In virtù del contratto meramente civile può aver luogo tra cristiani il vero matrimonio; ed è falso che, o il contratto di matrimonio tra cristiani è sempre sacramento, ovvero che il contratto è nullo se si esclude il sacramento.
Lett. Apost. Ad apostolicae, 22 agosto 1851.
Lett. di S. S. Pio IX al Re di Sardegna, 9 settembre 1852.
Alloc. Acerbissimum, 27 settembre 1852.
Alloc. Multis gravibusque, 17 dicembre 1860.
LXXIV. Le cause matrimoniali e gli sponsali di loro natura appartengono al foro civile.
Lett. Apost. Ad apostolicae, 22 agosto 1851.
Alloc. Acerbissimum, 27 settembre 1852.
N. B. – Si possono qui ridurre due altri errori, dell’abolizione del celibato de; chierici, e della preferenza dello stato di matrimonio allo stato di verginità. Sono condannati, il primo nell’Epist. Encicl. Qui pluribus, 9 novembre 1846, il secondo nella Lettera Apost.Multiplices inter, 10 giugno 1851.
IX – Errori intorno al civile principato del Romano Pontefice
LXXV. Intorno alla compatibilità del regno temporale col regno spirituale disputano tra loro i figli della Chiesa cristiana e cattolica.
Lett. Apost. Ad apostolicae, 22 agosto 1851.
LXXVI. L’abolizione del civile impero posseduto dalla Sede apostolica gioverebbe moltissimo alla libertà ed alla prosperità della Chiesa.
Alloc. Quibus quantisque, 20 aprile 1849.
N. B. – Oltre a questi errori censurati esplicitamente, molti altri implicitamente vengono riprovati in virtù della dottrina già proposta e decisa intorno al principato civile del Romano Pontefice: la quale dottrina tutti i cattolici sono obbligati a rispettare fermissimamente. Essa apertamente s’insegna nell’Alloc. Quibus quantisque, 20 aprile 1849; nell’Alloc. Si semper antea, 20 maggio 1850; nella Lett. Apost.Cum catholica Ecclesia, 26 marzo 1860; nell’Alloc. Novos, 28 settembre 1860; nell’Alloc. Iamdudum, 18 marzo 1861, e nell’Alloc.Maxima quidem, 9 giugno 1862.
X – Errori che si riferiscono all’odierno liberalismo
LXXVII. In questa nostra età non conviene più che la religione cattolica si ritenga come l’unica religione dello Stato, esclusi tutti gli altri culti, quali che si vogliano.
Alloc. Nemo vestrum, 26 luglio 1855.
LXXVIII. Però lodevolmente in alcuni paesi cattolici si è stabilito per legge che a coloro i quali vi si recano, sia lecito avere pubblico esercizio del culto proprio di ciascuno.
Alloc. Acerbissimum, 27 settembre 1852.
LXXIX. È assolutamente falso che la libertà civile di qualsivoglia culto, e similmente l’ampia facoltà a tutti concessa di manifestare qualunque opinione e qualsiasi pensiero palesemente ed in pubblico, conduca a corrompere più facilmente i costumi e gli animi dei popoli, e a diffondere la peste dell’indifferentismo.
Alloc. Numquam fore, 15 dicembre 1856.
LXXX. Il Romano Pontefice può e deve riconciliarsi e venire a composizione col progresso, col liberalismo e con la moderna civiltà.
Alloc. Iamdudum cernimus, 18 marzo 1861.

Il papa della «Quanta cura» e del «Sillabo»
Roberto De Mattei, Cristianità n. 42 (1978)
Il liberalismo, applicazione all’ordine morale e civile dei princìpi filosofici del naturalismo e del razionalismo, rifiuta ogni dipendenza dell’uomo da Dio, della società dalla Chiesa. L’errore e il peccato del liberalismo – che nella Chiesa ha la sua storia nella setta cattolico-liberale, poi modernista, poi democristiana – è stato per sempre condannato, insieme ad altri capitali errori moderni, da S.S. Pio IX, il Papa della Immacolata Concezione, dell’infallibilità pontificia, del Sillabo. Il consenso dei teologi sulla infallibile verità dei pronunciamenti contenuti nel Sillabo e nella Quanta cura.
2. A un secolo dalla morte del servo di Dio Pio IX
IL PAPA DELLA “QUANTA CURA” E DEL “SILLABO”
L’errore capitale del secolo di Pio IX fu il liberalismo, la dottrina che pone la libertà individuale come bene supremo dell’uomo e della società.
Il liberalismo, applicazione all’ordine morale e civile dei principi filosofici del naturalismo e del razionalismo, ne traduce l’emancipazione da Dio, fondamento e fine dell’uomo e della società, in emancipazione della società civile da ogni dipendenza dalla società religiosa, dello Stato dalla Chiesa, custode, interprete e maestra della legge rivelata da Dio (1).
Le radici storiche del liberalismo affondano nel protestantesimo e nel Rinascimento. La sua carta programmatica è la Dichiarazione dei diritti dell’uomo del 1789. La sua età di trionfo il secolo XIX, con il sorgere di quella «civiltà moderna», figlia della Rivoluzione francese, di cui costituisce l’essenza intellettuale (2).
Quale avrebbe dovuto essere il rapporto tra cattolicesimo e liberalismo, tra Chiesa cattolica e mondo moderno? Antagonismo o compromesso? Guerra o conciliazione? Di fronte a questo problema di fondo, fin dagli anni immediatamente successivi alla Rivoluzione francese, si erano dispiegate nel mondo cattolico posizioni diverse.
La radicale contrapposizione tra i princìpi del cattolicesimo e quelli della Rivoluzione era stata proclamata dai cattolici contro-rivoluzionari: de Maistre, de Bonald, Donoso Cortés, il cardinale Pie e, in Italia, Canosa, Solaro della Margarita, Avogadro della Motta (3).
La conciliazione tra la Chiesa e il mondo moderno era stata vagheggiata dai cosiddetti cattolici-liberali (4), il cui caposcuola, Félicité de Lamennais, per primo aveva teorizzato la necessità di «cattolicizzare» il liberalismo rivoluzionario. «Si trema davanti al liberalismo: cattolicizzatelo e la società rinascerà» (5). Lo slogan di Lamennais, «Dio e libertà», fu quindi sostituito da quello «Chiesa libera in libero Stato», enunciato dal conte di Montalembert in due discorsi tenuti nell’agosto del 1863 al congresso cattolico di Malines, poi raccolti in un opuscolo dal medesimo titolo, che offrì la formulazione più completa del liberalismo cattolico dell’epoca (6).
La risposta del Magistero, già nota fin dal giorno in cui Gregorio XVI aveva condannato La Mennais con l’enciclica Mirari vos (15-8-1832), non tardò a manifestarsi in forma definitiva e inappellabile. L’8 dicembre 1864, decimo anniversario della promulgazione del dogma della Immacolata Concezione, Pio IX indirizzava ai vescovi di tutto il mondo l’enciclica Quanta cura e il Sillabo ovvero sommario dei principali errori dell’età nostra (7). I due documenti avevano il loro mirabile e inequivocabile suggello nell’ultima proposizione del Sillabo stesso, in cui si condannava chi affermasse che «Il Romano pontefice può e deve col progresso, col liberalismo e con la moderna civiltà venire a patti e conciliazione».
IL «SILLABO»
La prima idea del Sillabo sembra essere stata del cardinale Gioacchino Pecci, il futuro Leone XIII, che, presiedendo, come arcivescovo di Perugia, il concilio dei vescovi dell’Umbria tenutosi a Spoleto dal 18 ottobre al 29 novembre 1849, aveva fatto approvare la richiesta di una solenne condanna pontificia degli errori del tempo (8). Tre anni dopo, prendendo spunto da alcuni temi presenti nel Saggio intorno al socialismo e alle dottrine e tendenze socialiste del conte Avogadro della Motta, la Civiltà Cattolica aveva chiesto che una condanna degli errori moderni fosse inserita nella stessa bolla di definizione del dogma dell’Immacolata (9). L’idea era piaciuta a Pio IX, che aveva incaricato il cardinale Fornari, che presiedeva i lavori della commissione pontificia, di consultare l’opinione di alcuni vescovi e laici autorevoli tra i quali Donoso Cortés, Veuillot, lo stesso Avogadro della Motta. L’esito della consultazione fu la decisione di distinguere i due atti. Così, alla stessa commissione che aveva concluso i lavori preparatori della definizione del dogma, fu affidato l’incarico di preparare l’elenco delle proposizioni da condannare. Dovevano tuttavia trascorrere otto anni prima che l’Instruction pastorale di mons. Gerbet, vescovo di Perpignano, apparsa nel 1860, giungesse ad accelerare il ritmo dei lavori. Le 45 proposizioni raccolte da mons. Gerbet costituirono infatti lo schema di lavoro della nuova commissione, presieduta dal cardinale Caterini, che sulla base di tale elenco raccolse 61 Theses ad Apostolicam Sedem delatae et censurae a nonnullis theologis propositae, sottoposte ai trecento vescovi giunti a Roma nel 1862 per la canonizzazione dei martiri giapponesi. Alla vigilia della promulgazione, l’elenco fu però divulgato dal giornale Mediatore di Torino, diretto dall’ex-gesuita Carlo Passaglia. Tale indiscreta divulgazione dell’elenco costrinse perciò Pio IX a rinviare ancora una volta la promulgazione. Una nuova commissione si rimise al lavoro, questa volta per perfezionare il documento, aggiungendo alle singole proposizioni condannate l’indicazione esatta dei documenti pontifici da cui erano estratte. Il teologo barnabita Luigi Bilio (poi cardinale) ebbe gran parte nella redazione definitiva. Infine l’8 dicembre 1864, il documento fu promulgato assieme all’enciclica Quanta cura, con una lettera di accompagnamento del cardinale Antonelli, segretario di Stato.
