L’imponente statura culturale e spirituale di Newman servirà d’ispirazione a nuove generazioni

  • Guidami tu, Luce gentile, attraverso il buio che mi circonda, sii tu a condurmi!
    La notte è oscura e sono lontano da casa, sii tu a condurmi!
    Sostieni i miei piedi vacillanti: io non chiedo di vedere ciò che mi attende all’orizzonte,
    un passo solo mi sarà sufficiente.
    Non mi sono mai sentito come mi sento ora, né ho pregato che fossi tu a condurmi.
    Amavo scegliere e scrutare il mio cammino; ma ora sii tu a condurmi!
    Amavo il giorno abbagliante, e malgrado la paura, il mio cuore era schiavo dell’orgoglio: non ricordare gli anni ormai passati.
    Così a lungo la tua forza mi ha benedetto, e certo mi condurrà ancora, landa dopo landa, palude dopo palude, oltre rupi e torrenti, finché la notte scemerà; e con l’apparire del mattino rivedrò il sorriso di quei volti angelici che da tanto tempo amo e per poco avevo perduto.”
  • Dolcissima e forte invocazione a Gesù: Gesù davvero “Luce gentile“. (card. J.H. Newman)

GIUBILEO DEL MONDO EDUCATIVO

CAPPELLA PAPALE SANTA MESSA
E PROCLAMAZIONE A «DOTTORE DELLA CHIESA» DI SAN JOHN HENRY NEWMAN

OMELIA DEL SANTO PADRE LEONE XIV

Piazza San Pietro – Solennità di Tutti i Santi – Sabato, 1° novembre 2025

In questa Solennità di Tutti i Santi, è una grande gioia inscrivere San John Henry Newman fra i Dottori della Chiesa e, al tempo stesso, in occasione del Giubileo del Mondo Educativo, nominarlo co-patrono, insieme a San Tommaso d’Aquino, di tutti i soggetti che partecipano al processo educativo. L’imponente statura culturale e spirituale di Newman servirà d’ispirazione a nuove generazioni dal cuore assetato d’infinito, disponibili per realizzare, tramite la ricerca e la conoscenza, quel viaggio che, come dicevano gli antichi, ci fa passare per aspera ad astra, cioè attraverso le difficoltà fino alle stelle.

La vita dei santi ci testimonia, infatti, che è possibile vivere appassionatamente in mezzo alla complessità del presente, senza lasciare da parte il mandato apostolico: «Risplendete come astri nel mondo» (Fil 2,15). In questa occasione solenne, desidero ripetere agli educatori e alle istituzioni educative: “Risplendete oggi come astri nel mondo”, grazie all’autenticità del vostro impegno nella ricerca corale della verità, nella sua coerente e generosa condivisione, attraverso il servizio ai giovani, in particolare ai poveri, e nella quotidiana esperienza che «l’amore cristiano è profetico, compie miracoli» (cfr Esort. ap. Dilexi te, 120).

Il Giubileo è un pellegrinaggio nella speranza e voi tutti, nel grande campo dell’educazione, sapete bene quanto la speranza sia una semente indispensabile! Quando penso alle scuole e alle università, le penso come laboratori di profezia, dove la speranza viene vissuta e continuamente raccontata e riproposta.

Questo è anche il senso del Vangelo delle Beatitudini oggi proclamato. Le Beatitudini portano in sé una nuova interpretazione della realtà. Sono il cammino e il messaggio di Gesù educatore. A una prima impressione, pare impossibile dichiarare beati i poveri, quelli che hanno fame e sete di giustizia, i perseguitati o gli operatori di pace. Ma quello che sembra inconcepibile nella grammatica del mondo, si riempie di senso e di luce nella vicinanza del Regno di Dio. Nei santi noi vediamo questo regno approssimarsi e rendersi attuale fra noi. San Matteo, giustamente, presenta le Beatitudini come un insegnamento, raffigurando Gesù come Maestro che trasmette una visione nuova delle cose e la cui prospettiva coincide col suo cammino. Le Beatitudini, però, non sono un insegnamento in più: sono l’insegnamento per eccellenza. Allo stesso modo, il Signore Gesù non è uno dei tanti maestri, è il Maestro per eccellenza. Di più, è l’Educatore per eccellenza. Noi, suoi discepoli, siamo alla sua scuola, imparando a scoprire nella sua vita, cioè nella via da Lui percorsa, un orizzonte di senso capace d’illuminare tutte le forme di conoscenza. Possano le nostre scuole e università essere sempre luoghi di ascolto e di pratica del Vangelo!

