RICORDA CHE:
COS’È LA VITA? È davvero nostra?
Ha senso nascere, amare, soffrire… se tutto finisce nel nulla?
Se Dio non c’è, anche vivere diventa assurdo.
E allora perché stupirsi se qualcuno vuole morire?
Il suicidio assistito non è libertà:
è il grido di una società che non sa più perché vivere.
Chi sceglie la morte, spesso non ha mai conosciuto l’amore vero.
Quello che resta, che accompagna, che salva.
Ma se la vita ha un senso,
se il dolore può essere trasfigurato,
se la morte è una soglia e non un muro…
Allora serve un Altro.
Serve una Presenza.
Serve Gesù Cristo.
Solo in Lui la vita è davvero vita.
E la morte, finalmente, non fa più paura.
“Io sono la Vita” (Gv 14,6)
- “Oggi la Corte apre al principio: se non puoi morire da solo, lo Stato deve aiutarti a farlo. È questa la nuova frontiera dei “diritti”? Siamo davanti a una deriva culturale che, sotto le mentite spoglie del diritto all’autodeterminazione, rischia di istituzionalizzare un “diritto a farsi uccidere”… La Corte si dice attenta alla tutela dei più deboli, ma nella realtà sembra contribuire alla costruzione di un sistema in cui la morte diventa una prestazione sanitaria. È il segnale – inquietante – di un diritto sempre più disancorato dalla verità sull’uomo e sempre più funzionale a logiche di efficienza e “libera scelta”, anche a costo di sacrificare la dignità inviolabile della vita umana.” (fonte: Giancarlo Cerrelli)
La Misericordia deve camminare con la Verità.
di Don Mario Proietti (16 luglio 2025)
Un caso emblematico di comunicazione ecclesiale sbilanciata: tra emozione, omissioni e rischio educativo
Dopo aver riflettuto, stamattina, su come la propaganda agisce attraverso l’informazione travestita da neutralità, e su come la verità venga spesso deformata da percezioni emotive non custodite, desidero ora affrontare un caso concreto.
Mi è capitato di leggere, su un blog, la risposta di un sacerdote a una domanda molto seria e delicata: “Perché oggi la Chiesa celebra i funerali anche per chi si è tolto la vita, mentre in passato non sempre era così?”.
La sua risposta, seppur animata da buone intenzioni e da sincera empatia, conteneva affermazioni che rivelano errori di approccio, di dottrina e di comunicazione. Errori non di poco conto, perché toccano il senso stesso della speranza cristiana, della misericordia e della verità.
Riporto qui la risposta integralmente, senza citare l’autore, e a seguire ne propongo un’analisi critica.
La risposta del sacerdote (integrale): «Mi permetto per prima cosa, da povero prete di campagna, pur stimando e ritenendo il cardinale Camillo Ruini uno dei maggiori presidenti della Conferenza Episcopale Italiana degli ultimi decenni con il cardinale Angelo Bagnasco, di dissentire da quella decisione; una decisione non condivisa neppure da esponenti ecclesiali di spicco della Chiesa italiana dal cardinale Giacomo Biffi (Bologna) al vescovo Maggiolini (Como) che non temevano di confrontarsi sui mezzi di comunicazione. Con il trascorrere del tempo, per fortuna, c’è stata una profonda riflessione sull’argomento e oggi ogni battezzato, anche se suicida, ha il diritto al funerale religioso. Tra i tanti casi, si parla di quattromila persone l’anno in Italia, fece scalpore, o meglio diede una spinta per aprire la chiesa e così accogliere il fratello defunto, il suicidio di Franco Anelli rettore dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, suicidatosi il 23 maggio 2024. Due motivazioni che hanno portato a questo capovolgimento. La prima la prendo da padre Alberto Maggi, direttore del Centro studi biblici “Giovanni Vannucci” di Montefano che ha scritto: “La scelta del suicidio è determinata da una sofferenza che travolge la persona, e in un momento di sofferenza così acuta non va aggiunto altro dolore, per esempio negando il funerale, magari in nome della dottrina. Quindi è giusto ed evangelico che la Chiesa celebri il funerale di Anelli”. E il padre conclude: “Il nodo di fondo è uno: è sacra la vita o è sacro l’essere umano?”. Io direi tutti e due. La seconda la prendo dall’omelia che il vescovo di Novara mons. Franco Giulio Brambilla, ha pronunciato presiedendo a Cannobio il funerale di don Matteo. Anche questo fatto, di conseguenza la celebrazione delle esequie cristiane, deve insegnarci a non nasconderci di fronte alle nostre paure e fatiche. Dobbiamo imparare ad ascoltarci. E a trovare, nei nostri rapporti fraterni, linguaggi e parole di accoglienza e comunione.» E infine: «Mi sembrava limitativo rispondere alla domanda di Leonardo con un semplice “SI” o “NO”. Lo faccio ora al termine. La Chiesa cattolica sostiene che ogni persona ha diritto a un funerale cristiano, comprese anche le persone che hanno perso la vita a causa del suicidio.»
