“… il castigo non è l’ultima parola; esso serve alla guarigione… Gesù annuncia la «casa deserta» e dona già fin d’ora la nuova alleanza «nel suo sangue»: in ultima analisi si tratta di guarigione, non di distruzione e ripudio… significa che tutti noi abbiamo bisogno della forza purificatrice dell’amore, e tale forza è il suo sangue. Non è maledizione, ma redenzione, salvezza… Gesù non è un rivoluzionario politico… Alla domanda: «Che cosa dobbiamo fare, fratelli?» ricevono la risposta: «Convertitevi» – rinnovate e trasformate il vostro modo di pensare, il vostro essere (cfr.At.2,37s)… la pace non può essere stabilita contro la Verità..” (Benedetto XVI – Gesù di Nazaret – Tomo2)
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Capitolo 7 – IL PROCESSO A GESÙ (*)
Secondo il racconto di tutti e quattro i Vangeli, la preghiera notturna di Gesù finì quando, guidata da Giuda, arrivò una truppa armata, dipendente dalle autorità del tempio, e arrestò Gesù, mentre i discepoli non vennero disturbati.
Come si arrivò a questo arresto ovviamente ordinato dalle autorità del tempio, in ultima analisi dal sommo sacerdote Caifa? Come si arrivò alla consegna di Gesù al tribunale del governatore romano Pilato e alla condanna alla morte in croce?
I Vangeli ci consentono di distinguere tre tappe sulla via verso la sentenza giuridica di condanna a morte: una riunione del consiglio nella casa di Caifa, l’interrogatorio davanti al sinedrio e, infine, il processo davanti a Pilato.
1. Dibattito preliminare nel sinedrio
In un primo tempo, la comparsa di Gesù e il movimento che si stava formando intorno a Lui ave- vano ovviamente suscitato poco interesse nelle autorità del tempio; tutto ciò sembrava essere piuttosto una vicenda di provincia – uno di quei movimenti che ogni tanto si formavano in Galilea e non meritavano particolare attenzione. La situa- zione cambiava con la «Domenica delle Palme»: l’ossequio messianico reso a Gesù in occasione del suo ingresso in Gerusalemme; la purificazione del tempio con la parola interpretativa che sembrava annunciare la fine del tempio come tale e un mutamento radicale del culto in contrasto con gli ordinamenti dati da Mose; i discorsi di Gesù nel tempio, in cui diventava percepibile una rivendicazione di piena autorità, che sembrava dare alla speranza messianica di Israele una nuova forma che minacciava il suo monoteismo; i miracoli che Gesù operava in pubblico e il crescente afflusso del popolo verso di Lui – tutte queste erano realtà che non potevano più essere ignorate.
Nei giorni intorno alla Pasqua, in cui la città era sovraffollata di pellegrini e le speranze messianiche potevano facilmente trasformarsi in una miscela esplosiva di carattere politico, l’autorità del tempio doveva tener conto della propria responsabilità e innanzitutto chiarire come fosse da valutare l’insieme e in quale modo bisognasse reagire. Solo Giovanni riferisce più da vicino di una riunione del sinedrio volta ad un reciproco chiarimento di idee e ad una deliberazione circa il « caso» Gesù (cfr 11,47-53).
Egli, del resto, la colloca prima della «Domenica delle Palme» e considera come suo motivo immediato il movimento popolare sorto dopo la risurrezione di Lazzaro. Senza una tale deliberazione precedente, l’arresto di Gesù nella notte del Getsemani è impensabile. Evidentemente Giovanni ha qui conservato un ricordo storico di cui, in forma più breve, parlano anche i sinottici (cfr Mc 14,1 par.).
Secondo Giovanni sono riuniti insieme i capi dei sacerdoti e i farisei, i due gruppi – in contrasto tra loro su molti punti – che dominavano nel giudaismo al tempo di Gesù. La loro comune preoccupazione è: «Verranno i Romani e ci toglieranno “il luogo” [cioè il tempio, il luogo sacro della venerazione di Dio] e la nazione» (11,48).
Si è tentati di dire che il motivo per il procedere contro Gesù sia stata una preoccupazione politica in cui, da punti di partenza diversi, si sono incontrati l’aristocrazia sacerdotale e i farisei; che però con questo modo di vedere in un’ottica politica la figura e l’operato di Gesù sia stato misconosciuto proprio ciò che in Lui era essenziale e nuovo.
