Benedetto XVI spiega la lavanda dei piedi, Giuda e Pietro

Capitolo 3 (*)

LA LAVANDA DEI PIEDI

         Dopo i discorsi d’insegnamento di Gesù, che seguono la relazione sul suo ingresso a Gerusalemme, i Vangeli sinottici riprendono il filo del racconto con una datazione precisa che conduce verso l’ultima cena.

         All’inizio del 14° capitolo, Marco comincia dicendo: «Mancavano due giorni alla Pasqua e agli Azzimi» (14,1); parla poi dell’unzione a Betania come anche del tradimento di Giuda e quindi continua: «Il primo giorno degli Azzimi, quando si immolava la Pasqua, i suoi discepoli gli dissero: “Dove vuoi che andiamo a preparare, perché tu possa mangiare la Pasqua? “» (14,12).

         Giovanni invece dice semplicemente: «Prima della festa di Pasqua… Durante la cena…» (13,ss). La cena, di cui parla Giovanni, ha luogo «prima della Pasqua», mentre i sinottici presentano l’ultima cena come cena pasquale, partendo così apparentemente da una datazione diversa di un giorno rispetto a Giovanni.

         Dovremo tornare alle questioni molto discusse che riguardano queste cronologie differenti e il loro significato teologico, quando rifletteremo sull’ultima cena di Gesù e sull’istituzione dell’Eucarestia.

(Ricordiamo che dopo il testo di Benedetto XVI troverete la storia liturgica della Lavanda dei piedi)

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         L’ora di Gesù

         Rimaniamo per il momento con Giovanni che, nel suo rapporto sull’ultima sera di Gesù con i suoi discepoli prima della passione, sottolinea due fatti del tutto particolari: innanzitutto ci racconta come Gesù abbia reso ai suoi discepoli il servizio da schiavo della lavanda dei piedi; in questo contesto riferisce anche del preannuncio del tradimento di Giuda e del rinnegamento di Pietro. Il secondo aspetto consiste nei discorsi di addio di Gesù, che giungono al loro culmine nella grande Preghiera sacerdotale. A questi due fulcri rivolgeremo ora la nostra attenzione.

         «Prima della festa di Pasqua Gesù, sapendo che era giunta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine» (13,1). Con l’ultima cena è arrivata «l’ora» di Gesù, verso la quale il suo operare era orientato fin dall’inizio (cfr 2,4). L’essenziale di questa ora è delineato da Giovanni con due parole fondamentali: è l’ora del «passaggio» (metabainein – meiàbasis); è l’ora dell’amore (agape) «sino alla fine».

         Le due espressioni si spiegano a vicenda, sono inscindibili l’una dall’altra. L’amore stesso è il processo del passaggio, della trasformazione, dell’uscire dai limiti della condizione umana votata alla morte, nella quale siamo tutti separati gli uni degli altri e in fondo impenetrabili gli uni agli altri  in un’alterità che non possiamo oltrepassare. È l’amore sino alla fine che opera la «metàbasis» apparentemente impossibile: l’uscire dalle barriere dell’individualità chiusa, che appunto è  l’irruzione nella sfera divina.

         L’«ora» di Gesù è l’ora del grande «passo oltre», della trasformazione, e questa metamorfosi dell’essere avviene tramite l’agape. È un’agape «sino alla fine»  espressione con cui Giovanni, a questo punto, rimanda in anticipo all’ultima parola del Crocifisso: «È compiuto – tetélestai» (19,30). Questa fine (télos), questa totalità del donarsi, della metamorfosi dell’intero essere è, appunto, il donare se stesso fino alla morte.

         Se Gesù qui, come anche altre volte nel Vangelo di Giovanni, parla del suo essere uscito dal Padre e del suo ritorno a Lui, ciò potrebbe suscitare il ricordo dell’antico schema dell’exitus e reditus, dell’uscita e del ritorno, come è stato elaborato specialmente nella filosofia di Plotino. L’uscire e tornare illustrato da Giovanni, però, è totalmente diverso da ciò che è pensato nello schema filosofico. Poiché in Plotino come nei suoi seguaci, l’«uscire», che lì prende il posto dell’atto divino della creazione, è una discesa che alla fine diventa un declino: dall’elevatezza dell’«unico» in giù verso zone sempre più basse dell’essere. Il ritorno consiste poi nella purificazione dalla sfera materiale, in una graduale risalita e in purificazioni che tolgono ciò che è inferiore e infine riconducono nell’unità del divino.

         L’uscire di Gesù invece presuppone innanzitutto la creazione non come declino, ma come atto positivo della volontà di Dio. È poi un processo dell’amore che, proprio nella discesa, dimostra la sua vera natura – per amore verso la creatura, per amore verso la pecorella smarrita – rivelando così nel discendere ciò che è veramente divino.

E il Gesù di ritorno non si sbarazza affatto della sua umanità come se fosse una cosa contaminante. Lo scopo della sua discesa era di accettare e di accogliere l’umanità intera, il ritorno insieme con tutti gli uomini – il ritorno di «ogni carne». In questo ritorno si realizza una novità: Gesù non ritorna da solo. Non abbandona la carne, ma attira tutti a sé (cfr Gv 12,32). La metàbasis vale per la totalità. Se nel primo capitolo del Vangelo di Giovanni si dice che i «suoi» (idioi) non hanno accolto Gesù (cfr 1,11), sentiamo ora che Egli ha amato i «suoi» sino alla fine (cfr 13,1). Nella discesa Egli ha nuovamente raccolto i «suoi» – la grande famiglia di Dio – facendoli da stranieri diventare «suoi».

         Ascoltiamo ora come l’evangelista continua: Gesù «si alzò da tavola, depose le vesti, prese un asciugamano e se lo cinse attorno alla vita. Poi versò dell’acqua nel catino e cominciò a lavare i piedi dei discepoli e ad asciugarli con l’asciugamano di cui si era cinto» (Gv 13,4s). Gesù rende ai suoi discepoli il servizio dello schiavo, «umilia se stesso» (Fil. 2,7).

         Ciò che la Lettera ai Filippesi dice nel suo grande inno cristologico – che cioè in un gesto contrario a quello di Adamo, che aveva tentato con le proprie forze di allungare la mano verso il divino, Cristo discese invece dalla sua divinità fino a diventare uomo, «assunse la condizione di servo» e si fece obbediente fino alla morte di croce (cfr 2,7s) – tutto ciò è qui reso visibile in un solo gesto. In un atto simbolico, Gesù illustra l’insieme del suo servizio salvifico. Si spoglia del suo splendore divino, si inginocchia, per così dire, davanti a noi, lava ed asciuga i nostri piedi sporchi, per renderci capaci di partecipare al banchetto nuziale di Dio.

         _021-gesu-nazaret-volii-lavanda-piedi-5Se nell’Apocalisse si trova la formulazione paradossale secondo cui i salvati «hanno lavato le loro vesti, rendendole candide nel sangue dell’Agnello» (7,14), ciò vuol dire: è l’amore di Gesù sino alla fine che ci purifica, ci lava. Il gesto della lavanda dei piedi esprime proprio questo: l’amore servizievole di Gesù è ciò che ci tira fuori dalla nostra superbia e ci rende capaci di Dio, ci rende «puri».

         «Voi siete puri»

         Nel brano della lavanda dei piedi la parola «puro» ricorre tre volte. Con ciò Giovanni riprende un concetto fondamentale della tradizione dell’Antico Testamento, come pure del mondo delle religioni in genere. Per poter comparire davanti a Dio, entrare in comunione con Dio, l’uomo deve essere «puro». Ma quanto più entra nella luce, tanto più si sente sporco e bisognoso di purificazione. Per questo le religioni hanno creato sistemi di «purificazione» con lo scopo di dare all’uomo la possibilità dell’accesso a Dio. Nelle norme cultuali di tutte le religioni i precetti di purificazione hanno un ruolo importante:  danno all’uomo un’idea della santità di Dio come anche della propria oscurità, da cui deve essere liberato per potersi avvicinare a Dio. Nel giudaismo osservante dei tempi di Gesù, il sistema delle purificazioni cultuali dominava tutta la vita. Nel capitolo 7 del Vangelo di Marco incontriamo la fondamentale presa di posizione di Gesù di fronte a questo concetto di purezza cultuale realizzata mediante adempimenti rituali; Paolo, nelle sue Lettere, ha dovuto ripetutamente affrontare tale questione circa la «purezza» davanti a Dio.

         In Marco vediamo la svolta radicale che Gesù ha dato al concetto di purezza davanti a Dio: non sono azioni rituali che purificano. Purezza ed impurità si realizzano nel cuore dell’uomo e dipendono dalla condizione del suo cuore (cfr Mc. 7,14-23).

         Ma sorge subito la domanda: come diventa puro il cuore? Chi sono gli uomini dal cuore puro, che possono vedere Dio (cfr Mt 5,8)?

L’esegesi liberale ha detto che Gesù avrebbe sostituito la concezione rituale della purità con quella morale: al posto del culto e del suo mondo subentrerebbe la morale. Allora il cristianesimo sarebbe essenzialmente una morale, una specie di «riarmo» etico. Ma con ciò non si rende giustizia alla novità del Nuovo Testamento.