Le sfide attuali, a volte, possono sembrare superiori alle nostre possibilità, ma non è così. Non permettiamo al pessimismo di sconfiggerci! Ricordo quanto ha sottolineato il mio amato Predecessore, Papa Francesco, nel suo  discorso alla Prima Assemblea Plenaria del Dicastero per la Cultura e l’Educazione: che cioè dobbiamo lavorare insieme per liberare l’umanità dall’oscurità del nichilismo che la circonda, che è forse la malattia più pericolosa della cultura contemporanea, poiché minaccia di “cancellare” la speranza. [1] Il riferimento all’oscurità che ci circonda ci richiama uno dei testi più noti di San John Henry, l’inno Lead, kindly light (“Guidami, luce gentile”). In quella bellissima preghiera, ci accorgiamo di essere lontani da casa, di avere i piedi vacillanti, di non riuscire a decifrare con chiarezza l’orizzonte. Ma niente di tutto questo ci blocca, perché abbiamo trovato la Guida: «Guidami Tu, Luce gentile, attraverso il buio che mi circonda, sii Tu a condurmi! – Lead, kindly Light. The night is dark and I am far from home. Lead Thou me on!».

È compito dell’educazione offrire questa Luce Gentile a coloro che altrimenti potrebbero rimanere imprigionati dalle ombre particolarmente insidiose del pessimismo e della paura. Per questo vorrei dirvi: disarmiamo le false ragioni della rassegnazione e dell’impotenza, e facciamo circolare nel mondo contemporaneo le grandi ragioni della speranza. Contempliamo e indichiamo costellazioni che trasmettano luce e orientamento in questo presente oscurato da tante ingiustizie e incertezze. Perciò vi incoraggio a fare delle scuole, delle università e di ogni realtà educativa, anche informale e di strada, come le soglie di una civiltà di dialogo e di pace. Attraverso le vostre vite, lasciate trasparire quella «moltitudine immensa», di cui ci parla nella liturgia odierna il Libro dell’Apocalisse, «che nessuno poteva contare, di ogni nazione, tribù, popolo e lingua» e che stava «in piedi davanti all’Agnello» (7,9).

Nel testo biblico un anziano, osservando la moltitudine, domanda: «Questi, […] chi sono e da dove vengono?» (Ap 7,13). A tale proposito, anche in ambito educativo, lo sguardo cristiano si posa su «quelli che vengono dalla grande tribolazione» (v. 14) e vi riconosce i volti di tanti fratelli e sorelle di ogni lingua e cultura, che attraverso la porta stretta di Gesù sono entrati nella vita piena. E allora, ancora una volta, dobbiamo domandarci: «I meno dotati non sono persone umane? I deboli non hanno la stessa nostra dignità? Quelli che sono nati con meno possibilità valgono meno come esseri umani, devono solo limitarsi a sopravvivere? Dalla risposta che diamo a queste domande dipende il valore delle nostre società e da essa dipende pure il nostro futuro» (Esort. ap. Dilexi te, 95). E aggiungiamo: da questa risposta dipende anche la qualità evangelica della nostra educazione.

Tra le eredità durature di San John Henry vi sono, in tal senso, alcuni contributi molto significativi alla teoria e alla pratica dell’educazione. «Dio – scriveva – mi ha creato per rendergli un servizio preciso. Mi ha affidato un compito che non ha affidato ad altri. Ho una missione: forse non la conoscerò in questa vita, ma mi sarà rivelata nella prossima» (Meditations and Devotions, III, I, 2). In queste parole troviamo espresso in modo splendido il mistero della dignità di ogni persona umana e anche quello della varietà dei doni distribuiti da Dio.

La vita si illumina non perché siamo ricchi o belli o potenti. Si illumina quando uno scopre dentro di sé questa verità: sono chiamato da Dio, ho una vocazione, ho una missione, la mia vita serve a qualcosa più grande di me stesso! Ogni singola creatura ha un ruolo da svolgere. Il contributo che ciascuno ha da offrire è di valore unico, e il compito delle comunità educative è quello di incoraggiare e valorizzare tale contributo. Non dimentichiamolo: al centro dei percorsi educativi devono esserci non individui astratti, ma le persone in carne ed ossa, specialmente coloro che sembrano non rendere, secondo i parametri di un’economia che esclude e uccide. Siamo chiamati a formare persone, perché brillino come stelle nella loro piena dignità.