E di fatto: con il suo annuncio Gesù ha realizzato un distacco della dimensione religiosa da quella politica, un distacco che ha cambiato il mondo e che veramente appartiene all’essenza della sua nuova via.
Ciononostante bisogna guardarsi da una frettolosa condanna della prospettiva «puramente politica», propria degli avversari di Gesù.
Nell’ordine fino ad allora in vigore, infatti, le due dimensioni – quella politica e quella religiosa – erano, appunto, assolutamente inseparabili l’una dall’altra. Non esisteva né il solo politico né il solo religioso. Il tempio, la città santa e la terra santa con il suo popolo non erano realtà puramente politiche, ma non erano neppure realtà soltanto religiose. Dove si trattava del tempio, del popolo e della Terra, erano in gioco il fondamento religioso della politica e le conseguenze religiose di essa. Difendere «il luogo» e «la nazione» era, in definitiva, una faccenda religiosa, perché c’era di mezzo la casa di Dio e il popolo di Dio.
Da questa motivazione insieme religiosa e politica, fondamentale per i responsabili di Israele, bisogna però distinguere lo specifico interesse per il potere della dinastia di Anna e Caifa, interesse che poi di fatto condusse alla catastrofe dell’anno 70, provocando così proprio ciò che, secondo il loro vero compito, essi avrebbero dovuto evitare. In questo senso esiste nella decisione di far morire Gesù una strana sovrapposizione di due livelli: da un lato, la legittima preoccupazione di tutelare il tempio e il popolo e, dall’altro, l’egoistica smania di potere da parte del gruppo dominante.
È una sovrapposizione che corrisponde a ciò che avevamo trovato nella purificazione del tempio. Come abbiamo visto, lì Gesù combatte, da un lato, contro l’egoistico abuso nell’ambiente del sacro, ma il gesto profetico e la sua interpretazione mediante la parola va ben più in profondità: il vecchio culto del tempio di pietra è giunto al termine. È arrivato il momento della nuova adorazione di Dio «in spirito e verità». Deve essere abbattuto il tempio di pietra perché possa subentrare la novità, la nuova alleanza con il suo modo nuovo di adorare Dio. Ciò significa però al contempo che Gesù stesso deve attraversare la crocifissione per diventare, da Risorto, il nuovo Tempio.
A questo punto torniamo ancora una volta all’argomento dell’intreccio tra religione e politica e del distacco dell’una dall’altra. Abbiamo detto che Gesù, nel suo annuncio e con tutto il suo operare, aveva inaugurato un regno non politico del Messia e aveva cominciato a staccare l’una dall’altra le due realtà, fino ad allora inscindibili. Ma questa separazione di politica e fede, di popolo di Dio e politica, appartenente all’essenza del suo messaggio, era possibile, in definitiva, solo attraverso la croce: solo attraverso la perdita veramente assoluta di ogni potere esteriore, attraverso lo spogliamento radicale della croce, la novità diventava realtà.
Solo mediante la fede nel Crocifisso, in Colui che è privato di ogni potere terreno e così innalzato, appare anche la nuova comunità, il nuovo modo in cui Dio domina nel mondo.
Questo, però, significa che la croce rispondeva ad una «necessità» divina e che Caifa con la sua decisione divenne, in ultima analisi, l’esecutore della volontà di Dio, anche se la sua motivazione personale era impura, non rispondente alla volontà di Dio, ma mirante a scopi egoistici.
Giovanni ha espresso molto chiaramente questo strano intreccio tra l’esecuzione della volontà di Dio e la cecità egoistica in Caifa.
Nella perplessità dei membri del sinedrio su ciò che conveniva fare di fronte al pericolo causato dal movimento creatosi intorno a Gesù, egli disse la parola decisiva: «Non vi rendete conto che è conveniente per voi che un solo uomo muoia per il popolo, e non vada in rovina la nazione intera» (11,50). Giovanni qualifica tale affermazione esplicitamente come parola di «ispirazione profetica», che Caifa aveva formulato in virtù del carisma legato alla sua carica di sommo sacerdote e non da se stesso.
Da tale parola risulta innanzitutto che fino a quel momento il sinedrio, raccolto in seduta, indietreggiava spaventato di fronte alla prospettiva di una condanna a morte e cercava altre vie d’uscita dalla crisi, senza tuttavia trovare una soluzione.