         La vera novità si intravvede, quando negli Atti degli Apostoli Pietro prende posizione di fronte all’obiezione di farisei convertiti alla fede in Cristo, che chiedono di circoncidere i cristiani provenienti dal paganesimo e di «ordinare loro di osservare la legge di Mose». A questo Pietro replica: Dio stesso ha preso la decisione che «i pagani ascoltino la parola del Vangelo e vengano alla fede … Non ha fatto alcuna discriminazione tra noi e loro, purificando i loro cuori con la fede» (15,5- 11). La fede purifica il cuore. Essa deriva dal volgersi di Dio verso l’uomo. Non è semplicemente una decisione autonoma degli uomini. La fede nasce, perché le persone vengono toccate interiormente dallo Spirito di Dio, che apre il loro cuore e lo purifica.

         Giovanni ha ripreso ed approfondito questo grande tema della purificazione, accennato solo brevemente nel discorso di Pietro, nel racconto della lavanda dei piedi e, sotto la parola-chiave di «santificazione», nella Preghiera sacerdotale di Gesù. «Voi siete già puri, per la parola che vi ho annunziato», dice Gesù, nel discorso sulla vite, ai suoi discepoli (15, 3). È la sua parola che penetra in loro, trasforma il loro pensiero e la loro volontà, il loro «cuore» e lo apre in modo che diventi un cuore che vede.

         Nella riflessione sulla Preghiera sacerdotale incontreremo nuovamente, anche se in una prospettiva leggermente diversa, la stessa visione, quando lì troveremo la domanda di Gesù: «Consacrali nella verità» (17,17).

«Consacrare» nella terminologia sacerdotale vuol dire: abilitare al culto. La parola designa gli atti rituali, che il sacerdote deve compiere prima di presentarsi davanti a Dio. «Consacrali nella verità» – la verità è ora il «lavacro» che rende gli uomini capaci di Dio: è questo che Gesù ci fa qui capire. In essa l’uomo deve essere immerso, affinché sia liberato dallo sporco che lo separa da Dio. Al riguardo, non dobbiamo dimenticare che Giovanni non prende in considerazione un concetto astratto di verità; egli sa che Gesù è la verità in persona.

         Nel 13° capitolo del Vangelo di Giovanni, la lavanda dei piedi attuata da Gesù appare come la via di purificazione. Un’altra volta viene espressa la stessa cosa, ma di nuovo da un’altra angolatura. Il lavacro che ci purifica è l’amore di Gesù, l’amore che si spinge fino alla morte. La parola di Gesù non è soltanto parola, ma è Lui stesso. E la sua parola è la verità ed è l’amore.

         In fondo è assolutamente la stessa cosa che Paolo esprime in modo per noi più difficile da capire, quando dice che siamo «giustificati nel suo sangue» (Rm 5,9; cfr Rm 3,25; Ef 1,7 e altrove). Ed è ancora la stessa cosa che la Lettera agli Ebrei ha illustrato nella sua grande visione del sommo sacerdozio di Gesù. Al posto della purezza rituale non è semplicemente subentrata la morale, ma il dono dell’incontro con Dio in Gesù Cristo.

         S’impone nuovamente il confronto con le filosofie platoniche della tarda antichità, che girano – come ancora, per esempio, in Plotino – intorno al tema della purificazione. Questa purificazione si raggiunge, da una parte, mediante i riti, dall’altra e soprattutto, mediante la graduale ascesa dell’uomo verso le altezze di Dio. In tal modo l’uomo si purifica dalla componente materiale, diventa spirito e quindi puro.

         Nella fede cristiana, invece, è proprio il Dio incarnato che ci purifica veramente ed attira il creato nell’unità con Dio. La devozione dell’Ottocento ha poi di nuovo reso unilaterale il concetto di purezza, l’ha ridotto sempre di più alla questione dell’ordine nell’ambito sessuale, inquinandolo così anche nuovamente col sospetto nei confronti della sfera materiale, del corpo. Nella diffusa aspirazione dell’umanità alla purezza, il Vangelo di Giovanni – Gesù stesso – ci indica la via: Egli, che è Dio e insieme Uomo, ci rende capaci di Dio. Lo stare nel suo corpo, l’essere penetrati dalla sua presenza è la cosa essenziale.

         Forse è utile far notare a questo punto che la trasformazione del concetto di purezza nel messaggio di Gesù dimostra ancora una volta ciò che, nel 2° capitolo, abbiamo visto riguardo alla fine dei sacrifici di animali, riguardo al culto e al nuovo tempio. Come gli antichi sacrifici erano un protendersi in atteggiamento di attesa verso l’avvenire, come essi ricevevano la loro luce e la loro dignità da quell’avvenire verso il quale erano orientati, così anche le usanze rituali di purificazione, che appartenevano a questo culto, erano insieme con esso – come avrebbero detto i Padri – «sacramentum futuri»: una tappa nella storia di Dio con gli uomini o degli uomini con Dio – una tappa che voleva creare un’apertura verso l’avvenire, ma che doveva cedere il passo, essendo arrivata l’ora della novità.

         Sacramentum ed exemplum – dono e compito: il «nuovo comandamento»

         Ritorniamo al 13° capitolo del Vangelo di Giovanni. «Voi siete puri», dice Gesù ai suoi discepoli. Il dono della purezza è un atto di Dio. L’uomo da sé non può rendersi capace di Dio, a qualunque sistema di purificazione egli si attenga. «Voi siete puri» – in questa parola meravigliosamente semplice di Gesù è espressa, in modo quasi riassuntivo, la sublimità del mistero di Cristo. Il Dio che discende verso di noi ci rende puri. La purezza è un dono.

         Ma allora sorge un’obiezione. Pochi versetti più avanti, Gesù dice: «Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato, i piedi a voi, anche voi dovete lavare i piedi gli uni agli altri. Vi ho dato un esempio, infatti, perché anche voi facciate come io ho fatto a voi» (Gv 13,14s). – Non siamo forse con ciò, di fatto, arrivati ad una concezione solamente morale del cristianesimo?

         In realtà, Rudolf Schnackenburg, ad esempio, parla di due interpretazioni tra di loro contrastanti della lavanda dei piedi nello stesso 13° capitolo: la prima «teologicamente più profonda … comprende la lavanda dei piedi come un avvenimento simbolico che indica la morte di Gesù; la seconda è di carattere puramente paradigmatico e si ferma al servizio d’umiltà di Gesù costituito dalla lavanda dei piedi». Schnackenburg sostiene che la seconda interpretazione sarebbe una «creazione della redazione», tanto più che, secondo lui, «la seconda interpretazione sembra ignorare la prima….». Ma questo è un pensiero troppo limitato, troppo secondo lo schema della nostra logica occidentale. Per Giovanni, il dono di Gesù e la sua perdurante efficacia nei discepoli vanno insieme.

         _021-gesu-nazaret-volii-lavanda-piedi-2I Padri hanno riassunto la differenza dei due aspetti come anche le loro reciproche relazioni nelle categorie di sacramentum ed exemplum:

con sacramentum non intendono qui un determinato singolo sacramento, ma l’intero mistero di Cristo – della sua vita e della sua morte – nel quale Egli viene incontro a noi esseri umani, mediante il suo Spirito entra in noi e ci trasforma. Ma proprio perché questo sacramentum veramente «purifica» l’uomo, lo rinnova dal di dentro, esso diventa anche la dinamica di una nuova esistenza. La richiesta di fare ciò che ha fatto Gesù non è un’appendice morale al mistero o addirittura qualcosa di contrastante con esso. Questa richiesta deriva dalla dinamica intrinseca del dono, col quale il Signore ci rende uomini nuovi e ci accoglie in ciò che è suo.

         Questa dinamica essenziale del dono, per la quale Egli stesso ora opera in noi e il nostro operare diventa una cosa sola con il suo, appare in modo particolarmente chiaro nella parola di Gesù: «Chi crede in me, anch’egli compirà le opere che io compio e ne compirà di più grandi di queste, perché io vado al Padre» (Gv 14,12).

Qui è espresso proprio ciò che la parola: «Vi ho dato un esempio» nella lavanda dei piedi vuol dire: l’agire di Gesù diventa nostro, perché è Lui stesso che agisce in noi. A partire da questo si capisce poi anche il discorso sul «nuovo comandamento » col quale, dopo l’intermezzo sul tradimento di Giuda, Gesù riprende ancora l’invito alla vicendevole lavanda dei piedi, elevandolo a principio (13,34s).

In che cosa consiste la novità del nuovo comandamento? Poiché qui, in fin dei conti, entra in gioco la novità del Nuovo Testamento, quindi la questione circa «l’essenza del cristianesimo», è molto importante ascoltare con una particolare attenzione.

         È stato detto che la novità – al di là del comandamento già esistente dell’amore verso il prossimo – si riveli nella parola dell’«amare come vi ho amato io», nell’amare, cioè, fino alla disponibilità a sacrificare la propria vita per l’altro. Se in questo consistesse l’essenza e la totalità del «nuovo comandamento», allora il cristianesimo, di fatto, sarebbe da definire come una specie di estremo sforzo morale. Così viene anche da molti interpretato il discorso della montagna: rispetto alla via antica dei Dieci Comandamenti – quella che indicherebbe, per così dire, la via dell’uomo comune – il cristianesimo inaugurerebbe col discorso della montagna la via alta di un’esigenza radicale, nella quale si sarebbe rivelato un nuovo livello di umanesimo nell’umanità.

