Nuovi scenari nell’epoca del Coronavirus Questa pandemia è un castigo divino? Considerazioni politiche, storiche e teologiche. Eccezionale conferenza del prof. Roberto de Mattei del 12 marzo 2020, al quale aggiungiamo un articolo, altrettanto storico, durante la peste del 1835 con Papa Gregorio XVI.
Il tema della mia conversazione è: I nuovi scenari in Italia e in Europa con e dopo il coronavirus. Non parlerò di questo tema dal punto di vista medico o scientifico: non ne ho la competenza. Tratterò invece l’argomento da altri tre punti di vista: il punto di vista dello studioso di scienze politiche e sociali; il punto di vista dello storico; e il punto di vista del filosofo della storia.
Lo studioso di scienze sociali
Le scienze politiche e sociali sono quelle che studiano il comportamento dell’uomo nel suo contesto sociale, politico e geopolitico. Da questo punto di vista non mi interrogo sulle origini del coronavirus e della sua natura, ma delle conseguenze sociali che esso sta avendo e avrà.
Un’epidemia è la diffusione su scala nazionale o mondiale (in questo caso si chiama pandemia) di una malattia infettiva che colpisce un gran numero di individui di una determinata popolazione in un arco di tempo molto breve.
Il Coronavirus, ribattezzato dall’OMS Covid-19 è una malattia infettiva che ha iniziato a diffondersi nel mondo a partire dalla Cina. L’Italia è il paese occidentale apparentemente più colpito.
Perché l’Italia oggi è in quarantena? Perché, come i più attenti osservatori hanno compreso fin dal primo momento, il problema del coronavirus non è rappresentato dal tasso di letalità della malattia, ma dalla rapidità del contagio nella popolazione. Tutti sono d’accordo sul fatto che la letalità della malattia in sé stessa non sia altissima. Un malato, se è assistito da personale specializzato in strutture sanitarie bene attrezzate può guarire. Ma se, a causa della rapidità del contagio, che può colpire simultaneamente milioni di persone, il numero dei malati dilaga, mancano le strutture e il personale: i malati muoiono perché vengono privati delle cure necessarie. Per curare i casi gravi occorre infatti il supporto della terapia intensiva per ventilare i polmoni. Se questo supporto manca, i pazienti muoiono. Se il numero dei contagiati aumenta, le strutture ospedaliere non sono più in grado di offrire la terapia intensiva a tutti e un numero sempre maggiore di pazienti soccombono.
Le proiezioni epidemiologiche sono inesorabili e giustificano le precauzioni prese. “Se incontrollato, il coronavirus potrebbe colpire tutta la popolazione italiana, ma poniamo che alla fine solo il 30% si infetti, circa 20 milioni. Se di questi — facendo uno sconto — il 10% va in crisi, ciò significa che senza terapia intensiva è destinato a soccombere. Si tratterebbe di 2 milioni di decessi diretti, più tutti quelli indiretti derivanti da un collasso del sistema sanitario e dell’ordine sociale ed economico che ne deriva”.
Il collasso del sistema sanitario porta a sua volta altre conseguenze. La prima è il crollo del sistema produttivo del paese.
Di solito le crisi economiche nascono dalla mancanza di domanda o di offerta. Ma se coloro che vorrebbero consumare devono rimanere a casa e i negozi sono chiusi e coloro che sarebbero in grado di offrire non riescono a far arrivare i loro prodotti ai clienti, perché le operazioni logistiche, il trasporto delle merci, e i punti di vendita entrano in crisi, le catene di fornitura, le supply chain, collassano. Le banche centrali non sono in grado di salvare la situazione: “la crisi post coronavirus non ha una soluzione monetaria”, scrive Maurizio Ricci, su La Repubblica del 28 febbraio. Stefano Feltri osserva a sua volta: “Le tipiche ricette keynesiane – creare posti di lavoro e domanda artificiale con soldi pubblici – non sono praticabili quando i lavoratori non escono di casa, i camion non circolano, gli stadi sono chiusi e la gente non prenota vacanze o viaggi di lavoro perché a casa malata o perché teme il contagio. A parte evitare crisi di liquidità alle imprese, sospendendo pagamenti di tasse e interessi alle banche, la politica è impotente. Non basta un decreto del governo a riorganizzare la catena di fornitura”.
L’espressione “tempesta perfetta” è stata coniata diversi anni fa dall’economista Nouriel Roubini, per indicare un mix di condizioni finanziarie, tali da portare a un crollo del mercato “Ci sarà una recessione globale dovuta al coronavirus”, afferma Nouriel Roubini, che aggiunge: “la crisi esploderà e sfocerà in un disastro”. Le previsioni di Roubini sono confermate dalla caduta del prezzo del petrolio dopo il mancato accordo all’OPEC con l’Arabia Saudita che, sfidando la Russia, ha deciso di aumentare la produzione e di tagliare i prezzi, ma sono destinate probabilmente ad essere confermate dallo svolgersi degli eventi.
Il punto debole della globalizzazione è l’”interconnessione”, parola talismano del nostro tempo, dall’economia alla religione. La Querida Amazonia di papa Francesco è un inno all’interconnessione. Ma il sistema globale è fragile proprio perché è troppo interconnesso. E il sistema di distribuzione dei prodotti è una delle catene di questa interconnessione economica.
Non è un problema di mercati, ma di economia reale. Non solo la finanza, ma anche l’industria, il commercio e l’agricoltura, vale a dire i pilastri dell’economia di un paese, possono crollare se entra in crisi il sistema della produzione e della distribuzione.
