San Leone I Magno, dottore della Chiesa, è celebrato per il suo cruciale contributo alla definizione dell’autorità papale e per la sua difesa delle radici cristiane della nostra civiltà. Il suo pontificato avvenne in un’epoca di grave crisi e declino per l’Impero Romano d’Occidente, che aveva perso la sua invincibilità (Sacco di Roma, 410). Il suo atto più celebre fu aver salvato Roma, l’Italia e l’Europa dal “Flagello di Dio,” Attila, re degli Unni. Nel 452, sul fiume Mincio vicino a Mantova, Leone, disarmato, affrontò Attila, persuadendolo a ritirarsi e salvando miracolosamente l’Urbe. Secondo la tradizione, Attila si arrese non solo alle parole del Papa, ma alla visione dei Santi Pietro e Paolo. Due anni dopo (455), Leone affrontò anche Genserico, re dei Vandali, riuscendo a limitare il saccheggio della città. Sul piano teologico, Leone fu fondamentale nel condannare l’eresia del Monofisismo. La sua lettera dogmatica fu approvata nel Concilio di Calcedonia (451), dove la Chiesa definì che Cristo possiede due nature, divina e umana, “senza confusione, senza divisione”. I vescovi esclamarono: “Pietro così ha parlato per bocca di Leone!”. Leone Magno rappresentò la continuità morale e spirituale nel mondo in frantumi, emergendo come la nuova autorità dell’Occidente e ponendo le basi per la civiltà cristiana medievale.
La trascrizione della rubrica radiofonica “Radici Cristiane” di Roberto de Mattei in onda ogni terzo giovedì del mese su Radio Maria.
Gentili ascoltatori, vi parla Roberto De Mattei. Riprendo la mia collaborazione a Radio Maria con una rubrica sulle radici cristiane della nostra civiltà, per la quale ringrazio padre Livio.
Desidero iniziare la trasmissione con un omaggio al nuovo Papa Leone XIV. Rievocherò dunque un suo santo ed eminente predecessore, il primo Leone di questo nome, e anche il primo a cui la posterità attribuì l’appellativo di Grande: San Leone I, conosciuto anche per la sua grandezza come San Leone Magno. Molte sono le ragioni per le quali a San Leone I viene riconosciuto il titolo di Grande, un Magno. La prima è anche la ragione per la quale gli fu conferito il titolo di dottore della Chiesa: il contributo che egli diede per definire l’autorità e la missione del Romano Pontefice. Ma poiché noi parliamo delle radici cristiane della nostra civiltà, vogliamo ricordarlo soprattutto per ciò che, sotto questo aspetto, lo rese grande.
Grazie a San Leone Magno, Roma, l’Italia e l’Europa intera furono salvate da un gravissimo pericolo che le minacciava: quello di essere conquistate e sottomesse da Attila, re degli Unni. Dobbiamo fare un passo indietro per situare questo episodio nel suo contesto storico. Dopo la morte di Costantino, l’imperatore che nel 313 d.C. aveva concesso libertà ai cristiani, era seguito un periodo tempestoso per la Chiesa a causa della crisi ariana. Ma era seguita anche una fase turbolenta per l’Impero in seguito alla pressione dei barbari sui confini orientali. Alla fine del IV secolo, l’imperatore Teodosio aveva restituito pace alla Chiesa e all’Impero con l’Editto di Tessalonica, suscitando la speranza che potesse sorgere un nuovo Impero Romano Cristiano. Quando Teodosio morì nel 395, divise tra i due figli i territori dell’Impero, lasciando in eredità al figlio Arcadio quello d’Oriente, e all’altro figlio Onorio quello d’Occidente.
Nelle intenzioni di Teodosio, l’Impero era unico, con due sedi separate: Costantinopoli e Milano. I due Augusti avrebbero dovuto regnare in perfetta concordia con le stesse leggi, ma in realtà le due parti dell’Impero non furono mai più riunite. In Occidente, a Onorio successe Valentiniano II che, avendo solo 5 anni, fu posto sotto la tutela della madre Galla Placidia. In Oriente invece, alla morte di Arcadio, salì al trono il figlio Teodosio II, anch’egli bambino di 7 anni e dunque sotto la reggenza della zia Pulcheria. Dunque, due donne guidavano i destini degli imperi d’Oriente e d’Occidente a metà del V secolo: rispettivamente Pulcheria a Costantinopoli e Placidia a Ravenna. Ravenna era la città dove si era trasferita la corte imperiale e dove un magnifico mausoleo ancora ricorda Galla Placidia. Erano entrambe donne intelligenti ed energiche, destinate ad imprimere un forte segno nella storia. Ciò conferma il ruolo che le donne hanno sempre avuto, fin dalle origini, nella società cristiana.
Diversi erano tra loro i due cugini sul trono imperiale. Valentiniano III, figlio di Placidia, era capricioso e dissoluto. Teodosio II, di Pulcheria, era invece pio e scrupoloso. Le differenze si riflettevano nelle due corti: più brillante e mondana quella di Ravenna, più austera e rigorosa quella di Costantinopoli. Anche a causa della corruzione e degli intrighi di corte, l’Impero d’Occidente sarebbe presto crollato, mentre quello d’Oriente fu risparmiato dalla furia delle invasioni barbariche e sopravvisse per 1000 anni, fino a quando nel 1453 dovette soccombere ad un’invasione ancora peggiore: quella dell’Islam ottomano. Siamo al 24 agosto 410, il nuovo secolo, il V secolo, quando un terribile evento scuote la cristianità. Roma, la città eterna, da 800 anni inviolata, fu invasa e saccheggiata dai Visigoti di Alarico. L’Impero aveva perso la sua invincibilità.
