Dopo la Morte Gesù è Giudice e non un notaio o un compagnone de merenda!!

Riportiamo la meditazione del domenicano Padre Riccardo Barile pubblicato dalla Nuova Bussola Quotidiana… non perdiamo questa occasione per meditare sulla nostra sorte…. Dal canto nostro vi ricordiamo che abbiamo fatto i NOVISSIMI con il compianto Vescovo Alessandro Maggiolini e stiamo meditando con voi Apparecchio alla Morte di sant’Alfonso Maria de Liguori.


qui il nostro video con il testo meditato….


BREVE PREMESSA NOSTRA:

PRIMA DEL GIUDIZIO UNIVERSALE I DESTINI SONO TRE: INFERNO (DEFINITIVO con giudizio immediato appena moriamo e se lo abbiamo meritato), PURGATORIO (TRANSITORIO per la purificazione dell’Anima che però è già definita Santa ed è destinata al Paradiso) E PARADISO (DEFINITIVO). DOPO IL GIUDIZIO UNIVERSALE, IL PURGATORIO CESSERA’ LA SUA FUNZIONE

Il termine latino “novissimi” traduce il termine greco “escatologia” che significa discorso (logos) sulle ultime realtà (èskata) e viene utilizzato per indicare quella parte della dottrina cristiana che riguarda il destino eterno dell’uomo: la morte e la vita che ne potrà seguire. Sono detti “Novissimi” le cose che succederanno all’uomo alla fine della sua vita: la morte, il giudizio, il destino eterno. La Chiesa ce li ricorda in modo speciale nel mese di novembre. Attraverso la liturgia, si invitano i cristiani a meditare su queste realtà. Il termine «Novissimi» è antico, ma si trova ancora nel Catechismo della Chiesa Cattolica. Con questo termine vengono indicate le realtà ultime: novus in latino significa ultimo. Noi lo traduciamo istintivamente con nuovo; non è del tutto errato, perché le cose ultime sono anche nuove. “Novissimi” significa, quindi, le realtà ultime, tanto ultime che ci sono sconosciute. Sono la Morte, che è l’ultima esperienza che attendiamo di vivere su questa terra; il Giudizio, perché crediamo che dopo la morte ci accoglierà il Signore e, come sappiamo dal Vangelo, ci dirà “Venite a me” oppure “Via, lontano da me” (Mt 25,31-46): sarà il confronto completo e definitivo con l’amore di Dio. Infine vedremo la conclusione, il Paradiso, per chi viene accolto alla destra del Re pastore, o l’Inferno, per chi viene mandato alla sua sinistra.

Che cos’è il Purgatorio? È per sempre?

Coloro che muoiono nella grazia e nell’amicizia di Dio, ma sono imperfettamente purificati, sebbene siano certi della loro salvezza eterna, vengono però sottoposti, dopo la loro morte, ad una purificazione, al fine di ottenere la santità necessaria per entrare nella gioia del cielo. La Chiesa chiama purgatorio questa purificazione finale degli eletti, che è tutt’altra cosa dal castigo dei dannati.
Questo insegnamento poggia anche sulla pratica della preghiera per i defunti di cui la Sacra Scrittura già parla: «Perciò [Giuda Maccabeo] fece offrire il sacrificio espiatorio per i morti, perché fossero assolti dal peccato» (2 Mac 12,45). Fin dai primi tempi, la Chiesa ha onorato la memoria dei defunti e ha offerto per loro suffragi, in particolare il sacrificio eucaristico (cfr. DS 856), affinché, purificati, possano giungere alla visione beatifica di Dio.
La Chiesa raccomanda anche le elemosine, le indulgenze e le opere di penitenza a favore dei defunti.
Catechismo della Chiesa Cattolica, 1030-1032