         Ma chi, in realtà, può dire di se stesso di essersi elevato al di sopra della «mediocrità» della via dei Dieci Comandamenti, di esserseli, per così dire, lasciati alle spalle come cosa scontata e di camminare ora sulle vie alte, nella «nuova Legge»? No, la vera novità del comandamento nuovo non può consistere nell’elevatezza della prestazione morale. L’essenziale proprio anche in queste parole non è l’appello alla prestazione somma, ma il nuovo fondamento dell’essere, che ci viene donato. La novità può derivare soltanto dal dono della comunione con Cristo, del vivere in Lui.

         Agostino, di fatto, aveva cominciato la sua esposizione del discorso della montagna – il suo primo ciclo di omelie dopo la sua ordinazione sacerdotale – con l’idea dell’ethos superiore, delle norme più elevate e più pure. Ma nel corso delle sue omelie il baricentro si sposta sempre di più. Deve ammettere ripetutamente che già l’antica esigenza significava una vera perfezione. Al posto della pretesa superiore subentra in modo sempre più chiaro la preparazione del cuore; in misura crescente il «cuore puro» (cfr Mt 5,8) diventa il centro dell’interpretazione. Oltre la metà dell’intero ciclo di omelie è sviluppata col pensiero di fondo del cuore purificato. Così in modo sorprendente si rende visibile la connessione con la lavanda dei piedi: solo se ci lasciamo ripetutamente lavare, «rendere puri» dal Signore stesso, possiamo imparare a fare insieme con Lui ciò che Egli ha fatto.

         Ciò che conta è l’inserimento del nostro io nel suo («non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me»: Gal 2, 20). Per questo la seconda parola chiave, che ricorre spesso nell’interpretazione di Agostino del discorso della montagna, è la parola «misericordia». Dobbiamo lasciarci immergere nella misericordia del Signore; allora anche il nostro «cuore» troverà la via giusta. Il «comandamento nuovo» non è semplicemente un’esigenza nuova e superiore: esso è legato alla novità di Gesù Cristo – al crescente essere immersi in Lui.

         Proseguendo su questa linea, Tommaso d’Aquino poteva dire: «La nuova Legge è la grazia dello Spirito Santo» (Summa theol. I-II q 106 a 1) – non una norma nuova, ma l’interiorità nuova donata dallo stesso Spirito di Dio. Questa esperienza spirituale della vera novità nel cristianesimo, Agostino alla fine poteva riassumerla nella famosa formula: «Da quoà iubes et tube quod vis – concedi quello che comandi e poi comanda quello che vuoi» (Conf. X29,40).

         Il dono – il sacramentum – diventa exemplum, esempio, e rimane tuttavia sempre dono. Essere cristiani è innanzitutto un dono, che però poi si sviluppa nella dinamica del vivere ed agire insieme con questo dono.

        _021-gesu-nazaret-volii-lavanda-piedi-3Il mistero del traditore

         La pericope della lavanda, dei piedi ci mette di fronte a due differenti forme di reazione dell’uomo a questo dono: Giuda e Pietro. Subito dopo aver accennato all’esempio, Gesù comincia a parlare del caso di Giuda. Giovanni ci riferisce, al riguardo, che Gesù fu profondamente turbato e dichiarò: «In verità, in verità io vi dico: uno di voi mi tradirà» (13,21). Tre volte Giovanni parla del «turbamento» ovvero della «commozione» di Gesù: presso il sepolcro di Lazzaro (cfr 11,33.38); la «Domenica delle Palme» dopo la parola sul chicco di grano morto, in una scena che richiama da vicino l’ora del Monte degli ulivi (cfr 12,24-27); e infine qui.

Sono momenti in cui Gesù incontra la maestà della morte ed è toccato dal potere delle tenebre – un potere che è suo compito combattere e vincere. Ritorneremo a questa «commozione» dell’anima di Gesù, quando rifletteremo sulla notte del Monte degli ulivi.

         Torniamo al nostro testo. L’annuncio del tradimento suscita comprensibilmente agitazione e, al contempo, curiosità tra i discepoli. «Uno dei discepoli, quello che Gesù amava, si trovava a tavola al fianco di Gesù. Simon Pietro gli fece cenno di informarsi chi fosse quello di cui parlava. Ed egli, chinandosi sul petto di Gesù, gli disse: “Signore, chi è? ” Rispose Gesù: “È colui per il quale intingerò un boccone e glielo darò”» (13,23ss).

         Per la comprensione di questo testo bisogna anzitutto tener conto del fatto che per la cena pasquale era prescritto lo stare adagiati a tavola. Charles K. Barrett spiega il versetto appena citato così: «I partecipanti ad una cena stavano sdraiati sulla loro sinistra; il braccio sinistro serviva a sostenere il corpo; quello destro era libero per essere usato. Il discepolo alla destra di Gesù aveva quindi il suo capo immediatamente davanti a Gesù, e si poteva conseguentemente dire che era adagiato presso il suo petto. Ovviamente era in grado di parlare in confidenza con Gesù, ma il suo non era il posto d’onore più alto; questo era situato a sinistra dell’ospitante. Il posto occupato dal discepolo amato era nondimeno il posto di un intimo amico»; Barrett fa notare in questo contesto che esiste una descrizione parallela in Plinio (p. 437).

         Così come è qui riportata, la risposta di Gesù è totalmente chiara. Ma l’evangelista ci fa sapere che, tuttavia, i discepoli non capirono a chi si riferiva. Possiamo quindi supporre che Giovanni, ripensando all’evento, abbia dato alla risposta una evidenza che essa per i presenti, sul momento, non aveva. Il versetto 18 ci mette sulla giusta traccia. Qui Gesù dice: «Deve compiersi la Scrittura: Colui che mangia il mio pane, ha alzato contro di me il suo calcagno» (cfr Sal 41,10; Sal 55,14).

È questo lo stile caratteristico del parlare di Gesù: con parole della Scrittura Egli allude al suo destino, inserendolo allo stesso tempo nella logica di Dio, nella logica della storia della salvezza.

         Successivamente tali parole diventano totalmente trasparenti; si rende chiaro che la Scrittura descrive veramente il suo cammino, ma sul momento rimane l’enigma. Inizialmente se ne arguisce soltanto che colui che tradirà Gesù è uno dei commensali; diventa evidente che il Signore deve subire sino alla fine e fin nei particolari il destino di sofferenza del giusto, un destino che appare in molteplici modi soprattutto nei Salmi. Gesù deve sperimentare l’incomprensione, l’infedeltà fino al- l’interno del cerchio più intimo degli amici e così «compiere la Scrittura». Egli si rivela come il vero soggetto dei Salmi, come il «Davide», dal quale essi provengono e mediante il quale acquistano senso.

         Giovanni, scegliendo al posto dell’espressione usata nella Bibbia greca per «mangiare» la parola trögein con cui Gesù nel suo grande discorso sul pane indica il «mangiare» il suo corpo e sangue, cioè il ricevere il Sacramento eucaristico (cfr Gv 6, 54-58), ha aggiunto una nuova dimensione alla parola del Salmo ripresa da Gesù come profezia sul proprio cammino. Così la parola del Salmo getta anticipatamente la sua ombra sulla Chiesa che celebra l’Eucaristia, nel tempo dell’evangelista come in tutti i tempi: con il tradimento di Giuda la sofferenza per la slealtà non è finita. «Anche l’amico in cui confidavo, che con me divideva il pane, contro di me alza il suo piede» (Sal 41,10). La rottura dell’amicizia giunge fin nella comunità sacramentale della Chiesa, dove sempre di nuovo ci sono persone che prendono «il suo pane» e lo tradiscono.

         La sofferenza di Gesù, la sua agonia, perdura sino alla fine del mondo, ha scritto Pascal in base a tali considerazioni (cfr Pensées, VII 553). Possiamo esprimerlo anche dal punto di vista opposto: Gesù in quell’ora si è caricato del tradimento di tutti i tempi, della sofferenza che viene in ogni tempo dall’essere traditi, sopportando così fino in fondo le miserie della storia. Giovanni non ci dà alcuna interpretazione psicologica dell’agire di Giuda; l’unico punto di riferimento che ci offre è l’accenno al fatto che Giuda, come tesoriere del gruppo dei discepoli, avrebbe sottratto il loro denaro (cfr 12,6). Quanto al contesto che ci interessa, l’evangelista dice soltanto laconicamente: «Allora, dopo quel boccone, satana entrò in lui» (13,27).

         Ciò che a Giuda è accaduto per Giovanni non è più psicologicamente spiegabile. E finito sotto il dominio di qualcun altro: chi rompe l’amicizia con Gesù, chi si scrolla di dosso il suo «dolce giogo», non giunge alla libertà, non diventa libero, ma diventa invece schiavo di altre potenze – o piuttosto: il fatto che egli tradisce questa amicizia deriva ormai dall’intervento di un altro potere, al quale si è aperto.

         Tuttavia, la luce che, provenendo da Gesù, era caduta nell’anima di Giuda, non si era spenta del tutto. C’è un primo passo verso la conversione: «Ho peccato», dice ai suoi committenti. Cerca di salvare Gesù e ridà il denaro (cfr Mt 27,3ss). Tutto ciò che di puro e di grande aveva ricevuto da Gesù, rimaneva iscritto nella sua anima – non poteva dimenticarlo.

         La seconda sua tragedia – dopo il tradimento – è che non riesce più a credere ad un perdono. Il suo pentimento diventa disperazione. Egli vede ormai solo se stesso e le sue tenebre, non vede più la luce di Gesù – quella luce che può illuminare e superare anche le tenebre. Ci fa così vedere il modo errato del pentimento: un pentimento che non riesce più a sperare, ma vede ormai solo il proprio buio, è distruttivo e non è un vero pentimento. Fa parte del giusto pentimento la certezza della speranza – una certezza che nasce dalla fede nella potenza maggiore della Luce fattasi carne in Gesù.