Ma c’è un altro punto che comincia a intravedersi: non c’è solo il collasso del sistema sanitario: non c’è solo la possibilità di un crack economico, ma ci può essere anche un collasso dello Stato e dell’autorità pubblica, in una parola l’anarchia sociale. Le carceri in rivolta in Italia indicano una linea di direzione,
Le epidemie hanno conseguenze psicologiche e sociali per il panico che possono provocare. Tra la fine dell’800 e l’inizio del 900 è nata la psicologia sociale. Uno dei suoi primi esponenti è Gustave Le Bon (1841-1931), autore di un celebre libro dal titolo Psychologie des foules (1895).
Le Bon analizzando il comportamento collettivo spiega come nella folla l’individuo subisce un mutamento psicologico per cui sentimenti e passioni si trasmettono da un individuo all’altro “per contagio”, come avviene per le malattie infettive. La moderna teoria del contagio sociale, che si ispira a Le Bon, spiega come, protetto dall’anonimato della massa anche l’individuo più tranquillo può diventare aggressivo, agendo per imitazione o suggestione. Il panico è uno di quei sentimenti che si trasmette per contagio sociale, come accadde durante la Rivoluzione francese nel periodo che fu detto della “grande paura”.
Se alla crisi sanitaria si aggiunge la crisi economica, un’ondata incontrollata di panico può scatenare le pulsioni violente della folla. Allo Stato si sostituiscono le tribù, le bande, soprattutto nelle periferie dei grandi centri urbani. L’anarchia ha i suoi agenti e la guerra sociale, che è stata teorizzata dal Forum di San Paolo, una conferenza delle organizzazioni di ultrasinistra dell’America Latina, viene già praticata dalla Bolivia al Cile, dal Venezuela all’Ecuador, e può presto espandersi in Europa.
Questo processo rivoluzionario corrisponde certamente al progetto delle lobby globaliste, i “padroni del caos”, come li definisce il professor Renato Cristin. Ma se questo è vero, è anche vero che chi esce sconfitto da questa crisi è proprio l’utopia della globalizzazione, presentata come la strada maestra destinata a condurre all’unificazione del genere umano. La globalizzazione infatti distrugge lo spazio e polverizza le distanze: oggi la regola per sfuggire all’epidemia è la distanza sociale, l’isolamento dell’individuo. La quarantena si oppone diametralmente alla “società aperta” auspicata da George Soros. La concezione dell’uomo come relazione, tipica di un certo personalismo filosofico, tramonta.
Papa Francesco, dopo il fallimento della Querida Amazonia, puntava molto sul convegno dedicato al global compact previsto in Vaticano per il 14 maggio. Il convegno però è stato rinviato e non solo si allontana nel tempo, ma si dissolvono i suoi presupposti ideologici. Il coronavirus ci riporta alla realtà. Non è la fine delle frontiere, annunziata dopo la caduta del Muro di Berlino. E’ la fine del mondo senza frontiere. Non è il trionfo del nuovo ordine mondiale: è il trionfo del nuovo disordine mondiale. Lo scenario politico e sociale è quello di una società che si disaggrega e si decompone. E’ tutto organizzato? E’ possibile. Però la storia non è un succedersi deterministico di eventi. Il padrone della storia è Dio, non i padroni del caos. E’ la fine del “villaggio globale”. Il killer della globalizzazione è un virus globale, chiamato coronavirus.
Lo storico
A questo punto lo storico si sostituisce all’osservatore politico e cerca di vedere le cose in una prospettiva di lunga distanza. Le epidemie hanno accompagnato la storia dell’umanità dall’inizio fino al ventesimo secolo e si sono sempre intrecciate ad altri due flagelli: le guerre e le crisi economiche. L’ultima grande epidemia, l’influenza spagnola degli anni Venti fu strettamente connessa con la Prima Guerra mondiale e con la Grande depressione del 1929, conosciuta anche come The Great Crash, una crisi economica e finanziaria che sconvolse l’economia mondiale alla fine degli anni venti, con gravi ripercussioni anche durante il decennio successivo. A questi eventi seguì poi la Seconda guerra mondiale.
Laura Spinnay è una giornalista scientifica inglese che ha scritto un libro dal titolo Pale Rider: The Spanish Flu of 1918 and How It Changed the World tradotto in italiano come: 1918. L’influenza spagnola. La pandemia che cambiò il mondo. Il suo libro ci informa che tra il 1918 e il 1920 il virus della spagnola contagiò circa 500 milioni di persone, inclusi alcuni abitanti di remote isole dell’Oceano Pacifico e del Mar Glaciale Artico, provocando il decesso di 50-100 milioni di individui, dieci volte di più della Prima guerra mondiale. La prima guerra mondiale contribuì a diffondere il virus in tutto il globo. Laura Spinnay scrive: “E difficile immaginare un meccanismo di contagio più efficace della mobilitazione di enormi quantità di truppe nel pieno dell’ondata autunnale, che poi raggiunsero i quattro angoli del pianeta dove furono accolte da folle festanti. In sostanza, quel che ci ha insegnato l’influenza spagnola è che un’altra pandemia influenzale è inevitabile, ma che se farà dieci o cento milioni di vittime dipende solo da come sarà il mondo in cui si scatenerà”.
Nel mondo interconnesso della globalizzazione la facilità del contagio è certamente maggiore di quanto non lo fosse cento anni fa. Chi potrebbe negarlo?
Ma lo sguardo dello storico si spinge più indietro nel tempo.
Il XX secolo è stato il secolo più terribile della storia, ma c’è stato un altro secolo terribile, quello che la storica Barbara Tuchman nel suo libro A distant Mirror, definisce “The Calamitous Fourteenth Century”.
Voglio soffermarmi su questo periodo storico che segna la fine del Medioevo e l’inizio dell’era moderna. Lo faccio basandomi sulle opere di storici non cattolici, ma seri e oggettivi nelle loro ricerche.