“Nel Credo sono contenuti i quattro novissimi, significati dalle parole: “Verrà a giudicare i vivi e i morti. La comunione dei santi. Il perdono dei peccati”. Si parla infatti chiaramente di vivi e di morti, del giudizio finale di Dio sugli uomini, della resurrezione futura dei morti e della vita eterna che ci sarà dopo il giudizio di Dio, in base al quale sarà premio per i buoni e castigo per i malvagi.
Premio e castigo che, essendo proporzionati rispettivamente all’obbedienza o all’offesa fatta ad un Dio infinito, sono gloria e felicità infinita o inferno e disgrazia infinita.
Pertanto c’è morte, dato che si dice che i morti risorgeranno; c’è giudizio dato che Gesù Cristo, nostro Signore, verrà a giudicare i vivi e i morti; inferno e gloria, cioè vita eterna di dolore o di felicità.”
(BEATA Madre Speranza)


Il Catechismo ricorda l’urgenza di attendere alla Salvezza finché si è in terra. Oggi c’è chi dice che Dio si limiti a ratificare la nostra volontà. È verissimo che «chi pecca, danneggia se stesso» (Sir 19,4), ma il Signore nelle Sacre Scritture non è un mero notaio, bensì Giudice. Ciò, insieme all’immutabilità dopo la morte, ha delle ricadute su Inferno e Paradiso. Vediamole

RICORDA CHE…….

Per i giorni dedicati ai Santi e ai Defunti attiro l’attenzione su alcuni punti di dottrina, problemi teologici e di linguaggio, che non sempre vengono affrontati correttamente.

DOPO LA MORTE NON SI CAMBIA

«La morte è la fine del pellegrinaggio terreno dell’uomo, è la fine del tempo della grazia e della misericordia che Dio gli offre per realizzare la sua vita terrena secondo il disegno divino e per decidere il suo destino ultimo. Quando è “finito l’unico corso della nostra vita terrena” (LG 48), noi non ritorneremo più a vivere altre vite terrene. “È stabilito per gli uomini che muoiano una sola volta” (Eb 9,27). Non c’è “reincarnazione” dopo la morte» (CCC 1013).

Possiamo accettare le affermazioni del Catechismo, ma non è semplice immaginare l’immutabilità dopo la morte, dal momento che questa vita, dalla politica agli affetti, è caratterizzata dalla mutabilità e, per quanto riguarda il nostro mondo interiore, è possibile cambiare sempre.

I teologi hanno provato a rendere ragione di questa immutabilità ed è interessante un’elaborazione di san Tommaso d’Aquino nella Summa contra Gentiles (IV,XCV, nn. 4272-4280), dove spiega che ognuno desidera la felicità, ma, che poi la collochi in una cosa o in un’altra, dipende da una “disposizione” che può essere una passione passeggera o una disposizione stabile (virtù o vizio), in ogni caso prodotta tramite il corpo, sia pure sotto l’influsso di facoltà superiori come l’intelletto e la volontà. Senza il corpo l’anima non può cambiare orientamento, ma solo “riposarsi” nell’orientamento nel quale si trova (sed ut in fine adepto quiescat).

Dal che si evince l’urgenza di attendere alla salvezza e di formarsi delle buone abitudini finché si è nel corpo. Ma anche si può verificare quanto sia infondata la critica alla teologia e al linguaggio tradizionale di non tenere conto dell’unità dell’uomo quando si distingue anima e corpo: se ne tiene talmente conto sino ad arrivare a dire che senza il corpo l’anima si trova in difficoltà a posizionarsi nei riguardi di Dio!

DIO NON SI LIMITA A FARE IL NOTAIO

Il notaio assicura l’autenticità e la correttezza giuridica di certi atti che le persone emettono (compravendite, testamenti, donazioni, costituzione di associazioni ecc.), ma non emette una sentenza e semplicemente prende atto della volontà delle parti in causa.

Dio farà così nel momento in cui ci presenteremo a Lui uscendo da questa vita, cioè si limiterà a ratificare la nostra volontà? Qualcuno tende a dirlo, ma la realtà sembra diversa. Tutti infatti dovremo «comparire davanti al tribunale di Cristo, per ricevere ciascuno la ricompensa delle opere compiute quando era nel corpo, sia in bene che in male» (2Cor 5,10). “Comparire in tribunale” presuppone un atto giudicante da parte di Cristo e una sentenza di assoluzione o di condanna. San Tommaso d’Aquino, commentando 2Cor 5,10, spiega che nel giudizio ci saranno due atti: la valutazione dei meriti e l’emissione di una sentenza. E non professiamo ogni domenica nel Credo che Gesù Cristo «verrà nella gloria per giudicare i vivi e i morti»?