         Giovanni conclude il brano su Giuda in modo drammatico con le parole: «Egli, preso il boccone, subito uscì. Ed era notte» (13,30). Giuda esce fuori – in un senso più profondo. Entra nella notte, va via dalla luce verso il buio; il «potere delle tenebre» lo ha afferrato (cfr Gv 3,19; Le 22, 53).

         _021-gesu-nazaret-volii-lavanda-piedi-4Due colloqui con Pietro

         In Giuda incontriamo il pericolo che pervade tutti i tempi, il pericolo cioè che anche chi «è stato una volta illuminato, ha gustato il dono celeste ed è diventato partecipe dello Spirito Santo» (cfr.Eb.6,4), attraverso una serie di forme apparentemente minute di infedeltà, decada spiritualmente e così alla fine, uscendo dalla luce, entri nella notte e non sia più capace di conversione. In Pietro vediamo un’altra specie di minaccia, anzi di caduta, che però non diventa diserzione e può quindi essere risanata mediante la conversione.

         Giovanni 13 ci riferisce di due colloqui tra Gesù e Pietro, nei quali emergono due lati del pericolo. Inizialmente Pietro non vuole lasciarsi lavare i piedi da Gesù. Ciò contrasta con la sua idea della relazione tra maestro e discepolo, contrasta con la sua immagine del Messia, che egli ha individuato in Gesù. La sua resistenza contro la lavanda dei piedi ha in fondo lo stesso significato che la sua obiezione contro l’annuncio che Gesù fa della sua passione dopo la professione presso Cesarea di Filippo: «Dio te ne scampi – aveva detto allora – questo non ti accadrà mai» (Mt 16,22).

         Ora in base alla stessa visione dice: «Non mi laverai mai i piedi!» (Gv 13,8). È l’obiezione a Gesù, che pervade tutta la storia: Tu sei il vincitore! Tu possiedi il potere! Il tuo abbassamento, la tua umiltà sono inammissibili! E sempre Gesù deve aiutarci a capire nuovamente che il potere di Dio è diverso, che attraverso la sofferenza il Messia deve entrare nella gloria e guidare alla gloria.

         Nel secondo colloquio, dopo che Giuda è uscito e il nuovo comandamento è stato proclamato, tema diventa il martirio. Esso appare sotto la parola chiave «andarsene», «andare verso» (hypàgo). Secondo Giovanni, in due circostanze Gesù aveva parlato del suo «andarsene» là dove i Giudei non potevano venire (cfr 7,34ss; 8,21s). I suoi ascoltatori avevano cercato di indovinarne il significato e avevano enunciato due ipotesi. In un caso dicevano: «Andrà forse da quelli che sono dispersi fra i Greci e insegnerà ai Greci?» ( 7,35). L’altra ipotesi era: «Vuole forse uccidersi?» (8,22). In ambedue i casi hanno il presentimento della cosa giusta, e tuttavia mancano radicalmente la verità. Sì, il suo andare è un andare nella morte – non nel senso di uccidere se stesso, ma di trasformare la sua morte violenta nella libera donazione della propria vita (cfr 10,18). E così Gesù, anche se non è andato personalmente in Grecia, attraverso la croce e la risurrezione è effettivamente giunto presso i Greci e ha manifestato al mondo pagano il Padre, il Dio vivente.

         Nell’ora della lavanda dei piedi, nell’atmosfera dell’addio che caratterizza la situazione, Pietro domanda apertamente al Maestro: «Signore, dove vai?» E ancora una volta riceve una risposta cifrata: «Dove io vado, tu per ora non puoi seguirmi; mi seguirai più tardi» (13,36). Pietro capisce che Gesù parla della sua morte imminente e vuole quindi sottolineare la sua fedeltà radicale fino alla morte: «Perché non posso seguirti ora? Darò la mia vita per te!» (13,37). Di fatto, sul Monte degli ulivi, determinato a porre in atto il suo proposito, si intrometterà poi usando la spada. Ma egli deve apprendere che anche il martirio non è una prestazione eroica, bensì dono grazioso della capacità di soffrire per Gesù. Egli deve distaccarsi dall’eroismo delle proprie azioni ed imparare l’umiltà del discepolo. La sua volontà di menar le mani, il suo eroismo finisce nel rinnegamento. Per assicurarsi il posto vicino al fuoco nel cortile del palazzo del sommo sacerdote ed essere possibilmente informato circa gli ultimi sviluppi della vicenda di Gesù, egli asserisce di non conoscerlo. Il suo eroismo è crollato in una forma meschina di tattica.

Pietro deve imparare ad aspettare la sua ora; deve imparare l’attesa, la perseveranza. Deve imparare il cammino della sequela, per poi nella sua ora essere portato dove non vuole (cfr Gv 21,18) e ricevere la grazia del martirio.

         In fondo, in ambedue i colloqui si tratta della stessa cosa: non prescrivere a Dio ciò che Egli deve fare, ma imparare ad accettarLo così come si manifesta a noi; non voler elevare se stessi all’altezza di Dio, ma nell’umiltà del servizio essere pian piano plasmati secondo la vera immagine di Dio.

         _021-gesu-nazaret-volii-lavanda-piedi-6Lavanda dei piedi e confessione dei peccati

         Alla fine dobbiamo ancora far attenzione ad un ultimo dettaglio del racconto della lavanda dei piedi. Dopo che il Signore ha spiegato a Pietro la necessità della lavanda dei piedi, questi replica che, se così stanno le cose, Egli dovrebbe lavargli non solo i piedi, ma anche le mani e il capo. La risposta di Gesù, una volta ancora, è enigmatica: «Chi ha fatto il bagno, non ha bisogno di lavarsi se non i piedi ed è tutto puro» (13,10). Che cosa significa questo?

         La parola di Gesù suppone ovviamente che i discepoli, prima di andare a cena, avevano fatto un bagno completo e ora a tavola occorreva loro soltanto una lavanda dei piedi. È chiaro che Giovanni vede in queste parole un senso simbolico più profondo, che non è facile individuare. Teniamo innanzitutto presente che la lavanda dei piedi – come abbiamo visto – non è un sacramento particolare, ma significa la totalità del servizio salvifico di Gesù: il sacramentum del suo amore, nel quale Egli ci immerge nella fede e che è il vero lavacro di purificazione per l’uomo.

         Ma in questo contesto la lavanda dei piedi acquista, tuttavia, al di là del suo simbolismo essenziale ancora un significato più concreto, che rimanda alla prassi della vita della Chiesa primitiva. Di che cosa si tratta? Il «bagno completo» presupposto non può riferirsi che al battesimo, col quale l’uomo una volta per tutte è immerso in Cristo e riceve la sua nuova identità dell’essere in Cristo.

Questo processo fondamentale, per mezzo del quale non noi ci facciamo cristiani, ma diventiamo cristiani grazie all’azione del Signore nella sua Chiesa, è irripetibile. Ma nella vita dei cristiani – per la comunione conviviale col Signore – tale processo, tuttavia, ha sempre di nuovo bisogno di un’integrazione: la «lavanda dei piedi». Di che cosa si tratta?

Non esiste una risposta assolutamente sicura. Ma mi sembra che la Prima Lettera di Giovanni ci metta sulla traccia giusta e ci indichi qual è il significato. Lì si legge: «Se diciamo di essere senza peccato, inganniamo noi stessi e la verità non è in noi. Se riconosciamo i nostri peccati, egli è fedele e giusto tanto da perdonarci i peccati e purificarci da ogni iniquità. Se diciamo di non avere peccato, facciamo di lui un bugiardo e la sua parola non è in noi» (l,8ss). Poiché anche i battezzati rimangono peccatori, hanno bisogno della confessione dei peccati che «ci purifica da ogni iniquità».

         La parola «purificare» crea la connessione interiore con la pericope della lavanda dei piedi. Lo stesso esercizio della confessione dei peccati, proveniente dal giudaismo, è testimoniato pure nella Lettera di san Giacomo (5,16) e nella stessa Didache. In questa leggiamo: «Nella comunità devi confessare i tuoi peccati» (4,14), ed ancora: «Nel Giorno del Signore dovete riunirvi, spezzare il pane e ringraziare, dopo aver prima confessato i vostri peccati» (14,1). Franz Mußner, aderendo a Rudolf Knopf, commenta: «In ambedue i testi si pensa ad una pubblica confessione del singolo». Sicuramente in questa confessione dei peccati, che comunque nell’ambito d’influsso del giudeo-cristianesimo faceva parte della vita delle comunità delle origini cristiane, non si può individuare il sacramento della Penitenza nel senso di come esso si è sviluppato nel corso della storia della Chiesa, ma di certo « una tappa verso di esso».

         In fin dei conti, il nucleo è questo: la colpa non deve continuare a suppurare nascostamente nell’anima, avvelenandola così dall’interno. Essa ha bisogno della confessione. Mediante la confessione la portiamo alla luce, la esponiamo all’amore purificatore di Cristo (cfr Gv 3, 20s). Nella confessione il Signore lava sempre di nuovo i nostri piedi sporchi e ci prepara alla comunione conviviale con Lui.