Solo una parola del sommo sacerdote, motivata teologicamente ed espressa in base all’autorità della sua carica, poteva dissipare i loro dubbi e renderli in linea di principio disposti alla grave decisione.
Il fatto che Giovanni riconosca esplicitamente come punto decisivo nella storia della salvezza il carisma legato alla carica dell’indegno detentore di tale carica, corrisponde alla parola di Gesù tramandata da Matteo: «Sulla cattedra di Mose si sono seduti gli scribi e i farisei. Praticate e osservate tutto ciò che vi dicono, ma non agite secondo le loro opere!» (23,2s).
Tanto Matteo quanto Giovanni hanno certamente voluto richiamare alla memoria della Chiesa anche del loro tempo questa distinzione, perché pure in essa esisteva la contraddizione tra autorità legata alla carica e condotta di vita, tra ciò «che dicono» e ciò «che fanno».
Il contenuto della «profezia» di Caifa è innanzitutto di natura assolutamente pragmatica e sotto questo aspetto possiede per lui un’immediata ragionevolezza: se mediante la morte di un singolo (e soltanto così) si può salvare il popolo, la morte di questo singolo è il male minore e la via politicamente giusta. Ma ciò che così suona ed è inteso anzitutto in senso puramente pragmatico, raggiunge tuttavia in base all’ispirazione «profetica» una profondità ben diversa.
Gesù, il singolo, muore per il popolo: traspare il mistero della funzione vicaria, che è il contenuto più profondo della missione di Gesù.
L’idea della funzione vicaria pervade l’intera storia delle religioni.
In molteplici forme si cerca di stornare dal re, dal popolo, dalla propria vita l’incombente disgrazia, trasferendola a dei sostituti. Il male deve essere espiato e ristabilita così la giustizia. Ma si scarica su altri la punizione, la disgrazia ineluttabile e si cerca così di liberare se stessi.
Questa sostituzione, però, mediante sacrifici animali o anche umani rimane in ultima analisi inattendibile. Ciò che lì viene offerto in rappresentanza è soltanto un surrogato di ciò che è propriamente personale e non può affatto prendere il posto di colui che in questo modo deve essere redento. Il surrogato non è rappresentanza nel senso di una funzione vicaria, eppure l’intera storia è alla ricerca di Colui che veramente può intervenire al posto nostro; che veramente è in grado di assumerci in se stesso e condurci così alla salvezza.
Nell’Antico Testamento l’idea della funzione vicaria appare in modo del tutto centrale quando Mose, dopo l’idolatria del popolo al Sinai, dice al Dio adirato: «Ma ora, se tu perdonassi il loro peccato… Altrimenti, cancellami dal tuo libro che hai scritto!» (Es 32,32). E vero che gli viene risposto: «Io cancellerò dal mio libro solo colui che ha peccato contro di me» (Es 32, 33), ma in qualche modo Mose rimane tuttavia il sostituto che porta su di sé e, mediante la sua intercessione, cambia sempre di nuovo il destino del popolo.
Nel Deuteronomio, infine, è tracciata l’immagine del Mose sofferente, che patisce al posto di Israele e, in funzione vicaria per Israele, deve morire fuori della Terra santa (cfr von Rad I 293). Pienamente sviluppata appare in Isaia 53 l’idea della funzione vicaria nell’immagine del Servo di YHWH sofferente, che prende su di sé la colpa di molti, rendendoli così giusti (cfr 53, 11). In Isaia questa figura rimane piena di mistero; il carme del Servo di YHWH è come uno scrutare in lontananza per vedere Colui che deve venire. Il singolo muore per i molti – questa parola profetica del sommo sacerdote Caifa riunisce insieme le aspirazioni della storia delle religioni del mondo e le grandi tradizioni della fede di Israele e le applica a Gesù. L’intero suo vivere e morire è sintetizzato nella parola «per»; è – come soprattutto Heinz Schürmann ha ripetutamente sottolineato – una «pro-esistenza».
