“Dignitas infinita” luci ed ombre; più ombre che luci?

Presentiamo il Documento, ricevendolo con obbedienza filiale e ringraziando la Gerarchia per aver ribadito i “NO” della dottrina sulle questioni delicate del nostro tempo, offrendo alla nostra riflessione tre articoli: due del professor Roberto de Mattei (vedi qui – e vedi qui) ed uno del professor Silvio Brachetta pubblicato dall’Osservatorio cardinale VanThuan… Offriamo anche un video-catechesi qui attraverso il quale, il teologo Padre Serafino Maria Lanzetta, aiuta a chiarire l’abuso nel titolo di una dignità INFINITA…

Dal canto nostro riteniamo (non per opinione personale ma in corrispondenza della Dottrina sulla Grazia) che il problema nel titolo, ossia di una dignità INFINITA, è ambiguo dal momento che, chiunque pecca, perde questa dignità che si ricompone con la penitenza e la confessione… lo stesso peccatore incallito – reprobo, come insegna san Paolo – di fatto perde questa dignità; tale dignità va conquistata e preservata ogni giorno proprio perché è dono di Dio! Questo non vuol dire che tutto il resto del Documento vada cestinato!! Al contrario! Come non si butta mai il bambino con l’acqua sporca, i testi che andiamo a proporvi non sono in contrasto l’uno contro l’altro, ma comprensivi l’uno con l’altro. Buona riflessione a tutti.


“Dignitas infinita”: un getto di acqua fresca nell’incendio? (di Roberto de Mattei QUI CON AUDIO)

La Dichiarazione Dignitas infinita, pubblicata l’8 aprile 2024 dal Dicastero per la Dottrina della Fede, con l’approvazione di papa Francesco, ha suscitato controversie, come spesso accade ai documenti del Regnante Pontefice.

Su “Corrispondenza Romana” del 10 aprile (VEDI QUI), ho presentato le parti salienti del documento e ne ho proposto un criterio di lettura che è quello del cattolico militante, quale mi onoro di essere: un cattolico che combatte contro i nemici della Chiesa e della Civiltà cristiana e che ha come suo punto di riferimento il Sommo Pontefice, del quale accoglie sempre con grande attenzione e deferenza i documenti, cercando di interpretarli pro bono. Quando ciò non è possibile, prendendone le distanze, e se necessario criticandoli, ma sempre con il filiale rispetto dovuto al Vicario di Cristo. Mi è maestro in questo il prof.  Plinio Corrêa de Oliveira (1908-1995), il quale, commentando sulla “Folha de S. Paulo” del 7 marzo 1979 il messaggio di Puebla di Giovanni Paolo II del 28 gennaio dello stesso anno, affermava che vi è un grado di attenzione, di minuzia di analisi, di ampiezza di commento che, tra i documenti usciti da mano d’uomo, anche quando favoriti dalla grazia di Dio, gli insegnamenti di un Pontefice meritano a titolo assolutamente straordinario”.

In quasi tutti i documenti pontifici post-conciliari ci sono ombre e luci. Talvolta prevalgono le luci, talvolta le ombre. Perfino nelle encicliche Humanae Vitae (1968) di Paolo VI ed Evangelium Vitae (1995) di Giovanni Paolo II le ombre non mancano. Il che non ha impedito che questi documenti siano entrati nella storia e nel Magistero della Chiesa per la loro riaffermazione della verità cattolica contro i gravi peccati della contraccezione e dell’aborto. Le parole dei Papi devono infatti essere situate nel contesto storico della perenne lotta tra la Chiesa e gli errori del suo tempo.

Sotto questo aspetto, che potremmo definire dinamico o processuale, la Dignitas infinita viene dopo la Fiducia Supplicans e tanti altri documenti di papa Francesco che hanno dato l’impressione di un cedimento al mondo e di un allontanamento dal Magistero. Ma la Dignitas infinita appare come una novità, come dimostrano le reazioni negative del progressismo internazionale.  “No a madri surrogate e gender. Il Vaticano sceglie la linea dura”, ha titolato, ad esempio, “La Repubblica” del 9 aprile, sottolineando che nel documento viene definita “pericolosissima la teoria che cancella le differenze tra i sessi. E la gestazione per altri va proibita a livello universale (p. 16).

Alcuni osservatori del mondo tradizionalista e conservatore negano invece che questo mutamento di linea sia presente nella Dichiarazione, e respingono papa Francesco nel campo avversario, come negando che da Roma, almeno finché c’è questo Pontefice, possa mai giungere qualcosa di accettabile. La prova sarebbe data dagli errori e dalle omissioni che sono presenti nel documento.

Ma la storia, insisto su questo punto, è fatta di ombre e di luci e chi analizza la situazione con equilibrio e ponderazione deve tener conto delle une e delle altre. Il termine “dignità infinita”, già usato da Giovanni Paolo II, è certamente inappropriato, ma bisogna tener conto che questa iperbole vuole opporsi a un ecologismo radicale che vorrebbe dissolvere la stessa natura umana. La Dichiarazione della dottrina della Fede riafferma invece l’esistenza di un ordine naturale su cui si fondano le disuguaglianze che caratterizzano il creato, a cominciare dall’ “ineliminabile differenza sessuale fra uomo e donna” (n. 58).

Alcuni lamentano che il Papa abbia taciuto su omosessualità e contraccezione, altri vedono nel documento una cattiva antropologia o un’ambigua definizione dei rapporti tra natura e grazia. Per non parlare della condanna della pena di morte, che sembra contraddire l’insegnamento della Chiesa su questo punto. Ma queste e altre ombre che si possono riscontrare nel documento rischiano di far dimenticare che, per la prima volta in undici anni di pontificato, ci troviamo di fronte ad un testo che, in maniera sistematica, sulla base della legge naturale, condanna in maniera inequivoca l’aborto, l’eutanasia, il suicidio assistito, la teoria del gender, la maternità surrogata e il cambio di sesso. Queste parole sono una boccata di ossigeno in un’atmosfera soffocante in cui chi vuole rimanere fedele alla dottrina della Chiesa rischia di morire di asfissia.

Torniamo al prof. Plinio Corrêa de Oliveira. Quando, nell’Istruzione su alcuni aspetti della teologia della liberazione, Libertatis nuntius del 6 agosto 1984, l’allora cardinale Ratzinger prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede condannò la teologia della liberazione non mancò chi mise in rilievo le numerose ombre del documento: l’“opzione preferenziale per i poveri” (n. 68), cara alla sinistra storica; l’elogio delle “nuove comunità ecclesiali di base”, o altri gruppi di cristiani,  considerati “motivo di grande speranza per la Chiesa” (n. 69); la Chiesa “esperta in umanità” (n. 72); il richiamo alla “civiltà dell’amore” (n. 81) e alla “cultura del lavoro” (n. 84); la subordinazione del diritto alla proprietà privata “al principio superiore dell’universale destinazione dei beni” (n. 87) e l’idea di una missione della Chiesa “illuminata dal Concilio Vaticano II” (n. 96). Un Concilio in cui il cardinale Ratzinger era stato protagonista come perito teologico del cardinale Josef Frings, uno dei contestatori di Paolo VI sull’Humanae Vitae.