         Con uno sguardo retrospettivo sull’insieme del capitolo della lavanda dei piedi possiamo dire che in questo gesto di umiltà, in cui si rende visibile la totalità del servizio di Gesù nella vita e nella morte, il Signore sta di fronte a noi come il servo di Dio – come Colui che per noi si è fatto servo, che porta il nostro peso donandoci così la vera purezza, la capacità di avvicinare Dio. Nel secondo carme del Servo di YHWH nel profeta Isaia si trova una frase che in certo modo anticipa la linea di fondo della teologia giovannea della passione: Il Signore «mi ha detto: Mio servo tu sei, sul quale manifesterò la mia gloria [nei LXX: doxasthésomai]» (cfr 49,3).

         Questa connessione tra il servizio umile e la gloria (dóxa) è il nucleo di tutto il racconto della passione in san Giovanni: proprio nell’abbassamento di Gesù, nella sua umiliazione fino alla croce traspare la gloria di Dio, viene glorificato Dio Padre e, in Lui, Gesù. Una piccola vicenda nella «Domenica delle Palme» – si potrebbe qualificarla come la versione giovannea del racconto del Monte degli ulivi – riassume tutto ciò: «”Adesso l’anima mia è turbata; che cosa dirò? Padre, salvami da quest’ora? Ma proprio per questo sono giunto a quest’ora! Padre, glorifica il tuo nome! ” Venne allora una voce dal cielo: ” L’ho glorificato e lo glorificherò ancora! “» (12, 27s). L’ora della croce è l’ora della vera gloria di Dio Padre e di Gesù.

– continua

– altri capitoli dallo stesso Libro: L’ingresso in Gerusalemme

Il discorso escatologico di Gesù

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(*) J.Ratzinger-Benedetto XVI: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione – secondo Libro sul Gesù di Nazaret. Edizione italiana a cura di Pierluca Azzaro Traduzione italiana a cura di Ingrid Stampa © Copyright 2011 – Libreria Editrice Vaticana – 00120 Città del Vaticano Tel. (06) 698.85003 – Fax (06) 698.84716 – ISBN 978-88-209-8486-1 – link al sito Libreria Vaticana

 


 

La celebrazione liturgica della Pasqua nella chiesa antica

Il 16 novembre 1955, con un Decretum generale e l’annessa Instructio, Pio XII istituì il nuovo Ordo della Settimana Santa, valevole per il Rito romano, stabilendo che esso sarebbe entrato in vigore nella Pasqua del 1956[1]. Sono dunque passati 65 anni da quella disposizione, certamente coraggiosa, con la quale è iniziata di fatto quella riforma della liturgia romana che poi sarebbe stata portata avanti dal Concilio Vaticano II con la Costituzione sulla Sacra Liturgia Sacrosanctum Concilium del 4 dicembre 1963.

Secondo p. Ferdinando Antonelli[2], l’importanza della nuova riforma liturgica andava ricercata soprattutto in «motivi di natura pastorale, per riportare cioè la massa dei fedeli alla celebrazione dei santissimi misteri della passione e morte del Salvatore». Egli scriveva: «Dalla fine del sec. XVI in poi, da quando cioè S. Pio V, attuando le prescrizioni del Concilio di Trento in materia liturgica, pubblicava nel 1568 il Breviario romano riformato e nel 1570 il Messale romano, non vi è forse, nella storia liturgica, un fatto che possa uguagliare, per importanza, l’odierno Decreto della S. Congregazione dei Riti»[3].

La Settimana Santa così ristabilita da Pio XII è, a parte la lingua latina, sostanzialmente identica a quella che conoscono gli attuali fedeli di Rito romano. Va infatti ricordato che prima del 1956 la liturgia del Triduo pasquale, compresa quella del Sabato Santo, era celebrata solo di mattina. La riforma invece volle che i riti fossero celebrati negli stessi giorni e possibilmente nelle stesse ore in cui erano avvenuti i misteri da essi ricordati. In particolare, al termine del Sabato Santo, giorno di «sommo lutto», dedicato ancora alla meditazione della passione e morte del Redentore, fu reintrodotta la Veglia pasquale, in modo da far coincidere l’inizio della Messa con la mezzanotte tra il sabato e la domenica. Ora, per comprendere meglio il senso di quella riforma, intendiamo riproporre alcune note attinte dai primi secoli, non in modo sistematico, ma sufficiente a dare un’idea di come veniva vissuta la Pasqua dai Padri della Chiesa.

La Veglia pasquale

Partiamo dalla Veglia pasquale, che è il culmine di tutta la Settimana Santa. La Pasqua ebraica era una festa annuale, che cadeva sempre il 14 del mese primaverile di Nisan ed era localizzata necessariamente a Gerusalemme, ma la Pasqua cristiana non fu vincolata a quell’unica data e a quell’unico luogo. In realtà, il più attestato ciclo liturgico cristiano è quello settimanale, come si evince già dal Nuovo Testamento[4]. Esso era collegato con la santa Cena, memoriale della passione e risurrezione del Signore, celebrata in un clima di fervida attesa del suo ritorno nella gloria (cfr 1 Cor 11,26).

Questo primo giorno della settimana venne ben presto indicato come «giorno del Signore», o «domenica», quando tutta la comunità si riuniva per «spezzare il pane […] con letizia e semplicità di cuore» (At 2,46). Si legge in Didaché 14,1: «Ogni domenica, giorno del Signore, riunendovi spezzate il pane e fate l’eucaristia, dopo aver confessato i vostri peccati, affinché il vostro sacrificio sia puro»[5]. Tuttavia, questa «Pasqua settimanale» non soppiantò la celebrazione della Pasqua annuale. In effetti, i primi cristiani, tutti di origine o di cultura ebraica, non fecero un vuoto dietro di sé, come se si fossero distaccati dalle loro radici, ma continuarono a celebrare la Pasqua ebraica, dandole un significato nuovo, come mostra un testo di Paolo, scritto verso l’anno 53: «Cristo, nostra Pasqua, è stato immolato! Celebriamo dunque la festa non con il lievito vecchio, né con lievito di malizia e di perversità, ma con azzimi di sincerità e di verità» (1 Cor 5,7-8).

Ma, a parte questa affermazione di Paolo, i documenti che attestino indubitabilmente una Pasqua cristiana non sono molti[6]. La più antica testimonianza si trova nella Epistula Apostolorum, della metà del II secolo. Essa presenta i discepoli che celebrano la Pasqua durante una «notte di veglia», per commemorare la morte del Signore, che viene considerato risorto e vivente. Vi è detto che al canto del gallo la veglia si dovrà concludere con l’agapē, cioè con l’Eucaristia, che dovrà essere celebrata fino alla parusia[7]. La celebrazione della Pasqua dunque era tutta concentrata nella Veglia pasquale, come testimonia indirettamente anche Tertulliano[8].

Alla Veglia si arrivava preparati con un digiuno, in ottemperanza alla parola di Gesù: «Verranno giorni quando lo sposo sarà loro tolto: allora, in quel giorno, digiuneranno» (Mc 2,20 e par.). La durata e la forma di tale digiuno potevano variare da regione a regione. In varie Chiese invalse l’uso di un digiuno preparatorio di 40 giorni (Quaresima), a imitazione di quello praticato dal Signore, escludendo però dal digiuno il sabato e la domenica[9]. In altre Chiese, il digiuno pasquale cominciava sei giorni prima della domenica di Pasqua, dando inizio alla «Settimana grande della Passione»[10]. Certamente il digiuno diventava obbligatorio a partire dalla Parasceve (= Venerdì Santo) e per tutto il sabato, fino alla Veglia pasquale inclusa[11].

Essendo una cerimonia notturna, la Veglia pasquale era illuminata non solo dalla luna piena, ma anche dalle lampade e dai ceri accesi, portati dai fedeli o posti nella chiesa[12]. Cromazio di Aquileia († 407), nella prima delle due omelie tenute nella notte pasquale, allude a questa pratica: «Questa veglia è superiore a tutte le altre veglie, perché è chiamata veglia del Signore (cfr Es 12,42), […] nella quale egli ha illuminato non solo questo mondo, ma anche coloro che erano negli inferi»[13]. E più avanti scrive: «Giustamente dunque questa notte è chiamata veglia del Signore, poiché è celebrata in tutto il mondo in onore del suo nome. Tante sono le preghiere dei singoli, quanti sono i desideri; tanti i loro ceri accesi, quanti i voti dei meriti. Le tenebre della notte sono vinte dalla luce della devozione»[14]. Zenone di Verona (380 circa) parla di «dolce veglia di una notte luminosissima per il suo proprio sole»[15]. Agostino ha pronunciato molte omelie per la Veglia, che chiama «la madre di tutte le veglie»[16]. Queste omelie menzionano spesso le lampade accese, citando anche quel celebre versetto del salmo: «E la notte sarà luminosa come il giorno» (Sal 138,12)[17]. È probabile che l’accensione delle lampade fosse accompagnata da un rito, che poi si svilupperà in un vero e proprio lucernario, con la benedizione del nuovo fuoco[18]. Verso la fine del IV secolo, in Occidente invalse l’uso di accendere un grande cero pasquale, oggetto di una laus, o preconio pasquale, in collegamento con il fonte battesimale[19]. Ne abbiamo un esempio nell’Exultet, attribuito a sant’Ambrogio, o per lo meno ispirato da lui[20]. Il preconio era cantato da un diacono, e Agostino attesta che una volta toccò a lui cantarlo[21].