Un grande dottore della Chiesa, San Girolamo, ricevette la notizia della caduta di Roma a Betlemme, dove si era ritirato nello studio e nella preghiera. Ed egli rimase costernato, incapace di pensare ad altro, e per molti giorni non fece che piangere. “Si è spenta la luce di tutto il mondo,” scriveva. “È stato troncato il capo del mondo e nella rovina di una sola città è perito tutto l’Impero”. Pochi anni prima, nella notte del 31 dicembre 406, una moltitudine di tribù barbare avevano varcato il fiume Reno su una lastra di ghiaccio. Erano popoli interi con donne e bambini, carri, salmerie, bestie, greggi. Tra questi c’erano i Vandali che, guidati dalla regge Genserico, dilagarono in Gallia, invasero la penisola iberica e, attraversando lo stretto di Gibilterra, conquistarono l’Africa romana. Lì commisero orrori e devastazioni che resero il termine vandalismo sinonimo di distruzione cieca e incontrollata.
Questi popoli barbari erano spinti verso Occidente da un altro popolo ancora più feroce e terribile: quello degli Unni, provenienti dalle vaste steppe dell’Asia centrale. Già nei secoli precedenti, le incursioni degli Unni avevano spinto l’Impero Cinese a costruire un’imponente barriera difensiva, la Grande Muraglia, che fu eretta proprio per tenere lontane le loro tribù. Ma verso la metà del V secolo dopo Cristo, gli Unni ripresero la loro marcia, questa volta verso Occidente. Il loro capo era Attila, nato attorno al 395, che per regnare nel 435 aveva assassinato il fratello. Sognava ora di stabilire in Europa un impero asiatico in sostituzione di quello di Roma. Sotto la guida di Attila, gli Unni superarono i territori del Mar Caspio e del Volga e proseguirono fino al fiume Donna. Da lì travolsero gli Ostrogoti e i Visigoti, costringendoli a migrare verso i confini dell’Impero Romano.
Lo storico Ammiano Marcellino, nel libro XXXI delle sue Res Gestae, descrive gli Unni come esseri più simili a bestie che a uomini, nati per la guerra e incapaci di vita civile. Scrive: “Hanno corpi robusti ma corti e sono incredibilmente veloci nei movimenti. Sono così duri che non hanno bisogno di fuoco né di cibo cucinato. Si nutrono di radici selvatiche e di carne cruda, riscaldata solo un po’ tra le cosce e il dorso del cavallo”. “Essi,” dice ancora Ammiano Marcellino, “vivono e dormono a cavallo, montano, mangiano e perfino decidono in sella, come se fossero un unico corpo con l’animale. Non hanno rispetto per la religione, per gli dèi o per la legge. Tutto ciò che ritengono giusto è ciò che serve al loro vantaggio”. Attila era soprannominato Flagellum Dei, flagello di Dio, per la sua crudeltà. E con queste parole Dante lo ricorda nella Divina Commedia, dove nell’Inferno scrive: “la divina giustizia di qua punge quell’Attila che fu flagello eterno”.
Uno scrittore del Novecento, Louis de Wohl, gli ha dedicato un romanzo storico che ne descrive bene la figura spietata. Si trova in commercio, ne consiglio la lettura. Il titolo è Attila, la tempesta dall’Oriente ed è stato pubblicato da Rizzoli. In questo periodo, nel cuore della Corte Imperiale d’Occidente, dove intrighi e passioni si intrecciavano alla politica, una vicenda sentimentale stava per cambiare il corso della storia. La giovane principessa Onoria, figlia di Galla Placidia e sorella dell’imperatore Valentiniano I, era stata convinta a pronunciare voto di verginità, come spesso accadeva alle nobildonne destinate a garantire l’onore della dinastia. Ma la principessa non accettò di vivere prigioniera di quel destino e intrecciò una relazione segreta con Eugenio, l’amministratore dei suoi beni. Quando la loro unione clandestina portò a una gravidanza, lo scandalo travolse la corte. Valentiniano reagì con ferocia.
Eugenio fu giustiziato e Onoria costretta a un matrimonio di facciata con Casso Colano, un anziano senatore romano scelto per coprire l’onta. Umiliata e colma di rabbia, la donna decise di vendicarsi in modo clamoroso. Inviò un messaggero proprio al re degli Unni, Attila, chiedendogli aiuto e offrendogli, come segno di promessa nuziale, il proprio anello. Attila interpretò questo gesto disperato come una proposta politica di matrimonio. Il capo degli Unni chiese ufficialmente la mano di Onoria, pretendendo come dote metà dell’Impero d’Occidente. L’imperatore Valentiniano rifiutò con sdegno. Alla principessa fece rispondere che era sposata legalmente e che il matrimonio cristiano è indissolubile. Inoltre, il diritto romano vietava la successione al trono delle donne e non era possibile alcuna cessione di province in caso di nozze. Ma Attila non era uomo da accettare un rifiuto. Con il pretesto di difendere l’onore della promessa sposa, decise di marciare sull’Occidente.