  • E tuttavia, commentava Plinio Corrêa de Oliveira: “Per chi si sentiva angustiato davanti a questo spettacolo, per il momento tragico, ma che in breve tempo può diventare apocalittico, vedere che un organo come la Sacra Congregazione per la Dottrina della Fede afferma, nero su bianco, la incompatibilità della dottrina cattolica con il marxismo è come per qualcuno, che si trova dentro un incendio, sentirsi arrivare, inaspettatamente, il getto di acqua fresco e benefico di una pompa di pompieri. E a me che, come presidente del consiglio nazionale della TFP brasiliana, sono stato il primo firmatario della ricordata dichiarazione di resistenza alla Ostpolitik vaticana, tocca il dovere di giustizia di manifestare in questo momento la gioia, la gratitudine e soprattutto la speranza che provo, dentro all’incendio, per l’arrivo di questo sollievo. So che vi sono fratelli nella fede esterni alle file della TFP, soprattutto fuori del Brasile, che si astengono dal manifestare analoghi sentimenti, principalmente perché pensano che una sola pompa sia insufficiente per spegnere tutto un incendio. Anch’io penso che una sola pompa non spegne un incendio. Ma questo non mi impedisce di salutarla come un beneficio. Tanto più che non ho prove del fatto che rimarremo solamente con questa pompa. Non è stata inaspettata la istruzione del cardinale Ratzinger? Un passo inaspettato non invita ad aspettarne altri nella stessa direzione, anch’essi più o meno inaspettati?”.

Papa Francesco non è il cardinale Ratzinger, ma il cardinale Ratzinger, divenuto Benedetto XVI,  non è stato Pio XII, né san Pio X. Tutti sono stati però successori di Pietro e Vicari di Cristo. E il getto d’acqua di Dignitas infinita, per quanto debole, porta un sollievo tanto maggiore quanto oggi è terribile il fuoco che divampa e il fumo che ci asfissia.  (Roberto de Mattei)


La Dichiarazione Dignitas infinita e il mistero della Chiesa nel nostro tempo

(Roberto de Mattei)

L’8 aprile 2024 il Dicastero per la Dottrina della Fede, presieduto dal cardinale Víctor Manuel Fernández, ha pubblicato la Dichiarazione Dignitas infinita sulla dignità umana, con l’approvazione “ex audientia” di papa Francesco. Il cardinale Fernández, soffermandosi nell’Introduzione della Dichiarazione sulla sua genesi, chiarisce che il primo impianto del testo, che risale al 2019, si deve al suo predecessore, il cardinale Luis Francisco Ladaria Ferrer.

La «dignità infinita» che dà il titolo alla Dichiarazione, ha il suo fondamento nella definizione classica della persona come «sostanza individuale di natura razionale» secondo la classica formula di Severino Boezio (n. 9). Il documento critica «i fraintendimenti» di chi ritiene che «sia meglio usare l’espressione “dignità personale” (e diritti “della persona”) invece di “dignità umana” (e diritti dell’uomo)» (n. 24), deducendo la dignità e i diritti da quella capacità di conoscenza e di libertà, di cui non sono dotati tutti gli esseri umani. «Non avrebbe dignità personale, allora, il bambino non ancora nato e neppure l’anziano non autosufficiente, come neanche chi è portatore di disabilità mentale». La Chiesa, al contrario, «insiste sul fatto che la dignità di ogni persona umana, proprio perché intrinseca, rimane “al di là di ogni circostanza”, ed il suo riconoscimento non può assolutamente dipendere dal giudizio sulla capacità di intendere e di agire liberamente delle persone» (ivi).

Siamo qui lontani da un certo personalismo, che pretende di fondare la dignità e i diritti dell’uomo sulla “persona”, invece che sulla natura umana. La riaffermazione della legge naturale costituisce un cardine del documento. Per questo, di fronte ai cosiddetti “nuovi diritti”, Dignitas infinita afferma che «la difesa della dignità dell’essere umano è fondata, invece, su esigenze costitutive della natura umana, che non dipendono né dall’arbitrio individuale né dal riconoscimento sociale. I doveri che scaturiscono dal riconoscimento della dignità dell’altro e i corrispondenti diritti che ne derivano hanno dunque un contenuto concreto ed oggettivo, fondato sulla comune natura umana» (n. 25).

 Il cardinale Fernández, ha sottolineato nella presentazione del documento, che il Papa ha chiesto di evidenziare in esso alcuni temi a lui cari: il dramma della povertà, la situazione dei migranti, le violenze contro le donne, la tratta delle persone, la guerra ed altro. Tutti gli osservatori hanno però sottolineato che la parte più significativa della Dichiarazione è quella dedicata alle violazioni della dignità umane perpetrate nel mondo contemporaneo contro la vita e la famiglia.

Per quanto riguarda l’aborto, «la Chiesa non cessa di ricordare che “la dignità di ogni essere umano ha un carattere intrinseco e vale dal momento del suo concepimento fino alla sua morte naturale…”» (n. 47). Il documento, citando l’Evangelium Vitae di Giovanni Paolo II, afferma che «nessuna parola vale a cambiare la realtà delle cose: l’aborto procurato è l’uccisione deliberata e diretta, comunque venga attuata, di un essere umano nella fase iniziale della sua esistenza, compresa tra il concepimento e la nascita» (ivi).

Particolarmente significativa è la condanna della pratica della maternità surrogata, che «viola la dignità della donna» (n. 50) e quella «del bambino» (n. 49), che «ha il diritto, in virtù della sua inalienabile dignità, di avere un’origine pienamente umana e non artificialmente indotta, e di ricevere il dono di una vita che manifesti, nello stesso tempo, la dignità di chi dona e di chi riceve. (…) Il legittimo desiderio di avere un figlio non può essere trasformato in un “diritto al figlio” che non rispetta la dignità del figlio stesso come destinatario del dono gratuito della vita». Papa Francesco auspica un impegno della Comunità internazionale«per proibire a livello universale tale pratica» (n. 48). Va ricordato che in Italia un progetto per rendere la maternità surrogata «reato universale» è stato approvato dalla Camera dei Deputati e si trova ora in discussione a Senato.

Condannata anche l’eutanasiae il suicidio assistito, «un caso particolare di violazione della dignità umana, che è più silenzioso ma che sta guadagnando molto terreno».  «E’ assai diffusa l’idea che l’eutanasia o il suicidio assistito siano coerenti con il rispetto della dignità della persona umana. Davanti a questo fatto, si deve ribadire con forza che la sofferenza non fa perdere al malato quella dignità che gli è propria in modo intrinseco e inalienabile, ma può diventare occasione per rinsaldare i vincoli di una mutua appartenenza e per prendere maggiore coscienza della preziosità di ogni persona per l’umanità intera» (n. 51).

Dopo la condanna della cultura dello «scarto dei diversamente abili»(n. 53), la Dichiarazione passa ad esaminare la Teoria del gender, che definisce «pericolosissima perché cancella le differenze nella pretesa di rendere tutti uguali» (n. 56). «Voler disporre di sé, (auto-determinarsi, nella versione inglese) così come prescrive la teoria del gender (…) non significa altro che cedere all’antichissima tentazione dell’essere umano che si fa Dio ed entrare in concorrenza con il vero Dio dell’amore rivelatoci dal Vangelo» (n. 57). La teoria del gender «vuole negare la più grande possibile tra le differenze esistenti tra gli esseri viventi: quella sessuale» (n. 58), «prospetta una società senza differenze di sesso, e svuota la base antropologica della famiglia» (n. 59).  «Non si deve ignorare che sesso biologico (sex) e ruolo sociale-culturale del sesso (gender), si possono distinguere, ma non separare». «Sono, dunque, da respingere tutti quei tentativi che oscurano il riferimento all’ineliminabile differenza sessuale fra uomo e donna» (ivi).