D’altra parte, tale è il linguaggio di altri passi del Nuovo Testamento che presentano Cristo/Dio Giudice e non notaio: il Figlio dell’uomo sta per venire con i suoi angeli «e allora renderà a ciascuno secondo le sue azioni» (Mt 16,27) e non si limiterà a prendere atto delle nostre scelte; ci sarà il «giorno dell’ira e della rivelazione del giusto giudizio di Dio, che renderà a ciascuno secondo le sue opere: la vita eterna a coloro che (…); ira e sdegno contro coloro che (…)» (Rm 2,5-8); infine: «Ecco, io vengo presto e ho con me il mio salario per rendere a ciascuno secondo le sue opere» (Ap 22,12).

Dio che non si limita a fare il notaio e l’immutabilità dopo la morte hanno qualche ricaduta sul Paradiso e sull’Inferno. Vediamole.

IL PARADISO È “ANCHE” UN PREMIO DEI MERITI

«Quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore di uomo, Dio le ha preparate per coloro che lo amano» (1Cor 2,9). Per l’apostolo Paolo “quelle cose” sono già le ricchezze dell’attuale vita cristiana, ma la tradizione le ha intese soprattutto per la beatitudine del Paradiso, dove Dio «asciugherà ogni lacrima» dagli occhi degli eletti «e non vi sarà più la morte né lutto né lamento né affanno» (Ap 21,4), dove «vi sarà il trono di Dio e dell’Agnello» e i suoi servi «vedranno il suo volto» e non avranno più bisogno del sole «perché il Signore Dio li illuminerà» (Ap 22,3-5).

Non saranno però gli eletti a occupare direttamente la Gerusalemme del cielo, ma vi saranno introdotti, come si evince dalla conclusione positiva della parabola dei talenti: «Prendi parte alla gioia del tuo padrone» (Mt 25,21.23). Cioè Dio non si limiterà a fare il notaio, anche perché il premio della beatitudine sorpassa il semplice conto dei meriti.

Ma – ecco l’altra faccia della medaglia – i meriti ci sono e il Paradiso va anche “guadagnato”. Il Concilio di Trento insegna che Cristo ci salva non per nostri meriti precedenti, ma poi il dono ricevuto diventa anche «merito di colui che è giustificato» e questi «con le buone opere da lui compiute per la grazia di Dio e i meriti di Gesù Cristo (…), merita realmente l’aumento della grazia e la vita eterna» (D 1582) «come ricompensa» (D 1545).

Se le buone opere sono dono di Dio, non è detto che psicologicamente si avverta la mozione divina, per cui sono in tutto opere nostre e dunque la vita cristiana è anche una santa battaglia, una milizia, una pianificazione virtuosa per arrivare in Paradiso: «L’atleta non riceve il premio se non ha lottato secondo le regole» (2Tm 2,5).

Oggi tutto ciò è sbeffeggiato con un “dentro tutti (al Paradiso)” in nome della misericordia, della gratuità divina, delle riserve sulla (buona) meritocrazia umana sempre più sottovalutata a cominciare dalla pedagogia. Invece il Concilio di Trento insegna che si può addirittura cominciare dalla «paura dell’Inferno, grazie alla quale, dolendoci dei peccati, ci rifugiamo nella misericordia di Dio e ci asteniamo dal male» (D 1558) e da qui essere ammessi in Paradiso.

L’INFERNO È “ANCHE” CONSEGUENZA DI UNA SENTENZA DIVINA

Per salvare Dio dalla brutta figura di Colui che punisce e che manda all’Inferno, si dice che siamo noi a punirci con i nostri peccati e che il castigo finale da parte di Dio non sarà altro che un prendere atto della nostra perversa e ostinata decisione. Ma è vero?