Dalla Pannonia, nel cuore dell’attuale Ungheria, partì un esercito imponente di Unni, si dice forte di 700.000 uomini, che in breve oltrepassò il Reno. Era l’anno 451. Le prime vittime della furia unna furono le città di Metz, Treviri, Worms, Spira, che furono travolte e saccheggiate. L’avanzata degli Unni era travolgente, ma alcuni episodi di santità ed eroismo mostrarono come la potenza di Dio è superiore a quella degli uomini. Un gruppo di migliaia di vergini (11.000 secondo la tradizione) guidate dalla principessa Orsola, avevano fatto un pellegrinaggio a Roma, dove, secondo Caterina Emmerich, incontrarono proprio il Papa Leone. Mentre le sante viaggiatrici facevano ritorno verso nord, Colonia era stata invasa dagli Unni. Quando il gruppo giunse nei pressi della città, fu aggredito e sterminato. Tutte le vergini caddero martiri in un solo giorno, rifiutandosi di rinnegare Cristo o di cedere ai desideri dei barbari. Solo Orsola fu risparmiata.
Attila, colpito dalla sua bellezza e dal suo coraggio, le propose di sposarla promettendole la vita. Ma Orsola, fedele al voto fatto a Dio, rifiutò con fermezza, e il re, accecato dall’ira, la trafisse con una freccia. Sant’Orsola fu venerata per secoli, lo è ancora, come un simbolo di purezza e di coraggio. Quando Attila giunse poi davanti alla città di Troyes, in Gallia, il santo vescovo Lupo, indossati gli abiti pontificali e seguito dal suo clero in processione, gli si fece incontro e gli chiese: “Chi sei tu che minacci questa città?”. La risposta fu: “Non sai chi sono? Sono Attila, re degli Unni, detto il flagello di Dio”. E allora rispose Lupo: “Sii il benvenuto, flagello di Dio, perché noi meritiamo i flagelli divini a causa dei nostri peccati. Ma se è possibile, riversa i tuoi colpi solo sulla mia persona e non sull’intera città”. Gli Unni entrarono nella città di Troyes, ma per divino volere furono accecati e la attraversarono senza fare male a nessuno.
Le pianure della Gallia tremavano sotto gli zoccoli dei cavalli unni. Ma sulla collina di Lutezia, la futura Parigi, una giovane donna di profonda fede, Genoveffa, animò il popolo alla preghiera e alla lotta. “Gli uomini,” disse, “fuggano se vogliono, se non sono capaci di battersi. Noi donne pregheremo Dio tanto e tanto finché ascolterà le nostre suppliche”. Attila si fermò miracolosamente alle soglie di Parigi, che fu salvata senza un colpo di spada. La futura Santa Genoveffa, patrona di Parigi, divenne il simbolo della speranza in mezzo al caos della guerra. Ancora una volta un’eroina femminile era al centro degli avvenimenti. Orléans fu la prima città della Gallia che oppose una strenua resistenza agli Unni sotto la guida del suo vescovo Sant’Aniano.
Tutto sembrava perduto quando all’orizzonte apparvero miracolosamente, in un nucleo di polvere, le truppe romane e visigote guidate da Ezio, Homes et Magister Militum (il massimo rango militare d’Occidente), e accanto a lui il re dei Visigoti Teodorico. I due condottieri costrinsero gli Unni a ritirarsi verso i Campi Catalaunici, dove i due eserciti si affrontarono in campo aperto. Nel caos che travolgeva l’Impero d’Occidente, tra tanti episodi di tradimento e di viltà, il nome del generale romano Flavio Ezio era destinato a entrare nella leggenda. Figlio di un ufficiale di origine germanica e di una madre latina di sangue nobile, Ezio incarnava la duplice anima dell’Impero di quel tempo: romana nel cuore, ma ormai profondamente intrecciata con i popoli barbari che ne avevano varcato i confini. Abile politico e grande stratega militare, Ezio aveva trascorso parte della sua giovinezza proprio tra gli Unni, di cui era stato ostaggio, e ne conosceva le tattiche e la brutalità sul campo di battaglia.
Ezio comprese che solo unendo le forze di Romani e Barbari si poteva sperare di fermare Attila. Riuscì a compiere un’impresa diplomatica straordinaria: unire sotto un’unica bandiera Romani, Franchi e Burgundi, a fianco degli Italici, contro il nemico comune. Anche il re dei Visigoti, Teodorico I, si schierò al suo fianco nella grande battaglia che si svolse il 23 giugno 451 ai Campi Catalaunici, nei pressi dell’attuale Mon Champagne. Lo scontro fu epico: due mondi si affrontavano, quello asiatico delle steppe e quello occidentale della civiltà romana. Tutti i popoli che vivevano dall’Atlantico al Volga, come ricorda lo storico Edward Gibbon, si affrontarono in una battaglia feroce e sanguinosa. Attila chiese ai suoi indovini di esaminare l’interno di una vittima sacrificale durante la notte precedente alla battaglia. Gli indovini predissero che il disastro incombeva sugli Unni, ma che uno dei capi dei loro nemici sarebbe caduto nella battaglia.