Altrettanto radicale è la condanna del cambio di sessoanch’essa basata«sulla necessità di rispettare l’ordine naturale della persona umana» (n. 60). Dignitas infinita afferma che «qualsiasi intervento di cambio di sesso, di norma, rischia di minacciare la dignità unica che la persona ha ricevuto fin dal momento del concepimento». Evidentemente, questo non significa escludere la possibilità che una persona affetta da anomalie evidenti alla nascita possa scegliere di risolvere tali anomalie, ma, sottolinea il documento, «in questo caso, l’intervento non configurerebbe un cambio di sesso» (ivi).

Nella dichiarazione Dignitas infinita un’affermazione contraddice l’insegnamento cattolico: la pena di morte è condannata non in quanto inopportuna, ma in quanto considerata intrinsecamente immorale. L’insegnamento costante della Chiesa, fino al Nuovo Catechismo di Giovanni Paolo II, ne afferma invece la liceità di principio. Qualche altra lacuna può essere sottolineata, ma con la prudenza che si deve nei confronti dei documenti pontifici. A meno di non rilevare in essi errori od ambiguità, che possono nuocere direttamente alle anime, come è stato il caso della esortazione Amoris laetitia (2016) per quanto riguarda i divorziati risposati o la dichiarazione Fiducia supplicans (2023),per quanto riguarda la benedizione delle coppie omosessuali. In questo caso una filiale resistenza è stata e rimane doverosa. Però, se è vero che le parole di Benedetto XVI e di Giovanni Paolo II sui valori non negoziabili costituiscono un importante aiuto contro la dittatura del relativismo, senza necessariamente significare adesione ad ogni atto od affermazione di questi Pontefici, anche l’insegnamento di papa Francesco deve essere accolto con soddisfazione, quando si situa sulla linea dei suoi predecessori, come accade nell’ultimo documento.  La storia è fatta di ombre e di luci e non si può dimenticare che la Chiesa è un mistero, come il sacrificio della Croce da cui Essa è nata sul Calvario (Pio XII, Discorso del 4 dicembre 1943). Nell’ora di confusione in cui viviamo, questo mistero deve essere accettato e contemplato con tutta la nostra compenetrazione e pietà.


L’INTERVENTO DI PADRE SERAFINO MARIA LANZETTA


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È infinita la dignità di Dio e del penitente, non quella del peccatore

Di Silvio Brachetta

La dignità, come il merito, ha una valenza infinita quando è applicata a Dio e, in modo relativo, può avere la medesima validità per l’uomo – o non averla, perché il peccato rende l’uomo indegno e il merito diventa demerito. Persino l’Accademia della Crusca ha difficoltà a definire la dignità, tanto vasto è lo spettro semantico del termine[1].

La teologia classica si riferisce spesso alla dignità umana, ma come a qualcosa da conquistare, non come un possesso inviolabile. «Et nullu homo ène dignu te mentovare», dice san Francesco nel Cantico delle creature, riferendosi a Dio: nessun uomo è degno. Sant’Agostino scrive spesso di «degnazione», ma quasi sempre di Gesù Cristo nell’incarnarsi e nello scendere dal divino all’umano. C’è anche una «grande degnazione» umana, al momento del Battesimo, in cui il penitente diventa «membra di Cristo»[2].

In questo senso tutta la teologia torna spesso sull’eccellente dignità umana, conferita «mediante» Gesù Cristo – perché il Cristo è il medium tra il Padre e il Figlio (San Bonaventura). E allora la Dottrina sociale estende la dignità a ogni ordine umano: dignità della famiglia, dignità del lavoro, dignità dell’amore, dignità del concepimento, dignità della vita umana.

È però fonte di equivoci fare un assoluto della dignità umana e definirla a priori come una «dignità infinita», così come ha fatto il card. Víctor Manuel Fernández nell’omonimo ultimo documento (Dignitas infinita) del Dicastero per la Dottrina della Fede.

Ricorre spesso, in teologia, il concetto di «degnazione infinita»[3], ma applicata a Dio. Ricorre pure in San Tommaso d’Aquino, che la applica anche all’uomo. Scrive l’Aquinate: «L’umanità di Cristo, perché unita a Dio; la beatitudine creata, perché è il godimento di Dio; e la Beata Vergine, perché Madre di Dio, hanno in qualche modo una dignità infinita, derivata dall’infinito bene che è Dio. Sotto questo aspetto nulla può essere migliore di loro, così come nulla può essere migliore di Dio»[4].

Sono tre i soggetti, secondo l’Aquinate, ai quali si può applicare la «dignitas infinita»: l’umanità di Cristo, la beatitudine creata e la Beata Vergine Maria. Tutto quello che è unito a Dio ha dignità infinita e, quindi, anche l’umanità di Cristo, proprio perché è unita alla natura divina (unione ipostatica). Non l’umanità di Socrate, non l’umanità di Pitagora, ma l’umanità di Cristo. Certamente Cristo vuole trasferire la dignità infinita anche alla carne di Socrate e Pitagora, ma sono proprio Socrate e Pitagora che la rifiutano, a motivo del peccato, ovvero la rifiutano in genere moris (relativamente all’etica).

C’è una creatura che non ha rifiutato la dignità infinita: la Madre di Dio, che ha la «dignitas infinita». Non però in genere entis – ontologicamente, di natura – com’è in Dio, ma in genere moris, ovvero per libera scelta del bene, per una questione morale. Oltre a san Tommaso, lo sostengono ad esempio il redentorista Francesco Antonio De Paola (1736-1814) e il cappuccino Mario de’ Bignoni (1601-1660), che meglio specificano la differenza tra genere entis e genere moris[5].

In altre parole, solo a Dio è possibile attribuire il concetto di «dignitas infinita» in genere entis, cioè in modo ontologico. C’è sì una «dignità ontologica della persona umana», come scrive Fernández, ma «derivata». Persino una «dignitas infinita», ma dipendente appunto. Dipendente da chi? «Dall’infinito bene che è Dio», scrive San Tommaso.

È un errore, in ogni caso, applicare la «dignitas infinita» a tutta l’umanità, perché la dignità si può anche rifiutare – è prassi dell’uomo rifiutarla sempre, con il peccato – e, in tal modo, perderla.

Dalle parole di Francesco Antonio De Paola, in particolare, si comprende meglio la «dignitas infinita» di Maria: «È dignità immensa, ed infinita. Non già infinita in genere entis, ma in genere moris, per favellar colle Scuole, cioè non già che Maria abbia un essere infinito, che solo a Dio conviene, ma dicesi la sua dignità infinita in quanto che è impossibile che di tal dignità possa pensarsi e trovarsi, tra le dignità create, altra maggiore in pura Creatura»[6].

Hanno dunque, le creature e il creato una grande nobiltà e dignità – che potrebbe anche dirsi infinita, se riferita al Creatore –, ma bisogna pur sempre considerare che la dignità di Maria è somma, rispetto a tutte le creature. Che poi le creature intelligenti siano da Dio destinate alla dignità infinita, lo precisa san Tommaso, quando scrive (nel passo summenzionato) che anche la «beatitudine creata» ha questa somma dignità, che consiste nel «godimento di Dio».