Il Sillabo compendia in dieci paragrafi gli errori dell’epoca:
1. panteismo, naturalismo e razionalismo assoluto (propp. I-VII);
2. razionalismo moderato (VIII-XIV);
3. indifferentismo e latitudinarismo (XV-XVIII);
4. Socialismo, comunismo, società segrete, società bibliche, società clerico-liberali;
5. errori sopra la Chiesa e i suoi diritti (XIX-XXXVIII);
6. errori sulla società civile considerata in sé stessa e nei suoi rapporti con la Chiesa (XXXIX-LV);
7. errori intorno all’etica naturale e cristiana (LVI-LXIV);
8. errori sul matrimonio cristiano (LXV-LXXIV);
9. errori intorno al civile principato del Romano Pontefice (LXXV-LXXVI);
10. errori riguardanti il liberalismo odierno (LXXVII-LXXX).
L’eterogeneità delle proposizioni condannate non è che le specchio fedele della cultura del tempo; a essa, e non al documento, va dunque imputata la disarmonia dell’immagine riflessa. L’armonia e l’organicità non andranno dunque cercate nel lapidario compendio, ma nelle encicliche, nei brevi, nelle allocuzioni da cui le singole proposizioni sono tratte; e soprattutto nella Quanta cura, che del Sillabo ci offre il filo conduttore e la chiave di lettura. Tra i tanti errori condannati dal documento meritano dunque di essere sottolineati quelli che più direttamente si riallacciano al nucleo centrale dell’enciclica; è in essi, oltretutto, che si fonda la profetica attualità del Sillabo. Il terzo paragrafo, dunque, con la condanna delle proposizioni secondo cui «Ogni uomo è libero di abbracciare e professare quella religione, che, col lume della ragione, reputi vera» (XV) e «Gli uomini nel culto di qualsiasi religione possono trovare la via dell’eterna salute e l’eterna salute conseguire» (XVI); il quinto, con la condanna della proposizione secondo cui «Si deve separare la Chiesa dallo Stato, e lo Stato dalla Chiesa» (LV): e soprattutto l’ultimo paragrafo, dedicato esplicitamente al liberalismo, con la condanna delle proposizioni secondo cui «Ai tempi nostri non giova più tenere la religione cattolica per unica religione dello Stato, escluso qualunque sia altro culto» (LXXVII), «Quindi lodevolmente in alcuni paesi cattolici fu stabilito per legge esser lecito a quelli che vi si recano il pubblico esercizio del proprio qualsiasi culto» (LXXVIII), «Infatti è falso che la civile libertà di qualsiasi culto o la piena potestà a tutti indistintamente concessa di manifestare in pubblico e apertamente qualunque pensiero e opinione influisca più facilmente a corrompere i costumi e gli animi dei popoli e a propagare la peste dell’indifferentismo» (LXXIX), «Il Romano Pontefice può e deve col progresso, col liberalismo e con la moderna civiltà venire a patti e a conciliazione» (LXXX).
LA «QUANTA CURA»
L’insegnamento di Pio IX sul liberalismo, quale emerge dalla lapidaria secchezza delle proposizioni condannate nel Sillabo, si dipana con più ampiezza, ma con non minor vigore, nella Quanta cura, seguendo le cadenze consuete alle encicliche pontificie.
Il Papa esordisce ricordando la cura e la vigilanza con cui sempre i Pontefici suoi predecessori hanno conservato e difeso il patrimonio della fede, svelando e condannando tutte le eresie e gli errori e resistendo «con costante fortezza alle scellerate macchinazioni degli empi, che a guisa dei flutti del mare infuriato spumano le proprie turpitudini e promettono libertà, essendo schiavi della corruzione».
Pio IX proclama di avere voluto seguire queste orme fin dall’inizio del suo pontificato, condannando in numerose encicliche, allocuzioni e lettere apostoliche, «i mostruosi errori, i quali specialmente ai tempi nostri sono dominanti con grandissimo danno delle anime e con detrimento della stessa civile società, e che non solamente sono sommamente contrari alla Chiesa cattolica, alle sue salutari dottrine, ai suoi diritti, ma altresì alla legge eterna e naturale scolpita da Dio nel cuore di tutti e dai quali tutti gli altri errori hanno origine.
«La causa della Chiesa cattolica, la salvezza delle anime, lo stesso bene della società civile – prosegue il Pontefice – rendono assolutamente necessario un nuovo intervento contro “le false e perverse opinioni” che mirano a distruggere la forza della Chiesa e quella “vicendevole società e concordia di intenti tra il sacerdozio e l’impero che fu sempre vantaggiosa e fausta tanto alla Chiesa quanto allo Stato” (Gregorio XVI, Enciclica Mirari vos, 15 agosto 1832).
«Infatti – afferma Pio IX – ben sapete, Venerabili fratelli, che ai tempi nostri si trovano non pochi, che applicando allo Stato l’empio e assurdo principio del naturalismo, osano insegnare “che la migliore costituzione dello Stato ed il progresso civile esigono assolutamente che la società umana sia costituita e governata senza nessun riguardo della religione, come se non esistesse, od almeno senza fare nessuna differenza tra le vere e le false religioni”. E contro la dottrina delle Scritture, della Chiesa e dei SS. Padri non dubitano di asserire: “La migliore condizione della società essere quella, in cui non si riconosce nello Stato il dovere di reprimere con pene stabilite i violatori della cattolica religione, se non in quanto ciò richiede la pubblica quiete”. Dalla quale idea di governo dello Stato, in tutto falsa, non temono di dedurre quell’altra opinione sommamente dannosa alla Chiesa cattolica e alla salute delle anime, chiamata deliramento dal Nostro Predecessore Gregorio XVI di recente memoria, cioè “la libertà di coscienza e dei culti essere diritto proprio di ciascun uomo, che si deve con legge proclamare e sostenere in ogni società bene costituita e essere diritto d’ogni cittadino una totale libertà, che non può essere limitata da alcuna autorità vuoi civile, vuoi ecclesiastica, di manifestare e dichiarare i propri pensieri quali che siano di viva voce, sia per iscritto, sia in altro modo palesemente ed in pubblico” (La stessa Encicl. Mirari).
«E mentre queste cose temerariamente affermano, non pensano e considerano che predicano la “libertà della perdizione” (S. Agostino, Epist. 105, al. 166), e che “se alle umane persuasioni fosse sempre lecito disputare, non mancherebbero mai coloro che oserebbero impugnare la verità, e confidare nella loquacità della sapienza umana; mentre quanto questa dannosissima vanità debba essere evitata dalla fede e dalla sapienza cristiana, si conosce dalla stessa istituzione del Nostro Signore Gesù Cristo” (S. Leone, Epist. 164, al. 133, par. 2; ed. Ball.)».
Rimossa la religione dalla società, del resto, la stessa nozione di giustizia si vanifica e al legittimo diritto si sostituisce la forza materiale. La società umana, sciolta dai vincoli della religione e della vera giustizia, finisce inevitabilmente col porsi come unico fine la smisurata ricerca della ricchezza, e la cupidigia del piacere come unica legge. Da questo l’odio contro gli ordini monastici e contro le elemosine, significative espressioni della concezione cristiana della società. Da questo il tentativo di strappare la religione non solo dalla società pubblica, ma dalla stessa società familiare. «Giacché insegnando e professando il funestissimo errore del comunismo e del socialismo, affermano la società domestica, ossia la famiglia, trarre tutta la sua ragione di esistere solamente dal diritto civile; epperò dalla legge civile derivare e dipendere i diritti di tutti i padri sui figli, e specialmente il diritto di procurare l’istruzione e l’educazione».
Da questo, infine, la pretesa di subordinare l’autorità della Chiesa a quella dello Stato, e la proclamazione dell’«eretico detto e principio da cui derivano tante perverse sentenze ed errori» secondo cui la potestà ecclesiastica non è, per diritto divino, distinta e indipendente dalla potestà civile, ma subordinata a essa.
Il Papa conclude la sua enciclica sollecitando lo «zelo pastorale», dei vescovi perché, «snudando la spada dello spirito, che è la parola di Dio, e confortati nella grazia del Signor Nostro Gesù Cristo», non cessino di insegnare che i regni «sussistono per il fondamento della fede» e la potestà regale «non è solamente conferita per il governo del mondo, ma specialmente a presidio della Chiesa».
Ciò che è più che mai necessario «in tante sciagure della Chiesa e della società civile, in mezzo a tante cospirazioni dei nemici contro la religione cattolica e questa Santa Sede, in mezzo a tanta congerie d’errori», è di rivolgersi con fiducia al trono di grazia «per conseguire misericordia e trovare grazia e opportuno aiuto». A tale fine, Pio IX, a suggello della mirabile enciclica, sottolinea esplicitamente la necessità di ricorrere a Nostro Signore, di pregare «con fervore e perseveranza» il Sacro Cuore di Gesù e di rivolgersi alla «interceditrice presso di lui l’Immacolata e SS. Vergine Maria Madre di Dio, che sconfisse tutte le eresie del mondo universo», Regina e Madre di misericordia.
L’INFALLIBILITÀ DELLA «QUANTA CURA» E DEL «SILLABO»
Mentre l’episcopato di tutto il mando proclamava la sua adesione unanime e senza riserve alla Quanta cura e al Sillabo, visti come un tutt’uno, con caratteri di universalità, la stampa liberale e anticattolica reagiva con ira a quella che il giornale Siècle definiva «la suprema sfida lanciata al mondo moderno dal papato agonizzante» (10). In Francia, tra l’altro, il governo si sentì in dovere di formulare una protesta ufficiale presso la Santa Sede. In Italia, la pubblicazione dei due documenti fu proibita sino all’8 febbraio 1865. Il risultato delle polemiche accesesi da allora, soprattutto attorno al Sillabo, che più irritava per la nettezza e la radicalità delle proposizioni condannate, fu quello di una salutare purificazione e radicalizzazione dei campi: da una parte la santa Chiesa, ferma nelle sue verità, dall’altra i fautori della «libertà di perdizione», privi ormai del sostegno aperto dei «cattolici-liberali» (11). A questi ultimi la Quanta cura e il Sillabo avevano, infatti, assestato un colpo mortale. Fu necessario che passasse un secolo perché la setta, continuatasi nel modernismo, potesse rialzare nuovamente il capo, nel vano tentativo di prendere la rivincita su Pio IX. L’occasione era offerta dalla dichiarazione sulla libertà religiosa del Concilio Vaticano II, Dignitatis humanae, il cui testo apparve immediatamente in evidente contraddizione, almeno materiale, con il tradizionale insegnamento della Chiesa a proposito della libertà religiosa (12).