La celebrazione poteva essere introdotta da un praeconium o prae­fatio pascalis, come lo troviamo nell’Ambrosiaster[22] e in Zenone di Verona[23]. La Veglia pasquale certamente comprendeva letture dell’Antico Testamento, in particolare Gen 1 (creazione)[24]Es 12 (agnello pasquale)[25]Es 14-15 (uscita dall’Egitto), ma anche Gen 22 (sacrificio di Isacco) e forse anche Dt 32 (cantico di Mosè) ed Ez 37 (ossa aride)[26]. Tra le letture del Nuovo Testamento, figuravano certamente 1 Cor 5,7-8 e, naturalmente, uno dei Vangeli delle apparizioni del Risorto. L’omelia poteva precedere o seguire le letture, oppure entrambe le cose.

La maggior parte delle omelie pasquali dal II al V secolo, dato il loro legame con la liturgia, rispecchiano sempre la primitiva concezione della Pasqua cristiana, nella quale veniva celebrato tutto il mistero di Cristo: dall’incarnazione alla passione e morte, inclusa la discesa agli inferi, per sfociare nella risurrezione e ascensione al cielo, con il tempo di Pentecoste (sette settimane). Il termine stesso di pascha è però riservato alla Vigilia e al giorno di Pasqua, come in questo passo di Agostino: «Poiché il Signore nostro Gesù Cristo, il giorno che aveva reso luttuoso con la sua morte, lo ha reso glorioso con la sua risurrezione, rievocando entrambi i momenti in questa solenne memoria, vegliamo ricordando la sua morte e gioia­mo ricevendo la sua risurrezione. Questa è la nostra festa annuale e la nostra Pasqua, non figurata come per l’antico popolo nell’uccisione di una pecora, ma realizzata come per il popolo nuovo nella vittima che è il Salvatore. Sì, Cristo, nostra Pasqua, è stato immolato (1 Cor 5,7), e le cose vecchie sono passate, ed ecco sono diventate nuove (2 Cor 5,17)»[27].

Dopo l’omelia, venivano amministrati i battesimi, come attesta Tertulliano: «La Pasqua offre il giorno più solenne per il battesimo, perché in quel giorno si è compiuta la passione del Signore, nella quale siamo battezzati»[28]. I battesimi, amministrati prevalentemente a persone adulte, poiché prevedevano un’immersione in una vasca, non avvenivano in chiesa, ma in un edificio adiacente, il battistero, situato vicino all’ingresso[29]. Abbiamo la più antica descrizione dei riti battesimali nella Tradizione apostolica di Ippolito[30]. Si dispone che i candidati facciano un bagno il giovedì, digiunino il venerdì e si riuniscano attorno al vescovo il sabato, pregando in ginocchio. Essi trascorreranno «tutta la notte» tra letture e istruzioni. Al canto del gallo, quindi dopo la mezzanotte, hanno luogo i battesimi, dopo i quali i neofiti passano dal battistero alla chiesa, dove per la prima volta si uniscono agli altri fedeli per l’Eucaristia. Alla comunione, oltre al pane e al vino consacrati, essi ricevono anche latte e miele, simboli della Terra promessa. Secondo Odo Casel, i riti lì riportati sono certamente presi dalla liturgia pasquale: «Pasqua e battesimo sono legati insieme […]. È talmente scontato che il battesimo sia conferito a Pasqua che essa non è neppure nominata»[31]. A Milano, ad Aquileia e in Africa (ma non a Roma) il battesimo era seguito dal rito della lavanda dei piedi, sempre nel battistero, con la lettura di Gv 13,1-20[32]. Dopo di che i neobattezzati, rivestiti di una veste bianca, entravano processionalmente in chiesa, tra la gioia degli altri fedeli, che vedevano così accrescere la loro comunità[33].

Il culmine della notte pasquale si situa nell’Eucaristia, che viene celebrata allo spuntare del giorno. Lo si deduce dall’esordio dell’omelia pasquale attribuita a Ippolito: «Ecco, già brillano i sacri raggi della luce di Cristo, albeggiano i puri lumi dello Spirito puro, si spalancano i tesori celesti della gloria e della divinità. La notte immensa e nera è stata inghiottita, la tenebra impenetrabile è dissolta in se stessa e la triste ombra di morte è stata oscurata. La vita si è diffusa su tutte le cose e tutto è ripieno della luce infinita, un’aurora perenne occupa l’universo e colui che è prima della stella mattutina e degli astri, immortale e immenso, grande risplende Cristo su tutte le cose più del sole»[34].

Con la Pasqua inizia il tempo della santa allegrezza dei 50 giorni della Pentecoste. Essa era considerata «la grande domenica»: «Il giorno di Pentecoste, da intendersi nel senso di una grande domenica che si estende per sette settimane, è prefigurato nell’Antico Testamento dalla festa delle settimane. Essa è simbolo del mondo futuro in cui i cristiani, migrati da questo mondo, parteciperanno con Cristo alla festa immortale»[35]. Questo tempo era caratterizzato da preghiere e canti gioiosi, come l’acclamazione dell’ Alleluia. Per tutto questo tempo, la preghiera liturgica era fatta in piedi ed era escluso l’inginocchiarsi: «Il non piegare le ginocchia nella domenica [di Pasqua] è simbolo della risurrezione, attraverso la quale, per grazia di Cristo, siamo stati liberati dai peccati e dalla morte, che in lui è stata uccisa. Tale consuetudine ha avuto inizio fin dai tempi apostolici, come dice il beato Ireneo, martire e vescovo di Lione, nel trattato Sulla Pasqua, in cui ricorda anche la Pentecoste, nella quale non pieghiamo le ginocchia perché ha la stessa importanza del giorno della Domenica [di Pasqua], per il motivo che abbiamo detto a proposito di essa»[36]. Questo uso liturgico è attestato anche da Tertulliano: «Noi consideriamo che non ci è permesso digiunare o pregare in ginocchio di domenica. La stessa astensione la pratichiamo con gioia dal giorno di Pasqua fino alla Pentecoste»[37].

Il tempo pasquale, che si prolunga per 50 giorni (sette volte sette giorni), è la Pentecoste, che non è solo l’ultimo giorno, ma l’insieme dei 50 giorni[38]. Infine, tutta la Veglia aveva una forte accentuazione escatologica, come attesta Girolamo: «Vi è una tradizione dei giudei secondo la quale il Messia verrà nel mezzo della notte, a somiglianza del tempo dell’Egitto, quando fu celebrata la Pasqua e venne lo sterminatore e il Signore passò sopra le case, e gli stipiti delle nostre fronti furono consacrati con il sangue dell’agnello. Da qui ritengo che sia rimasta la tradizione apostolica che nella veglia di Pasqua non si congedi il popolo prima della mezzanotte, in attesa della venuta di Cristo, e solo dopo essersi assicurati che sia trascorsa, fare festa tutti insieme»[39]. Solo nella seconda metà del IV secolo la celebrazione pasquale iniziò a comportare, oltre all’Eucaristia vigiliare, anche una Messa nel giorno di domenica, che divenne più specificamente il giorno della risurrezione.

Il Triduo pasquale

Il desiderio di ricalcare più da vicino gli eventi della passione ha indubbiamente favorito l’espandersi della celebrazione liturgica in più giorni, cioè nel Triduo santo del Venerdì Santo (Croce), Sabato Santo (riposo di Gesù nel sepolcro) e Veglia nella notte fino alla domenica di Pasqua. Già alla metà del III secolo, con Cipriano di Cartagine, si nota uno spostamento di linguaggio, in quanto si comincia a far coincidere la Pasqua con il giorno della risurrezione[40]. Una traccia del Triduo pasquale si può trovare già in Origene: «Il primo giorno è per noi quello della passione del Salvatore, il secondo quello in cui discese agli inferi, il terzo poi è il giorno della risurrezione»[41].

L’impulso più grande alla ripresentazione storico-cronologica della settimana della Passione è tuttavia venuto dalla liturgia di Gerusalemme, dopo che l’imperatore Costantino aveva rimesso in luce i luoghi della crocifissione e della sepoltura di Gesù, erigendo su di essi la splendida basilica del Santo Sepolcro. Questo edificio unico comprendeva il Martyrium (luogo della Croce), l’ Anastasis (Santo Sepolcro), un atrio e un battistero. Notizie dettagliate sui luoghi e sulla liturgia della Settimana Santa ci vengono da un diario di viaggio – compiuto tra il 381 e il 384 – da una donna, Egeria (o Eteria), venuta dall’Occidente[42]. Le feste pasquali sono descritte in dettaglio (cc. 27-44), e in particolare viene riportata la liturgia della «Grande Settimana» (cc. 30-40).

È a Gerusalemme che ha origine la processione delle Palme la domenica antecedente la Pasqua: il popolo, con il vescovo, si riuniva sul Monte degli Olivi e poi, letto il Vangelo che descrive l’ingresso di Gesù in Gerusalemme, tutti scendevano processionalmente nella città, cantando inni e salmi[43]. Fino al Sabato Santo, tutte le celebrazioni erano assorbite dall’idea della passione. Il Giovedì Santo – chiamato in Coena Domini – era ordinato principalmente a commemorare l’istituzione dell’Eucaristia, ma comprendeva anche la riconciliazione dei penitenti e la consacrazione degli oli santi[44]. Verso il VI secolo si introdusse, dopo la Messa, la «lavanda dei piedi», che il vescovo faceva, sull’esempio di Cristo, a dodici poveri[45]. Il Venerdì Santo comportava un servizio di letture, canti e preghiere, secondo il tipo delle riunioni stazionali aliturgiche. A Gerusalemme si pose al centro la venerazione e il bacio della reliquia della Santa Croce[46], e questo rito fu ben presto imitato da molte Chiese d’Oriente e di Occidente, favorendo anche la diffusione di reliquie della Croce. Il Venerdì Santo si chiudeva con la «Messa dei presantificati», cioè con la comunione alle sacre specie consacrate il giorno prima[47]. Il Sabato Santo è sempre stato, anche in Oriente, un giorno assolutamente aliturgico, nel quale quindi non si celebra l’Eucaristia. Solo dopo il tramonto si iniziava la grande Veglia pasquale, di cui abbiamo parlato sopra. La tensione liturgica si scioglieva la domenica di Pasqua, che diventava così il giorno della risurrezione.