Cosa sia la «beatitudine creata» (dei beati) lo spiega lo stesso Aquinate. In senso oggettivo, la beatitudine coincide con Dio, ma in senso soggettivo (l’atto dell’intellezione del beato), la beatitudine non può essere increata, ma creata, perché solo Dio è increato[7]. Anche i beati, allora, poiché alieni al peccato, godono di dignità infinita. Lucifero stesso fu creato di dignità infinita e così anche i demoni. Ma per trovare dove sia la vera dignità, l’attenzione non dev’essere orientata verso la creatura, bensì verso la sua libera scelta del bene.

L’equivoco, in Fernández, non è di avere applicato la dignità infinita alla finitezza dell’uomo, ma di averne fatto un assoluto, come sembra essersene fatto un assoluto anche Giovanni Paolo II. Papa Wojtyła disse, durante un Angelus del 1980, che Gesù Cristo «ama ciascun uomo e gli conferisce con ciò una dignità infinita».

L’affermazione non è totalmente errata, perché non solo la dignità infinita è applicabile ad una creatura, ma è anche la volontà di Dio, che desidera la salvezza di tutti gli uomini. Anche Adamo ed Eva avevano una dignità infinita (in genere moris) prima del peccato. Il problema è tutto nella teologia contemporanea, che usa il concetto di dignitas infinita per giustificare la svolta antropologica e detronizzare Dio.

In Wojtyła, comunque, l’affermazione all’Angelus non fa grossi problemi, perché la sua teologia era diretta al personalismo ortodosso e al rilancio della vita umana e della sua dignità. Si tratta, cioè, di un personalismo non antropocentrico, ma cristocentrico.

Lo stesso si può dire del card. Carlo Caffarra, che affermò quanto segue: «Essere persone di fronte a Dio costituisce la persona in una dignità infinita»[8]. Qua Caffarra intende, probabilmente, che essere di fronte a Dio (come lo sono i beati) costituisce una dignità infinita. Non è un errore, semmai un’ambiguità: andava riaffermata la dottrina di san Tommaso, a scanso di equivoci.

Nella Dignitas infinita di Fernández, al contrario, sembra nascondersi il programma della svolta antropologica novecentesca, dove si vuole mettere al centro l’uomo in quanto uomo, col pretesto di presupposti veri.

Molto spesso i Pontefici, nelle encicliche sociali, lodano in Dio la dignità umana. Leone XIII, nella Rerum Novarum, scrive che la  dignità della persona umana è «nobilitata dal carattere cristiano» e precisa che «la vera dignità e grandezza dell’uomo è tutta morale, ossia riposta nella virtù» [genere moris, ndr]. E proprio perché gli uomini sono «chiamati alla dignità della figliolanza divina […] a nessuno è lecito violare impunemente» tale dignità.

Paolo VI, nella Dignitatis Humanae, sostiene che tutti gli esseri umani, a motivo della loro dignità, «sono dalla loro stessa natura e per obbligo morale tenuti a cercare la verità, in primo luogo quella concernente la religione». Si desume, quindi, che la dignità umana, più che fonte di diritti, è espressione (per l’uomo) di doveri.

Pio XII, nella Divino Afflante Spiritu, usa aggettivi di lode quando, scrive di dignità umana: «eccellente», «alta». Giunge persino a definirla «consacrazione», ma non le applica mai il concetto di «infinita». Stesso tenore ha Pio X, nella Acerbo Nimis (enciclica non sociale), quando parla di «vera ed altissima dignità dell’uomo», manifestata dalla dottrina di Cristo.

Forse colui che si espresse con più insistenza e con più frequenza alla dignità umana fu il già citato Giovanni Paolo II (soprattutto in Evangelium Vitae, in Fides et Ratio e in Veritatis Splendor). Va però detto che il magistero di questo Pontefice poggiava su di un personalismo poco interessato alla svolta antropologica e più orientato a Dio, nel senso che Wojtyła ha sempre fondato la dignità dell’uomo nel suo essere ad «immagine e somiglianza di Dio» (Gen 1, 26), secondo l’autorità della Scrittura. Anche nella Dignitas infinita di Fernández c’è questo riferimento: il cardinale descrive una «dignità ontologica» [genere entis, ndr] che «compete alla persona in quanto tale per il solo fatto di esistere e di essere voluta, creata e amata da Dio» e che «non può mai essere cancellata e resta valida al di là di ogni circostanza in cui i singoli possano venirsi a trovare».

Tutto questo è vero e coerente con il magistero, come anche la definizione di «dignità morale» che, se la volontà si decide per il male, rende l’uomo indegno. Certamente, in questa luce, ha un senso associare la dignitas infinita non solo al genere moris, ma anche al genere entis. È un’operazione che si può fare, ma dev’essere esclusa ogni tentazione univoca di significato. La dignità umana è infinita solo in senso analogo, così come c’è analogia tra il padre umano e Dio Padre o tra la persona umana e la divina.

L’ambiguità, in Fernández, è nell’omettere la questione decisiva: la dignità ontologica è relativa alla natura umana, non alla sopra-natura. Solo la dignità morale è soprannaturale e solo questa è la porta che apre all’infinito. Le due dignità non solo non possono essere confuse, ma Blaise Pascal dice che «l’uomo è manifestamente nato a pensare; qui sta tutta la sua dignità e tutto il suo pregio; e tutto il suo dovere sta nel pensare rettamente»[9]. Tutta la dignità cioè, secondo Pascal, risiede nelle facoltà dell’anima (ragione e volontà) e non nell’essenza ontologica umana (natura).

Inoltre, san Bonaventura interpreta bene l’immagine e la somiglianza dell’uomo a Dio. È dottrina bonaventuriana che, mentre l’immagine (perfezione della natura) è relativa all’essenza dell’anima, la somiglianza (perfezione di grazia soprannaturale) potrebbe non farne parte. Ora, può esistere l’immagine senza somiglianza (quando si rinuncia alla grazia), ma non esserci la somiglianza senza l’immagine (vita di grazia). E tuttavia solo per mezzo della somiglianza si giunge a partecipare alla natura divina, non è sufficiente l’immagine, comune anche agli animali[10].

Leggendo la Dignitas infinita si ha come la sensazione che la dignità ontologica prevalga su tutto e, per questo, diventi infinita. Prova ne è che, all’inizio della Dichiarazione, Fernández faccia l’elogio della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, fondati sul medesimo antropocentrismo.

E difatti mai come oggi tali diritti sono ampiamente calpestati in tutto il mondo: se il fondamento non è Dio, qualsiasi diritto è disatteso e l’uomo perde la dignità. La soluzione è di rimettere Gesù Cristo e la sua signoria al centro della storia, ovvero di fondare ogni dignità su quella infinita di Dio.

Silvio Brachetta


[1] Cf. Maria Cristina Torchia, voce «dignità», in Accademia della Crusca (accademiadellacrusca.it).

[2] Cf. Agostino d’Ippona, Discorso 224.

[3] Scrivono, ad esempio, di «degnazione infinita» di Dio, Ignazio di Loyola, Liborio Siniscalchi, Idelfonso da Bressanvido, Francesco Vincentini, Søren Kierkegaard, Camillo de Lellis, Pietro de Bérulle, Gianvincenzo Postiglione d’Apuzzo.