Alla luce della dichiarazione conciliare, la condanna della libertà di coscienza, secondo il gesuita Giacomo Martina, storico «ufficiale» di Pio IX, è «la più grave lacuna del Sillabo» (13). «Oggi – infatti – dopo la dichiarazione Dignitatis humanae, è impossibile negare un’evoluzione dottrinale» (14). «Il documento – scrive ancora del Sillabo lo stesso autore – preparato durante quindici anni, passato per tante redazioni successive, oggetto di tante discussioni, non era riuscito a precisare in modo chiaro gli errori del tempo; e se aveva il merito di ribadire ancora una volta l’ordine soprannaturale, non rispondeva agli interrogativi sempre più urgenti sui rapporti fra Chiesa e Stato, sulla natura e sui limiti della libertà. Alla radice di tutte le ambiguità del Sillabo, che provocarono discussioni largamente inutili e costituirono un grave handicap per l’elaborazione teologica ulteriore del genuino concetto di libertà di coscienza, sta l’assoluta mancanza di prospettiva storica e concreta dei consultori romani, e l’univocità con cui essi intendevano la libertà di coscienza. Per essi, come per Gregorio XVI, questa era solo un corollario dell’indifferentismo; sarebbe stato necessario un secolo per ricordare e accettare altri significati, ben diversi, della libertà di coscienza, fondata sulla dignità della persona umana» (15).
Il passo è significativo: nella impossibilità di cancellare il Sillabo dalla memoria storica, se ne storicizza la portata, mettendo l’accento sulla sua laboriosa gestazione piuttosto che sul suo contenuto oggettivo. Della Quanta cura, da cui il Sillabo trae la sua forza dirompente, si tace. Nulla viene detto sul valore giuridico e dogmatico dei due documenti, che è ciò che più interessa i cattolici di fronte ai problemi del tempo presente.
Qual è dunque il valore oggettivo del Sillabo e della Quanta cura? Per quanto riguarda il Sillabo un buon numero di autorevoli teologi concorda, sia pure con diverse motivazioni, per la sua infallibilità. Alcuni, come Franzelin, Mazzella, Schrader, Dumas, Scheeben, etc. lo ritengono definizione ex cathedra, atto personale infallibile del Pontefice; altri fanno derivare la infallibilità dai documenti da cui sono tratte le singole proposizioni, come Rinaldi; altri ancora, come Hurter, ritengono che sia divenuto norma infallibile in forza dell’adesione unanime dell’episcopato cattolico (16).
Una diversa posizione è sostenuta dal gesuita Lucien Choupin (I7), l’autore che forse ha studiato più profondamente la questione. Choupin ritiene che non si possa affermare con certezza che il Sillabo sia una definizione ex cathedra, o garantita in ogni sua parte dalla infallibilità della Chiesa, ma che si tratti, in ogni caso e senza possibilità di contraddizione, di un documento dottrinale emanante direttamente dal Magistero supremo del Sovrano Pontefice, a cui ogni cattolico è tenuto a dare l’assenso (18). I più sicuri teologi ritengono che questa ultima posizione sia il minimo che si possa affermare con certezza sul valore del Sillabo (19).
Diverso è il discorso sulla Quanta cura. In questo caso, come hanno affermato pressoché tutti i teologi (20) e come ha recentemente dimostrato in maniera stringente uno studioso francese, Michel Martin (21), ci troviamo di fronte a una delle rarissime encicliche da ritenere con tutta evidenza come documenti ex cathedra. La infallibilità della enciclica non può essere, infatti, negata senza contraddire la stessa dottrina della infallibilità pontificia, le cui quattro note condizioni sono esplicitamente presenti nel documento. «In tanta perversità adunque di prave opinioni – proclama infatti solennemente il Pontefice, impegnando il suo ministero e rivolgendosi alla Chiesa universale – Noi, giustamente memori del Nostro Apostolico officio, e grandemente solleciti della Santissima Nostra Religione, della sana dottrina, e della stessa umana società, abbiamo stimato d’innalzare nuovamente la Nostra Apostolica voce. Pertanto tutte e singole le prave opinioni e dottrine ad una ad una in questa lettera ricordate con la Nostra autorità Apostolica riproviamo, proscriviamo e condanniamo; vogliamo e comandiamo che da tutti i figli della Chiesa cattolica s’abbiano affatto come riprovate, proscritte e condannate».
Tre le «prave opinioni e dottrine» «riprovate, proscritte e condannate» dal Sommo Pontefice è la libertà di coscienza, dogma del liberalismo e fonte di tutti gli altri diritti e libertà del mondo moderno. Il principio, già condannato esplicitamente da Gregorio XVI, secondo cui «la libertà di coscienza e dei culti è diritto proprio di ciascun uomo», viene, dunque, colpito dal Magistero infallibile del Pontefice. Giova inoltre ricordare come la infallibilità non sia prerogativa del solo Magistero straordinario del Papa, ma garantisca anche la continuità di insegnamento di quel Magistero ordinario costituito da singoli pronunciamenti (encicliche, allocuzioni, ecc.), pur non espressi secondo una particolare e solenne forma definitoria. Se infatti «in una lunga e ininterrotta serie di documenti ordinari su uno stesso punto i Papi e la Chiesa universale potessero ingannarsi, le porte dell’inferno avrebbero prevalso contro la Sposa di Cristo. Essa si sarebbe trasformata in maestra di errori, alla cui influenza pericolosa e perfino nefasta i fedeli non avrebbero modo di sfuggire» (22).
La condanna del liberalismo da parte del Magistero ordinario della Chiesa è ininterrotta e, dopo i solenni documenti di Pio IX, fu riaffermata dai suoi successori, a cominciare da Leone XIII, nelle magistrali encicliche Immortale Dei del 1º novembre 1885 e Libertas del 20 giugno 1888 (23). La Chiesa, hanno ribadito i Pontefici, non ammette il diritto all’errore: nella vita sociale delle nazioni l’errore può essere al più tollerato come un fatto, mai ammesso come un diritto. Gli Stati hanno l’obbligo di riconoscere la verità e di rendere un culto ufficiale a Dio, loro sovrano e Signore. «Gli Stati non possono, senza empietà, condursi come se Dio non fosse, o passarsi della religione come di cosa estranea e di nessuna importanza, e adottarne indifferentemente una fra le molte: avendo invece l’obbligo di onorare Iddio in quella forma e in quel modo che Egli stesso mostrò di volere» (24).
Il liberalismo, che predica il diritto dell’errore e, affermando il principio della libertà di coscienza, il diritto all’apostasia, rifiuta la regalità di Nostro Signore Gesù Cristo sulla società; come tale si oppone radicalmente ai diritti di Dio, di Gesù Cristo, della santa Chiesa, e deve essere confutato e combattuto come grave peccato (25).
ROBERTO DE MATTEI
Note:
(1) HENRI FLOCH C. S. Sp., Il cardinale Billot sul liberalismo, in Cristianità, n. 24, aprile 1977, p. 2. Al cardinale Louis Billot 1846-1931) si deve, nel suo trattato De Ecclesia, tomo II, pp. 19-63, una delle migliori esposizioni e confutazioni del liberalismo, magistralmente riassunta da padre Le Floch nel volume Le cardinal Billot lumière de la théologie, Beauchesne, Parigi 1947, di cui l’articolo citato traduce le pagine fondamentali.
(2) «La sua prima rivelazione nella civiltà moderna si dà con la Riforma protestante». «Abbiamo indicato nel principio del libero esame la fonte non solo della libertà religiosa ma di tutto il liberalismo moderno. Nessun interprete tra l’uomo e i libri santi, nessuna mediazione ecclesiastica tra i credenti e Dio: dalla stessa solitudine della sua coscienza l’individuo attinge un intimo senso di fiducia e di responsabilità. Questo medesimo atteggiamento lo ritroviamo nella filosofia moderna che, tra la ragione e il proprio oggetto speculativo, rimuove ogni autorità e tradizione intermedia e ricostruisce da sé il suo mondo ideale. La dottrina che, prima d’ogni altra, e in modo più evidente (ciò che ha una grande importanza essoterica) ha professato il libero esame e rimosso gl’ingombri della tradizione scolastica e dogmatica è il cartesianesimo». Nei principi dell’89 infine «[…] si compendia la carta – storica come tutte le carte – del liberalismo moderno». Così lo storico (liberale) GUIDO DE RUGGIERO, in Storia del liberalismo europeo, Feltrinelli, Milano 1971, 3ª ed., pp. 15, 21, 67.
(3) Nel corso del XIX secolo polemizzarono inoltre, tematicamente, contro il liberalismo Louis Veuillot, dom Guéranger, padre Liberatore, dom Benoit, Jules Morel, don Sarda y Salvany. Tra tutte giganteggia la figura del cardinale Louis Pie (1815-1880), «martello del liberalismo» come il suo predecessore nella sede episcopale di Poitiers, sant’Ilario, lo era stato dell’arianesimo. Cfr. Oeuvres de Monseigneur l’Evêque de Poitiers, Leday, Parigi 1890-94, di cui ci offre una pregevole sintesi il canonico ETIENNE CATTA, La doctrine politique et sociale du Cardinal Pie, Nouvelles Editions Latines, Parigi 1959.