Le Rogazioni sono le processioni indette dalla Chiesa per implorare l’aiuto del Cielo contro le calamità.
Nelle Rogazioni si prega A fame, peste et bello libera nos, Domine (Dalla fame, dalla peste e dalla guerra liberaci, o Signore). La fame, la peste e la guerra sono sempre stati considerati dal popolo cristiano come castighi di Dio. L’invocazione liturgica presente nella cerimonia delle Rogazioni, scrive lo storico Roberto Lopez “riprese nel corso del Trecento tutta la sua drammatica attualità” . “Tra il secolo X e il XII — osserva Lopez — nessuno dei grandi flagelli che mietono l’umanità sembra aver infierito in grande misura; né la pestilenza, di cui non si sente parlare in questo periodo, né la carestia, né la guerra, che fece un numero molto ridotto di vittime. Per di più gli orizzonti dell’agricoltura furono allora ampliati da un lento addolcimento del clima. Ne abbiamo le prove nel ritirarsi dei ghiacciai sulle montagne e degli iceberg nei mari settentrionali, nell’estendersi della viticultura in regioni come l’Inghilterra dove oggi non è più praticabile, nell’abbondanza d’acqua nei territori del Sahara riconquistati poi dal deserto” .
Ben diverso fu il quadro del XIV secolo che vide convergere catastrofi naturali e gravi sconvolgimenti religiosi e politici.
Il XIV secolo fu un secolo di profonda crisi religiosa: si aprì con lo schiaffo di Anagni (1303), una delle più grandi umiliazioni del Papato nella storia; poi vide il trasferimento dei Papi, per settant’anni, nella città di Avignone in Francia (1308-1378) e si concluse, tra il 1378 e il 1417, con i quarant’anni dello Scisma d’Occidente, in cui l’Europa cattolica si divise tra due e poi tre Papi contrapposti. Un secolo dopo, nel 1517 la Rivoluzione protestante lacerò l’unità di fede della Cristianità
Se il XIII secolo era stato un periodo di pace in Europa, il XIV secolo fu un’epoca di guerra permanente. Basti pensare alla “guerra dei cento anni” tra Francia e Inghilterra (1339-1452) e all’irruzione dei Turchi nell’Impero bizantino con la conquista di Adrianopoli nel 1362.
L’Europa conobbe in questo secolo una crisi economica dovuta a cambiamenti climatici provocati non dall’uomo, ma dalle glaciazioni. Il clima del Medioevo era stato mite e dolce, come i suoi costumi. Il XIV secolo conobbe invece un brusco irrigidimento delle condizioni climatiche.
Le piogge e le inondazioni della primavera 1315 ebbero come conseguenza una carestia generale che assalì tutta l’Europa, soprattutto le regioni settentrionali, causando la morte di milioni di persone. La fame si diffuse ovunque. I vecchi rifiutavano volontariamente il cibo nella speranza di consentire ai giovani di sopravvivere e i cronisti del tempo scrissero di molti casi di cannibalismo.
Una delle principali conseguenze delle carestie fu la destrutturazione agricola. In questo periodo si verificarono grandi movimenti di spopolamento agricolo caratterizzati dalla fuga dalla terra e dall’abbandono dei villaggi; la foresta invase campi e vigne. Come conseguenza dell’abbandono delle campagne vi fu una forte riduzione della produttività del suolo e un depauperamento del patrimonio zootecnico
Se il maltempo provoca la carestia, questa indebolendo il fisico delle popolazioni, apre la strada alle malattie. Gli storici Ruggero Romano ed Alberto Tenenti mostrano come nel Trecento si intensificò il ciclo ricorrente tra carestie ed epidemie. L’ultima grande pestilenza era scoppiata tra il 747 e il 750; quasi seicento anni dopo essa ricomparve, ripetendosi per quattro volte a distanza di un decennio.
La peste veniva dall’Oriente e giunse nell’autunno del 1347 a Costantinopoli. Nel corso dei successivi tre anni contagiò tutta l’Europa fino alla Scandinavia e alla Polonia. E’ la peste nera di cui parla Boccaccio nel Decamerone. L’Italia perse circa la metà dei suoi abitanti. Agnolo di Tura, cronista di Siena, lamentava di non trovare più nessuno che seppellisse i morti, e di aver dovuto seppellire con le proprie mani i suoi cinque figli. Giovanni Villani, cronista fiorentino, venne stroncato dalla peste in maniera tanto repentina che la sua cronaca si interrompe a metà di una frase.
La popolazione europea che all’inizio del 1300 era arrivata a superare i 70 milioni di abitanti, dopo un secolo di guerre, epidemie e carestie, arrivava a 40 milioni; era diminuita dunque di oltre un terzo.
Le carestie, la pestilenza e le guerre del XIV secolo, furono interpretate dal popolo cristiano come segni del castigo di Dio.
Tria sunt flagella quibus dominus castigat: tre sono i flagelli con cui Dio castiga i popoli: guerra, pestilenza e fame, ammoniva, san Bernardino da Siena (1380-1444).
San Bernardino da Siena appartiene a quel numero di santi, come Caterina da Siena, Brigida di Svezia, Vincenzo Ferreri, Luigi Maria Grignion di Monfort, che spiegarono come nella storia le sciagure naturali hanno sempre accompagnato le infedeltà e l’apostasia delle nazioni. Accadde alla fine del Medioevo cristiano, sembra accadere con le sciagure di oggi. Santi come Bernardino da Siena non attribuirono questi eventi all’opera di agenti malvagi, ma ai peccati degli uomini, tanto più gravi se sono peccati collettivi e più gravi ancora se tollerati o promossi dai reggitori dei popoli e da chi governa la Chiesa.
Il filosofo della storia
Queste considerazioni ci introducono al terzo punto in cui considererò gli eventi non come sociologo o come storico, ma come filosofo della storia.