[4] Summa Theologiae, I, 25, 6, ad 4.

[5] Francesco Antonio De Paola, Grandezze di Maria, Tipografia Tomassini, 1839, Discorso VIII, p. 40. Mario de’ Bignoni, Elogi sacri nelle solennità principali di Nostro Signore, della Beata Vergine Maria e altri Santi celebrati dalla Santa Chiesa, Venezia, 1652, p. 380.

[6] De Paola, Grandezze di Maria, op. cit. ibid.

[7] Summa Theologiae, I, 26, 2, ad 2.

[8] Carlo Caffarra, La persona umana: aspetti teologici, in Aldo Mazzoni (ed.), A sua immagine e somiglianza?, Città Nuova Editrice, 1997, pp. 76-90.

[9] In Pensieri, a cura di P. Serini, Einaudi, 1962, n. 146.

[10] Bonaventura da Bagnoregio, Breviloquium, p. 5, c. 1, In I Sent. d. 3, pp. 1-2, qq. 1-2.


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AGGIORNAMENTO 5 maggio 2024

riflessioni di Mons. Marian Eleganti, Vescovo Ausiliare Emerito di Coira.
 
San Tommaso d’Aquino scrive: “Solo Dio è di dignità infinita, e quindi solo lui, nella carne da lui assunta, poteva soddisfare adeguatamente l’uomo”. (Solus autem Deus est infinitae dignitatis, qui carne assumpta pro homine sufficienter satisfacere poterat). …La nuova Dichiarazione sembra fondare questa dignità esplicitamente nella natura, e non solo nella grazia. La Dichiarazione fa quindi crollare la distinzione tra naturale e soprannaturale?“.
 
 
Dignità infinita o inviolabile?
 
L’ultimo documento del Dicastero per la dottrina della fede è “Dignitas infinita” e riconosce all’uomo una “dignità infinita”. Preferisco il termine “dignità inviolabile”. Dovremmo riservare a Dio la categoria “infinito”. Perché vale davvero solo per lui. Tutto ciò che viene creato è “finito” o “contingente”. La “dignità infinita” per gli esseri umani suona patetica e in qualche modo irrazionale, il che è stato sorprendente quando Giovanni Paolo II l’ha usata per la prima volta in questo contesto. Sappiamo cosa si intende. Da questo punto di vista possiamo conviverci.
 
Nel libro della Genesi la pena di morte è giustificata dal fatto che l’uomo è immagine di Dio.
 
Secondo il primo libro della Sacra Scrittura, se qualcuno uccide un altro essere umano, merita di morire.
 
Perché: Perché disprezzava la dignità del prossimo di essere immagine di Dio e non rispettava l’inviolabilità ad essa associata.
 
Con l’omicidio perde (latae sententiae) il proprio diritto alla vita. Verrà punito con la morte. La pena di morte viene qui giustificata con la dignità dell’uomo come immagine di Dio, mentre nel documento del Dicastero per la Dottrina della Fede viene respinta con la stessa argomentazione.
 
Questa è una contraddizione. Papa Francesco e il suo protetto e ghostwriter card. Fernandez si allontanano con la loro posizione dalla tradizione e si confrontano con grandi studiosi cattolici che la pensavano diversamente e che utilizzavano la dottrina tradizionale della guerra giusta e della pena di morte con criteri di giustizia razionalmente e teologicamente basati sulla rivelazione. Le loro argomentazioni andrebbero affrontate e controbattute con argomentazioni migliori. Ma lo aspetteremo invano. Allora come può essere giustificata l’autodifesa dell’Ucraina se gli atti di guerra o le guerre non possono essere giustificati in nessuna circostanza, inclusa l’autodifesa (cfr. la tradizionale dottrina della guerra giusta). A questo scopo devono esistere criteri oggettivi e razionali. L’insegnamento tradizionale della Chiesa li ha forniti. Oggi semplicemente si riscrive il catechismo. Non sono un sostenitore della pena di morte, e l’esperienza di come e da chi è stata o è praticata in tutto il mondo nel passato e nel presente dà motivo di metterla in discussione e di rifiutarla in questa forma. Ma chi la mette al bando come ultima ratio in ogni caso mette in discussione la Parola di Dio e, su questa base, la tradizione pedagogica della Chiesa. Presume di saperne di più oggi. I dubbi sono giustificati.
 
Come promemoria (Catechismo Chiesa Cattolica 1997/2003):
 
– 2267: L’insegnamento tradizionale della Chiesa non esclude, supposto il pieno accertamento dell’identità e della responsabilità del colpevole, il ricorso alla pena di morte, quando questa fosse l’unica via praticabile per difendere efficacemente dall’aggressore ingiusto la vita di esseri umani. Ma se i mezzi incruenti sono sufficienti per difendere e tutelare l’incolumità delle persone dall’aggressore, l’autorità deve attenersi a questi mezzi, perché corrispondono meglio alle condizioni concrete del bene comune e sono più adeguati alla dignità umana. Tuttavia, grazie alle possibilità che lo Stato ha a disposizione per reprimere efficacemente il reato e rendere innocuo l’autore del reato senza privarlo definitivamente della possibilità di riforma, oggi i casi in cui l’allontanamento del colpevole è assolutamente necessaria” già molto raramente o quasi non esiste più (EV 56).
 
– 2309: Si devono considerare con rigore le strette condizioni che giustificano una legittima difesa con la forza militare. Tale decisione, per la sua gravità, è sottomessa a rigorose condizioni di legittimità morale. Occorre contemporaneamente:
 
— che il danno causato dall’aggressore alla nazione o alla comunità delle nazioni sia durevole, grave e certo;
 
— che tutti gli altri mezzi per porvi fine si siano rivelati impraticabili o inefficaci;
 
— che ci siano fondate condizioni di successo;
 
— che il ricorso alle armi non provochi mali e disordini più gravi del male da eliminare. Nella valutazione di questa condizione ha un grandissimo peso la potenza dei moderni mezzi di distruzione.

 

Diane Montagna intervista Edward Feser su ‘Dignitas infinita’

 

Nota: il testo di oggi è più lungo di quello che normalmente pubblichiamo su TCT, ma l’importanza dell’argomento e la seria trattazione che riceve qui fanno sì che valga la pena leggerlo – fino alla fine. – Roberto Reale

DIANE MONTAGNA (DM) : Dignitas infinita si apre affermando che: “Ogni persona umana possiede una dignità infinita, inalienabile radicata nel suo stesso essere, che prevale in e al di là di ogni circostanza, stato o situazione che la persona possa mai incontrare”. Eppure san Tommaso d’Aquino scrive : «Solo Dio ha una dignità infinita, e quindi solo Lui, nella carne da Lui assunta, potrebbe soddisfare adeguatamente all’uomo». ( Solus autem Deus est infinitae dignitatis, qui carne assumpta pro homine sufficienter satisfacere poterat .)

Nella conferenza stampa vaticana per presentare la nuova Dichiarazione, il cardinale Victor Manuel Fernández ha osservato che l’espressione “dignità infinita” è stata presa da un discorso del 1980 di Papa Giovanni Paolo II a Osnabrück, in Germania. GPII ha detto : “Dio ci ha mostrato con Gesù Cristo in modo insuperabile come ama ogni uomo e così gli conferisce una dignità infinita ”.