(4) «Il liberalismo dei cattolici liberali – osserva il cardinale Billot – sfugge ad ogni classificazione, e ha una sola nota distintiva e caratterizzante, quella di una perfetta e assoluta incoerenza». (HENRI LE FLOCH, art. cit., p. 4). «Questo sforzo di avvicinamento e di conciliazione vario e talora diverso di spiriti nei vari paesi e variamente temperato o frammischiato, – scrive a sua volta un filosofo liberale -, si chiamò “cattolicesimo liberale” nella quale denominazione è chiaro che la sostanza era nell’aggettivo, e la vittoria era riportata non dal cattolicismo ma dal liberalismo, che quel cattolicismo si risolveva ad accogliere e che introduceva un lievito nel vecchio suo mondo» (BENEDETTO CROCE, Storia d’Europa nel secolo decimonono, Laterza, Bari 1965, p. 25).
(5) Cit. in JULIO MEINVIELLE, De Lamennais a Maritain, 2ª ed. riv. e aumentata, Ediciones Theoria, Buenos Aires 190, p. 282. L’opera di Meinvielle costituisce importante contributo per intendere il rapporto tra liberalismo cattolico e democrazia cristiana. Su questo punto cfr. anche GIOVANNI CANTONI, La questione democristiana, in Cristianità, n. 10, marzo-aprile 1975. Di fronte all’ordine nuovo rivoluzionario, scrive Cantoni, il movimento cattolico e tradizionale «divenuto di fatto e di necessità un partito, vede nascere una destra coerente, intransigente e oltranzista; poi un centro – sarà il liberalismo cattolico – che accetta la liberté e cerca di interpretare pro bono egalité e fraternité: da ultimo quindi, una sinistra, – sarà il democristianismo -, che legge la Rivoluzione nei termini di positivo “segno dei tempi”, di ulteriore Rivelazione».
(6) I testi di Lamennais e Montalambert sono stati raccolti nell’antologia Le libéralisme catholique, a cura di MARCEL PRELOT e FRANÇOIS GALLOUEDEC GENUYS, Armand Colin, Parigi, 1969.
(7) Per il testo del Sillabo e della Quanta Cura, pubblicati in ASS, 3 (1868), pp. 161 sgg., cfr. DENZ.-U., coll. 1688-1699. Tra le numerose traduzioni, mi riferisco alla più recente: Sillabo, ovvero sommario dei principali errori dell’età nostra che sono notati nelle allocuzioni concistoriali, encicliche ed altre lettere apostoliche del SS. Signor Nostro Pio Papa IX, nuova edizione italiana con testo a fronte, introduzione e appendice documentaria a cura di Gianni Vannoni, Cantagalli, Siena 1977.
(8) Cfr. L. BRIGUÉ, sub voce Syllabus, in Dictionnaire de Théologie catholique, vol. XIV, Letouzey et Ané, Parigi 1941, coll. 2877-2923.
(9) Il conte Avogadro aveva espresso nel suo Saggio il concetto che la definizione del dogma dell’Immacolata, sebbene argomento strettamente teologico, avrebbe dato un colpo decisivo agli errori della filosofia moderna. P. Giuseppe Calvelli, rettore degli scrittori della Civiltà Cattolica, nell’articolo Congruenze sociali di una definizione dogmatica sull’Immacolato Concepimento della B.V.M. sviluppò il concetto, auspicando una condanna degli errori moderni. L’articolo apparve sulla rivista dei gesuiti il primo sabato di febbraio del 1855. Il 5 marzo, il padre Taparelli scriveva al conte Avogadro della Motta: «Converrebbe fare, in formole esattissime per quanto si può, un elenco di tutte le proposizioni speculative e pratiche che formano il carattere e il simbolo dei razionalisti e dei semi-razionalisti dei quali abbiamo parlato in quest’articolo primo del fascicolo XLVI, avendo sempre l’occhio alla relazione che gli errori medesimi hanno col peccato originale, perché la loro condanna possa connettersi colla definizione sospirata del privilegio della Vergine; e capirete benissimo che quanto più sarà completo l’elenco, tanto riuscirebbe più pronto e sicuro l’esito del lavoro col conseguimento dell’intento». (Cfr. Carteggi del P. Luigi Taparelli D’Azeglio della Compagnia di Gesù, a cura di Pietro Pirri, Fratelli Bocca, Torino 1932, p. 332). Il 26 giugno, nella sua risposta, il conte Avogadro esprimeva le sue riserve a proposito dell’inserimento della condanna degli errori nella bolla di definizione del dogma dell’Immacolata, argomento che «ha delle relazioni certissime con alcuni punti dell’errore, e apostasia attuale, ma non tutti, non coi più capitali, che sono errori di teologia e morale naturale anziché rivelata, di filosofia anziché di teologia in senso stretto» (ibid., p. 339).
(10) Cfr. L. BRIGUÉ, art. cit., col. 2883.
(11) Mgr. Dupanloup, illustre esponente dei «cattolici-liberali», tentò, con il suo opuscolo La convention du 15 septembre et l’encyclique du 8 décembre, apparso il 26 gennaio del 1865, di falsare lo spirito dell’enciclica, suscitando la pronta reazione di Louis Veuillot che l’anno successivo in L’illusion libérale confutò vigorosamente l’equivoca presa di posizione del vescovo francese. Pio IX apprezzò grandemente il volume di Veuillot, ritenendo che in esso fossero espresse «tutte le sue idee». (Cfr. L. BRIGUÉ, art. cit., col. 2888).
(12) Esemplare testimonianza della «svolta» il numero unico della rivista Recherches et débats del Centre Catholique des Intellectuels Français, Essai sur la liberté religieuse, Librairie Artéme Fayard, Parigi 1965, con articoli di Roger Aubert, Etienne Borne, M. D. Chenu, che del Sillabo, con sconcertante carenza di argomentazioni, propongono rispettivamente «l’analisi dello storico», «la riflessione del filosofo», «la lettura del teologo».
(13) GIACOMO MARTINA, Lezioni di storia della Chiesa. La Chiesa nell’età dell’assolutismo, del liberalismo, del totalitarismo, Ad usum privatum, Pontificia Università Gregoriana, Roma, 1969, II vol., p. 488.
(14) Ibid., p. 489. «La Chiesa – continua Martina, a miglior chiarimento del suo pensiero – unita oggi ai suoi avversari di ieri, i liberali, ha combattuto insieme con essi il socialismo, e quando si è verificata in questo sistema un’evoluzione analoga a quella che si è parzialmente realizzata nel liberalismo, si è reso possibile un incontro anche con il socialismo. Possiamo anzi osservare che anche a proposito del comunismo, si è verificata un’evoluzione, dal drastico giudizio di Pio XI sul comunismo “intrinsecamente perverso” (Divini Redemptoris) alla distinzione della Pacem in terris fra sistema economico e presupposti filosofici» (ibid., p. 490).
(15) GIACOMO MARTINA, Pio IX. Chiesa e mondo moderno, Edizioni Studium, Roma 1976. p. 79. Sulla stessa falsariga ROGER AUBERT nel suo volume Il pontificato di Pio IX, 1846-1876, S.A.I.E., Torino 1970, II ediz. it. a cura dello stesso Martina. Da questa ipoteca storiografica non sembra purtroppo essere immune lo stesso avvocato della Causa di Pio IX presso la S. Congregazione per le Cause dei Santi, dott. Carlo Snider. «Occorre saper vedere Pio IX, l’uomo e il Papa, nel suo esatto contesto storico, politico, religioso e culturale», scrive lo Snider.
«Si capiranno allora certi suoi atteggiamenti, certe sue reazioni, che senza dubbio non convengono all’epoca attuale […]».«Il pontificato di Pio IX si inserisce appunto nella grande transizione che la Chiesa sta compiendo dalle condizioni in cui si trovò ed operò nell’antico regime a quelle che sono maturate e si vanno tuttora precisando per la sua missione in un’età completamente nuova e dal volto inconfondibile». Cfr. CARLO SNIDER, Considerazioni sulla causa di beatificazione di Pio IX, in Pio IX nel primo centenario della sua morte, numero speciale della rivista Pio IX, gennaio-dicembre 1973, p. 763.
(16) Per un’ampia rassegna delle posizioni degli autori citati, cfr. L. CHOUPIN, voce Syllabus, in Dictionnaire Apologétique de la Foi Catholique, vol. IV, Beauchesne, Parigi 1922, coll. 1569-1577, e L. BRIGUÉ, voce cit., coll. 2913-2923.
(17) LUCIEN CHOUPIN S. J., Valeur des décisions doctrinales et disciplinaires du Sainte-Siège, Beauchesne, Parigi 1928, 3ª ed. riv. e aumentata, pp. 111-157.
(18) Ibid., pp. 156-157.
(19) Hoc ultimum esse minimum, quod admittendum sit, convenit inter theologos (cfr. de Groot, Summa apolog., 634 sqq., I. Muncunill, De Christi ecclesia 607 sqq.)». Così CHRISTIAN PESCH S. J., Compendium theologiae dogmaticae, vol. I, De ecclesia Christi, 5ª ed., Herder et Co., Friburgo in Brisgovia 1935, p. 241.
(20) Una importante testimonianza in questo senso ci è offerta dal recente volume di REINHOLD SEBOTT S. J., Religionsfreiheit und Verhãltnis von Kirche und Staat, Pontificia Università Gregoriana, Roma 1977. L’autore, progressista, documenta infatti la comune opinione dei teologi del XIX secolo, che concordano pressoché unanimamente sulla infallibilità della Quanta cura.
(21) MICHEL MARTIN, Les conditions de l’infaillibilité pontificale. L’enciclyque «Quanta cura», in Courrier de Rome, n. 180, marzo 1978, pp. 2-21. Si tratta dell’ultimo articolo finora apparso di una serie in cui l’autorevole studioso solleva il problema della evidente contraddizione tra l’insegnamento tradizionale e la dichiarazione conciliare. Non risulta che questi articoli abbiano a tutt’oggi ricevuto risposta.