Interpretando questo vaticinio come un auspicio della morte di Ezio, Attila decise di affrontare il rischio di una sconfitta pur di vedere morto il suo nemico e diede l’ordine di disporsi alla battaglia. Ma decise di ritardarne l’inizio fino al pomeriggio, in modo che il tramonto imminente limitasse i danni in caso di sconfitta. La fanteria Visigota ebbe un ruolo decisivo nel fermare la carica degli Unni, ma chi morì fu il re dei Visigoti, Teodorico, trafitto da una lancia nemica, non Ezio. Il terreno fu cosparso di corpi. Si dice che il sangue versato formasse veri e propri ruscelli, e la notte non bastò a contare i morti: più di 160.000. Romani e Visigoti rimasero però padroni del campo. Questa vittoria, che consegnò a Ezio un posto d’onore nella storia, non fu meno importante di quella che qualche secolo dopo, nel 732, Carlo Martello avrebbe ottenuto a Poitiers contro i Musulmani. La carriera del generale romano Ezio si concluse però tragicamente.
Nonostante avesse difeso l’Impero con coraggio e abilità, Ezio finì vittima dei sospetti dell’imperatore Valentiniano, che lo assassinò nel 454 con un colpo di spada nel palazzo imperiale di Ravenna, eliminando con questo gesto l’unico uomo che ancora poteva difendere l’Impero. Ezio rimase nella memoria dei cronisti come l’ultimo dei Romani, il simbolo di una grandezza ormai perduta e di un mondo che stava lentamente tramontando. Dopo la sconfitta dei Campi Catalaunici, Attila tornò nei suoi territori, ma non rinunciò ai suoi progetti di dominio. L’anno seguente riunì un nuovo esercito e marciò verso l’Italia attraverso le Alpi e mise a ferro e fuoco le città del nord: da Aquileia a Padova, da Verona a Milano. Anche Vicenza e Bergamo caddero. Il terrore era tale che la Corte, giudicando Ravenna troppo esposta al nemico, si ritirò a Roma. Ma i consiglieri di Attila lo esortarono a conquistare la Città Eterna. L’Impero era allo stremo, e l’Urbe, antica padrona del mondo, sembrava destinata a cadere ancora una volta.
Fu allora che accadde un episodio rimasto nella memoria collettiva. La suprema autorità morale dell’Occidente era in quel momento il Papa Leone, che da 20 anni sedeva sul soglio di Pietro e aveva dimostrato di essere un grande teologo, ma anche un riformatore e un amministratore instancabile. Il Liber Pontificalis lo dice di nazione Tuscus, originario dell’Etruria, ma non ci dà la sua data di nascita. I più lo pensano nativo di Roma, di una famiglia forse oriunda della Tuscia. Sin da giovane, Leone aveva mostrato un ingegno vivace, un profondo senso religioso e un raro talento per l’oratoria. Entrò presto nel clero romano, dove si distinse per la sua prudenza e il suo equilibrio. Durante il pontificato di Papa Celestino I, Leone ricoprì il ruolo di diacono, cioè uno dei principali collaboratori del Pontefice.
Celestino lo stimava profondamente e lo inviò come mediatore in questioni delicate tra i vescovi dell’Africa e della Gallia, segno della fiducia che già allora Roma riponeva nella sua intelligenza e nella sua fermezza. Dopo la morte di Celestino, Leone continuò a servire la Chiesa sotto Papa Sisto II, divenendo arcidiacono di Roma, una carica di grande responsabilità, quasi equivalente a quella di un Primo Ministro del Pontefice. Era lui che sovrintendeva alla disciplina del clero, alla gestione dei beni ecclesiastici e ai rapporti con le chiese dell’Occidente. Ma nel 440, mentre Leone si trovava in missione diplomatica in Gallia per sedare un conflitto tra due alti dignitari imperiali, giunse da Roma la notizia della morte di Sisto II. Il clero e il popolo unanimi lo elessero Papa, riconoscendo in lui l’uomo capace di guidare la Chiesa in un momento di disordine politico e di confusione dottrinale.
Rientrato a Roma, Leone fu consacrato vescovo della città il 29 settembre 440, giorno dedicato a San Michele Arcangelo. E da quel giorno cominciò un pontificato lungo e straordinario, durato oltre 20 anni, che avrebbe trasformato per sempre il volto della Chiesa e dell’Occidente. Non c’era problema che interessasse la Chiesa che egli non avesse esaminato, nella convinzione che da Roma doveva venire la soluzione ad ogni problema. Il Papa si occupava di tutto, nei minimi dettagli, rivolgendosi più volte con autorità ai vescovi delle diocesi d’Italia e dell’Occidente, sia a proposito di questioni di vita ecclesiale, sia a difesa dell’ortodossia della fede. Si occupò dei tempi per l’amministrazione del battesimo e della disciplina quaresimale; della gestione dei beni della Chiesa, che dovevano essere usati per i poveri e non per il lusso dei chierici; della condotta morale del clero, chiamato a dare esempio di sobrietà e rettitudine. Condannò i Priscillianisti della Spagna, seguaci di una dottrina sincretistica che mescolava elementi cristiani, gnostici e manichei. In Italia combatté i Manichei, che professavano un dualismo radicale tra il bene e il male e che minacciavano la visione cristiana della creazione come opera buona di Dio. In una lettera del 30 gennaio 444, diretta a tutti i vescovi d’Italia, li esortò a vigilare con fermezza, non solo a condannare gli errori, ma a educare il popolo con la verità del Vangelo. Sotto la sua influenza fu redatto il primo Messale, destinato ad essere conosciuto come il Sacramentario Leonino.