La nuova Dichiarazione sembra fondare quella dignità esplicitamente nella natura, e non solo nella grazia. La Dichiarazione fa dunque crollare la distinzione tra naturale e soprannaturale?

EDWARD FESER (EF): Uno dei problemi con Dignitas infinita , come con alcuni altri documenti emessi durante il pontificato di Papa Francesco, è che i termini teologici chiave non sono usati con precisione. Gran parte della forza delle affermazioni deriva dal loro potere retorico piuttosto che da un ragionamento accurato. Quindi, bisogna essere cauti quando si cerca di determinare cosa ne consegue strettamente. Ciò che si può dire, però, è che proprio a causa di questa imprecisione c’è il pericolo di sembrare autorizzare alcune conclusioni problematiche. Un esempio è l’offuscamento del confine tra naturale e soprannaturale. Ad esempio, la realizzazione della visione beatifica attribuirebbe evidentemente all’essere umano la più alta dignità di cui è capace. Quindi, se diciamo che gli esseri umani per natura, e non solo per grazia, hanno una “dignità infinita”, ciò potrebbe sembrare implicare che per natura siano orientati verso la visione beatifica.

I difensori della Dichiarazione sottolineano senza dubbio che il documento stesso non giunge a una conclusione così estrema. E questo è vero. Il problema, però, è che esattamente ciò che è e non è escluso dall’attribuzione di “dignità infinita” alla natura umana non è previsto né affrontato nella Dichiarazione. Allo stesso tempo, però, la Dichiarazione pone grande enfasi su questo concetto e sulle sue implicazioni radicali. Questa è una ricetta per creare problemi, e il documento stesso crea tali problemi nella sua applicazione della nozione di “dignità infinita” alla pena di morte, tra gli altri argomenti.

Inoltre, il significato dell’osservazione di Papa San Giovanni Paolo II degli anni ’80 è stato ampiamente sopravvalutato. Alla “dignità infinita” ha fatto riferimento incidentalmente in un discorso minore, di scarso peso magisteriale, dedicato ad un altro argomento. Né ne trae conclusioni nuove o importanti. Si trattava di un’osservazione improvvisata piuttosto che di una formula precisa, e non la faceva nel corso di una trattazione dottrinale formale attentamente ponderata della natura della dignità umana. Ma in ogni caso, egli non fonda questa nozione di dignità infinita nella stessa natura umana.

DM : Storicamente, come siamo passati dall’affermazione di San Tommaso secondo cui “Dio solo ha una dignità infinita” alla nuova Dichiarazione del DDF? È questo un uso improprio delle parole di Papa Giovanni Paolo II?

EF: Ci sono due fattori chiave qui. Uno di questi è il crescente affidamento, nei decenni successivi al Vaticano II, a nozioni come personalità, dignità umana e simili come veicoli attraverso i quali trasmettere l’insegnamento morale cattolico al mondo secolare. Non c’è nulla di intrinsecamente sbagliato in questi concetti, ma considerati di per sé sono aperti a un’ampia varietà di interpretazioni. I pensatori secolari certamente non li comprendono necessariamente come li comprende la Chiesa, così che l’apparenza di un terreno comune può essere illusoria.

Quando queste nozioni sono strettamente radicate ed esposte alla luce della tradizione filosofica e teologica cattolica rappresentata da Agostino, Tommaso d’Aquino e simili, non ci sono problemi. Ma spesso la retorica della personalità e della dignità assume una vita propria e viene intensificata come un modo per cercare di convincere le persone che probabilmente faranno orecchie da mercante agli appelli alla legge naturale o alle scritture. E spesso finisce per riflettere una concezione delle persone e della loro dignità che deve molto a Kant e alla tendenza del moderno liberalismo filosofico a considerare la coercizione delle persone come il male più grande e la loro autodeterminazione come il culmine della loro realizzazione. Allora i cattolici potrebbero facilmente rileggere queste moderne concezioni della dignità personale nelle Scritture e nella tradizione.

Questo ci porta al secondo fattore chiave, ovvero la notevole fissazione avvenuta negli ultimi decenni all’interno degli ambienti cattolici sulla pena di morte come in qualche modo particolarmente problematica. C’è sempre stata una tensione nella tradizione che tendeva ad un atteggiamento più negativo nei confronti della pena di morte, coesistendo con una tensione più positiva nei suoi confronti. Storicamente si sono bilanciati a vicenda, con una tendenza prevalente in alcuni periodi e l’altra in altri. Ma il diritto in linea di principio dello Stato di infliggere questa pena non è mai stato negato, poiché ha una base chiara e coerente nelle Scritture e nella legge naturale. Ciò che è unico nei tempi moderni è la tendenza a guardare la questione attraverso la lente della giustizia piuttosto che della misericordia, come se fosse in qualche modo ingiusto (e non semplicemente spietato) ricorrere alla pena capitale. E ciò riflette la retorica sempre più dilagante sulla dignità delle persone.

Quindi questi problemi sono strettamente collegati e in realtà si alimentano l’uno dall’altro. Il crescente affidamento sulla retorica della dignità ha portato a una crescente ostilità all’interno di alcuni ambienti cattolici verso l’idea stessa della pena capitale, anche in linea di principio. Parte della motivazione di ciò è il desiderio di trovare una visione morale comune con la moderna visione secolare occidentale delle cose. Ma poi, questa retorica spesso esagerata contro la pena capitale ha a sua volta alimentato una concezione ancora più esagerata della dignità umana come qualcosa di così incommensurabile che sarebbe in qualche modo profondamente sbagliato (e non solo meno che misericordioso) eseguire anche la pena capitale. l’assassino più depravato e pericoloso.

Il fatto che queste tendenze retoriche congiunte abbiano ora portato a quello che sembra essere un conflitto con la Scrittura e con il coerente insegnamento magisteriale di due millenni sul tema della pena capitale dovrebbe essere un evidente segnale di avvertimento che le cose sono andate troppo oltre.

DM: Secondo Dignitas infinita , è la “dignità ontologica” di ogni essere umano ad essere “infinita”. La Dichiarazione fa una quadruplice distinzione del concetto di dignità e afferma: «La più importante tra queste è la dignità ontologica che appartiene alla persona in quanto tale semplicemente perché esiste ed è voluta, creata e amata da Dio. La dignità ontologica è indelebile e resta valida al di là di ogni circostanza in cui la persona può trovarsi”. [7] Sembra che la Dichiarazione parli di una dignità radicata nella natura . Che cosa significa, secondo te, “dignità ontologica” secondo la Dichiarazione?

EF: Lo scopo di dire che abbiamo una “dignità ontologica” è sottolineare che esiste un tipo di dignità che è inseparabile dal nostro stesso essere, piuttosto che derivare dagli atti che ci capita di compiere, o dallo status sociale che ci capita di avere , ovvero le condizioni in cui potremmo trovarci. Questi altri tipi di dignità possono essere guadagnati o perduti, ma la dignità ontologica non può esserlo.

Fin qui tutto bene. Questo è vero e importante. Il problema è con qualsiasi affermazione che questa dignità sia “infinita” in un senso preciso o letterale. Nello specifico, ci sono due problemi qui. Il primo è che questa presunta dignità infinita è qualcosa che dovremmo possedere per nostra stessa natura. Come ho detto, orientarsi e poi realizzare la visione beatifica ci darebbe la dignità più alta che siamo capaci di avere. Ma non abbiamo questo orientamento per natura, ma solo per grazia. Per grazia possiamo così superare la dignità che abbiamo per natura. Allora come potremmo già avere, proprio per natura, una dignità infinita?