Sì, è verissimo: «Chi pecca, danneggia se stesso» (Sir 19,4), «chi pecca contro di me [contro la Sapienza, contro Dio] fa male a se stesso, quanti mi odiano amano la morte» (Pr 8,36). Il peccato produce un male (tristezza, vita sprecata, relazioni distruttive ecc.) che è già una punizione senza che intervenga qualcun altro a punire. La Chiesa ha sempre insegnato questo soprattutto in riferimento all’ultimo disastro della vita umana che è l’Inferno. Dio vuole «che tutti gli uomini siano salvati» (1Tm 2,4) e «non predestina nessuno ad andare all’inferno» (CCC 1037); quanti ci vanno, ci vanno perché si sono fatti da se stessi vasi d’ira per la perdizione (cfr. Rm 9,22) «grazie a una decisione della loro volontà» (Pelagio I, Lettera al Re Childeberto del 3 febbraio 557: D 443). Per l’attuale CCC l’Inferno è «auto-esclusione» da Dio e dai fratelli, definitiva «avversione volontaria a Dio» (nn. 1033, 1037).

Ciò affermato a nostra consolazione, bisogna riconoscere che il mistero è più profondo e in questo caso Dio non fa il notaio. Secondo il NT, Gesù Cristo è giudice ed è attivo nel separare, nel giudicare, nell’allontanare da Sé: gli angeli da Lui mandati «separeranno i cattivi dai buoni», «raccoglieranno» i cattivi, «li getteranno nella fornace ardente» (Mt 13,41-42.49-50) e dunque non saranno solo i cattivi a “posizionarsi” di fronte agli angeli che stanno a guardare; il Figlio dell’uomo «separerà gli uni dagli altri» (Mt 25,32), dirà «Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno» (Mt 25,41; cfr. anche 7,23).

Ciò è tanto vero che il Vaticano II raccomanda di vegliare perché «non ci venga comandato (…) di andare al fuoco eterno (cfr. Mt 25,41) (neque… iubeamur discedere in ignem aeternum)» (LG 48: EV 1/418). “Non ci venga comandato di andare”: questo linguaggio è possibile perché la realtà comporta i due aspetti: la nostra autodeterminazione e una sentenza divina, aspetti da tenere insieme evitando di eliminarne uno che è scomodo, cioè la sentenza divina.

Ma la sentenza divina è disdicevole per Dio solo se la si pensa in termini umani, in relazione ai quali comporta due differenze che la rendono più che accettabile. Anzitutto il giudizio di Dio, oltre ad essere assolutamente giusto, è in sintonia con la scelta della persona giudicata, che vuole allontanarsi da Lui. Quasi mai nelle sentenze umane di condanna c’è questa identità di analisi e di volere tra il giudice e l’imputato.

In secondo luogo il giudizio di Dio non ha nulla di vendicativo in senso umano, come nel caso di un giudice che inquisisce imputati da una sola parte – le leggi con i nemici si applicano e con gli amici si interpretano (Giolitti) – o che lascia il sopravvento ad «altre forze negative, quali il rancore, l’odio e perfino la crudeltà. In tal caso, la brama di annientare il nemico, di limitare la sua libertà, o addirittura di imporgli una dipendenza totale, diventa il motivo fondamentale dell’azione» (Giovanni Paolo II, Dives in misericordia, n. 12).

Con queste precisazioni e tenendo insieme le due prospettive, i testi del NT stanno in piedi, altrimenti bisognerebbe snervarli del loro vigore. E Cristo, invece di dire: “Allontanatevi da me, andate nel fuoco eterno”, dovrebbe dire: “Adesso fate pure quello che avete deciso”…

Mi resta un dubbio. Il giugno scorso la commissione dottrinale della CEI ha espresso una valutazione sul Covid, precisando che quanti hanno parlato di castighi di Dio «non pensano secondo il Dio della Bibbia»: non è che il sottoscritto continua a pensare non secondo il Dio della Bibbia? E mi sorge ancora un altro dubbio: ma il Dio dei teologi della CEI esiste veramente?


– I novissimi contenuti nel Credo, della Beata Madre Speranza

Madre Speranza

Nel Credo sono contenuti i quattro novissimi, significati dalle parole: “Verrà a giudicare i vivi e i morti. La comunione dei santi. Il perdono dei peccati”. Si parla infatti chiaramente di vivi e di morti, del giudizio finale di Dio sugli uomini, della resurrezione futura dei morti e della vita eterna che ci sarà dopo il giudizio di Dio, in base al quale sarà premio per i buoni e castigo per i malvagi.