Possiamo dire pertanto che l’educazione, nella prospettiva cristiana, aiuta tutti a diventare santi. Niente di meno. P Papa Benedetto XVI, in occasione del  Viaggio Apostolico in Gran Bretagna, nel settembre 2010, durante il quale beatificò John Henry Newmaninvitò i giovani a diventare santi, con queste parole: «Ciò che Dio desidera più di ogni altra cosa per ciascuno di voi è che diventiate santi. Egli vi ama molto più di quanto possiate immaginare e vuole il meglio per voi». [2] Questa è la chiamata universale alla santità che il Concilio Vaticano II ha reso parte essenziale del suo messaggio (cfr Lumen gentium, capitolo V). E la santità viene proposta a tutti, senza eccezione, come un cammino personale e comunitario tracciato dalle Beatitudini.

Prego che l’educazione cattolica aiuti ciascuno a scoprire la propria chiamata alla santità. Sant’Agostino, che San John Henry Newman apprezzava tanto, disse una volta che noi siamo compagni di studio che hanno un solo Maestro, la cui scuola è sulla terra e la cui cattedra è in cielo (cfr Sermo 292,1).

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[1] Francesco, Discorso ai partecipanti alla prima Assemblea Plenaria del Dicastero per la Cultura e l’Educazione (21 novembre 2024).

[2] Benedetto XVI, Discorso agli alunni, Twickenham – Regno Unito, 17 settembre 2010.


LEONE XIV E NEWMAN: L’EDUCAZIONE COME LUCE GENTILE (Don Mario Proietti cpps)

Il Papa proclama San John Henry Newman Dottore della Chiesa e co-patrono del Mondo Educativo

Nella solennità di Tutti i Santi, in una Piazza San Pietro colma di luce e di canto, Leone XIV ha compiuto un gesto destinato a lasciare traccia nel magistero contemporaneo: la proclamazione di San John Henry Newman come Dottore della Chiesa e co-patrono, insieme a San Tommaso d’Aquino, del Mondo Educativo. È un atto che non appartiene solo alla memoria, ma all’avvenire della Chiesa: Newman viene posto come faro nel Giubileo del Mondo Educativo, guida dei docenti, degli studenti, dei formatori e di quanti cercano la verità nella notte del relativismo.

Il Papa ha aperto la sua omelia con un’immagine che attraversa i secoli: «Risplendete come astri nel mondo» (Fil 2,15). È il motto che ha dato tono a tutta la celebrazione e che sintetizza la missione dell’educatore cristiano. Come Newman, ogni educatore è chiamato a risplendere non di luce propria, ma della luce ricevuta da Cristo, quella luce gentile che guida e non acceca, accompagna e non domina, consola e non illude.

Leone XIV ha mostrato con rara finezza teologica come la figura di Newman incarna il cuore del Giubileo del Mondo Educativo: una pedagogia che nasce dalla speranza e si nutre della verità. Citando il celebre inno Lead, kindly Light, il Papa ha ricordato che l’uomo contemporaneo è spesso “lontano da casa, con i piedi vacillanti e l’orizzonte incerto”, ma non è solo, perché c’è una Luce che lo guida. L’educazione cristiana, ha detto, deve offrire proprio questa luce: non un sistema, ma una presenza; non un programma, ma un volto.

Il Papa ha denunciato con fermezza il “nichilismo che cancella la speranza”, indicando come rimedio l’educazione intesa come pellegrinaggio nella luce di Dio. Le scuole, le università e ogni realtà formativa, ha affermato, devono diventare laboratori di profezia, luoghi dove si coltiva la speranza e si custodisce la dignità della persona. È un linguaggio che restituisce alla cultura cristiana la sua missione: educare significa accendere, non riempire; illuminare, non indottrinare.

Il gesto di Leone XIV di affiancare Newman a Tommaso d’Aquino come patroni del mondo educativo è più che simbolico: è dottrinale. Tommaso rappresenta la ragione che si eleva alla fede; Newman, la coscienza che si lascia plasmare dalla grazia. Insieme, formano la sintesi cattolica dell’educazione integrale, quella che unisce la ricerca intellettuale alla conversione interiore, la chiarezza del pensiero alla profondità della coscienza.

L’educazione, in questa visione, non è mai neutra: è un atto morale e spirituale. È il luogo in cui la verità diventa amore e l’amore diventa servizio. Leone XIV ha riaffermato che «al centro dei percorsi educativi devono esserci non individui astratti, ma persone in carne ed ossa», specialmente i più fragili. Il valore della persona precede il rendimento e supera ogni misura economica o sociale. È una lezione che Newman ha trasmesso in tutta la sua opera e che oggi il Papa eleva a principio magisteriale.