In secondo luogo, però, anche se parliamo solo della dignità che abbiamo per natura piuttosto che per grazia, semplicemente non può essere strettamente corretto caratterizzarla come infinita. Solo Dio ha o potrebbe avere dignità ontologica infinita, per ragioni che ho esposto in dettaglio in un articolo sui problemi con Dignitas infinita . Ad esempio, dignitas trasmette “dignità”, “eccellenza”, “merito” o “onore”. Sostituisci la parola “dignità” con una qualsiasi di quelle parole nella frase “dignità infinita” e chiediti se il risultato potrebbe essere applicato agli esseri umani. Gli esseri umani hanno “dignità infinita”, “eccellenza infinita” o “merito infinito”? Meritano “onore infinito”? Ovviamente no, e dirlo sarebbe blasfemo. Queste descrizioni si applicano solo a Dio.

Oppure consideriamo gli attributi che normalmente consideriamo conferire a un essere umano una dignità speciale, come l’autorità, la bontà o la saggezza. Si può dire che gli esseri umani possiedano “autorità infinita”, “bontà infinita” o “saggezza infinita”? Ovviamente no e, ancora una volta, queste cose si possono dire solo di Dio.

Il modo migliore per leggere Dignitas infinita per renderla coerente con la tradizione e la sana teologia è considerare il discorso sulla nostra “dignità infinita” come un modo retorico per sottolineare che la nostra dignità è immensa o vasta. Ma ora il problema è che questa retorica, così intesa, non riuscirà a raggiungere il risultato auspicato dalla Dichiarazione. Perché anche se avessimo “immensa dignità” o “vasta dignità”, quella dignità avrebbe comunque dei limiti. E così non avremmo più alcuna base per concludere la Dichiarazione secondo cui certe cose sono escluse dalla dignità umana “al di là di ogni circostanza”, “in tutte le circostanze”, “ indipendentemente dalle circostanze”, e così via.

Pertanto, pur tracciando un’importante distinzione nel distinguere la “dignità ontologica” da altri tipi di dignità, la Dichiarazione è, purtroppo, ancora imprecisa e nel complesso scarsamente argomentata. Questa distinzione non lo salva in alcun modo dai problemi che ho descritto. Infatti, concentrarsi esplicitamente sulla nostra dignità ontologica e poi dire che quella dignità è infinita non fa altro che evidenziare i problemi.

Creazione di Adamo ed Eva (dalla Cornice della Porta del Paradiso) di Lorenzo Ghiberti, 1425-1452 [Battistero di San Giovanni all’Opera di Santa Maria del Fiore, Firenze]

DM : Nella conferenza stampa vaticana ho chiesto al cardinale Fernández : “Se l’uomo ha una dignità infinita, come può essere condannato alla sofferenza eterna dell’Inferno?” Egli ha risposto dicendo che la possibilità che l’uomo soffra eternamente all’Inferno si fonda sulla libertà umana, e che Dio rispetta la libertà dell’uomo anche in questo caso. Ma se la dignità quasi infinita dell’uomo è fondata sulla grazia, sembrerebbe che duri solo finché siamo vivi nello stato di viandante o siamo morti e salvati. L’uomo che muore in stato di peccato mortale ce l’ha più (anche potenzialmente), poiché non ha più la possibilità di entrare a far parte del Corpo mistico di Cristo?

EF: Questo è un buon esempio di un caso in cui la retorica esagerata sulla dignità umana ha implicazioni potenzialmente sovversive. Una dignità che abbiamo solo per grazia piuttosto che per natura è una dignità che potremmo perdere, aprendo la strada alla dannazione eterna. Ma se non solo abbiamo una dignità infinita, ma l’abbiamo per natura, come potremmo mai essere dannati? Il concomitante naturale di questa dignità infinita non sarebbe una volontà incapace di scegliere decisamente contro Dio?

Naturalmente il cardinale Fernández non lo dice nella sua risposta, e non dico che lo pensi nemmeno. La sua osservazione sulla libertà sembra ammettere che la dannazione sia almeno possibile. Ma il punto è che la retorica altisonante ma imprecisa della “dignità infinita” potrebbe facilmente essere interpretata nella direzione opposta. Apre la porta a ogni sorta di malizia dottrinale.

Il rimedio qui, come sempre nella storia della Chiesa, è quello di confrontare le nuove formulazioni con la Scrittura, i Padri, i Dottori della Chiesa, l’insegnamento dei papi precedenti e la tradizione in generale. Questo è ciò su cui insistono i grandi teorici dello sviluppo dottrinale, San Vincenzo di Lérins e San John Henry Newman, ed è ciò su cui si fonda l’ermeneutica della continuità di Papa Benedetto XVI. Quando ci confrontiamo con formulazioni o conclusioni nuove, dobbiamo chiederci: “Come si concilia questo con la tradizione?” Il problema è che troppi cattolici oggi lavorano nella direzione opposta. In effetti, si chiedono: “Come possiamo interpretare la Scrittura e la tradizione in un modo che le renda conformi a questa o quella nuova formulazione o conclusione?” La coda agita il cane.

DM: La filosofa britannica Elizabeth Anscombe (1919-2001) scrisse una volta: “Considerare qualcuno come meritevole di morte significa assolutamente considerarlo non solo come un essere umano, ma come dotato di una dignità propria degli esseri umani, come avente libero arbitrio e responsabile delle sue azioni. . . La pena capitale, anche se si hanno ragioni contrarie, non costituisce, in quanto tale, un peccato contro la dignità umana di chi la subisce. Dovrebbe almeno rispondere di un crimine di cui è stato giudicato colpevole con un giusto processo. L’argomentazione del cardinale Fernandez sulla dannazione non costituisce anche un’ottima difesa della pena di morte basata proprio sulla dignità umana?

EF: Il punto di vista che citi da Anscombe è ciò che ogni cattolico sapeva sulla pena di morte fino a tempi molto recenti. Tra questi rientra anche Jacques Maritain, citato in Dignitas infinita e associato al personalismo. Ha contribuito anche alla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani delle Nazioni Unite, che la nuova Dichiarazione del DDF celebra. Nel suo libro Tre riformatori , Maritain afferma che «la punizione della morte, dando all’uomo la possibilità di restaurare in sé l’ordine della ragione mediante un atto di conversione all’Ultimo Fine, gli permette proprio di recuperare la sua dignità di persona umana. .”

L’idea che la pena di morte possa infatti essere un’affermazione della dignità umana risale infatti a Genesi 9,6, dove insegna che è proprio perché l’uomo è fatto a immagine di Dio che coloro che tolgono la vita innocente sono degni di morte. La Chiesa da due millenni ha inteso così il passaggio. Eppure alcuni oggi, in un modo che ricorda il Ministero della Verità di Orwell, hanno effettivamente suggerito che il passaggio non solo non afferma la pena di morte ma di fatto la condanna! Questa è una follia.

Esiste una connessione tra la questione della pena di morte e la dottrina dell’Inferno. Se l’abuso della nostra libertà potesse comportare la dannazione eterna, allora potrebbe certamente comportare la legittimità della punizione ben minore dell’esecuzione. Ma questo ragionamento potrebbe essere facilmente ribaltato. Se la pena di morte è contro la nostra dignità, allora come potrebbe non essere contro la nostra dignità anche la punizione ben peggiore dell’Inferno? Le due dottrine alla fine resistono o cadono insieme.