Proviamo ora a fare un’analisi critica di questo scritto, evidenziando alcune problematiche fondamentali.
Confusione tra piani e contesti La risposta inizia con un riferimento a “decisioni” del passato, accomunando il suicidio a casi di sospensione dei trattamenti di fine vita e citando nomi autorevoli. Questa narrazione semplifica eccessivamente e confonde i contesti, mescolando situazioni diverse che richiedono un discernimento teologico e pastorale specifico. Il rischio è creare un’immagine distorta della prassi ecclesiale storica e attuale.
Un’affermazione erronea e pericolosa Affermare che “oggi ogni battezzato, anche se suicida, ha il diritto al funerale religioso” è teologicamente e canonicamente falso. Il Codice di Diritto Canonico (can. 1184) prevede la possibilità di negare le esequie a chi ha commesso atti gravemente contrari alla fede, come il suicidio, qualora non vi siano segni di pentimento o vi sia scandalo pubblico. Il Catechismo della Chiesa Cattolica (nn. 2282-2283) riconosce che la responsabilità soggettiva può essere attenuata da gravi disturbi psichici, angoscia o paura grave, ma ciò non annulla la gravità oggettiva del gesto né concede un “diritto” automatico al funerale religioso. Il funerale non è un diritto umano, ma una supplica per la salvezza eterna, che la Chiesa concede secondo il suo discernimento.
L’uso discutibile delle fonti Citare padre Alberto Maggi come riferimento autorevole, senza contestualizzare il suo pensiero, accredita una prospettiva spesso in contrasto con la dottrina cattolica. La domanda posta da Maggi, “è sacra la vita o è sacro l’essere umano?”, è un falso dilemma. La vita è sacra proprio in quanto è un dono di Dio all’essere umano. L’ambiguità introdotta da tale quesito è teologicamente pericolosa, in quanto separa ciò che è intrinsecamente unito nella visione cristiana.
Casi pastorali elevati a regola generale Il riferimento all’omelia del vescovo di Novara è, senza dubbio, carico di pietà e comprensione pastorale. Tuttavia, le parole pronunciate in un contesto specifico di profondo dolore e vicinanza non possono essere erette a principio universale o a nuova dottrina. È il discernimento pastorale, che tiene conto della complessità del caso e della sofferenza della famiglia, a guidare certe scelte, non una generica “nuova regola”.
Una conclusione gravemente ambigua Ribadire che la Chiesa “sostiene che ogni suicida ha diritto al funerale” è non solo sbagliato, ma diseducativo. Il funerale non è un’approvazione del gesto del suicidio, né una semplice consolazione sociale. È una preghiera della comunità per il defunto, affidandolo alla misericordia di Dio, e per i familiari che soffrono. Trasmettere l’idea di un “diritto” può banalizzare la tragicità del gesto e la dottrina sul valore della vita.
Ciò che più colpisce in questa risposta non è tanto l’intenzione, quanto il suo effetto potenziale. Si rischia di veicolare l’idea che la dottrina sia “cambiata”, che la Chiesa abbia “finalmente capito” e che la misericordia consista nell’annullare ogni giudizio o la gravità del peccato. Ma la vera misericordia cammina sempre con la verità.
La Chiesa oggi accompagna con profonda pietà e comprensione anche chi si è tolto la vita, e le loro famiglie. Ma lo fa senza banalizzare la serietà del peccato, senza dissolvere la ricchezza della sua dottrina e, soprattutto, senza rinunciare alla verità del Vangelo e alla sacralità della vita.
Chi comunica, specialmente se sacerdote, ha il dovere di parlare con chiarezza, senza cedere a mode o pressioni emotive. Perché, come diceva san Tommaso d’Aquino: “Misericordia sine veritate est mater dissolutionis”, la misericordia senza verità è madre della dissoluzione.
Per questo motivo, come sacerdoti e comunicatori, siamo chiamati non solo a consolare, ma a illuminare: con il Vangelo intero, non con una sua parte.