Se nei giorni precedenti il Papa aveva insistito sui temi della sinodalità e della missione, con questa omelia introduce un elemento decisivo: la speranza come dimensione educativa. L’educatore cristiano è colui che trasmette la speranza come si passa una fiaccola. Non si limita a insegnare ciò che sa, ma comunica ciò che crede. La speranza è il respiro dell’intelligenza che si apre alla grazia, e l’educazione diventa il suo linguaggio più alto.

Contro la rassegnazione del tempo presente, Leone XIV invita a “disarmare le false ragioni della rassegnazione e dell’impotenza” e a “fare circolare nel mondo le grandi ragioni della speranza”. È un appello a ricostruire il futuro, a ridare al pensiero e alla fede il coraggio di guardare avanti. Newman, in questa prospettiva, non è solo un Dottore della Chiesa, ma il dottore della coscienza moderna, l’uomo che ha insegnato a pensare credendo e a credere pensando.

L’omelia si chiude con la visione più alta: l’educazione come via alla santità. Citando Sant’Agostino e il magistero di Benedetto XVI, il Papa ha ribadito che l’educazione cristiana ha un solo scopo: “aiutare ciascuno a scoprire la propria chiamata alla santità”. È un’affermazione che ribalta ogni concezione funzionale dell’educazione: la scuola cristiana non forma specialisti, ma santi; non produce risultati, ma vocazioni; non mira al successo, ma alla verità.

In questa prospettiva, il Giubileo del Mondo Educativo trova la sua piena definizione. Non è un evento per addetti ai lavori, ma un rinnovamento della coscienza ecclesiale. Educare, per Leone XIV, significa partecipare all’opera creatrice di Dio, accompagnare l’uomo nella scoperta della sua missione, restituirgli la dignità di figlio.

Con la proclamazione di Newman Dottore della Chiesa, Leone XIV ha consegnato all’umanità un manifesto di pedagogia cristiana per il nuovo secolo. In un mondo che confonde libertà con autonomia e conoscenza con potere, il Papa riafferma che la vera educazione è un atto di amore, perché illumina l’intelligenza con la verità e accende la volontà con la speranza.

La luce gentile di Newman non brilla per se stessa, ma per guidare. È la luce di Cristo che attraversa l’oscurità dei tempi e indica ancora una volta la via delle stelle: per aspera ad astra, attraverso le difficoltà fino alla gloria. E in questa luce, il pensiero cattolico ritrova la sua vocazione più bella: formare anime che pensano con la Chiesa e amano con Dio.


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Cristina Siccardi è un’autrice che ha scritto un libro su John Henry Newman, un cardinale inglese di cui si può trovare anche il titolo del libro e una breve descrizione della sua vita. Il titolo del libro, “Nello specchio del cardinale Newman”, suggerisce che l’autrice esplora la vita e l’opera di Newman attraverso la prospettiva del suo essere stato un pastore anglicano diventato sacerdote cattolico e cardinale. 

Ecumania perversione del dialogo ecumenico denunciata da San Newman 

Quando San Pio X prese le difese del cardinale J. Henry Newman, oggi Dottore della Chiesa

Leone XIV proclama S. Newman «co-patrono missione educativa della Chiesa, insieme a san Tommaso d’Aquino».


“Luce gentile, guidami tu”
Ma chi era, chi è san John Henry Newman, il 38° Dottore della Chiesa?

Era un ragazzo alto e magro, gli occhi profondi grigio-scuri, intelligentissimo e immancabilmente spettinato. A 10 anni, aveva già la certezza di essere chiamato “a servire la gloria di Dio”. A 15, aveva incontrato Dio, “non come una nozione, ma come una Persona che gli disse “Tu”. Aveva già un fascino segreto. Si chiamava John Henry Newman ed era nato a Londra il 22 febbraio 1801, figlio di un banchiere anglicano e di madre discendente dagli ugonotti francesi.

La sua carriera fu rapida e brillantissima: entrato nell’”Oriel College”, nel 1822, 21 anni di età, fu promosso “fellow”. Due anni dopo, era ordinato prete anglicano e diventava “tutor”, cioè professore assistente.

A 27 anni, era nominato “vicar”, cioè parroco di S. Maria di Oxford, conservando le sue funzioni di docente universitario. E insieme pubblicava studi di patrologia e di storia della Chiesa.

Oxford era un centro di pensiero straordinariamente vivo. Vi si davano convegno i cervelli più fini dell’anglicanesimo. Jhon Henry era tra questi ma non era soddisfatto: cercava la sua strada. Predicava al suo popolo: ascoltatissimo. Insegnava ai giovani di Oxford: affascinava. Eppure un tormento segreto lo rodeva dentro: questa chiesa anglicana, iniziata da un re adultero e omicida, come poteva essere la vera Chiesa di Cristo?