Per questo motivo io stesso metto in guardia da anni sul pericolo di un’eccessiva retorica abolizionista sul tema della pena capitale. I critici mi accusano abitualmente di sete di sangue, come se la mia preoccupazione fosse cercare di trovare un modo per far uccidere le persone. Questa è una calunnia assurda e ignora completamente ciò che ho effettivamente detto. Il punto è piuttosto che condannare la pena di morte nei termini più estremi, come sempre e intrinsecamente immorale, ha implicazioni dottrinali molto radicali – per l’inerranza della Scrittura, l’attendibilità del magistero del passato, la dottrina dell’Inferno, e così via. SU.

I modernisti lo sanno bene. Una posizione abolizionista estrema è sempre stata per loro la punta sottile del cuneo, una preparazione per ulteriori revisioni dottrinali. E troppi cattolici ortodossi acconsentono, perché in Occidente la pena di morte è, in pratica, una questione in gran parte morta (perdonatemi il gioco di parole) al di fuori degli Stati Uniti. La gente accetta la sciocca idea che sia solo una questione di politica americana o cose simili, chiudendo un occhio sulle implicazioni dottrinali radicali. E sanno che, in ogni caso, parlarne troppo espone all’accusa di sangue. L’accusa è intellettualmente poco seria, ma retoricamente molto potente nel mettere a tacere il dibattito.

DM : Lei è un esperto dell’insegnamento della Chiesa cattolica sulla pena di morte e ha co-scritto il libro By Man Shall His Blood Be Shed: A Catholic Defense of Capital Punishment . In che modo l’insegnamento dell’ultimo documento, e in effetti l’allocuzione di Papa Francesco citata nel nuovo paragrafo del Catechismo, non è semplicemente un’eresia?

EF: Bisogna stare molto attenti con la parola “eresia”, sia perché è stata usata in modi diversi nella tradizione, sia perché ha gravi implicazioni nel diritto canonico. Nel diritto canonico moderno, l’“eresia” è una questione di ostinata negazione o dubbio di qualche dogma di fede. Ma c’è anche una distinzione da fare tra eresia materiale ed eresia formale. Una persona può credere in qualcosa che è materialmente eretico in quanto contrasta con qualche dogma di fede, e tuttavia non se ne rende conto. Sarebbe un eretico formale se, ad esempio, fosse avvertito dalle autorità della Chiesa che la sua opinione era eretica nel contenuto e tuttavia persistesse ostinatamente a sostenerla. Solo se qualcuno è formalmente eretico si applica la pena canonica della scomunica.

Ma c’è anche la complicazione che non tutto ciò che insegna la Chiesa conta come dogma di fede. Normalmente siamo obbligati ad acconsentire anche agli insegnamenti non infallibili, ma rifiutare l’assenso a tali insegnamenti non rende un eretico, proprio perché gli insegnamenti non infallibili non sono dogmi.

Ora, anche quando si tratta di insegnamenti infallibili, la questione se si tratti di un dogma nel senso rilevante può essere complicata. Gli esempi standard di dogmi sono insegnamenti che sono stati formalmente definiti come tali, ad esempio da un concilio ecumenico della Chiesa. Ma ci sono molte cose che la Chiesa insegna che sono chiaramente infallibili ma non sono state definite in modo formale. Il fatto che la pena capitale possa essere lecita, almeno in linea di principio, ne è un esempio. In molti scritti, incluso il libro sull’argomento che ho scritto insieme al politologo Joseph Bessette, ho esposto le prove che dimostrano che questo è un insegnamento irreformabile, dato ciò che la Scrittura, i Padri e i Papi del passato hanno detto al riguardo. . Ma non esiste alcuna dichiarazione di un concilio ecumenico, o dichiarazione papale ex cathedra , che affermi ciò. Si tratta, come tante cose che la Chiesa insegna, semplicemente di un’implicazione logica manifesta di ciò che viene insegnato da ciò che la Chiesa definisce fonti infallibili di dottrina (come le Scritture).

Ora, esiste un senso più antico della parola “eresia” che è più ampio e si riferisce a qualsiasi errore che sia in conflitto con le Scritture o con l’insegnamento tradizionale coerente della Chiesa, anche se non è stato formalmente definito. Ma penso che, a causa dei potenziali malintesi e delle inferenze errate che questo vecchio uso potrebbe suggerire, sia meglio e meno fuorviante parlare semplicemente del fatto che alcune affermazioni dottrinali siano o meno “errate”. E affermazioni dottrinali errate, sebbene storicamente estremamente rare, sono possibili quando un papa non definisce qualcosa in modo ex-cathedra .

Ora, la Chiesa in passato, compresi i papi precedenti che hanno affrontato l’argomento, hanno costantemente sostenuto che è un errore condannare la pena di morte come sempre e intrinsecamente sbagliata. Ad esempio, Papa Sant’Innocenzo I insegnò che condannare la pena di morte in modo assoluto sarebbe in contraddizione con le Scritture. E papa Innocenzo III esigeva dagli eretici valdesi che ripudiassero la condanna della pena capitale, come condizione della loro riconciliazione con la Chiesa. Dire ora che la pena capitale è intrinsecamente sbagliata significherebbe dire che questi eretici dopo tutto avevano ragione, e che la Chiesa aveva torto. Se dobbiamo dire questo, quali altre eresie dovremmo riconsiderare? Come potete vedere, le implicazioni della condanna della pena capitale come intrinsecamente sbagliata sono molto radicali.

DM : Lo stesso giorno in cui è stata rilasciata Dignitas infinita , il parlamento francese ha votato per rendere l’aborto un diritto costituzionale. Molte persone in Europa e altrove hanno accolto con favore la condanna dell’aborto, della teoria del genere e della maternità surrogata contenuta nella Dichiarazione. Cosa direbbe in particolare ai cattolici che suggeriscono che dovremmo semplicemente accogliere ciò che c’è di buono nella nuova Dichiarazione vaticana?

EF: Supponiamo che qualcuno abbia fatto di tutto per prepararti un’elegante cena a base di bistecca, ma tu abbia scoperto che la carne che aveva usato era contaminata, a sua insaputa. Naturalmente non vorrai mangiarlo, o al massimo ne mangerai solo un pezzettino, o solo i contorni che lo accompagnano. Potrebbe offendersi, lamentarsi della tua ingratitudine e notare quanto lavoro ci ha messo e quanto erano buoni gli ingredienti in generale. Ma ovviamente ciò non rende irragionevole per te rifiutarti di mangiarlo. Qualunque fossero le intenzioni del cuoco, e per quanto abilmente abbia preparato il pasto, ti farebbe comunque male se lo mangiassi.

Allo stesso modo, ci sono molte cose belle nella nuova Dichiarazione, e anche alcune cose coraggiose e assolutamente necessarie, come il suo insegnamento sulla maternità surrogata e sulla teoria del genere. Ma ciò non cambia il fatto che la retorica imprecisa ed estrema sulla dignità umana, e la nuova conclusione radicale sulla pena di morte che la Dichiarazione trae da questa retorica, sono seriamente problematiche. A lungo termine faranno del male, anche se a breve termine il materiale sulla teoria del genere e simili potrebbe fare del bene.

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