La teologia e la filosofia della storia sono campi della speculazione intellettuale che applicano alle vicende storiche i princìpi della teologia e della filosofia. Il teologo della storia è come un’aquila che giudica dalle vette gli accadimenti umani. Sono stati grandi teologi della storia, sant’Agostino (3054-430), Jacques Bénigne Bossuet (1627-1704), che fu detto l’aquila di Meaux, dal nome della diocesi di cui fu vescovo, il conte Joseph de Maistre (1753-1821), il marchese Juan Donoso Cortés (1809-1853), l’abate di Solesmes Dom Guéranger (1805-1875), il professor Plinio Correa de Oliveira (1908-1995) e molti altri.
C’è un’espressione biblica che dice: Judicia Dei abyssus multa (Salmi, 35, 7): I giudizi di Dio sono un grande abisso.
Il teologo della storia si sottomette a questi giudizi e cerca di capirne la ragione.
San Gregorio Magno, invitandoci a indagare le ragioni dell’opera divina, afferma: “Chi nelle opere di Dio non scopre la ragione per cui Dio le fa, troverà nella sua meschinità e bassezza causa sufficiente a spiegare il perché siano vane le sue indagini” .
La filosofia e la teologia moderna, sotto l’influsso soprattutto di Hegel, ha sostituito ai giudizi di Dio quelli della storia. Il principio secondo cui la Chiesa giudica la storia è capovolto. Secondo la nouvelle théologie, non è la Chiesa che giudica la storia, ma la storia che giudica la Chiesa. perché la Chiesa, non trascende la storia, ma è immanente, interna ad essa.
Quando il cardinale Carlo Maria Martini, nella sua ultima intervista, affermava che “la Chiesa è indietro di 200 anni” rispetto alla storia, assumeva la storia come criterio di giudizio della Chiesa. Quando papa Francesco, nei suoi auguri natalizi del 21 dicembre 2019, fa sue le parole del cardinale Martini, giudica la Chiesa in nome della storia, capovolgendo quello che dovrebbe essere il criterio di giudizio cattolico.
La storia in realtà è una creatura di Dio, come la natura, come tutto ciò che esiste, perché nulla di ciò che esiste è sottratto a Dio. Tutto ciò che accade nella storia è previsto, regolato e ordinato da Dio da tutta l’eternità.
Dunque per il filosofo della storia ogni discorso non può che cominciare da Dio e finire con Dio. Dio non solo esiste, ma si occupa delle creature, e premia o castiga quelle razionali, secondo i meriti e le colpe di ognuno. Il Catechismo di san Pio X insegna: “Dio premia i buoni e castiga i cattivi perché è giustizia infinita”.
La giustizia, spiegano i teologi, è una delle infinite perfezioni di Dio. L’infinita misericordia di Dio presuppone la sua infinità giustizia.
Tra i cattolici l’idea di giustizia, come quella di giudizio divino, è spesso rimossa. Eppure la dottrina della Chiesa insegna l’esistenza di un giudizio particolare che segue la morte di ciascuno, con l’immediata retribuzione delle anime e di un giudizio universale in cui saranno giudicati gli angeli e gli uomini per pensieri, parole, opere, omissioni.
La teologia della storia afferma che Dio premia e punisce non solo gli uomini, ma le collettività e i gruppi sociali: famiglie, nazioni, civiltà. Ma mentre gli uomini hanno la loro ricompensa o il loro castigo, a volte in terra, ma sempre nell’eternità, le nazioni, prive di vita eterna vengono punite o premiate solo in terra.
Dio è giusto e rimuneratore e dà a ciascuno il suo: non solo castiga le singole persone, ma tribola anche famiglie, città, nazioni per i peccati che vi si commettono. Terremoti, carestie, epidemie, guerre, rivoluzioni sono sempre stati considerati castighi divini. Come scrive il padre Pedro de Ribadaneira (1527-1611) “guerre e pestilenze, siccità e carestie, fame, incendi e tutte le altre disastrose calamità sono castigo ai peccati delle popolazioni”.
Il 5 marzo il vescovo di un’importante diocesi italiana, di cui non faccio il nome, ha dichiarato: “Una cosa è certa: questo virus non è stato mandato da Dio per punire l’umanità peccatrice. È effetto della natura nel suo tratto di matrigna. Ma Dio affronta con noi questo fenomeno e probabilmente ci farà capire, finalmente, che l’umanità è un villaggio unico”.
Questo vescovo italiano non rinuncia al mito del “villaggio unico” e neppure alla religione della natura del Pachamama e di Greta Thurnberg, anche se per lui la “Grande Madre”, può divenire “matrigna”. Ma il vescovo soprattutto respinge con forza l’idea che l’epidemia di coronavirus, o qualsiasi altra sciagura collettiva possa essere un castigo per l’umanità. Il virus, crede il vescovo, è solo effetto della natura. Ma chi è che ha creato, regola e dirige la natura? Dio è l’autore della natura, con le sue forze e con le sue leggi ed ha la potenza di disporre il meccanismo delle forze e delle leggi della natura in modo da produrre un fenomeno secondo le esigenze della sua giustizia o della sua misericordia. Dio, che causa prima di tutto ciò che esiste, si serve sempre di cause seconde per attuare i suoi piani. Chi ha spirito soprannaturale non si ferma alla superficie, delle cose ma cerca di comprendere il disegno di Dio nascosto sotto la forza apparentemente cieca della natura.
Il grande peccato contemporaneo è la perdita di fede degli uomini di Chiesa: non di questo o di quell’uomo di Chiesa, ma degli uomini di Chiesa nel loro insieme, salvo qualche eccezione, grazie a cui la Chiesa non perde la sua visibilità. Questa infedeltà produce l’accecamento della mente e l’indurimento del cuore, l’indifferenza davanti alla violazione dell’ordine divino dell’universo.