Il culto per Leone non era semplice rito, ma espressione della verità creduta. “Ciò che si prega deve essere ciò che si crede” (Lex Orandi, Lex Credendi). Da qui nasce la liturgia come la conosciamo nei secoli successivi: sobria, teologicamente precisa, universale. Sotto il pontificato di San Leone Magno, mentre Attila invadeva l’Europa, un aspetto teologico coinvolse il Papa in prima persona. Eutiche, archimandrita di un importante monastero presso Costantinopoli, affermava che in Cristo le due nature, quella umana e quella divina, erano unite in modo talmente profondo che l’umanità sarebbe stata assorbita dalla divinità, come una goccia d’acqua nell’oceano della divinità. Era la dottrina che fu detta Monofisismo (dal greco fusis, una sola natura), perché affermava l’esistenza di una sola natura in Gesù Cristo, annullandone l’umanità e distruggendo così l’equilibrio del mistero dell’Incarnazione del Verbo.
Il patriarca di Costantinopoli, San Flaviano, citò Eutiche dinanzi a un sinodo e lo condannò come eretico. Ma l’imperatore Teodosio II, che proteggeva Eutiche, convocò un concilio a Efeso contro Flaviano. Papa Leone scrisse allora una famosa lettera a Flaviano in cui spiegava limpidamente il mistero dell’unione ipostatica di Cristo. Ma la sua voce fu ignorata e Flaviano, perseguitato, morì esule. Il Concilio di Efeso diede ragione a Eutiche, costringendo i legati papali a ritirarsi. Perciò Leone, nell’ottobre del 449, definì il Concilio con il nome di Latrocinium Ephesinum (il brigantaggio di Efeso). Intanto però morì l’imperatore Teodosio II e gli successe sul trono l’imperatrice Pulcheria, con il marito Marciano. Leone ottenne che si riunisse un nuovo concilio per ristabilire la verità dogmatica. Non era un problema secondario quello che si dibatteva sulle rive del Bosforo. Si trattava di rispondere a una domanda che scuoteva il mondo cristiano: “Chi è davvero Gesù Cristo?”.
Perché se Gesù non è veramente uomo, come dicevano i Monofisiti, allora non è nato né ha patito, né è stato crocifisso, né è risorto in una vera natura umana, e la sua redenzione non riguarda l’umanità. Perciò Pio X, nell’enciclica Sempiternus Rex dell’8 settembre 1951, scritta in occasione dell’anniversario del Concilio di Calcedonia, dice: “Solo dunque se con santa e pura fede si crede che in Cristo non c’è altra persona che quella del Verbo, in cui però confluiscono le due nature, l’umana e la divina, del tutto distinte fra di loro, diverse per proprietà e operazioni. E solo in questo caso appaiono la magnificenza e la pietà della nostra redenzione, mai abbastanza esaltata”. Così, dall’8 ottobre al primo novembre 451, a Calcedonia, presso Costantinopoli, si svolse il Quarto Concilio della Chiesa sotto la presidenza dei legati papali.
Nel grande edificio vicino alla chiesa di Santa Eufemia si radunarono oltre 500 vescovi, quasi tutti orientali. Ma Roma era rappresentata dai legati del Papa, guidati dal vescovo Pascasino, portatore della parola di Papa Leone. L’eresia di Eutiche venne condannata e la cosiddetta lettera dogmatica di Leone I intorno all’Incarnazione del Verbo, letta dai legati pontifici nella sessione del 10 ottobre 451, sarebbe valsa al Pontefice 1300 anni più tardi il titolo di Dottore della Chiesa. Appena finì la lettura e tacque la voce del lettore, tutti i presenti gridarono insieme, unanimi: “Questa è la fede dei Padri. Questa è la fede degli Apostoli. Tutti crediamo così. Gli ortodossi credono così. Sia scomunicato chi non crede così. Pietro così ha parlato per bocca di Leone!“.
Il 25 ottobre 451, i vescovi approvarono la Formula di Calcedonia che diceva: “Noi confessiamo un solo e medesimo Figlio, nostro Signore Gesù Cristo, perfetto nella divinità e perfetto nell’umanità, vero Dio e vero uomo, consustanziale al Padre secondo la divinità, consustanziale a noi secondo l’umanità, in due nature, senza confusione, senza mutamento, senza divisione, senza separazione”. Le chiese di Egitto, Siria e Armenia rifiutarono la definizione, accusandola di tradire la purezza della fede di San Cirillo. E da qui nascerà lo scisma delle cosiddette chiese orientali non calcedonesi (Copta, Siriaca, Armena). Ma per l’immensa maggioranza del mondo cristiano, a Calcedonia il Papa aveva definito l’unica verità da credere per i secoli futuri: Dio si è fatto uomo senza cessare di essere Dio.