(22) ARNALDO VIDIGAL XAVIER DA SILVEIRA, Qual è l’autorità dottrinale dei documenti pontifici e conciliari, in Cristianità, n. 9, gennaio-febbraio 1975, p. 5.
(23) «Quodsi Pius IX in Encycl. “Quanta cura” et in Syllabo directe errores prescripsit, Leo XIII praeclaris suis Encyclicis doctrinae catholicae capita, e quibus non pauca ad jus canonicum referuntur, potius positiva ratione exposuit et demonstravit. Quare inter sententias condemnatorias errorum Pii IX et Encyclicas Leonis XIII eadem fere intercedit relatio atque inter canones et capita de doctrina Concilii Tridentini et Concilii Vaticani. Unus seminavit, alter rigavit, atque ita Deus Ecclesiae suae dedit incrementum». (FRANCISCO XAV. WERNEZ S. J., Ius Decretalium, Giachetti, Prato 1913, vol. I, p. 394).
(24) LEONE XIII, Enciclica Immortale Dei.
(25) «Conviene dire che il liberalismo nell’ordine delle idee è l’errore assoluto e nell’ordine dei fatti l’assoluto disordine. Di conseguenza, in entrambi i casi, è peccato grave di sua natura, ex genere suo, peccato estremamente grave, peccato mortale». Così DON FELIX SARDA Y SALVANY, Le libéralisme est un péché. Suivi de la lettre pastorale des Eveques de l’Equateur sur le libéralisme, Nuova edizione, Pierre Tequi, Parigi 1910, p. 11. La Sacra Congregazione dell’Indice, in data 10 gennaio 1887, dopo aver esaminato il volume, lo dichiarava meritevole di lode «perché espone e difende la sana dottrina sulla suddetta materia, con solidi argomenti, sviluppati con ordine e chiarezza, senza nessuna offesa a chicchessia» (cfr. op. cit., pp. XI-XIX). A conclusioni analoghe perviene l’abbé A. ROUSSEL nel suo Libéralisme et Catholicisme. Rapports présentés à la Semaine Catholique en Fevrier 1926 sous les auspices de la Ligue Apostolique, pour le retour des Nations à l’ordre social chrétien. Il volume costituisce una delle migliori introduzioni all’argomento. «[…] il Liberalismo – scrive Roussel – è un peccato, un peccato grave dello spirito, il peccato stesso, perché è essenzialmente la rivolta contro Dio e contro l’ordine da lui stabilito […]. Dopo l’odio formale a Dio non vi è peccato più grave, perché attacca direttamente la fede e i primi principi della vita soprannaturale» (pp. 50-51). Questo insegnamento è stato comune ai teologi fino alla dichiarazione conciliare Dignitatis Humanae. Cfr. ALFREDO OTTAVIANI, Institutiones Iuris publici ecclesiastici, vol. II, Ecclesia et Status, editio quarta emendata et aucta, Typis Polyglottis Vaticanis, Città del Vaticano 1960. In un capitolo dedicato al Novissimus liberalismus catholicus (cfr. pp. 55-88) l’autore confuta vigorosamente il neoliberalismo di scrittori contemporanei come Maritain, Congar, Leclercq, ecc. All’indomani della elezione del nuovo Pontefice Giovanni Paolo I, Le Monde, rievocandone l’esperienza conciliare, attribuisce al cardinale Luciani queste parole: «La thèse qui m’a le plus troublé, a était celle sur la liberté religieuse. Pendant des années, j’avais enseigné la thèse que j’avais apprise au cours de droit public donné par le cardinal Ottaviani, selon lequel sede la vérité avait des droits. On m’a convaincu de mon erreur». È legittimo augurarsi che si trattasse di una interessata falsificazione del quotidiano francese e sperare che il Pontefice, ora scomparso, avrebbe voluto dissipare tutte le ombre e gli equivoci suscitati dalla Dignitatis humanae, riaffermando l’insegnamento tradizionale sul liberalismo e sulla libertà religiosa, che non è ovviamente l’opinione del cardinale Ottaviani, ma la dottrina immutabile della santa Chiesa.
- E se oggi la Chiesa cattolica – rinnovando la strategia rispetto a quella di Pio IX – non si riduce alla pura opposizione al secolarismo, figlio naturale del liberalismo filosofico, ma utilizza molti strumenti messi a punto dalla democrazia liberale(dalla rivendicazione dei Diritti Umani -elemento centrale del Magistero attuale – alle libertà civili: di pensiero, di stampa, di coscienza, di culto…, ai principi del diritto internazionale, ad alcuni meccanismi del capitalismo – cf. la “Centesimus annus”, -ciò non si deve al fatto che il cattolicesimo si sia ravveduto nei confronti del Liberalismo o che il cammino della storia abbia smentito Pio IX, ma semplicemente al fatto che oggi abbiamo a che fare con un liberalismo economico e politico che in gran parte si è liberato dalla matrice filosofica illuministica e romantica. Abbiamo a che fare con un altro liberalismo rispetto a quello cui dovette opporsi il nostro papa Mastai.
- Difficile dire se questo sarebbe stato il cammino del liberalismo senza il Sillabo. È certo, comunque, che Pio IX non ha rallentato, ma mantenuto nella giusta rotta il cammino della Chiesa.
Manlio Brunetti
Sillabo e modernita’
1 – GENESI E FINE DOTTRINALE
I1 Sillabo ormai ha centoventott’anni: non troppi, se è ricordato ancora in tutte le opere storiche sull’Ottocento europeo; ma troppi comunque, da poter essere vivo nella coscienza popolare ed ecclesiale.
Riparlarne oggi, quando tanti argomenti attuali sarebbero da mettere sul tappeto, parrebbe hobby da antiquariato, daarcheologia teologica. Ma il Sillabo mette in causa Pio IX, e Pio IX ci riguarda; il Sillabo investe il Magistero pontificio, ogni giorno più attivo sulla nostra cultura, e ripropone il capitolo, mai chiuso, del rapporto fra cattolicesimo e civiltà moderna.
Pio IX nel Sillabo avrebbe condannato tutti i principi fondamentali del Liberalismo (libertà di pensiero, di stampa, di coscienza, di culto; la laicità dello Stato; la indipendenza di principi e di metodi della scienza; la ricerca del progresso…). Gli stavano suggerendo di conciliarsi e concordarsi col progresso, col Liberalismo, con la moderna civiltà – come hanno fatto poi Giovanni XXIII nella Pacem in terris e Paolo VI -; invece colpì d’anatema anche questa invocazione.
Si presenta così la domanda: poteva Pio IX essere il papa: il custode e garante dell’ortodossia cattolica, il supremo maestro della fede e della morale e, insieme, condividere e accreditare il Liberalismo?
Se fosse stato obiettivamente possibile, allora Pio IX fu miope e ritardò, se proprio non fece indietreggiare, il cammino della Chiesa; se invece non si poteva essere cattolici e liberali (di quel Liberalismo), allora gli si dovrà riconoscere, storicamente, coerenza intellettuale e morale – che è fattore di umana grandezza.
Quindici anni – o, limitandoci ai tempi operativi, almeno dodici – ha impiegato il Sillabo a nascere; e sono ormai definitivamente accertate le vicende e le fasi attraverso cui si è giunti alla sua promulgazione 1’8 dicembre 1864: consultazione di Vescovi; commissioni preparatorie di Cardinali e teologi; bozze, schemi, istruzioni, memorie preparati da Vescovi, teologi, rettori di università famose; sospensioni e riprese di lavori a seguito di emergenze politiche, a fughe di documenti, ad interventi critici, a pressioni dissuasorie od esortative. Sappiamo ormai tutto (1), come forse di nessun altro Documento magisteriale.
Ciò che si ricava perentoriamente da tutta la massa d’informazioni storiche in nostro possesso è che:
- I1 Sillabo fu immaginato e promulgato come atto dovuto del Magistero ecclesiastico, della missione propria del Papato di custodire e garantire l’ortodossia cattolica, in conformità e in ossequio ad una autorevole tradizione, che continuerà anche dopo Pio IX.
- Ragioni e circostanze particolari, come in Francia la politica antiecclesiastica di Napoleone III e in Italia del Piemonte; l’occupazione delle Legazioni dell’Umbria e delle Marche; la soluzione anticlericale della questione risorgimentale; ed il bisogno, ovunque, di riaccreditare la diminuita autorità del Papa…: possono aver avuto qualche influenza su tempi e modi della elaborazione, mai però sul merito del Documento, la cui prima idea risale al 1849, a prima cioè di tutte quelle vicissitudini, e il cui destinatario non è la Francia o l’Italia, ma la Chiesa universale (“A tutti i venerabili fratelli Patriarchi, Primati, Arcivescovi e Vescovi che hanno la grazia e la comunione della Sede Apostolica”).
- Così che la tesi di una genesi e giustificazione politica del Sillabo (2) risulta gratuita e antistorica.
La conoscenza documentaria di tutte le faticose controversie attraversate dal Documento è senza dubbio illuminante dal punto di vista ermeneutico, e non lo è di meno l’accurata disamina delle interpretazioni, appropriazioni, manipolazioni sopravvenute (3). Ma ciò su cui si ha da pronunciare il giudizio storico-teologico non sono né le une né le altre, bensì il Documento così com’è, nel suo genere letterario, con la sua struttura, il suo lessico, la sua sintassi, col significato che inside e promana nelle e dalle parole che lo costituiscono, con le caratteristiche che gli sono proprie e bisogna mostrare.
2 – NATURA TEOLOGICA DEL SILLABO
Si tratta di un documento teologico sia nella sostanza che nella forma o tecnica di redazione, nel senso che:
- consiste in giudizio e valutazione di tesi o idee filosofiche, politiche e sociali, non secondo criteri intrinseci logico-filosofici; non sulla base dell’evidenza o della logica dimostrazione dei rapporti in esse correnti fra soggetto e predicato; né sulla base di effetti ottenibili da loro applicazione in ordine all’individuo o alla società; ma sub specie veritatis revelatoe (alla luce della verità rivelata), in rapporto ai dati della fede: se coerenti o meno, quelle idee e tesi, con le certezze cristiane e se capaci di favorire il cammino della salvezza, di mandare la Chiesa avanti verso Dio “in sé sicura ed anche a lui più fida” (4).