Viaggio in Italia

John Henry era un giovane uomo appassionato, dal temperamento schietto fino all’imprudenza. Il denaro non lo interessava. Il prestigio lo lasciava insensibile, ma solo la Verità – la ricerca della Verità – lo dominava tutto. Fiaccato dall’intenso lavoro intellettuale, nel luglio 1833, compì un lungo viaggio in Italia.

A Roma sentì agitarsi dentro di sé le antiche avversioni degli anglicani contro il Papa, ma sentì pure il fascino della Sede Apostolica, la Roccia che è Pietro, su cui poggia la Chiesa, indefettibile e infallibile. Lì incontrò don Nicola Wiseman, giovane rettore del Collegio inglese, prete, professore di ebraico e siriaco, desiderosissimo di fare qualcosa per ridare dignità a fratelli cattolici dell’Inghilterra, che da tre secoli ormai, erano i reietti della sua terra. Ai tempi della regina Elisabetta I e dei suoi successori, per circa 150 anni, diversi preti cattolici in Inghilterra erano stati uccisi perché celebravano la Messa Cattolica, “la Messa papista”, come dicevano per disprezzo. Ed essi, questi preti santi come Edmond Campion e John Ogilvie e quanti altri, si erano lasciati trucidare dagli anglicani ma non avevano rinnegato il dogma della transustanziazione del Pane e del Vino nel Corpo e nel Sangue di Cristo, offerto in sacrificio: martiri per la Messa!

Quando John Henry Newman pensava a questi martiri, trasaliva, scosso sempre più scosso dentro. Da Roma, proseguì il suo viaggio verso la Sicilia, dove cadde ammalato e si trovò sospeso tra la vita e la morte, senza medici e senza cure. Il suo domestico lo invitò ad esprimere le sue ultime volontà. ma egli rispose, sicuro: “Non morirò: non ho mai peccato contro la Luce. Ho un lavoro, un grande lavoro, da compiere in Inghilterra”. Infatti, inaspettatamente guarì e riprese la via del ritorno.

Durante il viaggio, pregò Dio, in modo struggente: “Guidami, Luce gentile: tra le tenebre, guidami Tu. Nera è la notte, lontana la casa: guidami Tu. Amavo scegliere la mia strada, ma ora guidami Tu. Sempre mi benedisse la tua potenza: ancora oggi mi guiderà per paludi e brughiere, finché svanisca la notte e l’alba sorrida sul mio cammino”. Dolcissima e forte invocazione a Gesù: Gesù davvero “luce gentile”.

Rientrato ad Oxford, si stabilì attorno a lui un gruppo di amici anglicani che trattavano problemi spinosi: la vera natura della Chiesa, il suo rapporto con la Tradizione dei primi secoli, le sue autorità…

Diventarono autorevoli e ascoltati: i gravi “churchmen” (= i capi) della confessione anglicana non poterono più affermare che erano solo dei monelli: Così il 5 maggio 1836, votarono un atto solenne di biasimo contro quei giovani ribelli riuniti attorno a Newman, “il più monello di tutti”. Giunse, allora, addosso l’insulto più grave: “Papisti”. Non si arresero. John Henry era affascinato dai Padri della Chiesa del tempo in cui i cristiani non erano ancora divisi: cosa aveva di comune l’anglicanesimo con quei Padri? Sembrava che non avessero nulla, perché i Padri obbedivano al Pontefice di Roma, erano veri sacerdoti e veri Vescovi e celebravano l’Eucaristia, Presenza Reale e Sacrificio di Gesù nella S. Messa, proprio le realtà più grandi che gli anglicani, a cominciare da Enrico VIII e da Gramner avevano negato e distrutto.

Il dibattito continuò: la ricerca appassionata, densa di preghiera, la preghiera a Gesù-Luce – si fece ancora più ardente. Le tenebre dovevano essere fugate, la Luce doveva risplendere e nella Luce si sarebbe camminato.

Ora egli aveva attorno a sé la gioventù migliore della confessione anglicana. Ai piedi del suo pulpito si accalcavano sempre più numerosi i fratelli in ascolto. Avrebbe potuto, se non fosse stato così retto, fondare la “sua” chiesa, ma egli intuiva che la Chiesa può essere solo una, come uno è Cristo. Perseguitato dalla Verità, si sentì come su un letto di agonia. Si ritirò a Littlemore, sconfessato dai vescovi anglicani, perché – lo si vedeva – era sempre più vicino al cattolicesimo.