E’ un’indifferenza che nasconde l’odio verso Dio. Come si manifesta? Non direttamente. Questi uomini di Chiesa sono troppo vigliacchi per sfidare direttamente Dio: preferiscono esprimere il loro odio verso coloro che osano parlare di Dio. Chi osa parlare di castigo di Dio viene lapidato: un fiume di odio si riversa contro di lui.
Questi uomini di Chiesa, pur professando verbalmente di credere in Dio, di fatto vivono immersi nell’ateismo pratico. Essi spogliano Dio di tutti i suoi attributi, riducendolo a puro “essere”, cioè a nulla. Tutto ciò che accade è per essi frutto della natura, emancipata dal suo autore, e solo la scienza, non la Chiesa, è in grado di decifrarne le leggi.
Eppure non solo la sana teologia, ma lo stesso sensus fidei, insegna che tutti i mali fisici e materiali che non provengono dalla volontà dell’uomo, dipendono dalla volontà di Dio. “Tutto quello che accade qui contro la nostra volontà — scrive sant’Alfonso de’ Liguori — sappi che non arriva se non per la volontà di Dio, come dice sant’Agostino”.
Il 19 luglio la liturgia della Chiesa ricorda san Lupo vescovo di Troyes (383-478). Era fratello di san Vincenzo di Lerins, cognato di san Ilario di Arles, appartenente ad una famiglia di antica nobiltà senatoria, ma soprattutto di grande santità.
Durante il suo lungo episcopato, 52 anni, la Gallia fu invasa dagli Unni. Attila, alla testa di un esercito di 4000 mila uomini, varcò il Reno, devastando tutto ciò che trovava sul suo cammino. Quando giunse davanti alla città di Troyes, il vescovo Lupo, indossati gli abiti pontificali e seguito dal suo clero in processione, si fece incontro ad Attila e gli chiese: “Chi sei tu che minacci questa città?”. La risposta fu: “Non sai chi sono? Sono Attila, re degli Unni, detto il flagello di Dio”. “E allora sii il benvenuto flagello di Dio, perché noi meritiamo i flagelli divini, a causa dei nostri peccati. Ma se è possibile riversa i tuoi colpi solo sulla mia persona, e non sull’intera città”.
Gli Unni entrarono nella città di Troyes, ma per divino volere furono accecati e la attraversarono, senza accorgersene e senza fare male a nessuno.
Oggi i vescovi non solo non parlano di flagelli divini, ma non invitano nemmeno i fedeli a pregare perché Dio li liberi dall’epidemia. C’è una coerenza in questo. Chi prega, infatti, chiede a Dio di intervenire nella propria vita, e quindi nelle cose del mondo, per essere protetto dal male, e per ottenere beni spirituali e materiali. Ma perché mai Dio dovrebbe ascoltare le nostre preghiere se Egli si disinteressa dell’universo da Lui creato?
Se, al contrario, Dio può, con i miracoli, cambiare le leggi della natura, evitando le sofferenze e la morte di un uomo, o l’ecatombe di una città, può anche decidere la punizione di una città o di un popolo, perché i peccati collettivi chiamano castighi collettivi. “Per i peccati – dice san Carlo Borromeo – permise Dio che l’incendio della peste si attaccasse in ogni parte di Milano”. E san Tommaso d’Aquino spiega: “Quando è tutto il popolo che pecca, la vendetta va fatta su tutto il popolo, come furono sommersi nel mar Rosso gli Egiziani che perseguitavano i figli d’Israele, e come furono colpiti in blocco gli abitanti di Sodoma; oppure va colpito un numero rilevante di persone, come avvenne nel castigo inflitto per l’adorazione del vitello d’oro”.
Alla vigilia della seconda sessione del Concilio Vaticano I, il 6 gennaio 1870, san Giovanni Bosco ebbe una visione in cui gli fu rivelato che “la guerra, la peste, la fame sono i flagelli con cui sarà percossa la superbia e la malizia degli uomini”. Così si espresse il Signore: “Voi, o sacerdoti, perché non correte a piangere tra il vestibolo e l’altare, invocando la sospensione dei flagelli? Perché non prendete lo scudo della fede e non andate sopra i tetti, nelle case, nelle vie, nelle piazze, in ogni luogo anche inaccessibile, a portare il seme della mia parola? Ignorate che questa è la terribile spada a due tagli che abbatte i miei nemici e che rompe le ire di Dio e degli uomini?”.
Oggi i sacerdoti tacciono, i vescovi tacciono, il Papa tace.
Ci avviciniamo alla Settimana Santa e alla Santa Pasqua. Ebbene, per la prima volta forse da molti secoli in Italia le chiese sono chiuse, le messe sono sospese, perfino la Basilica di San Pietro è chiusa. Le funzioni religiose pasquali urbe et orbi non raccoglieranno i pellegrini di tutto il mondo. Dio, punisce anche per “sottrazione”, dice san Bernardino da Siena, e oggi Dio sembra quasi aver sottratto le chiese, la Madre di tutte le chiese al supremo Pastore, mentre il popolo cattolico brancola disorientato nel buio, privo di quella luce verità che dalla Basilica di San Pietro dovrebbe illuminare il mondo. Come non vedere in quanto sta producendo il coronavirus una simbolica conseguenza dell’autodemolizione della Chiesa?
Judicia Dei abyssus multa. Dobbiamo essere certi che quanto accade non prefigura il successo dei figli delle tenebre, ma della loro sconfitta, perché, come spiega il padre Carlo Ambrogio Cattaneo della Compagnia di Gesù (1645-1705) il numero dei peccati, di un uomo o di un popolo è contato. Venit dies iniquitate praefinita, dice il profeta Ezechiele (21, 2): Dio è misericordioso ma c’è un ultimo peccato che Dio non tollera e che provoca il suo castigo.