- È redatto nel linguaggio e nei moduli propri della teologia: di una teologia che si vale delle categorie e dei procedimenti propri della filosofia aristotelico-tomista, recentemente e da Pio IX stesso rimessa in auge nella cultura cattolica.
Ne segue che indebita, impropria, deviante sarà ogni lettura ed interpretazione del Sillabo fuori dell’ottica teologica e senza gli idonei strumenti ermeneutici.
Nell’ambito dei documenti magisteriali teologici il Sillabo costituisce un genere particolare, inusitato e, nel suo insieme, unico. Si tratta, infatti, di un “Elenco dei principali errori dell’età nostra”: di un elenco di 80 proposizioni, secche, stringate, essenziali, la più lunga delle quali, la 47 a, è di una cinquantina di parole e le più corte, la 55a, 63a, 74a, di cinque parole.
Le 80 proposizioni, non recano, nessuna, la cosiddetta nota teologica che, cioè, la qualifichi come eretica, temeraria, scandalosa, offensiva delle orecchie pie ecc.; ma sono giudicate e condannate tutte insieme nel Titolo genericamente comeerrori.
Proprio per questa novità di struttura e anche per il fatto d’essere presentato dal card. Antonelli, autorità non magisteriale; non risultandone, appunto, dalla forma l’autorità e il tipo di assenso da esigere: il Sillabo è legato ad una Enciclica, la Quanta Cura – documento indubbiamente magisteriale – e con essa, in rapporto con essa, va accolto e letto.
Credo che proprio per queste ragioni, e per altra che subito dirò, l’enciclica Quanta Cura contenga essa stessa un elenco di proposizioni errate, il maggior numero delle quali un po’ diverse, ma solo sul piano espressivo (e verosimilmente attinte ad una bozza del 1862), recitate però in un tessuto espositorio, dimostrativo e parenetico, mentre il Sillabo è, come già detto, un elenco di proposizioni secche, appena aggruppate sotto dieci titoli o in dieci paragrafi. Reduplicazione senza dubbio cosciente, a far intendere l’inscindibilità del Sillabo dalla Quanta Cura e l’equivalente valore.
3 – DI CHI LE PROPOSIZIONI?
Ci si potrebbe chiedere, adesso, donde vengano, di chi siano quelle 80 proposizioni che i due Documenti condannano come errori.
Esse sono ricavate dalle Encicliche e da Documenti, molteplici, che Pio IX aveva già pubblicato per esporre insegnamenti vari e segnalare via via opinioni contrarie alle verità professate nella Chiesa. Minuziosamente il Sillabo, e puntualmente, indica, dopo ogni proposizione, le fonti piane di provenienza.
Quanto, dunque, contiene il Sillabo era stato già tutto condannato. E rimane difficile da spiegare, altrimenti che per ignoranza o per malafede, la sorpresa e l’indignazione contro il Sillabo, quando né altrettale né altrettanta se n’era avuta nei confronti delleEncicliche. Di nuovo c’era solo che tanti diversi errori, già singolarmente condannati in diversi Documenti, ora erano elencati e condannati insieme, tutti in una volta in unico Documento.
Ma, pur sapendo che quelle proposizioni errate sono immediatamente desunte da fonti piane, resta da affermare che, in quelle prima e nel Sillabo poi, esse erano pervenute da opere e trattati, o da comportamenti e provvedimenti tradotti in testi, di Illuministi, Razionalisti, Semirazionalisti, Giurisdizionalisti, Socialisti, Massoni, Liberali…; non sempre tali quali erano uscite dalle loro penne, ma riformulate teologicamente ed uniformate stilisticamente.
Così che, tali e quali sono nei Documenti del ’64, (Quanta Cura e Sillabo) paradossalmente non sono di altri che dei redattori di questi Documenti; e per gran parte di esse, qualora non soltanto le proposizioni ma i loro assertori si fossero voluti condannare, difficilmente su persone definite, nome e cognome, sarebbe potuta cadere la censura.
Non sarebbe stato meglio, allora, riproporre, anche nel loro contesto immediato, le proposizioni autentiche, cioè del loro proprio e riconoscibile autore ?
A parte il fatto che ciò non sarebbe stato sempre possibile essendo non poche tesi ricostruite da fatti, leggi, prowedimenti, per interpretazione, esplicitazione e reductionem ad principia, la ragione della procedura del Sillabo sta nel suo destinatario e nel suo scopo: voleva essere, ed è, un documento indirizzato ai Vescovi al fine pastorale di indicare loro le idee da cui tener lontani i credenti, al fine di indicare gli errori, non di colpire gli erranti, e semmai mettere in causa proprio e solo coloro che precisamente quelle idee e tesi professassero.
4 – LA RELIGIONE DELLA LIBERTA’
Quanta Cura e Sillabo non si limitavano a questo: a stralciare da contesti immediati delle frasi, a formularne dove mancassero esplicite, a dare a tutte una veste formulare medesima. Riconducevano e riordinavano a sistema proposizioni sparse, slegate fra loro e appartenenti a sfondi ideologici disparati (razionalismo, illuminismo, positivismo storicistico ecc.), in modo da lasciar trasparire e far cogliere, come in filigrana, una tessitura compatta, anzi la matrice remota unica donde tutte promanano. Questa: invece che la religione di Dio (da cui discendono agli uomini diritti e doveri, precetti morali e sociali, salvezza da coercizioni e decadimenti…), la religione della libertà che, intesa come libertà dalla religione, equivale ad assolutizzazione ed infinitizzazione della soggettività, ossia della coscienza, del pensiero, delle libertà individuali.
Non si insisterebbe mai troppo su questa caratteristica di sistematicità dei due Documenti Piani, diciamo pure ormai globalmente del Sillabo: di sganciare le singole e disparate tesi della cultura laica mediottocentesca dai loro prossimi e provvisori contesti storici e locali, per collegarle invece tra loro (orizzontalmente) e radicarle (verticalmente) alla loro comune matrice, e situarle in quello che ritiene essere il loro vero orizzonte: il liberalismo filosofico.
Fu un’operazione metodologicamente necessaria e culturalmente preziosa.
Bisogna infatti ricordare che diversa era nei Paesi Occidentali la accezione di Liberalismo; diverse le idee, i contenuti, i sentimenti, i valori, le prospettive che quell’orientamento e le sue parole d’ordine evocavano.
In Italia si sapeva che Progresso, Libertà e Nuova Civiltà significavano (anche) ferrovie, illuminazione delle strade a gas e tutte le altre migliorie così interessanti per Pasolini, Minghetti, Cavour. Ma gli Italiani probabilmente non ponevano tali cose in cima ai loro pensieri; quei termini nel loro significato controverso stavano per laicismo ed anticlericalismo, soppressione dei conventi e dei monasteri e costrizione ad educazione laica. In Inghilterra invece Progresso e Nuova Civiltà volevano dire anzitutto la grande Esposizione del 1851, mentre Liberalismo era più vicina a quella italiana, significando, per moltissimi, i principi e le gesta della Rivoluzione del 1789. In America, infine, in quella parole si vedeva indicato quanto vi era di più sacro, e rara o assente vi era la connotazione antireligiosa ed anticristiana.
Ebbene, il Sillabo, redigendo le tesi di questo vario Liberalismo e riconducendole a una sola radice:
- ne forniva una precisa ed esclusiva chiave di lettura e di interpretazione
- ne indicava perentoriamente, a chi non se ne fosse accorto, non volesse vedere o intendesse nascondere, ambito e contenuti opposti alla fede e alla morale cattolici.
Come dire che: quelle tesi liberali che – soltanto quelle che e nella misura in cui – si riconducevano ed equivalevano al principio ultimo del liberalismo filosofico anticristiano erano condannate come contrarie alla fede cattolica.
5 – LETTURA SISTEMATICA
Si può comprendere come, concepito e redatto in chiave di sistema, il Sillabo vada letto e giudicato nel suo insieme, ossia: né leggendone e giudicandone le tesi una separatamente dalle altre, né, tanto meno, prescindendo dallo sfondo od orizzonte ideologico, dalla matrice filosofico-teologica, da cui tutte e ciascuna provengono, in relazione a cui tutte e ciascuna pigliano significato.
Perchè si capisca meglio e concretamente, al proposito dirò che talune tesi (così come prodotte nel Sillabo), prese isolatamente – qualora, cioè, non si tenesse conto della sistematicità, del contesto – potevano essere assunte e fatte proprie sia da liberali radicali che da cattolici (liberali e conservatori) e sono oggi accettabili o accettate. Ne traduco (in lessico e sintassi attuali) alcune:
15a – Ogni uomo è libero di abbracciare e professare quella religione che,
alla luce della ragione, riterrà vera.
16a – Praticando qualsiasi religione gli uomini possono conseguire la salvezza.
78a Ovunque a ciascuno per legge deve essere concessa libertà di culto. 18a – Il protestantesimo non è che una forma diversa della medesima vera religione di Cristo e in esso, ugualmente che nella Chiesa cattolica, si può piacere a Dio.
(Alcuna di queste proposizioni è stata, addirittura, la rivendicazione vittoriosa del cattolicesimo nei confronti dei regimi comunisti).
Cambia però il senso di queste proporzioni; esse non saranno più accettabili dal cattolico, qualora si leggano – come si hanno da leggere – in correlazione a queste altre:
la Non c’è nessun Dio distinto dal mondo
2a Non si può ammettere (razionalmente) alcun intervento di Dio sugli uomini e sul mondo
3a La ragione umana non ha bisogno di ammettere Dio; essa è l’arbitra unica del vero e del falso, del bene e del male, ed è totalmente autonoma
4a Tutte le verità religiose sono soltanto verità di ragione
6a Rivelazione e fede contraddicono alla ragione e sono di ostacolo alla perfezione dell’uomo
7a Profezie, miracoli, Sacra Scrittura e Gesù Cristo stesso sono favole e mttt
40a La dottrina della Chiesa cattolica è contraria al bene e agli interessi della umanità.