La frammentazione del mistero pasquale è evidente soprattutto nell’omiletica più tardiva, a partire dalla fine del IV secolo, dove troviamo tre distinti gruppi di omelie: quelle per il Venerdì Santo[48], quelle per il Sabato Santo[49] e quelle per la domenica di risurrezione[50]. Verso la fine del IV secolo, la festa dell’Ascensione e quella della Pentecoste acquisirono una loro autonomia[51]. Le omelie così dense dei primi secoli e quelle della Veglia pasquale sembravano scomparse. Tuttavia la liturgia ha conservato memoria di una celebrazione unitaria della redenzione che si è realizzata attraverso il mistero di Cristo: «Malgrado tutte le trasformazioni, la natura profonda della festa di Pasqua rimase salva. La santa notte dei misteri rimase il centro e il vertice di tutto»[52].

Ciò è testimoniato dal prefazio di Pasqua che viene proclamato ancora oggi: «È veramente cosa buona e giusta, nostro dovere e fonte di salvezza, proclamare sempre la tua gloria, o Signore, e soprattutto esaltarti in questa notte nella quale Cristo, nostra Pasqua, si è immolato. È lui il vero Agnello che ha tolto i peccati del mondo, è lui che morendo ha distrutto la morte e risorgendo ha ridato a noi la vita»[53]. O, per usare i termini di un prefazio ambrosiano: «Questa è la vera Pasqua esaltata dal sangue del Signore, nella quale, o Padre, la tua Chiesa celebra la festa che dà origine a tutte le feste. Il Figlio tuo, come schiavo, si consegna prigioniero agli uomini per restituirli a libertà piena e perenne e con una morte veramente beata vince per sempre la loro morte. Ormai il principe delle tenebre si riconosce sconfitto, e noi, tratti dall’abisso del peccato, ci rallegriamo di entrare col Salvatore risorto nel regno dei cieli»[54].

Conclusione

Considerare la Pasqua a partire dalla Grande Veglia permette di cogliere quello che è il senso della festa nella sua intima essenza: un rito di passaggio, e precisamente «il superamento di una frontiera tra la morte e la vita o, meglio ancora, tra la vita presente e quella dell’eone a venire»[55]. Indipendentemente dall’etimologia seguita dai vari autori antichi (Pasqua = passione del Signore, o Pasqua = passaggio del popolo, o Pasqua = passare oltre dell’angelo sterminatore), il centro rimane sempre il sacrificio dell’agnello-Cristo.

Non è un centro statico, immobile, bensì è l’elemento che fa da perno a un processo di trasformazione e di passaggio, quello dal digiuno alla festa, dalla schiavitù alla libertà, dalla morte alla vita[56]. Non un giorno solo, ma l’intero processo prende il nome di Pasqua. Come l’agnello immolato fu il punto di svolta che rese possibile il passaggio dall’Egitto alla Terra promessa, e come in ogni celebrazione della Pasqua il popolo ebraico prendeva coscienza di essere sempre chiamato dalla schiavitù alla libertà, così ora è Cristo che, non solo a Pasqua ma in ogni Eucaristia, opera in noi il passaggio dalla morte alla vita nuova nello Spirito.

***

[1].      Cfr Sacra Congregazione dei Riti, «Decretum “Maxima Redemptionis nostrae mysteria”», in Acta Apostolicae Sedis 47 (1955) 838-847.

[2].      Ferdinando Antonelli (1896-1993) è stato arcivescovo e cardinale. Durante il Concilio Vaticano II fu perito e segretario della Commissione Conciliare della Sacra Liturgia.

[3].      F. Antonelli, «Importanza e carattere pastorale della riforma liturgica della settimana santa», in Oss. Rom., 27 novembre 1955, 2.

[4].      Cfr le apparizioni di Gesù risorto collocate proprio «il primo giorno della settimana» (Mc 16,2 e par.), e riprese «otto giorni dopo» (Gv 20,26). Il primo giorno della settimana è indicato come giorno liturgico in 1 Cor 16,2 e At 20,7.

[5].      Segue un riferimento a Ml 1,11-14, dove è preannunciato un «sacrificio puro», che sarà offerto «tra i gentili», «in ogni luogo e tempo»: ciò fa pensare a una contrapposizione alla Pasqua ebraica, che poteva essere celebrata solo a Gerusalemme (luogo) e il 14 del primo mese (tempo).

[6]  .    Cfr A. Di Berardino, Istituzioni della Chiesa antica, Venezia, Marcianum, 2019, 509-518.

[7]  .    Cfr Epistula Apostolorum, 15. Si veda R. Cantalamessa, La Pasqua nella Chiesa antica, Torino, SEI, 1978, 30.

[8]  .    Cfr Tertulliano, Ad uxorem, II, 4,2: «Quale [marito pagano] sopporterà tranquillamente che la moglie passi fuori tutta la notte nella solennità della Pasqua?».

[9]  .    Cfr M. Righetti, Manuale di storia liturgica. II. L’ anno liturgico. Il breviario, Milano, Àncora, 19693, 131-146. Ufficialmente la Quaresima fu introdotta in Egitto da Atanasio nel 334. Cfr Atanasio di Alessandria, s., Lettere festali, Milano, Paoline, 2003, 178-181.

[10].    Atanasio di Alessandria, s., Lettera festale, 19,10, in Id., Lettere festali, cit., 428.

[11].    Cfr Tertulliano, De oratione, 18,7: «Per il giorno di Pasqua ci impegniamo in un digiuno comune e per l’appunto pubblico». In effetti, il digiuno terminava solo con l’Eucaristia all’alba della domenica.

[12].    L’imperatore Costantino aveva trasformato il rito della luce in un atto di propaganda imperiale, come dice compiaciuto il suo biografo Eusebio di Cesarea, s., Vita di Costantino, IV, 22,2: «Egli rese la santa veglia notturna così luminosa come il giorno, facendo accendere per tutta la città [di Costantinopoli] immense colonne di cera per mezzo di agenti a ciò designati; lampade di fuoco illuminavano ogni luogo, così da rendere la veglia mistica più luminosa dello splendore del giorno. All’alba, egli imitava la generosità del Salvatore, stendendo la sua destra benefattrice su ogni gente, popolo e nazione, colmando tutti con ogni sorta di doni».

[13].    Cromazio di Aquileia, s., Sermo 16,1. La discesa di Cristo negli inferi, cioè nel soggiorno dei morti, per liberare le anime dei giusti, faceva parte del mistero di salvezza.

[14].    Id., Sermo 16,3.

[15].    Zenone, Tractatus, I, 24.

[16].    Agostino, s., Sermo 219,1.

[17].    Ivi.

[18].    Cfr M. Righetti, Manuale di storia liturgica…, cit., 253-255.

[19].    Cfr A. Chupungco, «Cero pasquale», in Nuovo Dizionario Patristico e di Antichità Cristiane, Genova – Milano, Marietti, 2007, 991 s; F. Mazzitelli, Urget unda flammam. Il significato battesimale del cero pasquale, Roma, Einaudi, Edizioni Liturgiche Vincenziane, 2020, 135-172.

[20].    Cfr A. Chupungco, «Exultet», in Nuovo Dizionario Patristico e di Antichità Cristiane, cit., 1895 s.

[21].    Cfr Agostino, s., La città di Dio, XV, 22: «Come io stesso dissi brevemente cantando in versi la lode del cero pasquale». Secondo alcuni, la colonna di porfido fatta erigere da Costantino al centro del Battistero Lateranense potrebbe essere un prototipo del cero pasquale: cfr F. Mazzitelli, Urget unda flammam…, cit., 41-63.

[22].    Cfr Ambrosiaster, Quaestiones Veteris et Novi Testamenti, 121: Laus et gloria Paschae (CSEO 50, 363 s). Ma qui non vi è nessuna menzione del cero.

[23].    Cfr Zenone, Tractatus, I, 6. 16. 26. 44.

[24].    Cfr Agostino, s., Sermo 223/A.

[25].    Infatti le più antiche omelie pasquali – quelle di Melitone e di Ippolito – comportano tutte un commento a Es 12. Anche il Perì Pascha di Origene è un commento a Es 12 (cfr Origene, La Pasqua, Roma, Città Nuova, 2011).

[26].    Cfr Cromazio, s., Sermons, I, Paris, Cerf, 1976, 93, nota 3.

[27].    Agostino, s., Sermo 221 de nocte sancta, 1.

[28].    Tertulliano, De baptismo, 19,1.

[29].    Cfr R. Iorio (ed.), Battesimo e battisteri, Firenze, Nardini, 1993. Stranamente, in questo volume non è menzionato il battistero di San Giovanni in Fonte a Napoli, forse il più antico in Italia. Cfr J.-P. Hernández, Nel grembo della Trinità. L’ immagine come teologia nel battistero più antico di Occidente (Napoli IV secolo), Cinisello Balsamo (Mi), San Paolo, 2004.