(fonte)
“CHI DESIDERA MORIRE HA MAI CONOSCIUTO DAVVERO COSA SIA VIVERE?”
di Don Mario Proietti (23 luglio 2025)
È di oggi la notizia della morte di Laura Santi, giornalista perugina affetta da una forma avanzata di sclerosi multipla, che si è auto-somministrata il farmaco letale nella propria abitazione, con l’assistenza e il supporto dell’associazione Luca Coscioni. Non è il momento di giudicare il dramma personale di una donna sofferente: ogni vita, soprattutto quella ferita, merita silenzio, rispetto, preghiera. Ma è invece doveroso, per chi crede nella verità e nel Vangelo della vita, interrogarsi seriamente su ciò che si sta facendo passare, culturalmente, legalmente e mediaticamente, come un gesto di libertà, di dignità, persino di amore.
Non si tratta più, ormai, di casi estremi. Si tratta di una cultura diffusa, radicata, capillarmente promossa da soggetti organizzati come l’associazione Luca Coscioni, la cui azione pubblica non è neutra, né semplicemente compassionevole: è ideologica. Il loro obiettivo non è semplicemente garantire il “diritto” a morire, ma rifondare l’idea stessa di dignità umana su un presupposto pericoloso: che la vita valga solo finché è autonoma, utile, desiderabile. Ma proprio questo è l’inganno più grande. Perché una società che definisce dignitosa solo la vita produttiva è già una società ingiusta. Una società che offre la morte come soluzione, è già una società sconfitta.
Dietro la richiesta di morire non c’è quasi mai solo la sofferenza fisica. C’è un abbandono, una solitudine, una disperazione che non trova ascolto. C’è il grido inespresso di chi non si sente più amato, né utile, né degno di attenzione. E allora la domanda vera non è: “perché vuole morire?”, ma: “perché non ha più motivi per vivere?” Che cosa gli abbiamo detto della sua vita? Quale immagine gli abbiamo restituito del dolore? Quale compagnia abbiamo saputo offrire?
La verità che molti rifiutano di guardare è che forse ciò che è più crudele, in fondo, non è la sofferenza, ma il non aver mai sperimentato un amore vero, gratuito, sacrificante e sacrificato; quell’amore che si fa compagno di strada dell’amato proprio nel tempo della sua croce. Chi non vuole essere dipendente, chi rifiuta il sacrificio, chi teme di “pesare”, forse non ha mai conosciuto la tenerezza trasformante che nasce dal restare accanto a chi non può più dare nulla se non la propria presenza muta. Forse non ha mai conosciuto la gioia nascosta dell’amore sacrificato all’immobilità dell’amato. Perché la vita vera si misura nell’amore, non nell’efficienza.
La dottrina cattolica è limpida su questo punto. Il Catechismo afferma con chiarezza che «noi siamo i dispensatori, non i padroni, della vita che Dio ci ha affidato» (CCC 2280), e che «il suicidio è gravemente contrario all’amore del Dio vivente» (CCC 2281). Questo non significa condanna morale verso chi cede allo sconforto, ma affermazione chiara della verità: la vita è un dono, non una proprietà. E, come ogni dono, ha senso solo se accolto. La libertà di autodeterminarsi fino alla morte è un inganno, perché nessuno si dà la vita da sé, e nessuno può darle da solo il suo senso.
La fede ci insegna che il dolore, se amato, può essere trasfigurato. E che in Cristo crocifisso, la sofferenza non è mai l’ultima parola. La morte può essere vinta non quando è scelta, ma quando è accolta dentro un amore più grande. Non a caso, la Chiesa non chiede di prolungare la vita a ogni costo, né di cadere nell’accanimento terapeutico, ma chiede che ogni vita sia accompagnata, amata, custodita, fino all’ultimo respiro. È questa la vera pietà cristiana.
San Giovanni Paolo II, nella sua profetica Evangelium vitae, ha denunciato con forza la deriva che oggi vediamo compiersi sotto i nostri occhi. Scriveva: «Siamo di fronte a una realtà assai più vasta, che può essere definita una vera e propria cultura di morte. […] La vita, soprattutto quando è debole, è affidata a criteri di efficienza economica e sociale. […] L’eutanasia, così come il suicidio assistito, non sono atti di libertà ma di resa: il frutto amaro di una cultura che ha perso il senso della vita» (EV 12 e 64).
Tutto questo ci interroga. Se si può decidere di morire perché si soffre, allora chi garantisce che la vita dei disabili, degli anziani, dei depressi, dei poveri, degli abbandonati, non diventi un peso da rimuovere? La soglia dell’umano, una volta varcata, non conosce più argini.
E infine la domanda: chi desidera morire ha mai conosciuto davvero cosa sia vivere? Se la vita è solo benessere e prestazione, allora quando queste svaniscono non resta che la morte. Ma se vivere significa amare, ed essere amati, allora nessuna condizione può togliere dignità all’esistenza. Nemmeno la malattia più devastante. Fuori dall’orizzonte di Dio, la vita si riduce a una corsa verso il nulla. Con Dio, invece, anche la sofferenza più buia può diventare luce.