Inoltre, secondo un principio della teologia della storia cristiana, il centro della storia non sono i nemici della Chiesa, ma i santi. Omnia sustineo propter electos (II Tim. 2, 10) dice san Paolo. E’ attorno agli eletti che gira la storia. E la storia dipende dai disegni impenetrabili della Divina Provvidenza.
Nella storia agiscono uomini, gruppi, società organizzate, pubbliche o segrete che si oppongono alla legge di Dio, che si sforzano di distruggere tutto ciò che è ordinato a Dio. Possono ottenere dei successi apparenti, ma saranno sempre sconfitti.
Lo scenario che abbiamo davanti è apocalittico, ma Pio XII di ricorda che nell’Apocalisse (6, 2), san Giovanni, “non mirò soltanto le rovine cagionate dal peccato, guerra, fame e morte; egli vide anche in primo luogo la vittoria di Cristo. Ed invero il cammino della Chiesa attraverso i secoli è bensì una via crucis, ma è anche in ogni tempo una marcia di trionfo. La Chiesa di Cristo, gli uomini della fede e dell’amore cristiano, sono sempre quelli che alla umanità senza speranza portano la luce, la redenzione e la pace. Iesus Christus heri et hodie, ipse et in saecula (Hebr. 13, 8). Cristo è la vostra guida, di vittoria in vittoria. Seguitelo”.
La Madonna a Fatima ci ha svelato lo scenario del nostro tempo e ci ha assicurato il suo trionfo. Con l’umiltà di chi è consapevole che nulla può con le proprie forze, ma anche con la fiducia di chi sa che tutto può con l’aiuto di Dio, non retrocediamo e ci affidiamo a Maria nell’ora tragica degli eventi preannunciati dal messaggio di Fatima.

(Roberto de Mattei) Il colera, che flagellò l’Europa nell’Ottocento, partì nel 1817 dalle rive del Gange, in India. Il cammino del morbo fu lento, ma inesorabile. La pandemia si diffuse fino alla Cina e al Giappone, entrò in Russia, e da lì si estese ai paesi scandinavi, all’Inghilterra e all’Irlanda, da dove con le navi degli emigranti raggiunse l’America, colpendo, negli anni Trenta, Canada, Stati Uniti, Messico, Perù, Cile. Nel 1832 raggiunse Parigi, poi la Spagna, e finalmente, nel luglio 1835 varcò i confini dell’Italia del nord, a Nizza, Genova, Torino. Lo storico Gaetano Moroni (1802-1883), nel suo celebre Dizionario di erudizione, parlando del «distruggitore e desolante flagello del Cholera morbus, indiano o asiatico», lo definisce «peste» e lo presenta in questi termini: «Peste significa ogni sorta di flagelli, castigo divino che incute a tutti salutare spavento e timore, scuotendo i peccatori ostinati a verace penitenza, con mirabili effetti, essendo i peccati la perenne sorgente di ogni avversità» (Dizionario di erudizione storico-ecclesiastica, Tipografia Emiliana, Venezia 1840-1861, vol. 52, p. 219). Gregorio XVI, eletto nel 1831 al soglio pontificio, fin dal 1835 inviò una commissione medica a Parigi per avere un resoconto scientifico sulla malattia, di cui era ignota la natura. In Italia, alla prima comparsa del morbo, si era aperto un acceso dibattito tra due scuole mediche, i “contagionisti” e gli “epidemisti” per stabilire se il colera era un morbo contagioso o epidemico. I “contagionisti” ritenevano che la diffusione della malattia avvenisse per contatto diretto o indiretto con i malati, e che, di conseguenza, le misure per contenerla dovessero consistere nell’istituzione di cordoni sanitari e quarantene. Gli “epidemisti” affermavano invece che la causa delle malattie andava ricercata nelle cattive condizioni igieniche e nei miasmi dell’atmosfera, ed erano contrari alle misure di isolamento e di quarantena, dal momento che è impossibile impedire all’aria di circolare (Eugenia Tognotti, Il mostro asiatico. Storia del colera in Italia, Laterza, Roma-Bari 2000). Generalmente i governi monarchici propendevano per l’ipotesi contagionista, mentre i liberali e i carbonari, che ritenevano tiranniche tutte le iniziative lesive delle liberà individuali, sostenevano l’ipotesi epidemista, e quando il morbo colpì il Regno delle Due Sicilie, diffusero la notizia che il colera sarebbe stato provocato da un veleno propagato dallo stesso governo borbonico.