Premio e castigo che, essendo proporzionati rispettivamente all’obbedienza o all’offesa fatta ad un Dio infinito, sono gloria e felicità infinita o inferno e disgrazia infinita.

Pertanto c’è morte, dato che si dice che i morti risorgeranno; c’è giudizio dato che Gesù Cristo, nostro Signore, verrà a giudicare i vivi e i morti; inferno e gloria, cioè vita eterna di dolore o di felicità.

Vediamo ora, figlie mie, le norme della nostra fede. La Sacra Scrittura -con tutti i suoi insegnamenti su Dio e sul mondo, sugli angeli buoni e cattivi e sull’uomo- la Tradizione e l’autorità della Chiesa sono richiamate implicitamente dalle seguenti parole del Credo:

“Credo nella santa Chiesa cattolica, apostolica, romana”. Se credo nella Chiesa, infatti, credo ciò che essa è nella sua origine divina, essendo stata fondata da Gesù Cristo; ciò che essa è nella sua natura e nei suoi elementi essenziali costitutivi, divini e umani; cioè nell’anima che la informa e nel corpo che è il suo elemento esterno visibile; nel suo fine che è quello di salvare gli uomini; nei suoi mezzi per raggiungere il fine.

Nei suoi sacramenti; nella sua origine apostolica; nella sua cattolicità; nel fatto che è romana e che quindi non può confondersi con nessuna delle pseudo-chiese di tante false religioni; in ciò che essa ci propone come norma antica, cioè la Sacra Scrittura e la Tradizione. (354)

 

L’ordine soprannaturale

Care figlie, una di voi mi dice che desidera conoscere l’ordine soprannaturale delle cose, perché vuole rendersi conto dello stato spirituale in cui vive e della natura della religione rivelata. Se possibile desidererebbe conoscere anche qualcuno dei gravissimi errori della scuola chiamata “naturalismo”, o religione puramente naturale, per potersi premunire contro il loro influsso.

Vedrò, figlia mia, se potrò chiarirti qualche punto, dato che è sempre più necessario essere istruite in questo campo. Ordinariamente si confonde ciò che è semplicemente preternaturale con ciò che è rigorosamente soprannaturale. Il miracolo è collocato fuori del corso ordinario e regolare della natura fisica, però non va al di là della natura stessa delle cose, dato che rientra nei termini del possibile per l’onnipotente volontà del Creatore.

Il fenomeno che chiamiamo miracolo per la meraviglia che produce è posto al di sopra delle leggi che regolano l’ordine fisico, ma non dell’essenziale. Il fattore naturale non ha il potere di produrlo, però il prodursi di quell’effetto non supera l’essenza delle cose. Non succede così con i fenomeni dell’ordine soprannaturale, che sono tali proprio perché non entrano neppure nella capacità del possibile, né Dio stesso può produrli in qualità di Creatore ma in virtù della sua altissima sovranità, per la quale l’essenza stessa delle cose dipende non già dalla sua libera volontà, ma dalla sua libera intelligenza e dalla pienezza del suo Essere.

Questi fenomeni, figlia mia, sono del tipo di quelli dei quali l’apostolo San Paolo assicura che né occhio vide, né orecchio udì, né mai sono entrati in cuore d’uomo. Sono doni di Dio stesso, poiché Egli solo è la fonte dell’ordine naturale e di quello soprannaturale, perciò sono eminenti e preziosissimi e attraverso di essi l’uomo giunge a farsi partecipe della natura divina. Entra forse, figlia mia, nei limiti dell’umana comprensione che l’uomo giunga ad imparentarsi con Dio, a divenire di fatto realmente figlio di Dio e, come tale, a possedere questo titolo con pieno diritto? (358)

 

Dio centro dell’ordine soprannaturale

Care figlie, cercheremo per quanto ci sarà possibile di fissare i nostri deboli sguardi nel centro stesso dell’ordine soprannaturale. Quel mondo, situato al di là di tutti gli altri mondi che può immaginare la nostra mente limitata, è la regione della luce e delle meraviglie inaccessibile ad ogni sforzo della creatura, è il seno adorabile di Dio, la parte più recondita ed arcana delle profondità dell’Essere divino.