Chi oggi promuove l’eutanasia come gesto d’amore, sta confondendo la compassione con la rassegnazione. Ma la compassione cristiana è farsi carico dell’altro, non eliminarlo. È restare accanto, non spegnere. È morire vivendo, non vivere morendo. Perché solo chi ama fino alla fine, ha vissuto davvero.
LA TRAPPOLA DELLE PAROLE: PERCHÉ CHIAMARE “DOLCE” LA MORTE È UN INGANNO
di Don Mario Proietti (23 luglio 2025)
Andando a leggere i commenti al mio post, condiviso da alcuni amici, mi sono imbattuto in una frase che mi ha fatto riflettere: “Io ho visto soffrire tante persone, così sono per la dolce morte…”. Non giudico chi l’ha scritta, perché nasce sicuramente dal desiderio sincero di alleviare il dolore di chi soffre. Ma proprio qui sta il punto: dobbiamo fermarci a riflettere su questa espressione. Perché chiamare dolce la morte non è neutro, è l’effetto di un indottrinamento sottile che lavora nella nostra cultura. È la prova che il linguaggio sta cambiando il pensiero. E quando il pensiero cambia, cambiano anche le scelte.
Perché nessuna morte è dolce. Non lo è mai stata, non lo sarà mai. La morte è sempre una ferita, uno strappo, una separazione che lascia dolore. Eppure oggi si cerca di addolcirla con aggettivi rassicuranti, per trasformare in bene ciò che rimane un male: la soppressione della vita. Non è solo questione di parole: dietro un termine c’è un’idea, e dietro un’idea c’è una rivoluzione silenziosa.
Le ideologie lo sanno bene: cambiare i nomi per cambiare la coscienza. Non si dice più “uccidere”, ma “interrompere la vita”; non più “suicidio assistito”, ma “eutanasia”, dal greco “buona morte”; e ora persino “dolce morte”, come se la dolcezza fosse nell’iniezione che toglie il respiro e non nella carezza che accompagna fino all’ultimo istante. Questa è la forza del linguaggio: togliere la durezza a un atto irreparabile per renderlo accettabile, desiderabile, persino giusto. Ma dietro questa parola morbida c’è la verità nuda: una vita spezzata da una mano umana.
Il problema non è il desiderio di pietà, ma la scorciatoia che il mondo ci propone: eliminare il dolore eliminando chi soffre. Ma questa non è umanità, è resa. È la sconfitta della medicina, della solidarietà, della speranza. Madre Teresa non ha mai tolto la vita a un malato terminale, eppure il mondo la ricorda come il volto della compassione. Perché la vera dolcezza non è nel gesto che sopprime, ma in quello che sostiene. È nel chinarsi accanto a chi piange, nel restare quando tutti vorrebbero fuggire, nell’abbraccio che non abbandona la fragilità. Questa è la civiltà: non travestire la morte da bene, ma riempire la vita ferita di amore e di senso.
Chiamare “dolce” la morte è un’illusione che diventa norma. Ci educa a credere che la libertà sia potere di cancellarsi, che la dignità stia nel decidere la fine, che il dolore non abbia alcun significato. Ma dietro questa logica si consuma la più amara delle menzogne: che la vita vale solo finché è comoda. E se togliamo la fatica, il limite, il tempo che sembra inutile, togliamo anche la radice dell’amore. Perché l’amore vive proprio lì: dove non c’è nulla da guadagnare, se non il dono di sé.
Il Vangelo ci mostra un’altra via. Non una morte scelta per disperazione, ma una vita donata per amore. Cristo non ha tolto la croce, l’ha abbracciata. Non ha cercato la dolcezza nella fuga, ma nella fedeltà fino alla fine. E così ha trasformato il dolore in speranza, la morte in vita. Questa è la verità cristiana: non esiste aggettivo che renda dolce la morte, ma esiste una grazia che la trasforma in Pasqua. Non è un atto di potere sull’esistenza, ma di fiducia nelle mani del Padre.
Per questo, amici, ricordiamolo: la morte non sarà mai dolce. L’unica dolcezza vera è quella che nasce dall’amore che non abbandona. Tutto il resto è retorica. E la retorica che traveste la morte non consola: inganna.
“QUANDO LA LEGGE EDUCA ALLA RESA” – PERCHÉ IL SUICIDIO ASSISTITO NON È LIBERTÀ, MA INGANNO
di Don Mario Proietti (24 luglio 2025)
Ho ascoltato l’appello di Laura Santi e ne sono rimasto profondamente colpito. Di solito, dopo la morte, cala il silenzio, il rispetto, il tempo del pudore. Invece ci troviamo davanti a una voce postuma che continua a parlare, a richiamare, a chiedere ai parlamentari di agire in un certo modo. È come se anche la morte fosse stata trasformata in strumento di battaglia, come se l’ultimo istante non fosse più un approdo, ma un’arma per persuadere.