Il 24 settembre 1843, salì per l’ultima volta il pulpito della sua parrocchia: rivolse rimproveri più dolorosi e severi all’anglicanesimo, chiese ai suoi amici di pregare per lui, affinché potesse compiere la volontà di Dio. Disceso dal pulpito, si tolse di dosso i paramenti, e li gettò sulla balaustra a indicare che tra lui e l’anglicanesimo non c’era più nulla. La sua “nomina” a prete anglicano – come tutte le nomine di preti e vescovi anglicani, non era valida, non era vera, come già si sapeva e avrebbe definito chiaramente Papa Leone XIII con L’Apostolicae curae.

Non era ancora un cattolico, ma certamente non era più anglicano

“Sono entrato nel porto”

Nel silenzio, meditò ancora a lungo e trovò risposta alla domanda che si poneva: La Chiesa Cattolica di oggi è proprio quella degli antichi Padri dei primi secoli, Ignazio, Ireneo, Ambrogio e Agostino? Come mai nella Chiesa Cattolica sembrano esserci realtà che sembrano non esserci nei Padri? La luce – Gesù Luce gentile – venne a grandi ondate: la Chiesa Cattolica è la medesima uscita dal Cuore di Gesù, la medesima dei martiri e dei Padri antichi, ma è come un albero che, crescendo, si è sviluppato, restando tuttavia il medesimo da Cristo fino ad oggi. Lo scrisse nel suo “Saggio sullo sviluppo del dogma” (1845), poi chiese di essere ammesso alla Chiesa cattolica.

L’8 ottobre 1845, nella pace di Littlemore, John Henry Newman, nelle mani del Padre Domenico Barbieri della Madre di Dio, Passionista, pronunciò l’abiura dell’anglicanesimo e diventò cattolico, apostolico, romano. Scrisse: “Fu per me come l’entrare in un porto, dopo una crociera burrascosa. La mia felicità non ha confini”. Gladstone, il primo ministro britannico, commentò: “Mai la Chiesa Cattolica, dopo la riforma protestante, ha riportato una vittoria più grande”.

La conversione di Newman fu un avvenimento. Parecchi suoi intimi amici lo imitarono immediatamente. “Se lui, perché non io?” Alcuni amici lo avevano preceduto di qualche giorno. Altri lo seguiranno come Faber che diventerà un grande maestro di vita cristiano-cattolica. In meno di un anno, si susseguirono oltre trecento conversioni, tutte di intellettuali, professori e teologi.

L’anglicanesimo si sentì scosso. Di fronte alla tempesta scatenata da Newman, cercò un uomo capace di rispondergli e di confutare il “deplorevole” Saggio sullo sviluppo del dogma: Henry Manning, pastore zelante, che dopo la morte della moglie, viveva da eremita, ascetico ed influente. Ma Manning, partito per confutare, rimase confutato: il 6 aprile 1851, anche lui entrava nella Chiesa Cattolica. Presto sarebbe diventato sacerdote e Vescovo.

Intanto Newman era stato inviato a Roma, da Mons. Wiseman, ora Vescovo dei cattolici inglesi. Al Collegio di Propaganda Fide, completò i suoi studi di teologia e il 26 maggio 1847, ricevette l’ordinazione sacerdotale. Quindi incoraggiato dal Papa Pio IX – che proprio in quei giorni pensava a ristabilire il Cattolicesimo nella sua pienezza in Inghilterra, ritornò nella sua patria a fondarvi “L’Oratorio di S. Filippo Neri”. Ormai 50enne viveva la stagione più bella della sua vita: sicuro di aver raggiunto la Verità, di essere in comunione con il Papa di Roma, Vicario di Cristo e successore di Pietro – in comunione piena e totale con Gesù – fondò le case dell’ Oratorio a Maryvale, a Birmingham, a Londra, a Edgbaston… Nel 1850, Mons. Wiseman era nominato arcivescovo di Westiminster e Cardinale.

Davvero era tempo di lavorare per il trionfo della Chiesa Cattolica in Inghilterra e nel mondo, anche per i posteri.

La Croce splendente di luce

Tutto all’inizio fu bello e facile. Poi venne un periodo di grandi prove. Pose mano a grandi opere: la fondazione dell’Università a Dublino, la traduzione inglese della Bibbia, la direzione di una rivista, la fondazione di un Oratorio a Oxford per i giovani cattolici che frequentavano l’Università, sembravano venir meno tutte tra le sue mani. Padre Newman si trovò solo, incompreso, considerato quasi pericoloso… Ma nulla lo scoraggiò. Fedelissimo alla Chiesa Cattolica, compì la difesa della Verità con i suoi poderosi volumi che guadagnarono al Cattolicesimo la simpatia degli anglicani e l’ammirazione degli avversari. Lui, da parte sua non si sentiva nemico di nessuno: rispondeva con il perdono, la preghiera, il servizio ai giovani, l’annuncio della Verità del Credo Cattolico.