Il Concilio di Calcedonia non fu solo una tappa decisiva per la definizione della dottrina delle due nature di Cristo, ma costituì anche un solenne riconoscimento del primato del Papa di Roma da parte delle chiese d’Oriente. La voce decisiva venne infatti dalla Sede Apostolica di Roma. Fu anche per questo che l’imperatore Valentiniano, in un momento drammatico della storia di Roma, si rivolse a Papa Leone, chiedendogli di andare personalmente incontro al sovrano degli Unni per fermarlo. Era il mese di agosto dell’anno 452. L’estate ardeva sulla pianura padana. L’aria era greve di polvere e di paura. Ma Leone partì da Roma, accompagnato da una piccola delegazione composta dall’arcidiacono Ezio, da due emissari imperiali — il senatore Avieno e l’ex prefetto d’Italia Trigezio — e da pochi servitori. Il viaggio fu silenzioso, punteggiato dal rumore dei carri che, mentre la delegazione romana saliva verso nord, si spostavano invece verso sud, fuggendo l’orda barbarica.
Ogni villaggio attraversato portava i segni della paura e dell’angoscia. Secondo le cronache, Leone ed Attila si incontrarono sulle rive del fiume Mincio, nei pressi di Mantova, dove il re degli Unni era accampato in attesa di marciare verso Roma. Erano di fronte il condottiero più temuto della terra e un Pontefice disarmato, armato della parola della verità. Il re degli Unni, gli occhi obliqui e spietati, il viso solcato da cicatrici, vide avanzare verso di sé un corteo che comprendeva monaci e sacerdoti e al centro un vecchio dalla barba bianca. “Qual è il tuo nome?”. “Leone,” rispose il Papa senza inchinarsi. Si fermò davanti a lui, lo sguardo diritto, le mani aperte in segno di pace. “Tra una settimana sarò a Roma, alla testa del mio esercito,” disse Attila. “Chi può trattenermi?”. “Re Attila,” replicò il Papa, “tu che hai sottomesso re e popoli, sappi che c’è un potere più grande del tuo: quello di Dio”.
“Il vescovo di Roma non è soggetto a nessuno, è il padre di tutti i cristiani ed è soggetto soltanto a Dio, perciò lo si chiama Papa, il Padre. In nome di questa autorità che rappresento, ti chiedo di tornare indietro. Se distruggi Roma, non conquisterai un regno, ma attirerai su di te l’ira di Dio”. Attila lo fissò, poi guardò i suoi guerrieri. Qualcuno disse (e così riportano i cronisti) che in quel momento dietro Leone, Attila vide due figure luminose armate di spade: i Santi Pietro e Paolo, protettori di Roma, apparsi come guardiani celesti. Il re superstizioso e timorato del divino sbiancò e fece un passo indietro, poi con voce roca disse: “Non entrerò in Roma, non oggi”. Lo storico bizantino Prisco, testimone del tempo, racconta che l’incontro suscitò un improvviso terrore tra gli Unni. Si ricordava la sorte del re Visigoto Alarico, morto poco dopo il sacco di Roma, e molti temettero che Attila potesse incorrere nella stessa ira divina.
Si pensa che Leone abbia usato proprio questo argomento, unendo la forza dell’eloquenza al potere della fede, per dissuadere il sovrano unno dal suo intento di devastare l’Urbe. Paolo Diacono, cronista Longobardo, riporta come Attila avrebbe confidato di essersi arreso non tanto alle parole del Papa, quanto alla visione di un angelo armato di spada che, al fianco di Leone, minacciava di punirlo se avesse osato colpire la città santa. Il risultato comunque fu miracoloso. Quella notte le torce del campo degli Unni si spensero una dopo l’altra. Al mattino, il fiume Mincio rifletteva il silenzio di una decisione inaspettata. L’orda barbarica si ritirava verso il nord. Attila, che nessun esercito era riuscito a fermare, ordinò la ritirata e riportò il suo popolo al di là del Danubio. Roma fu salva. Leone tornò a Roma, accolto come un salvatore. Il gesto di Leone Magno non solo impedì una nuova tragedia, ma divenne il simbolo della rinascita spirituale dell’Occidente cristiano.
Prospero di Aquitania, discepolo di Sant’Agostino, vide in Leone l’uomo provvidenziale, chiamato da Dio a guidare i popoli in un’epoca di rovine e di speranza. Questo episodio, come osserva lo storico Daniel-Rops, costituiva anche una trionfale replica alle critiche dei pagani che continuavano a dire che l’abbandono dei culti antichi era la vera causa delle disfatte dell’Impero. A questo argomento Sant’Agostino aveva da poco risposto con La Città di Dio. San Leone rispondeva ora con un’azione pratica. Attila ricondusse l’esercito nel bassopiano ungherese e morì improvvisamente dopo pochi mesi, nel 453. Dopo la sua morte, la potenza degli Unni scomparve rapidamente, come quella dei Vandali in Africa, e questa fu la fine del primo grande attacco dell’Asia contro l’Occidente. La scena dell’incontro tra San Leone Magno e Attila divenne leggendaria.