Io, come sacerdote, celebrerò una Messa in suffragio per la sua anima, come conviene a chi, nel Battesimo, è stato fatto dono della luce della fede. Invito chi crede a unirsi in preghiera: questo è il nostro compito davanti alla morte, mai la condanna, sempre la carità. Noi, a differenza di chi non crede, conosciamo bene cosa avviene dopo il trapasso: l’incontro tra l’anima immortale e il suo Creatore. Non è questione di giudizio personale, ma di verità oggettiva. Quando l’anima si riflette in Dio, conosce la verità intera e comprende la distanza infinita tra il bene eterno e le illusioni che il peccato ha seminato nella storia.
Ecco il dramma: per un’anima dotata di intelligenza e creata a immagine di Dio, sarà insopportabile scoprire l’inganno che il male ha perpetrato. Le promesse di libertà che si infrangono nel nulla, le false consolazioni che svaniscono davanti alla luce del Volto divino. Questo non è giudizio, è rivelazione: ora vediamo in uno specchio, in maniera confusa; ma allora vedremo faccia a faccia (1Cor 13,12). Ed è proprio qui che la Chiesa interviene con la misericordia: le nostre preghiere non cambiano la verità, ma intercedono perché l’anima si apra alla purificazione e all’abbraccio del Padre. È la consolazione della fede, che non cancella il dolore ma lo trasfigura nella speranza.
Ed è da questa speranza che nasce la mia amarezza davanti a ciò che sta accadendo. Mi chiedo: perché arrivare a un gesto simile proprio alla vigilia di una discussione parlamentare? Perché trasformare un dramma personale in un manifesto? Qui non siamo più davanti alla tragedia di una vita segnata dal dolore, ma a un’operazione culturale e politica. È il tentativo di piegare il dibattito non con la forza della ragione, ma con l’urto dell’emozione. Si chiama strategia simbolica: creare icone mediatiche per orientare la legge.
E mi domando: quanto arriva lontano l’ideologia quando si appropria perfino della morte? Ciò che si presenta come “scelta individuale”, quando diventa spettacolo e leva legislativa, cessa di essere pura libertà e si fa strumento di una causa. È un martirio rovesciato: non dare la vita per amore della verità, ma togliersela per affermare un’idea che contraddice la verità sull’uomo. È la narrazione contraria alla Croce: non “Padre, nelle tue mani”, ma “nelle mie mani fino alla fine”.
E non è solo il gesto individuale a inquietare, ma il contorno: associazioni che ne fanno vessillo, comunicati che santificano la scelta, linguaggi che sfiorano la liturgia laica. Stiamo creando i “nuovi santi” di una religione radicale: non più chi custodisce la vita fino al sacrificio, ma chi la nega in nome dell’autodeterminazione. È un rovesciamento culturale e spirituale senza precedenti.
Ecco il vero problema: non è solo una legge sul fine vita, è la riscrittura dell’antropologia. Prima la vita era indisponibile, ora deve essere disponibile. Prima il limite era condizione umana, ora è scandalo da cancellare. Prima la fragilità era luogo di solidarietà, ora è condanna. Una legge che apre al suicidio assistito non è neutra: è una legge che educa. E se educa all’idea che la vita è un bene solo quando è “bella” o “soddisfacente”, allora crea sacche di disvalore umano. È la vittoria di una pedagogia della disperazione.
Per questo voglio fare un appello ai parlamentari.
A voi che vi dichiarate cristiani: il Magistero non lascia spazi di ambiguità. San Giovanni Paolo II in Evangelium Vitae afferma: “Le leggi che autorizzano l’eutanasia e il suicidio assistito sono radicalmente contrarie non solo al bene dell’individuo, ma anche al bene comune” (n. 72). E aggiunge: “Non è lecito appoggiarle né con il proprio voto né con il proprio sostegno” (n. 73). Il Catechismo ribadisce: “Qualunque sia il motivo e il mezzo, l’eutanasia diretta è moralmente inaccettabile” (n. 2277). Se vi dite cristiani, agite come tali.
E a voi che vi dite laici: non lasciatevi ingannare da chi traveste di libertà ciò che è anarchia mascherata. La vera laicità non è fare di ogni desiderio una legge, ma salvaguardare l’ordine razionale che regge la convivenza. Lo ricorda Norberto Bobbio: “Il diritto alla vita è il presupposto di tutti gli altri diritti”. Lo afferma la Costituzione (art. 2 e 32) e la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo (art. 3). Senza il diritto alla vita, ogni altro diritto crolla.