Gregorio XVI, che nell’enciclica Mirari vos del 15 agosto 1832 aveva condannato il liberalismo, era incline all’ipotesi contagionista. Il 12 agosto la Congregazione Sanitaria istituita dal Papa pubblicò un Regolamento e metodo per l’attivazione dei cordoni sanitari per impedire ai confini dello Stato pontificio, e anche in alcune zone al suo interno, il passaggio in entrata e in uscita di uomini e cose che in qualche modo potessero trasmettere e propagare il contagio. I cordoni sanitari erano costituiti da due barriere successive, larghe un miglio (il cordone “infetto” e il cordone “sano”), controllate da una serie di sentinelle, che impedivano rigorosamente l’accesso a chicchessia. Tra i due cordoni erano previste almeno tre case, dove le persone avrebbero dovuto passare quattordici giorni di quarantena. All’editto erano allegate ulteriori disposizioni, tra cui l’uso di “passaporti sanitari”, rilasciati a chi, sottoposto a controllo, potesse poi circolare liberamente, e la segregazione immediata e completa dei comuni «dove per colmo di sciagura scoppiasse il male». Era poi ordinato che se nonostante tutte le precauzioni, il morbo fosse entrato in una parte della città, si sarebbe allora proceduto a “barricare le strade”, provvedendo al tempo stesso ai viveri della popolazione. Alla fine si ricordava la severità estrema con cui sarebbero punite le violazioni di queste disposizioni: le pene prevedevano fino all’ergastolo in caso di passaggio clandestino attraverso i cordoni, e la pena di morte per i casi di contagio colpevole (Marcello Teodonio, Francesco Negro, Colera, omeopatia ed altre storie, Roma 1837, Fratelli Palombi, Roma 1988, pp. 38-39). Il colera non aveva ancora colpito Roma, ma il 20 settembre 1836 il cardinale Anton Domenico Gamberini, ministro degli interni dello Stato Pontificio, pubblicò un editto in cui, a nome di Gregorio XVI notificava che per fare «tutto quello che l’umana prudenza consiglia» e «rendere meno dannosa l’invasione del morbo», se «questa, in pena dei nostri peccati, ci fosse riservata», veniva istituita un Roma una “Commissione straordinaria di pubblica incolumità”, presieduta dal cardinale Giuseppe Sala e composta da sei membri, tre religiosi e tre laici, affiancati da un Consiglio medico permanente. Roma era divisa in 14 sezioni sanitarie, corrispondenti ai rioni, ciascuna dotata di una commissione particolare, composta da medici, chirurgi e infermieri. Ogni commissione aveva come compito la pulizia delle strade, la vendita di commestibili e bevande, l’aiuto agli indigenti, il soccorso ai colerosi. Le farmacie dovevano fornire le medicine gratis ai malati, mentre i medici avrebbero dovuto tenere un registro quotidiano dei casi. Assisteva il cardinale Sala, nella sua missione di sorvegliante di tutti gli ospedali della città, il sacerdote don Gioacchino Pecci, futuro Leone XIII, che in quello stesso anno aveva conseguito il dottorato in teologia e diritto canonico. Il 7 gennaio 1837, la Commissione militare istituita da Gregorio XVI comunicò di aver comminato la galera a vita per sei persone, colpevoli di aver infranto il cordone sanitario e il 14 gennaio, tra le proteste di molti, venne pubblicato un editto con cui veniva proibita la celebrazione dello storico carnevale romano. Il mercoledì delle ceneri il cardinale Odescalchi ricordava ai romani di «voler placare con digiuni, orazioni e altre opere di pietà, l’ira dell’Onnipotente, provocata dalle gravi colpe, al fine di tener lontani i flagelli che ci minacciano».
Nel luglio del 1837 si segnalarono i primi casi di colera a Roma. L’opinione pubblica si divise tra chi ammetteva e chi negava l’esistenza dell’epidemia. Il colera però divampò tra luglio e settembre. Mentre i circoli liberali continuavano a spargere la voce che il governo pontificio avrebbe deliberatamente diffuso il morbo, Gregorio XVI ordinò di rafforzare i cordoni sanitari e sospendere tutte le sagre, le feste e ogni tipo di assembramento. Vennero mobilitate le milizie, chiusi i confini e gli approdi, e dato ordine ai corpi di cavalleria di battere i luoghi più remoti. Il 6 agosto fu fatta una solenne processione della Madonna di San Luca, dalla basilica di Santa Maria Maggiore alla chiesa del Gesù dove l’immagine miracolosa rimase esposta otto giorni. Alla Madonna, preceduta da un picchetto di dragoni a cavallo, recò omaggio, lungo il percorso, il Papa con tutto il Sacro Collegio e il governo romano.
Le cronache registrano l’abnegazione del clero, secolare e regolare e la «evangelica dedizione del Pontefice che non esitava a recarsi ove il morbo più infieriva e a sovvenire anche di persona ai bisogni spirituali e materiali delle vittime» (Paolo Dalla Torre, L’opera riformatrice ed amministrativa di Gregorio XVI, in Gregorio XVI, Pontificia Università Gregoriana, Roma 1948, vol. II, p. 70). Tra i sacerdoti che si distinsero nell’eroica assistenza ai malati e nel soccorso ai moribondi, furono san Vincenzo Pallotti e san Gaspare del Bufalo. Secondo il Diario di Roma dell’epoca, nello spazio di tre mesi, dal 28 luglio al 9 ottobre 1837, i colpiti dal colera nella città Eterna, sarebbero stati 8.090, i morti 4.446. Morì, il 28 dicembre anche san Gaspare del Bufalo, alla cui morte san Vincenzo Pallotti assistette, vedendo che la sua anima saliva al cielo come una fiamma. Tra coloro che furono colpiti di colera, in forma benigna, fu l’abate benedettino di Solesmes, dom Prosper Guéranger, che si trovava a Roma per ottenere l’approvazione ufficiale della sua fondazione. Una volta rimessosi e ottenuto il riconoscimento da Gregorio XVI, dom Guéranger cercò di tornare in Francia, ma il suo biografo racconta che le comunicazioni dello Stato pontificio con il resto del mondo erano sospese e il cordone sanitario bloccava il porto di Civitavecchia e tutte le altre strade. Solo il 4 ottobre Dom Guéranger riuscì a lasciare lo stato pontificio e dopo un interminabile viaggio, riuscì finalmente ad arrivare a Parigi (Dom Guy-Marie Oury, Dom Guéranger moine au coeur de l’Eglise, Editions de Solesmes, 2000, pp. 158-160). L’epidemia intanto si spense lentamente e il 15 ottobre nelle tre basiliche patriarcali di San Giovanni, San Pietro e Santa Maria Maggiore e in tutte le chiese parrocchiali, si cantò solennemente il Te Deum, con indulgenza plenaria, in ringraziamento della cessazione del colera.