Alla parola di Caifa che, di fatto, era equivalente ad una condanna a morte, Giovanni ha aggiunto un commento nella prospettiva di fede dei discepoli. Dapprima egli sottolinea – come abbiamo già rilevato – che la parola circa il morire per il popolo avrebbe avuto la sua origine da un’ispirazione profetica e poi prosegue: «Gesù doveva morire … non soltanto per la nazione, ma anche per riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi» (11,52). Questo corrisponde innanzitutto effettivamente al linguaggio ebraico. Esprime la speranza che nel tempo del Messia gli Israeliti dispersi nel mondo sarebbero stati riuniti nel proprio Paese (cfr Barrett, p. 403).
Ma sulle labbra dell’evangelista la parola assume un significato nuovo. Il raduno non è più orientato verso un Paese geograficamente determinato, ma verso l’unificazione dei figli di Dio: qui risuona già la parola-chiave della Preghiera sacerdotale di Gesù. Il raduno mira all’unità di tutti i credenti e rinvia così alla comunità della Chiesa e, certamente, al di là di essa alla definitiva unità escatologica.
I figli di Dio dispersi non sono più soltanto Ebrei, ma figli di Abramo nel significato profondo sviluppato da Paolo: persone che, come Abramo, sono in ricerca di Dio; persone che sono pronte ad ascoltarlo e a seguire la sua chiamata – persone, potremmo dire, in atteggiamento «di Avvento». Diventa visibile la nuova comunità di Ebrei e pagani (cfr Gv 10,16). Così, da qui si apre di nuovo anche un approccio alla parola dell’ultima cena sui «molti» per i quali il Signore dà la vita: si tratta della riunione dei «figli di Dio», cioè di tutti coloro che da Lui si lasciano chiamare.
2. GESÙ DAVANTI AL SINEDRIO
La decisione fondamentale per un procedimento contro Gesù, presa nella riunione del sinedrio, veniva realizzata nella notte tra giovedì e venerdì sul Monte degli ulivi con il suo arresto. In un’ora ancora notturna, Gesù fu condotto nel palazzo del sommo sacerdote, dove il sinedrio (sanhedrin / synedrium) con le sue tre componenti – sacerdoti, anziani, scribi – ovviamente era già riunito.
I due «processi» a Gesù, davanti al sinedrio e davanti al governatore romano Pilato, sono stati discussi ampiamente fin nei minimi particolari da storici del diritto e da esegeti. Non dobbiamo qui entrare in queste sottili questioni storiche, tanto più che non conosciamo – come ha sottolineato Martin Hengel – dettagli sul diritto criminale sadduceo e non è lecito trarre conclusioni dal posteriore trattato della Mishna, «Sanhedrin», ed applicarle all’ordinamento del tempo di Gesù (cfr Hengel /Schwemer, p. 592). Può essere considerato verosimile, oggi, che nel caso del dibattimento contro Gesù davanti al sinedrio non si sia trattato di un vero processo, ma di un interrogatorio approfondito, terminato con la decisione di consegnare Gesù al governatore romano per la condanna.
Guardiamo adesso più da vicino i racconti dei Vangeli, sempre con l’obiettivo di imparare a conoscere e a comprendere meglio la figura di Gesù stesso. Abbiamo già visto che, dopo l’episodio della purificazione del tempio, c’erano in aria due accuse contro Gesù: la prima riguardava la parola interpretativa dell’azione simbolica della cacciata dal tempio degli animali e dei commercianti, che sembrava essere un attacco contro lo stesso luogo sacro e con ciò contro la Torà, su cui si basava la vita di Israele.
Ritengo importante il fatto che non l’atto della purificazione del tempio come tale sia stato oggetto delle discussioni, ma unicamente la parola interpretativa con cui il Signore aveva spiegato il suo gesto. Da questo si può dedurre che l’atto simbolico si sia mantenuto in certi limiti e non abbia suscitato un’agitazione pubblica, che avrebbe offerto il motivo per un intervento giurisdizionale. Il pericolo era costituito piuttosto dall’interpretazione data, dall’apparente attacco al tempio e dalla rivendicazione della piena autorità da parte di Gesù stesso.
Dagli Atti degli Apostoli sappiamo che la stessa accusa fu mossa contro Stefano, il quale aveva ripreso la profezia di Gesù sul tempio – cosa che provocò la sua lapidazione, perché considerata come bestemmia.
Nel processo di Gesù si presentarono testimoni che volevano riferire la parola di Gesù. Ma non vi era una versione condivisa: non era possibile chiarire in modo inequivocabile che cosa Gesù avesse detto veramente. Il fatto che, conseguentemente, questo punto d’accusa sia stato abbandonato dimostra che ci si stava impegnando per una procedura giuridicamente corretta.