Vi chiedo: usate il cervello, ma lasciatelo due palmi sotto il cuore. Non votate sotto la spinta emotiva. Non seguite il clamore mediatico. Fate prevalere la ragione illuminata dal bene. Dite al Paese che la dignità non è eliminare chi soffre, ma accompagnarlo con amore. Questa è la vera civiltà: non quella che erige altari all’autodeterminazione assoluta, ma quella che non abbandona nessuno, nemmeno nell’ora più oscura.
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IL GIORNO DELLA VERITÀ E L’INSOPPORTAZIONE DELLA COLPA
(Perché non ci saranno punture che addolciscono l’eternità)
Dopo l’ultimo post, alcuni amici mi hanno chiesto di spiegare meglio un’espressione che avevo usato: «Per un’anima dotata di intelligenza e creata a immagine di Dio, sarà insopportabile scoprire l’inganno che il male ha perpetrato».
Di cosa parliamo quando diciamo “insopportabile”?
Il problema è che spesso restiamo fermi a immagini infantili. Si immagina il giudizio come un conto da pagare in una trattoria: Dio, come un oste, fa i conti dopo il pasto. Ma questa è una caricatura. La realtà è immensamente più seria.
L’anima umana è intelligente, libera, responsabile, creata per la verità e il bene. Il peccato può offuscare questa luce, ma non la spegne. Nel momento del giudizio, quando saremo immersi nella santità di Dio, non ci sarà più spazio per maschere e scuse. Tutta la verità di noi stessi esploderà nella luce. E allora la coscienza diventerà il giudice più implacabile.
Già oggi sperimentiamo l’insopportazione: basta un’ingiustizia per farci ribollire il sangue, basta un torto per farci dire “non lo sopporto più!”. Ma pensiamo: e se questo non riguardasse gli altri, ma noi stessi? Se l’insopportabile fosse la verità su di noi?
Ecco perché il giudizio non è una favola zuccherata: è il giorno in cui la verità, che abbiamo negato, si impone senza più veli.
San Tommaso insegna che il peccato lascia nell’anima un reatus culpae (Summa Theologiae I-II q.87 a.6), un debito che non può essere cancellato se non da Dio. La colpa non è solo errore morale, ma ferita ontologica: rompe l’ordine dell’amore e priva l’anima della sua pace.
Oggi questa verità è dimenticata. Si parla di fragilità, si invoca il condizionamento sociale, si cerca il colpevole fuori da noi. Ma l’uomo, quando non trova il perdono, implode: ecco la rabbia, le nevrosi, la disperazione. Le società che negano la colpa inventano anestetici morali, ideologie che assolvono tutto: ma non funzionano. Perché la colpa non è un’impressione, è un fatto reale che solo la grazia può togliere.
Il giudizio non è un Dio seduto su un trono a leggere un verbale. È l’irruzione della verità. Scrive Ratzinger: «Il giudizio è l’incontro con Cristo, che nello stesso istante salva e giudica» (Escatologia).
Nel giudizio non ci saranno scappatoie. Non ci saranno avvocati difensori né appelli. Non ci saranno punture che sedano il dolore, né anestesie spirituali per addolcire la coscienza. Tutte le illusioni cadranno. E la misericordia, che oggi è accessibile, domani non sarà più scelta ma verità che brucia, se non ci siamo lasciati guarire.
Quella luce sarà dolce per chi ha desiderato la verità, ma insopportabile per chi ha preferito la menzogna. Sant’Agostino lo aveva intuito: «Entrai dentro di me… Tu eri più intimo di me stesso e più alto della mia parte più alta» (Confessioni, X,27). Quella voce, oggi soffocata, griderà forte e non si potrà zittire.
Ed ecco un punto decisivo: chi oggi non sa sopportare nulla, come sopporterà la verità di sé davanti a Dio? Viviamo in un’epoca che rifiuta il dolore, la fatica, la malattia. Appena compare la sofferenza, cerchiamo subito un analgesico, una pillola, una puntura per non sentire più nulla. Si arriva persino a chiedere la morte pur di non soffrire. Ma in eterno non ci saranno anestesie. Non ci saranno sedativi per calmare il fuoco della verità.
Per questo le croci della vita, dolori, ingiustizie, malattie, hanno una funzione nascosta ma fondamentale: sono una scuola di eternità. Se accettate con fede, non sono una condanna, ma un’educazione. Insegnano all’anima a sopportare. Non a subire passivamente il male, ma a rafforzare quella capacità interiore che un giorno ci permetterà di non crollare davanti a Dio.