[30].    Cfr Ippolito, s., La Tradizione apostolica, nn. 20-21. Per una presentazione complessiva dell’iniziazione cristiana e dei suoi riti, cfr A. Di Berardino, Istituzioni della Chiesa antica, cit., 87-136.

[31].    O. Casel, La fête de Pâques dans l’Église des Pères, Paris, Cerf, 1963, 52.

[32].    Da rito battesimale, di difficile interpretazione, la lavanda dei piedi è passata poi al Giovedì Santo, come gesto di umiltà. Cfr P. F. Beatrice, «Lavanda dei piedi», in Nuovo Dizionario Patristico e di Antichità Cristiane, cit., 2755-2758.

[33].    Questo legame del battesimo con la Pasqua è sottolineato nell’attuale liturgia romana con la benedizione dell’acqua lustrale e la rinnovazione delle promesse battesimali, anche là dove non ci sono battesimi di adulti o di bambini.

[34].    G. Visonà, Pseudo Ippolito. In sanctum Pascha, Milano, Vita e Pensiero, 1988, 231.

[35].    A. Camplani (ed.), «Introduzione» a Atanasio di Alessandria, s., Lettere festali, cit., 167.

[36].    Pseudo-Giustino, Questioni agli ortodossi, 115 (PG 7, 1233).

[37].    Tertulliano, La corona, 3,4 (CCL 2, 1043).

[38].    Cfr O. Casel, La fête de Pâques..., cit., 43-45.

[39].    Girolamo, s., In Matthaeum IV (25,6) (CCL 77, 237). Cfr R. Le Déaut, La nuit pascaleEssai sur la signification de la Pâque juive à partir du Targum d’Exode XII 42, Roma, Gregorian & Biblical Press, 1963, 290 s.

[40].    Cfr Cipriano, s., Epistula 21,2; O. Casel, La fête de Pâques…, cit., 64 s.

[41].    Origene, Omelie sull’Esodo, 5,2.

[42].    Cfr P. Maraval, Égérie. Journal de voyage (Itinéraire), Paris, Cerf, 15-39.

[43].    «Come e quando quest’uso liturgico gerosolimitano sia passato in Occidente è sconosciuto. […] Bisogna scendere al sec. X per trovare nell’Ordo romanus vulgatus il più antico rituale della processione delle Palme» (M. Righetti, Manuale di storia liturgica…, cit., 186).

[44].    Cfr ivi, 209-213.

[45].    Il papa invece faceva la lavanda dei piedi a 13 poveri, e ciò viene fatto risalire a san Gregorio Magno. Si racconta infatti che questo papa fosse solito ogni giorno servire a tavola 12 poveri, ai quali un giorno si aggiunse un angelo in veste di mendicante. Da qui il numero 13, attestato pure da un’antica iscrizione nella chiesa di San Gregorio al Celio (cfr ivi, 217 s).

[46].    Il ritrovamento della Santa Croce è avvolto nella leggenda, legata alla conversione di Costantino. Sant’Ambrogio ne parla nella sua orazione funebre per Teo­dosio. Cfr E. Cattaneo, «“Victoria Crucis”: l’“excursus” di Ambrogio sul ritrovamento della santa Croce», in Augustinianum 49 (2009) 421-437.

[47].    Cfr M. Righetti, Manuale di storia liturgica…, cit., II, 230-232.

[48].    Cfr Agostino, s., Tractatus de Passione Domini («Sources Chrétiennes» 116, 200-229). Si tratta di un’omelia tenuta il Venerdì Santo e tutta centrata sulla Croce salvifica, di cui il cristiano si deve gloriare.

[49].    Cfr «Omelia sul Sabato Santo» (PG 43,439-463). Si veda Liturgia delle Ore secondo il rito romano, vol. II, 446-448.

[50].    Cfr Agostino, s., Sermo 121. Tractatus de sanctissimae Paschae die prima.

[51].    Cfr M. Righetti, Manuale di storia liturgica…, cit., 301-318.

[52].    O. Casel, La fête de Pâques…, cit., 102. Un esempio del permanere di questa concezione legata alla liturgia è dato dai sermoni di papa Leone Magno (cfr ivi, 134).

[53].    Conferenza Episcopale Italiana, Messale Romano, Città del Vaticano, Libr. Ed. Vaticana, 20203, 348.

[54].    Messale Ambrosiano, Milano, Centro Ambrosiano, 19902, 256 s.

[55].    O. Casel, La fête de Pâques…, cit., 90.

[56].    Cfr R. Cantalamessa, La Pasqua nella Chiesa antica, cit., XXVIII: il «dinamismo della Pasqua» non consiste «in un fatto (la passione o la risurrezione), ma in un fieri, cioè in un passaggio attraverso la passione verso la risurrezione, dalla morte alla vita».

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IL RITO DELLA LAVANDA DEI PIEDI NELLA LITURGIA ROMANA alla luce del Concilio Vaticano II

Con il gesto della lavanda dei piedi ai discepoli Gesù rende visibile la logica di amore e di servizio che ha guidato la sua vita fino alla morte in croce. Ma questo gesto compiuto da Gesù è anche fondante di uno stile ecclesiale. La comunità cristiana è invitata a ripercorrere la strada del servizio: “anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri” (Gv 13,14).

La liturgia romana ha inserito la lavanda dei piedi nella cornice del Giovedì Santo solo inoltrato il secondo millennio, testimone il Pontificale Romano del secolo XII, che colloca il rito dopo i Vespri. La liturgia della Curia Romana del secolo XIII accoglie questo rito in forma abbreviata, che passa poi al Messale Romano di Pio V, nella sua edizione princeps del 1570, dove è celebrato fuori della Messa nel corso del pomeriggio. Da notare che la rubrica di questo Messale non sembra preoccuparsi della dimensione mimetica di quanto Gesù ha fatto. Infatti, la rubrica non parla di “dodici” persone a cui lavare i piedi; dice semplicemente: “Post denudationem altarium, hora competenti, facto signo cum tabula, conveniunt clerici ad faciendum mandatum. Maior abluit pedes minoribus: tergit  et osculatur…”  Noto che si tratta di un gesto compiuto solo tra i membri del clero. A questo proposito, ricordo che la liturgia è in genere più anamnetica che mimetica: fa memoria dei gesti del Signore interpretandoli in un contesto rituale ampio.

Con la riforma della Settimana santa attuata da Pio XII nel 1955, la lavanda dei piedi è collocata dopo l’omelia della Messa in cena Domini. Così pure nelMessale Romano del 1962. Ormai la lavanda dei piedi si fa a “duodecim viros selectos”. Quindi non è più un gesto solo clericale e il riferimento  ai “dodici  uomini” lo rende un rito più esplicitamente mimetico.

Ciò però è corretto dal Messale Romano di Paolo VI, che non fa più riferimento al numero dodici, ma parla solo di “viri selecti”.  Le antifone che accompagnano il gesto della lavanda dei piedi esaltano il grande tema della carità con testi presi da san Giovanni e dal cap. 13 della prima Lettera ai Corinzi (inno alla carità), e il rito si chiude, all’inizio dell’offertorio, con l’antico inno Ubi cartias et amor (nel Messale di Paolo VI trasformato felicemente in: Ubi caritas est vera). La lavanda dei piedi deve pertanto aiutare a comprendere e vivere meglio il grande e fondamentale precetto della carità fraterna che riguarda tutti i battezzati uomini e donne.

Se ora il Papa ha voluto che la lavanda dei piedi sia fatta a “qui selecti sunt ex populo Dei”, possiamo dire che si tratta di uno sviluppo in qualche modo logico del rito, avendo presente: 1) che nel Messale di Paolo VI non viene più “sottolineata” la dimensione mimetica; 2) avendo anche presente che dal Vaticano II in poi, il magistero della Chiesa ha messo in rilievo con forza la parità di diritti e doveri tra uomo e donna (Gaudium et spes 9; Evangelii gaudium 103-104); 3) avendo presente inoltre che non si tratta più di un rito compiuto tra i membri del clero. A questo proposito si ricordi che durante diversi anni, anche dopo il Vaticano II, era proibito alle ragazze di fare il chierichetto. Divieto che fu tolto interpretando il can. 230, § 2 del Codice di Diritto Canonico, che recita: “I laici possono assolvere per incarico temporaneo la funzione di lettore nelle azioni liturgiche; così pure tutti i laici possono esercitare le funzioni di commentatore, cantore o altre ancora a norma del diritto”. Quando si parla di “laici” si parla naturalmente di uomini e donne.

Più volte papa Francesco ha chiesto maggiore spazio per le donne nella Chiesa (cf. Evangelii gaudium 103-104). L’approccio del Pontefice al problema del ruolo femminile all’interno della società e della Chiesa è da considerarsi molto attento alla modernità. Una visione in cui la donna è pari all’uomo in diritti e doveri, ma complementare e diversa in quanto portatrice di caratteristiche specifiche, facendo proprio il nuovo paradigma sociale della “Reciprocità nell’equivalenza e nella differenza”.

In questo settore, però, si devono tener presenti gli eventuali disagi che in alcune culture potrebbe comportare il lavare i piedi di una donna in pubblico. Noto comunque che la rubrica “qui selecti sunt ex populo Dei” è generica (non “obbliga” ad inserire anche e sempre le donne), e quindi i vescovi possono interpretarla alla luce delle diverse situazioni locali.

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