Così pure, fuor di contesto, sarebbero accettabili proposizioni come:
27a Clero e papa debbono essere esclusi da ogni cura e dominio di cose temporali
76a L’abolizione del potere temporale gioverebbe moltissimo alla libertà e prosperità della Chiesa
32a Il clero va giudicato dalla comune magistratura per eventuali reati civili o penali
33a È giusto che anche i chierici facciano il servizio militare
77a Oggi non è più giusto ed utile che la religione cattolica sia ritenuta l’unica religione di stato
55a Chiesa e Stato debbono essere separati.
Diventano invece contrarie alla dottrina cattolica, quando si leggano alla controluce delle proposizioni:
19a La chiesa non è una vera e perfetta società completamente libera, né ha diritti suoi propri che le siano stati conferiti dal suo divino Fondatore; ma spetta al Potere Civile definire quali siano i diritti della Chiesa e i limiti dentro i quali possa esercitarli
20a – Il potere ecclesiastico non paò essere esercitato senza il permesso e il consenso del Governo civile
39a Lo Stato, come origine e fonte di tutti i diritti, gode di un diritto tale che non ammette confini
42a Nel conflitto fra legge dello Stato e legge della Chiesa prevale il diritto dello Stato
44a L’autorità civile può intervenire nelle cose concernenti la religione, la morale, la coscienza e l’amministrazione dei sacramenti
49a e dettarne norme circa 1’esistenza, la sostanza
51a – e le forme, nonché i beni
54a delle Professioni e degli Ordini religiosi.
Quanto detto sinora è l’indispensabile premessa per un giudizio sul Sillabo più illuminato, più equo di quanti ne siano stati già formulati.
E un verdetto di moda, pronunciato una volta, allora, dopo 1’8 dicembre 1864, e ripetuto instancabilmente, acriticamente, purtroppo anche da teologi (da Dollinger, a Kung, ad Hasler, a Tillard, a P. De Rosa) che Pio IX col Sillabo “abbia condannato a suon di elenchi, senza alcun barlume di riflessione ecclesiastico-teologica, le idee fondamentali della civiltà moderna”:libertà di pensiero, di stampa, di coscienza, di culto, di ricerca scientifica, esigendo l’incondizionata sottomissione dell’uomo, della scienza, dello Stato all’autorità della Chiesa (5).
In verità la Quanta Cura condanna come “opinione sommamente ruinosa per la Chiesa cattolica e per la salute delle anime – chiamata delirio e libertà di perdizione dal nostro predecessore Gregorio XVI – quella secondo cui:
1 la libertà di coscienza e di culto è un diritto proprio di ciascun uomo….
2 i cittadini hanno diritto ad una libertà totale, che non deve essere ristretta da alcuna autorità ecclesiastica o civile,
3 e possano manifestare pubblicamente i loro pensieri a parole, a mezzo stampa, in ogni modo…”.
E il Sillabo condanna, nella prop. 3a, il principio per cui la ragione è criterio unico ed autonomo di verità; e, nella prop. 79 a, chi non ritiene peri
colosa per la fede e per la morale la libertà di pensiero, di opinione e di culto.
6 – GIUDIZIO STORICIZZATO
Ma, per capire esattamente queste condanne e non cadere volgarmente in equivoco, bisogna osservare e ricordare l’ultima caratteristica strutturale dei due Documenti piani: quella della storicità.
Il giudizio di Pio IX sulle famose libertà è storicizzato: non verte su quelle in sé e per sé, astrattamente considerate, in assoluto, o come avrebbero potuto intenderle i cattolici; bensì “nel senso preciso in cui le intendevano i nemici della Chiesa” in quel preciso momento storico (ó): cioè nella precisa prospettiva del liberalismo illuministico, nell’orizzonte della religione della libertà, nell’accezione e nella interpretazione romantica (fuor d’ogni limite, infinitivamente, sino all’al di là del bene e del male,per dirla in termini di poco dislocati) a cui Quanta Cura e Sillabo le riconducevano.
Chi legge, dunque, il Sillabo come esso richiede, ossia vedendone le proposizioni imbevute dello spirito proprio delliberalismo illuministico, non può più sostenere la reazionarietà di Pio IX relativamente ai principi liberali e progressisti. Vede bene – anche rifacendosi alle Encicliche donde le proposizioni sono estratte, come ad esempio all’Editto del 15-3-1847 dove si distingue accuratamente fra onesta libertà dello stampare dalla dannosa licenza – come il Mastai condanni non i principi in assoluto e in astratto, ma nella concretezza delle circostanze storiche e culturali. Non condanna, ad esempio, la libertà di pensiero, di parole, di stampa, di coscienza e di culto sic et simpliciter, ma respinge la sf renata libertà di pensiero, quella, cioè, che non riconosce nemmeno la destinazione essenziale del pensiero alla verità, che per un cattolico è, non esclusivamente bensì fondamentalmente, la verità divina rivelata; non la libertà di parola in astratto, ma la libertà di parola che non tenga conto della suggestionabilità dei deboli, degli ignoranti o meno provveduti, e del pericolo di trarli in errore e far perdere loro il beneficio della fede; non la libertà di coscienza e di culto in astratto, cioè di chi non conosca o non sia riuscito, in buona fede, a convincersi della trascendente ed unica verità del Cristianesimo, ma quelle libertà in quanto rivendicate in nome di un totaleindifferentismo religioso e di un intransigente agnosticismo…
7 – DOTTRINA CATTOLICA
Vedrebbe, infine, che Pio IX, proprio a titolo della sua responsabilità di Maestro e di Pastore supremo e universale, non poteva procedere che come ha fatto, muovendosi su di un orizzonte culturale diverso, attenendosi cioè alla dottrina cattolica.
Secondo questa, il pensiero ha un limite intrinseco: il consentiment all’essere, l’adaequatio ad rem, l’evidenza o la dimostrazione, la Rivelazione dimostrata possibile e storicamente accertata; la volontà un limite intrinseco: l’adesione al bene come a suo oggetto formale e fine: che poi non è un limite, ma la perfezione; la libertà un limite intrinseco (l’illuminazione dell’intelletto non deviato dalle passioni) e una condizione sine qua non (la dissoggettazione alla violenza cogente delle passioni o alla violenza esterna); la libertà d’espressione un limite intrinseco (l’ossequio alla verità) ed uno estrinseco (ilrispetto della coscienza altrui e l’intenzione di far progredire nel vero e nel bene), e via dicendo.
La posta in giuoco era tale, l’urgenza di ristabilire la verità e la libertà cattolica era tanta, che né timore d’impopolarità, né previsione di sconforti e ferite morali poterono trattenere Pio IX dall’intervenire contro quel liberalismo.
Temettero i cattolici liberali – in ciò anche intimoriti dalle interpretazioni di cattolici intransigenti – che fossero state condannate anche le loro idee, d’essere stati anch’essi condannati. Ma ciò che il Sillabo condanna è chiarissimamente indicato: idee e tesi – che riguardino la religione, la Chiesa, i rapporti fra Chiesa e Stato, la libertà, la morale…- in quanto ispirateall’agnosticismo, all’indifferentismo religioso. Se il liberalismo cattolico non era questo, non era condannato.
I1 se dipende dal fatto che il cosiddetto liberalismo cattolico comprendeva posizioni molto diverse, difficili da ridurre a denominatore comune. Tutti sostenevano la necessità di conciliazione fra cristianesimo, e libertà e progresso. Ma il modo e i limiti in cui si intendeva quella conciliazione erano molto differenziati, fino a dare, taluni, l’impressione di essere sul punto di scivolare dal terreno delle concessioni pratiche, ammissibili, in quello dell’abbandono dei principi. Pio IX conosceva (non:perse di vista, come direbbe Aubert) la distinzione fra liberali puri e semplici e cattolici liberali. Ma vedeva anche le differenze fra questi ultimi. Si rendeva conto che svolgevano un compito utile e prezioso: di tentare lo sganciamente delle libertà civili dalla matrice illuministica irreligiosa, per assumerle nella civiltà cristiana; ma capiva pure quanto fosse rischiosa una critica interna del liberalismo radicale, che, a sua volta, nulla concedeva al cristianesimo, alla Chiesa. Facessero pure, icattolici liberali, con molta cautela, la loro opera di ermeneusi e di teologia! Magari avessero trovato una via cristiana a quelle libertà (il vescovo Maret, ma lui solo e inascoltato)! Pio IX sentì che al Magistero ecclesiastico, pontificio, in quel momento e in quella situazione, incombeva altro compito: quello medicinale-pedagogico di indicare e condannare gli errori.
Oggi ci accorgiamo, ad itinerario concluso (e ce lo ha ricordato Giovanni XXIII nella Pacem in Terris) come il liberalismo,anche nato da una filosofia naturalistica, poteva avere una evoluzione non necessariamente incompatibile col cattolicesimo. Ma in quel momento gli si opponeva diametralmente e ab extrinseco, contraddicendone i principi basilari. Non si poteva che respingerlo in tronco, ugualmente ab extrinseco, lasciando magari che le forze vitali del pensiero cattolico, rese più guardinghe e awertite dalla condanna papale, cimentandosi col pensiero liberale, ne valorizzassero l’anima di verità e lasciassero decantare l’errore.