Così afferma Gesù stesso quando dice: “L’unigenito Figlio, che sta nel seno del Padre, è colui che ce lo ha rivelato”. Che cosa è se non la vita intima e personale di Dio, il mondo in cui l’Essere infinito è e vive in se stesso il mistero altissimo delle sue relazioni, essendo trino nelle Persone e uno nell’Essenza?

Questo è il seno del Padre, l’abisso della Divinità totalmente invisibile ad ogni intelligenza creata fino a quando Dio stesso non si degni di manifestarlo rivelandosi; ma anche dopo rivelato, rimane ancora eternamente e necessariamente incomprensibile. Ecco indicato, anche se a distanza infinita, il centro di questo divino sistema planetario che chiamiamo mondo soprannaturale. Non soltanto è Dio, ma è la parte più intima di Dio, il divino nel divino. In questo Essere divino, infatti, possiamo e dobbiamo distinguere come due aspetti: uno interno e l’altro esterno. Il primo visibile solo a Dio, il secondo accessibile anche all’umana intelligenza.

L’uomo in virtù della sua natura razionale può salire, attraverso le creature, fino al trono del Creatore; può ammirarlo in esse come in magnifici specchi dove sono riflessi i raggi della Divinità, e formarsi in questo cammino posto nell’ordine naturale un concetto esatto, anche se oscuro e imperfetto, della grandezza di Dio.

E se può far ciò durante la presente vita in una regione di tenebre e di notte come è la terra, quanto più perfettamente lo potrà fare una volta liberato dai lacci della carne, caduta per sempre la benda che impediva la vista delle realtà soprasensibili e sviluppata pienamente nell’intelligenza la fame di conoscere la verità, cioè Dio stesso!

Care figlie, ricordate che tutte le nostre idee, anche quelle che sembrano più pure ed elevate, rispetto a Dio e alle sue perfezioni si riducono a semplici calcoli e congetture, raggiungendo piuttosto attraverso negazioni quello che Dio non è, che non attraverso affermazioni illimitate quello che Egli è realmente.

Sappiamo che Dio non è limitato nel suo potere, nel suo sapere, nella sua ricchezza, nei beni che possiede; che non ha principio né fine e che non è circoscritto in un luogo determinato. Non lo possiamo cambiare, né comprendere e neppure chiamare con un nome che lo possa definire. Sappiamo che Dio è bontà, potenza, sapienza, bellezza, ed ogni perfezione. Però non come le perfezioni che si trovano nelle creature, ma in una forma infinitamente più perfetta ed eccellente.

Come è dunque questa perfezione? Figlie mie, chi potrà esprimerla? Soltanto chi ha visto Dio nella sua essenza. Figlie mie, chi conosce i pensieri dell’Altissimo? “Il Padre -dice Gesù- lo conosce soltanto il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare”.

Solo tale conoscenza comunicata dal Verbo di Dio, rivelazione fatta all’uomo gratuitamente, può essere una conoscenza soprannaturale in tutto il rigore della parola. Ecco, figlie mie, i misteri della grazia e della gloria.

Il mondo soprannaturale non è altro che il mirabile e grandioso insieme delle relazioni dell’uomo con il suo Dio, così come è in se stesso; così come Egli si conosce e conoscendosi si ama ed è infinitamente felice nel possesso di se stesso.

Visione beatifica di Dio: questa, figlie mie, è la gloria per l’uomo! Conoscenza e amore soprannaturale di Dio comunicati dal Figlio nello Spirito Santo: questa è la grazia!

La grazia, come mezzo necessario per raggiungere la gloria, è della stessa natura di questa e poiché la gloria è assolutamente soprannaturale, non lo è meno l’altra. Ricordate che l’Eucaristia è la grazia per antonomasia, è la gloria anticipata, è per eccellenza il mondo soprannaturale sulla terra. (370) (El pan 8, 350-370)

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