Nell’Oratorio di Birminghan, dove viveva, si occupava dell’educazione intellettuale, morale, integrale dei ragazzi, con uno stile di bontà e di amorevolezza, sulla scia di S. Filippo Neri e come sarebbe piaciuto a un umile grandissimo contemporaneo, don Bosco (che per la conversione degli anglicani, sostenuto dal piccolo Domenico Savio, aveva pregato, sofferto, operato presso il Papa Pio IX…). ma sembrava essere un dimenticato: brillavano, ora, quei convertiti – Faber, Manning, Ward – cui egli aveva aperto la strada. Nel 1864, capitò però, che il dottor Kingsley, in un opuscolo, tacciò i cattolici di ipocrisia, aggiungendo che i preti cattolici sono dei bugiardi…

P. Newman insorse con la forza del suo genio, spiegando tutti i motivi della sua conversione al Cattolicesimo. Nacque il suo capolavoro: l’Apologia pro vita sua, in cui scriveva: “Nella Chiesa Cattolica, riconobbi immediatamente una realtà nuovissima per me. Sentii che non ero io a costruire una Chiesa con lo sforzo del mio pensiero. Il mio spirito allora si quietò in se stesso. La contemplavo – la Chiesa – come un fatto obiettivo, di incontrovertibile evidenza”.

Fu un grande trionfo che fece risuonare per tutta l’Inghilterra il nome di John Henry Newman: non era più possibile accusarlo di doppiezza e di slealtà.

Nel 1879, Papa Leone XIII lo creò Cardinale. Quando gli fu portata la notizia inattesa, pianse di gioia e disse: “Le nubi sono cadute per sempre”. Era la gioia di chi, dopo tante lotte per la Verità, vedeva che la Verità si era fatta strada e illuminava il cammino di molti. Visse ancora undici anni nel suo romitaggio di Birmingham, in due stanze colme di libri, pregando, irradiando luce, guidando le anime alla Verità, la sua unica passione fin dall’infanzia. I suoi libri, le sue conferenze, la sua opera di educatore, rivelarono dovunque il suo genio interamente posseduto dal Cristo.

L’11 agosto 1890, il Card. John Henry Newman, diradata ogni tenebra, andava incontro al suo Dio, “la Luce gentile” che aveva sempre guidato i suoi passi, alla quale non si era mai sottratto: mai aveva peccato contro la Luce. Sulla sua tomba volle scritto solo il suo nome e la rapida sintesi della sua esistenza: “Ex umbris e imaginibus in Veritatem”: dalle ombre e dalle figure alla Verità.

Ora il grande Cardinale Newman, per volontà e per bocca di Benedetto XVI, sale alla gloria degli altari, con la sua beatificazione. È il Cristo-Verità che oggi deve essere annunciato e fatto conoscere in tutto il suo splendore e nella sua grandezza per guidare ogni uomo alla Verità piena e totale nella Chiesa Cattolica. (da: J. H. Newman nei suoi scritti, a cura di G. Regina, Ed. Paoline, 1956)

Fu poi canonizzato il 13 ottobre 2019 da Papa Francesco.



Afferma John Henry Newman nel Poscritto alla sua opera Lo sviluppo della dottrina cristiana: «Dopo aver scritto questo saggio, l’autore è entrato nella Chiesa cattolica» (Il Mulino, Bologna 1967, 471).

Queste parole testimoniano la corrispondenza fra il cammino del pensiero dell’Autore e la decisione morale da lui presa, che fa del suo scritto un’opera di permanente attualità, paragonabile per vigore intellettuale e veridicità spirituale alle Confessioni di sant’Agostino.

È il racconto – documentato, appassionato, perfino affrettato, perché scritto sotto la mozione di una profonda urgenza interiore, e perciò anche “incompiuto” come solo certi capolavori possono essere – della storia della verità, così come essa è venuta a dirsi ed esplicitarsi nel tempo, consegnandosi alla mente e al cuore degli uomini.

È lo stesso Newman ad affermare: «Prima di giungere al termine dell’opera decisi di entrare nella Chiesa cattolica e il libro è rimasto nelle condizioni di allora, cioè incompiuto» (Apologia pro Vita Sua, Jaca Book, Milano 1995). E ancora: «Il libro era solo parzialmente stampato quando (l’autore) vide essersi formata in lui la convinzione che l’esito della discussione qui intrapresa era vero», per cui «risultò chiaro di dover soprassedere ad ogni deliberazione ulteriore» (Lo sviluppo…).