Secoli dopo, Raffaello la immortalò nelle Stanze Vaticane, raffigurando Leone su un cavallo bianco che, con gesto solenne, intercede presso Attila, mentre nel cielo si manifestano gli Apostoli Pietro e Paolo, spade sguainate a protezione della Città di Dio. La scena si svolge su uno sfondo ampio e teatrale, una pianura attraversata da cavalli, armi, polvere e movimento. L’atmosfera è dinamica, ma al centro domina una calma sovrumana. Papa Leone appare in sella a un cavallo bianco, a sinistra della scena. È raffigurato con il volto nobile e solenne, lo sguardo fermo, il gesto della mano levata in segno di comando, ma anche di benedizione. Raffaello gli diede i tratti di Papa Leone X, cioè Giovanni De Medici, il pontefice regnante al tempo dell’esecuzione dell’affresco. Attila, sulla destra, è un guerriero barbaro, armato, dalla pelle scura e con l’espressione sorpresa, quasi terrorizzata. La sua cavalcatura imbizzarrita si ritrae come se percepisse un potere invisibile. Attorno a lui i suoi guerrieri fremono.
Alcuni guardano in alto con sgomento, altri cercano di frenare i cavalli spaventati. Nel cielo, sopra Leone, Raffaello dipinge una visione celeste: i Santi Pietro e Paolo in armatura, che discendono tra le nubi, i volti illuminati da una luce divina. Sono loro, secondo la tradizione, ad apparire ad Attila, difendendo Roma e infondendo timore nel cuore del barbaro. La luce che circonda i santi contrasta con le ombre del campo barbarico. Un chiarore dorato investe il gruppo del Papa, mentre la parte di Attila è immersa in toni più scuri e violenti. La stessa visione ispirò nel 1648 lo scultore Alessandro Algardi, che ne fece un altorilievo monumentale per la Basilica di San Pietro, simbolo della vittoria della fede sulla violenza. Negli anni seguenti l’Impero d’Occidente visse le sue ultime convulsioni. La morte di Ezio non rimase impunita.
L’anno successivo, nel 455, due suoi ufficiali, Optila e Traustila, membri della guardia personale del generale, assassinarono l’imperatore Valentiniano a Roma durante una parata pubblica. Dietro il complotto si celava quello stesso Petronio Massimo che aveva ispirato la diffidenza dell’imperatore contro Ezio. Petronio si proclamò nuovo sovrano e, per legittimare il proprio potere, sposò Eudossia, la vedova di Valentiniano. Ma il suo regno fu breve e segnato dal disastro. Secondo la tradizione, Eudossia, per vendicare l’uccisione del marito, inviò un disperato appello al re dei Vandali, Genserico, chiedendogli di intervenire. Dalle coste del Nord Africa, il re vandalico Genserico salpò con la sua flotta, deciso a colpire il cuore di un Impero ormai sfinito. Il 3 maggio 455 le sue navi approdarono ad Ostia, mentre a Roma regnavano la paura e il disordine. La Corte Imperiale era fuggita, le autorità civili dissolte.
Petronio Massimo, compromesso negli intrighi che avevano condotto alla morte di Ezio e di Valentiniano, cercò la fuga, ma fu ucciso dai suoi stessi soldati. La nobiltà senatoria, presa dal panico, abbandonò la città. Solo una figura rimaneva salda davanti alla minaccia imminente dei Vandali: Papa Leone Magno, il vescovo di Roma che aveva già affrontato e fermato Attila 3 anni prima. Leone, circondato dal clero, uscì da Roma attraverso la Porta Portuense per affrontare Genserico. L’incontro, avvolto da un’aura di drammatica solennità, avvenne alle porte della città. Il Pontefice riuscì a ottenere dal re barbaro una promessa: Roma non sarebbe stata incendiata e i suoi abitanti non sarebbero stati massacrati o torturati. Ma il saccheggio non poté essere evitato. I Vandali entrarono in città e diedero inizio a una spoliazione sistematica. Case, palazzi, templi, archivi furono svuotati delle loro ricchezze.
La plebe romana, atterrita, trovò rifugio nelle tre grandi basiliche (San Pietro, San Paolo e San Giovanni in Laterano), che furono risparmiate per rispetto dell’accordo con il Papa. A differenza dei Goti di Alarico, che nel 410 avevano devastato Roma per soli 3 giorni, i Vandali restarono 14 giorni, dal 15 al 28 giugno, portando via tutto ciò che poteva avere valore. Quando Genserico lasciò la città, imbarcò con sé un bottino immenso, la vedova dell’imperatore Eudossia e le sue figlie, destinate alla prigionia in Africa. Il sacco del 455 fu forse il più rovinoso della storia di Roma. I Vandali spogliarono il Tempio di Giove Capitolino del suo tetto dorato e si impadronirono di ciò che restava del leggendario tesoro di re Salomone, sottratto da Tito a Gerusalemme nel 70 d.C..