San Paolo lo dice chiaramente: «La tribolazione produce pazienza, la pazienza una virtù provata, e la virtù provata la speranza» (Rm 5,3-4). Le sofferenze, vissute in Cristo, non sono inutili: ci liberano dall’illusione di essere autosufficienti e ci allenano a reggere la luce della verità. San Gregorio Magno lo chiamava “la palestra dell’anima” (Hom. in Evang. 35). Il Catechismo conferma: «Il cammino verso la perfezione passa per la Croce. Non c’è santità senza rinuncia e combattimento spirituale» (CCC 2015).
Sopportare oggi non significa amare il dolore, ma prepararsi a ciò che davvero conta: l’incontro con Dio. Chi impara a portare la propria croce non impazzirà nel giorno della verità. Chi oggi vuole eliminare ogni fatica, ogni malattia, ogni contraddizione, domani non potrà sopportare se stesso.
Il giudizio non è una minaccia, ma una certezza. E non sarà arbitrio di Dio, ma verità che si rivela. Il tempo della misericordia è adesso, non dopo. Oggi possiamo consegnare la colpa al Sangue di Cristo. Oggi possiamo fare della sofferenza una via di purificazione, non un peso sterile.
Quel giorno non ci saranno più punture, non ci saranno anestesie per calmare l’insopportazione eterna. Per questo il Dies Irae non è il grido di un Dio arrabbiato, ma il nostro stesso grido, se avremo rifiutato la misericordia. Chi si rifugia nel Crocifisso, invece, non deve temere: la luce che per altri sarà fuoco, per lui sarà pace.
Don Marco Begato. “Il suicidio assistito letto con le parole di Romano Amerio”.

Riceviamo e pubblichiamo da don Marco Begato.
QUI don Nicola Bux su Roma: «Il cristiano non può darsi la morte».
QUI Il Timone, Massimo Pollefri: “Caso Kessler: “missione compiuta”“
Luigi C.
Nel dibattito relativo al suicidio medicalmente assistito si levano anche voci di autorità e studiosi cattolici aperti a concessioni che strizzano l’occhio alla parte suicidaria. Com’è possibile che esponenti autorevoli del cattolicesimo arrivino a tanto? Certamente ciò è dovuto a un’evoluzione della cultura ecclesiastica, della quale sarebbe interessante ricostruire qualche tappa.
A tal fine, tra le molte piste che si potrebbero percorrere, oggi provo a seguire quella magistralmente segnata negli studi del professor Romano Amerio, specialmente tramite il suo capolavoro “Iota unum” (qui citato dall’edizione “Lindau”). Lo “Iota” si preoccupava effettivamente di raccogliere le principali “variazioni” avvenute nel pensiero e nel Magistero cattolico in vent’anni di riforme post-conciliari.
Prendo come riferimento due capitoli, tra i molti che l’autore dedica a temi specifici: quello relativo all’esaltazione del corpo (somatolatria) e quello relativo ai suicidi. Credo che siano due temi utili a descrivere l’ennesima ‘variazione’ in corso, quella bioetica.
Agganciandosi a questioni precedenti, Amerio introduce il problema somatolatrico con queste parole: “se la sessualità è sembrata frequentemente la forma stessa della persona umana, molto più generale è l’assecondamento del culto della corporeità, di cui la civiltà contemporanea ha fatto una parte saliente della vita dell’uomo” (216). Siamo in tal modo introdotti in una questione epocale: l’avanzamento del primato corporale, non solo nella sua espressione sessuale, ma in genere come esaltazione dell’oggetto corporeo in se stesso. Si tratta di un forte cambio di paradigma, ovviamente non neutro. Anzi, l’emergere del culto corporale opera in aperto contrasto con i principi spirituali, perché “avanzando la somatolatria indietreggiano per necessaria conseguenza il principio penitenziale e l’esigenza ascetica propri della religione cattolica” (225). E quanto sia il discredito in cui sono caduti digiuno e penitenza è fatto evidente a tutti, né mi dilungherò a cercarne prove. Mi soffermo invece sull’approfondimento teologico non secondario che “Iota” precisa al lettore, muovendo dall’analisi del senso del digiuno: “il digiuno nella religione cattolica ha un fondamento prettamente dogmatico: è un’applicazione speciale del dovere della mortificazione e questo discende a sua volta dal dogma della corruzione originale. Soltanto se la natura non è guasta e concupiscente, i suoi impulsi sono fidentemente da secondare anziché da reprimere”. Non una moda o una sensibilità guidano il credente nella pratica del digiuno o negli atti penitenziali, bensì la consapevolezza di dover costantemente combattere in se stesso il riemergere di passioni corruttrici. E ancora, non l’ostentazione o lo sfoggio di volontà lo portano a indugiare nella mortificazione, bensì la semplice consapevolezza che “la penitenza esteriore è necessaria alla penitenza interiore” (227). Commenta Amerio: “la riforma della disciplina del digiuno sembra mutare l’essenza della restrizione togliendole il carattere di afflizione della carne, prima così aperto e proclamato anche dalla liturgia, per lasciarle puramente quello di regolarità morale” (228), col duplice rischio che i fedeli (1°) confondano il piano dell’impegno etico con quello dell’ascesi spirituale e (2°) si illudano di poter riuscire vittoriosamente in quello, avendo trascurato questa.