Nell’Apologia Newman riferisce di un’illuminazione, che avrebbe determinato il resto della sua ricerca intellettuale e della sua esistenza: «Una nuda frase – un’espressione di sant’Agostino – mi colpì con una potenza che non avevo mai trovato prima in altre parole… Fu come il “Tolle, lege; tolle, lege” del fanciullo, che convertì lo stesso sant’Agostino. Securus judicat orbem terrarum» (Apologia…).

Che cosa aveva folgorato Newman in questa frase? L’idea – semplice e grande – della forza vincolante della verità: la verità non può trovarsi in alcun compromesso; essa si impone con la sua forza ed esige ascolto e obbedienza assolute, unificando ciò che è diviso nel vincolo che essa stessa impone. Solo chi accoglie e serve fedelmente la verità potrà essere unito al tutto (orbis terrarum!), e con esso sarà “securus”, libero cioè dalle cure mondane (“sine curis”), perché in grado di valutare la scena del mondo che passa con lo sguardo di chi vede ciò che è penultimo nella luce e sulla misura di quanto è ultimo ed eterno.

È la forza di questa testimonianza – che pervade l’intera opera di Newman – che basterebbe a motivare l’annuncio di papa Leone XIV: «Ho la gioia di annunciare che il prossimo 1° novembre, nel contesto del Giubileo del mondo educativo, conferirò il titolo di Dottore della Chiesa a san John Henry Newman, il quale contribuì in maniera decisiva al rinnovamento della teologia e alla comprensione della dottrina cristiana nel suo sviluppo» (Leone XIV, Angelus di domenica 28 settembre 2025).

In realtà, la convinzione che la verità sia una sola e si imponga con la forza unificante della sua luce a chi la cerca al di fuori di avventure solipsistiche, ispira l’intera vita di Newman e in particolare il suo approdo alla Chiesa cattolica e la testimonianza che ne dà: «Vi è una sola verità; l’errore religioso è per sua natura immorale; i seguaci dell’errore, anche se non ne sono consapevoli, sono colpevoli di farsene i sostenitori; si deve temere l’errore, la ricerca della verità non deve essere appagamento di curiosità; l’acquisizione della verità non assomiglia in niente all’eccitazione per una scoperta; il nostro spirito è sottomesso alla verità, non le è, quindi, superiore ed è tenuto non tanto a dissertare su di essa, ma a venerarla; la verità e l’errore sono posti davanti a noi per provare i nostri cuori; scegliere fra l’una e l’altro significa fare una terribile scommessa da cui dipende la nostra salvezza o la nostra dannazione…» (Lo sviluppo…).

Impressiona in questo testo l’accento posto sulla forza della verità e il suo essere obbligante e, al tempo stesso, il richiamo – fatto in termini che sembrano evocare Pascal – alla “scommessa” con cui ci si decide per la verità, nel tempo e per l’eternità. Quanto questa impostazione sia lontana dal soggettivismo caro a gran parte della cultura moderna è facile intenderlo: è peraltro lo stesso Newman che caratterizza la posizione, da lui rifiutata, con una descrizione precisa: «La verità non esiste; …il nostro merito consiste nel cercare, non già nel possedere la verità; nostro dovere è di abbracciare quello che ci sembra vero, senza temere che sia falso; riuscire a trovare la verità può essere un bene, ma il non riuscirvi non è un male; è consentito aderire o rifiutare questa o quella opinione a nostro piacere; il credere riguarda solo l’intelletto e non il cuore; ci possiamo fidare di noi stessi in materia di fede e non avere bisogno di nessun’altra guida. Questo è il principio delle filosofie e delle eresie, questo è un principio di debolezza» (Lo sviluppo…).

L’elemento storico, di cui la verità necessariamente si serve per comunicarsi agli uomini, non giustifica alcun relativismo o soggettivismo: l’accoglienza o il rifiuto della verità da parte del soggetto non aggiunge né toglie forza alla verità stessa. La posizione soggettivistica lascia gli uomini nella loro solitudine, in una condizione di infinita debolezza: la forza della verità li riscatta invece da ogni solipsismo, li rende liberi nel vincolo che tutti li supera e tutti li unisce. E sta proprio in questo la forza e la bellezza della verità, quale la fede e la teologia cattolica propongono: a motivo di questo insegnamento, Newman è a ragione proclamato Dottore per tutta la Chiesa, al servizio di ogni cercatore di Dio, come di ogni credente e, in generale, dell’umanità tutta.

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