Navi, cariche d’oro, argento e opere d’arte, partirono per Cartagine, la capitale del regno vandalico, che così, dopo secoli, parve vendicare la distruzione subita per mano di Scipione Emiliano. Come scrisse lo storico Procopio, l’assoluta bellezza della Roma pagana, legata alla sua storia millenaria di trionfi, fu violata e pesantemente oltraggiata. Nel 410, durante il sacco dei Goti, Papa Innocenzo I si trovava lontano. Nel 455, Papa Leone rimase invece nella città, difendendola con la sola forza della fede e della parola. In un mondo in frantumi, la sua figura rappresentò la continuità morale e spirituale tra l’antica Roma e la nuova civiltà cristiana che sarebbe sorta sulle rovine dell’Impero. Daniel-Rops lo definisce l’incarnazione della speranza in un’epoca in cui ogni speranza si smarriva. Dopo il sacco di Roma e gli anni di anarchia seguiti alla morte di Petronio Massimo, l’Impero d’Occidente non era che l’ombra di sé stesso. Le sue frontiere si erano ristrette.
Restavano solo l’Italia, una parte della Dalmazia e pochi territori in Gallia. Le province, un tempo floride, erano ormai cadute sotto il controllo dei regni barbarici sorti sulle rovine di Roma. Nel tentativo di salvare ciò che rimaneva del potere imperiale, il re Visigoto Teodorico II impose sul trono di Roma un suo protetto, Avito, suo antico precettore. Ma la fragile autorità imperiale continuava a sgretolarsi, logorata da intrighi e da lotte di potere tra generali e capi barbari. Nel 474 il generale Oreste, uomo ambizioso e abile politico, fece proclamare imperatore Giulio Nepote, governatore della Dalmazia. Tuttavia, poco dopo Nepote preferì tornare nei suoi domini dalmati, abbandonando Roma. Approfittando del vuoto di potere, Oreste fece incoronare il proprio figlio Romolo, detto Augustolo (“il piccolo Augusto”), un titolo che suonava già come una malinconica ironia sulla grandezza perduta. Ma il destino dell’Impero era ormai segnato.
Nel 476, le truppe barbariche al servizio di Roma, stanche dei soprusi e dei ritardi nei pagamenti, si sollevarono sotto la guida di Odoacre, un capo di origine germanica. Oreste tentò di opporsi, ma fu sconfitto e ucciso a Pavia. Il giovane Romolo Augustolo fu risparmiato e mandato in esilio in Campania. La leggenda dice che visse in una villa tranquilla guardando il mare, ultimo eco di un mondo scomparso. Odoacre non volle assumere il titolo di Imperatore e si limitò a proclamarsi Rex Genum, re dei popoli barbarici. Poi inviò le insegne imperiali a Costantinopoli all’imperatore d’Oriente Zenone, dicendo: “Non serve più un imperatore in Occidente, uno solo basta ad Oriente“. Con questo gesto simbolico la storia dell’Impero Romano d’Occidente giungeva al termine. Da quel momento nessun imperatore sarebbe più stato eletto a Roma. Con la deposizione di Romolo Augustolo nel 476 si spense ufficialmente la luce dell’Impero Romano d’Occidente.
Ma ciò che sembrava la fine di tutto fu in realtà l’inizio di un mondo nuovo. In un’epoca segnata da invasioni e crolli, la Chiesa emerse come la nuova autorità morale dell’Occidente. Dalle rovine di Roma sarebbe nata una nuova Roma, non più capitale di un Impero, ma cuore spirituale della civiltà cristiana medievale. Nessun personaggio nel V secolo ebbe, come Leone, piena consapevolezza del declino della potenza di Roma, ma anche dell’ascesa di una nuova Roma, il cui Impero sarebbe stato molto più vasto e glorioso di quello antico. “Dio,” egli scrive, “ebbe cura che i popoli fossero riuniti in un solo Impero, di cui Roma era il capo, affinché da questo la luce della verità rivelata per la salute di tutte le genti, più efficacemente si diffondesse in tutti i suoi membri”. La concezione del papato di San Leone Magno trovò espressione nei sermoni e soprattutto nelle epistole, che sono oltre 140 e costituiscono l’insieme più cospicuo prima di Papa San Gregorio Magno.
Il giorno della festa degli Apostoli Pietro e Paolo, il 29 giugno, fu un’occasione annuale in cui Leone approfondì, con una serie di sermoni, l’idea del primato apostolico. La Chiesa aveva l’onore di essere il luogo del martirio di Pietro e ne possedeva la tomba. Il primato affidato a Pietro si perpetuava nei suoi successori, che esercitavano la loro autorità su tutta la Chiesa. Leone spiegò con chiarezza il significato della successione petrina, riassumendola nella formula “indegno erede di San Pietro”. Il Papa diveniva l’erede di San Pietro per quanto riguardava il suo status giuridico e i suoi poteri oggettivi, ma non per quanto riguardava il suo status personale e i suoi meriti soggettivi. La distinzione tra l’ufficio e il detentore dell’ufficio, tra la personalità pubblica del Papa e la sua persona privata, si sarebbe rivelata fondamentale nella storia del papato.
Il 10 novembre del 461 il grande Papa morì. Fu sepolto nel portico della Basilica di San Pietro, dove avrebbe continuato, come dice l’epitaffio redatto dal Papa Sergio I nel 688, a vegliare perché il lupo sempre in agguato non devasti il gregge. Ora le sue spoglie riposano all’interno della basilica, sotto l’altare della cappella a lui dedicata. Qui mi fermo, ringraziando tutti coloro che hanno avuto la pazienza di ascoltarmi fino a questo momento.