Dispiace constatare come al Silabo abbiano reagito nervosamente – non intendendo il dovere magisteriale e la preoccupazione pastorale del Papa – anche cattolici benemeriti come Montalembert, od abbiano arrecato, in buona fede e al nobile scopo di far smontare l’uragano della contestazione radicale, interpretazioni ingegnose ma sostanzialmente riduttive se non devianti, come il vescovo Dupanloup (7). E dispiace il dissenso di teologi e di storici cattolici attuali, di cui singolarmente espressivo e negativamente esemplare è questo passo:
“Il documento, preparato durante quindici anni, passato per tante redazioni successive, oggetto di tante discussioni, non era riuscito a precisare in modo chiaro gli errori del tempo; e se aveva il merito di ribadire ancora una volta l’ordine soprannaturale, non rispondeva agli interrogativi sempre più urgenti sui limiti della libertà. Alla radice di tutte le ambiguità del Sillabo, che provocarono discussioni largamente inutili e costituirono un grave handicap di libertà di coscienza, sta l’assoluta mancanza di prospettiva storica e concreta dei consultori romani, e l’univocità con cui essi intendevano la libertà di coscienza. Per essi, come per Gregorio X VI, questa era solo un corollario dell’indifferentismo; sarebbe stato necessario un secolo per ricordare e accettare altri significati, ben diversi, della libertà di coscienza, fondata sulla dignità della persona umana.
Intanto cattolico-liberali e intransigenti, sia pure con qualche sfumatura nuova, rimanevano sulle posizioni di prima: il Sillabo aveva fallito il suo scopo” (8). (Martina)
8 – VALIDITA’ DELLA RAGIONE
Purtroppo per chi tali righe ha vergato, non ci sono ambiguità nel Sillabo, né ci fu mancanza di prospettiva storica in chi lo propose. E quanto all’univocità non è da addebitare meno ai liberali di quanto non la si rimproveri ai cattolici.
Infine, il Sillabo non ha fallito il suo scopo. Volle essere, e fu, la condanna di errori. E all’uomo serve che gli si additi l’errore non meno di quanto gli occorra la proposta della verità. Così il Sillabo concorse a che la cultura liberale evolvesse in senso non anticristiano, si lasciasse, anzi, permeare in profondità dalla tradizione cristiana.
È vero però che da quell’8 dicembre acre si fece il rancore dei liberali contro il papa del Sillabo, e risentita, amara, non scevra di riserve l’adesione alla Chiesa dei cattolici moderati, deluso l’amore e l’entusiamo verso il papa, che si sarebbe atteggiato a nemico della civiltà moderna, ad anacronistico ripropositore della ierocrazia di un Innocenzo III, di un Bonifacio VIII.
Ma non sarebbero passati cinque anni (1870: Concilio Vaticano I) che si sarebbe potuto capire come, paradossalmente, proprio dentro la cultura dell’Ottocento, donde più fervido pareva levarsi l’inno alla Ragione, se ne delimitava difatto il raggio e la portata d’azione; e proprio da parte di quel magistero ecclesiastico, da parte di quella fede cristiana che dal Razionalismo era stata messa in stato d’accusa, da parte di quel Pio IX che col Sillabo avrebbe negato libertà al pensiero, ne sarebbe venuta la più alta riaffermazione.
Qual era poi quella libertà del pensiero che tanto fieramente si conclamava e reclamava, da paventare oppositori anche dove non erano? Qual era poi questa già dea Ragione, in nome della cui sovranità e indipendenza tanti credevano di dover combattere contro la Chiesa di Pio IX?
Ma non l’aveva già, proprio Cartesio, il padre del Razionalismo, disancorandola dall’essere, ripiegata narcisisticamente su se stessa e costretta nella camicia di forza delle idee innate? E non erano proprio l’Illuminismo, il Criticismo Kantiano e, poco più tardi, al tempo di Pio IX, il Positivismo a tagliare le ali alla Ragione ed a rinchiuderla, lei che aveva spaziato per i cieli amplissimi della metafisica, dentro le sbarre sicure ma anguste della esperienza? E non era stato -recente e tuttora vitale al tempo del Sillabo – il Romanticismo a scoronare la Ragione del primato, del ruolo di misura e di guida nell’ambito delle facoltà umane, attribuendolo invece al sentimento, all’irrazionale? Ed anche l’Idealismo, nella pretesa di restituire infinità alla Ragione,non potrà far altro che insediare l’irrazionale nel centro dello spirito.
L’inno al pensiero si smorzava, alla fine dell’Ottocento, in necrologio. Ormai al tanto deprecato dogmatismo succedevano problematicismo, relativismo, scetticismo (oggi il pensiero debole). E se il pensiero era stato sempre riconosciuto l’originale titolo di nobiltà dell’uomo, la dichiarata (non da Pio IX!) miseria del pensiero non avrebbe potuto che avviare all’umiliazione dell’uomo: agli orrori delle guerre e poi dei campi di sterminio, delle dittature, della miseria di interi continenti. E quando l’uomo non crede più in se stesso, non ha più fiducia nel pensiero, non ci si illuda che sia il momento della fede, dell’abbandono in Dio! Vana è la fede che pretenda innalzarsi sulle rovine, sulle ceneri della ragione.
Tanto più umana ed utile all’uomo, la fede, quanto più forte si regge e s’innalza sulle spalle della ragione (“fundamenta eius in montibus altis”).
Pio IX comprese che per esaltare la fede occorreva riconoscere, ridare fiducia alla ragione, memore – lui, promotore della ripresa della filosofia scolastica – del grande effato tomistico: “fides non potest universaliter praecedere intellectum : non enim po s set homo as senti re credendo aliquibus propositis, nisi ea aliqualiter intelligeret” (la fede non può sempre e in tutto precedere la comprensione dell’intelletto: non potrebbe infatti un uomo assentire col credere a qualcosa che gli venga proposto, se non potesse in qualche modo capirlo) (9).
E uscì dal Vaticano I – da quello stesso Concilio da cui usciì il dogma dell’infallibilità del papa, in cui volle vedersi l’atto conclusivo del Sillabo, la condanna finale della libertà di pensiero, sacrificata all’autorità assoluta di una testa sola – uscì dal Vaticano I la Costituzione dogmatica Dei Filius, in cui si riconosce alla ragione: di essere fatta per la verità, di potersi elevare alla conoscenza di Dio, di poter dimostrare possibilità e fatti che sono al fondamento della fede e in cui si afferma, non solo l’impossibilità di opposizione, ma l’aiuto reciproco fra fede e ragione, e si conclude:
“è tanto lontano dall’intenzione della chiesa di opporsi al progresso della scienza, da aiutarlo e promuoverlo anzi in molti modi. Non ignora, infatti, né disprezza i vantaggi che ne derivano agli uomini; riconosce anzi che, come sono uscite, le scienze, da Dio, così possono a Dio ricondurre. E tanto meno vieta che tali discipline nel loro proprio ambito usino principi e metodi propri; ma riconosce questa loro giusta libertà; ed accuratamente si preoccupa che l’umano sapere non introduca in sé l’errore con l’opporsi alla dottrina rivelata…” (10).
Così parlavano i teologi del Vaticano I, quelli stessi che avevano collaborato al Siltabo. Così diceva, sottoscriveva, avvolorava Pio IX, lo stesso papa che aveva emanato il Sillabo (non a contraddire, bensì a far capire il senso genuino di quel non lontano Documento).
9 – CHIESA E LIBERALISMO, OGGI
Credo ci siano ragioni a che storici e teologi convengano esser effetto di ingenua e sprovveduta lettura del Sillabo l’opinione, e l’accusa a Pio IX, che egli abbia, condannando il Liberalismo del suo tempo, isolato la cultura cattolica dal mondo contemporaneo, provocato chiusure e ritardi che nemmeno il Vaticano 1I sarebbe riuscito a superare, gettato le radici della grave crisi del cattolicesimo d’oggi. Pio IX è stato quello che doveva essere, e così il Sillabo. La condanna di quel Liberalismodipende dalla sua intrinseca incompatibilità col cattolicesimo: non con quel cattolicesimo – con una presunta interpretazione riduttiva o medievale che ne avrebbe data Pio IX -, ma con il cattolicesimo, del quale come Papa garantiva l’autenticità.
Se fosse vero che, dopo Pio IX, Paolo VI e il Vaticano II hanno rappresentato la tardiva realizzazione del cattolicesimo liberale – quello che temette d’essere condannato, anche lui, dal Sillabo – cercando di governare la modernità, sarebbe anche vero che la crisi dei comunismi e la sconfitta del materialismo di Stato consentono alla Chiesa di concentrare la sua attenzione contro l’avversario tradizionale, figlio dei Lumi e del 1789: consentono, cioè, a papa Wojtyla di improntare il suo magistero all’antica polemica contro il liberalismo, che egli identifica oggi con la secolarizzazione, il consumismo, il primato di valori terreni…
E se oggi la Chiesa cattolica – rinnovando la strategia rispetto a quella di Pio IX – non si riduce alla pura opposizione alsecolarismo, figlio naturale del liberalismo filosofico, ma utilizza molti strumenti messi a punto dalla democrazia liberale(dalla rivendicazione dei Diritti Umani -elemento centrale del Magistero attuale – alle libertà civili: di pensiero, di stampa, di coscienza, di culto…, ai principi del diritto internazionale, ad alcuni meccanismi del capitalismo – cf. la “Centesimus annus”, -ciò non si deve al fatto che il cattolicesimo si sia ravveduto nei confronti del Liberalismo o che il cammino della storia abbia smentito Pio IX, ma semplicemente al fatto che oggi abbiamo a che fare con un liberalismo economico e politico che in gran parte si è liberato dalla matrice filosofica illuministica e romantica. Abbiamo a che fare con un altro liberalismo rispetto a quello cui dovette opporsi il nostro papa Mastai.
Difficile dire se questo sarebbe stato il cammino del liberalismo senza il Sillabo. È certo, comunque, che Pio IX non ha rallentato, ma mantenuto nella giusta rotta il cammino della Chiesa.
Manlio Brunetti
Mencucci A. , Brunetti M. (a cura di), Atti senigalliesi nel Bicentenario della nascita di Pio IX, Senigallia, 1992, pp. 25-37.