Dodici anni dopo, nel 1849, l’uragano della Repubblica romana, ben peggiore dell’epidemia di colera, travolse la città di Roma, costituendo una nuova tappa del processo rivoluzionario che arriva ai nostri giorni. Solo nel 1884 il vibrione responsabile del colera venne individuato da Robert Koch e l’anno successivo fu possibile la realizzazione del primo vaccino da parte del medico spagnolo Jaime Ferran.
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Leone XII, il Papa della libertà vaccinale
Il glorioso nome papale di Leone è stato reso famoso da Gioacchino Pecci, Leone XIII (1810-1903). Tuttavia, due secoli fa ci fu alla guida della barca di Pietro un altro Leone, il XII, al secolo Annibale della Genga (1760-1829), di nobile famiglia marchigiana.
Il suo fu un pontificato breve, di nemmeno sei anni. Eletto a 63 anni, era stato scelto dopo un conclave molto difficile per essere un Papa “di transizione”. Ma il suo pontificato si caratterizzò per molti importanti interventi, e inoltre papa Leone XII passò alla storia per aver sancito per la prima volta il diritto alla libertà vaccinale. Naturalmente per questa decisione venne attaccato dagli scientisti più intolleranti. Ricostruiamo le circostanze storiche che portarono a questa fondamentale presa di posizione.
Il vaccino antivaioloso nasce alla fine del XVIII secolo in Inghilterra, ad opera del medico Edward Jenner. Trova subito un’ampia diffusione in Europa e, in particolare, in Francia. È la Francia che vede al potere Napoleone Bonaparte, sull’onda lunga della Rivoluzione francese. Napoleone aveva avviato una guerra di conquista in tutta Europa, e nei confronti della Chiesa manifestava un odio feroce e il chiaro e determinato intento di distruggerla.
Tra le misure che il dittatore aveva imposto nei territori da lui dominati c’era l’obbligo delle vaccinazioni. Il sogno di Napoleone, come ben noto, si infranse sul campo di battaglia di Waterloo, in Belgio, nel 1815. Venne dunque il tempo della Restaurazione. Papa Pio VII (1742-1823), che era stato tenuto in prigionia in Francia, poté rientrare a Roma. Nonostante il periodo della Restaurazione, molte idee rivoluzionarie non erano affatto morte, tenute accese dalla Massoneria.
Nel 1822, mentre il pontefice anziano e malato aveva un controllo sempre più fievole della Chiesa, il potente segretario di Stato, cardinale Ercole Consalvi, emanava un minuzioso editto sulla vaccinazione contro il vaiolo, organizzandone la diffusione su tutti i territori dello Stato della Chiesa, e imponendo l’obbligo secondo la visione napoleonica. Vincolava l’obbligo anche a misure punitive di tipo economico: le richieste di aiuti di tipo caritativo dovevano «essere accompagnate da un certificato, dal quale risulti che il chiedente, essendo padre di famiglia, ha fatto praticare la vaccinazione». Il cardinale Consalvi aveva trovato un supporto in uno dei più prestigiosi intellettuali dello Stato Pontificio: il conte Monaldo Leopardi, che era entusiasta delle vaccinazioni e le aveva fatte somministrare al figlio Giacomo. La misura coercitiva era stata accolta da forti e diffuse proteste degli abitanti dello Stato Pontificio.
Con la morte, l’anno seguente, di Pio VII, venne eletto Leone XII. La sua elezione era stata contrastata dal governo francese, al quale era decisamente inviso. Il pontificato di Leone si caratterizzò per una decisa opposizione all’azione della Massoneria. Riorganizzò tutto il sistema scolastico. Riordinò le università dello Stato Pontificio, suddividendole in due classi: alla prima assegnò quelle di Roma e Bologna, con trentotto cattedre; alla seconda quelle di Ferrara, Perugia, Camerino, Macerata e Fermo, con diciassette cattedre. Istituì, nello stesso tempo, la Congregazione degli Studi, allo scopo di controllare l’operato delle università stesse. Venne dato maggiore spazio all’istruzione scientifica, ad esempio con l’istituzione della laurea in farmacia.
Leone XII, inoltre, prima che fosse trascorso il primo anno di pontificato, abolì l’obbligo vaccinale, attraverso una circolare legislativa datata 15 settembre 1824, con cui il Papa revocava ogni disposizione presa in proposito dal segretario di Stato. In sostanza, si lasciava libertà di scelta rispetto alla vaccinazione. La Chiesa rendeva disponibili i vaccini a chi volesse usufruirne. Obbligava i medici a praticare la vaccinazione gratuitamente a coloro che la richiedevano. Era tolta l’odiosa misura di esibire il certificato vaccinale per ottenere assistenza. Il decreto venne accolto con grande gioia, e papa Leone venne elogiato anche dal poeta Gioacchino Belli, spesso caustico verso gli alti prelati. Papa Leone era arrivato a questa decisione dopo aver ascoltato le relazioni di medici che sottolineavano la pericolosità dei vaccini, per la cui realizzazione era stato utilizzato materiale umano e non bovino, come nei primi tempi, e che avevano segnalato il verificarsi di non rari decessi in seguito ai vaccini.
Un Papa oscurantista? Decisamente no. Tra le sue azioni ci fu anche quella di rivedere il cosiddetto Indice dei libri proibiti e permise la libera circolazione delle opere di Galileo Galilei. La decisione sulla vaccinazione fu presa non per un’aprioristica contrarietà alle novità della medicina, ma perché il Papa con grande saggezza non sposò le tesi scientiste che vedevano nella vaccinazione stessa la soluzione a ogni malattia. Con molto buon senso, permise questa nuova pratica sanitaria, ma rifiutò che essa fosse obbligatoria, difendendo la libertà di scelta.