Ci basti sulla somatolatria, errore che interessa almeno doppiamente il dibattito sul suicidio medicalmente assistito. Da un lato l’esaltazione del corpo rende quanto mai assurdo comprendere il senso e il mistero di una vita piegata da malattie e condannata all’inazione e alla denigrazione fisica; dall’altro il prolungato indebolimento dello spirito non aiuta certo a sopportare le prove e le sofferenze che la Provvidenza permette ai pazienti.
E ora un affondo sulla questione del suicidio, sempre nelle parole di Romano Amerio. Iniziamo dalle definizioni teologiche: “la dottrina comune della Chiesa ravvisava nel suicidio un triplice male: un difetto di fortezza morale, giacché il suicida cede alla sventura; una ingiustizia, giacché egli pronuncia contro di sé una sentenza di morte in causa propria e non avendo titolo; un’offesa alla religione, giacché la vita à un divino servizio dal quale niuno può da sé stesso affrancarsi” (389). Questa dottrina a detta del filosofo svizzero sarebbe mutata e variata essa pure, e ne porta un caso particolare: “a questa persuasione è andata subentrando l’altra: che esistano valori supremi di ordine terreno ai quali sia lecito e bello immolare volontariamente la vita” (Ibidem). Non è direttamente il caso che ci riguarda, ma in fondo colpisce al cuore la questione: se esistano cioè dei valori a cui valga la pena sottoporre il grande dono della vita. Generalmente il cattolicesimo della Tradizione (quello che tiene fede all’origine) risponde in modo negativo a tale ipotesi. Il cattolicesimo aperto al Progresso trova invece di volta in volta almeno qualche motivo per dire un sì. Infine Amerio richiama un problema centrale, laddove accusa la cultura contemporanea di aver “accolto in crescente dismisura l’idea dell’irresponsabilità del suicida. Essa ha completamente ripudiato la morale stoica per la quale il suicidio è l’espressione somma della libertà morale dell’uomo e l’apice della virtù” (390). E questo aspetto non è secondario: se per gli antichi (stoici) il suicidio era un atto di somma libertà (per ciò sommamente condannato dalla Chiesa, madre e maestra anche dell’educazione della libertà dei suoi figli), oggi si riconoscono molti casi in cui il suicidio è conseguenza di una debolezza psichica e mentale. Questo fatto, che ha portato per esempio a guardare con benignità alla possibilità di celebrare le esequie del suicida, interpella comunque duramente le situazioni di suicidio medicalmente assistito. Esse pongono l’aspirante suicida – stoicamente risoluto o freudianamente inetto che sia – in una situazione di impotenza a darsi la morte, spostando così la responsabilità di azione sul medico, cioè su colui che si prevede essere sano, moralmente libero e capace nelle sue azioni. Non si capisce dunque in che senso la parte sana, anziché dar fondo ai propri saperi e competenze per sostenere l’ammalato nell’accettazione della vita, dovrebbe invece rendersi consapevole omicida e tener la parte agli istinti autodistruttivi del paziente.
Mi fermo qui. Il mio non è uno studio, ma un breve esercizio col quale ho provato a ridisegnare una delle molte vie per le quali siamo giunti – dentro e fuori la Chiesa – al lassismo morale odierno.
È evidente che, al di à del caso estremo preso in esame, serve una decisa restaurazione di principi filosofici e teologici classici – principi che ci ammaestrano, ma anche prassi che ci educano! In alternativa non stupisce il declino, anzi ci sarà da attendersi una piega dei nuovi teologi verso aperture sempre più spinte al compromesso morale.
Di questo passo però ‘cattolico’ rischia di rimanere un attributo che qualifica l’accidente e non la sostanza: non più la sostanziale difesa della vita, soprattutto in contesti di minaccia sociale e di abusi lobbistici sfrenati; bensì una variabile accidentale di impatto precauzionale, che fa dei cattolici il gruppo culturale al traino, generalmente disponibile ai valori della modernità, solo restando sempre un po’ più restrittivi nelle applicazioni e un po’ più lenti nei tempi di attuazione.
Don Marco Begato