In base ai discorsi di Gesù nel tempio c’era in aria una seconda accusa: Gesù avrebbe sollevato una pretesa messianica, mediante la quale si metteva in qualche modo a fianco di Dio stesso, e così sembrava entrare in contrasto con il fondamento della fede di Israele, la professione di fede nell’unico e solo Dio.
Merita sottolineare che ambedue le accuse sono di natura puramente teologica. Ma conformemente all’impossibilità accennata sopra di separare l’uno dall’altro il livello religioso e quello politico, tali accuse possiedono anche una dimensione politica: il tempio in quanto luogo del sacrificio di Israele, verso il quale tutto il popolo si dirige in pellegrinaggio nelle grandi feste, è la base dell’unità interiore di Israele. La pretesa messianica è rivendicazione della regalità su Israele. Per questo ci sarà poi sulla croce anche l’espressione «re dei Giudei» come motivo dell’esecuzione capitale di Gesù.
Come dimostrano gli eventi della guerra giudaica, esistevano nel sinedrio sicuramente circoli che erano favorevoli ad una liberazione di Israele con mezzi politici e militari. Ma il modo in cui Gesù presentava la sua rivendicazione appariva ovviamente ad essi poco adatto a servire veramente per tale scopo.
In quel caso era da preferire piuttosto lo status quo, in cui Roma comunque rispettava i fondamenti religiosi di Israele e così il tempio e il popolo potevano essere considerati abbastanza sicuri nella loro sussistenza.
Dopo il tentativo fallito di muovere, sulla base della dichiarazione di Gesù circa la distruzione e il rinnovamento del tempio, un’accusa chiara e motivata contro di Lui, si arriva al confronto drammatico tra il sommo sacerdote di Israele in carica, istanza suprema del popolo eletto, e Gesù, in cui i cristiani avrebbero riconosciuto il «sommo sacerdote dei beni futuri» (Eb 9,11), il sommo sacerdote definitivo «secondo l’ordine di Melchìsedek» (Sal 110,4; Eb 5,6 ecc.).
Nei quattro Vangeli questo momento della storia del mondo appare come un dramma in cui si compenetrano tre livelli, che bisogna vedere insieme per capire l’avvenimento nella sua complessità (cfr Mt.26,57-75; Mc 14,53-72; Lc 22,54-71; Gv 18,12-27). Nello stesso momento in cui Caifa interroga Gesù e infine pone la domanda circa la sua identità messianica, Pietro sta seduto nel cortile del palazzo e rinnega Gesù. Specialmente Giovanni ha illustrato l’intreccio cronologico dei due avvenimenti in modo toccante; Matteo, nella sua versione della domanda messianica, rende visibile soprattutto la connessione interiore tra la professione di Gesù e il rinnegamento di Pietro. Immediatamente connessa con l’interrogatorio di Gesù è però anche la sua derisione da parte dei servi del tempio (o degli stessi membri del sinedrio?), derisione che, nel processo davanti a Pilato, sarà seguita da quella dei soldati romani.
Giungiamo al punto decisivo: alla domanda di Caifa e alla risposta di Gesù. Riferendo le formulazioni, Matteo, Marco e Luca divergono tra loro nei particolari; la loro composizione del testo è determinata, tra l’altro, dall’intero contesto del rispettivo Vangelo e dal riferimento alle possibilità di comprensione dei loro destinatari. Come nel caso delle parole dell’ultima cena, così anche qui non è possibile una ricostruzione precisa della domanda di Caifa e della risposta di Gesù. L’essenziale dello svolgimento appare tuttavia nelle tre diverse relazioni in modo assolutamente inequivocabile. Esistono buoni motivi per supporre che la versione di san Marco ci faccia sentire maggiormente le espressioni originarie di questo dialogo drammatico. Ma nella differente versione di Matteo e Luca appaiono aspetti importanti che ci aiutano a capire meglio la profondità dell’insieme.
Secondo Marco la domanda del sommo sacerdote è: «Sei tu il Cristo, il Figlio del Benedetto?».
Gesù risponde: «Io lo sono. E vedrete il Figlio dell’uomo seduto alla destra della Potenza e venire con le nubi del cielo» (14,62).
Che il nome di Dio e la parola «Dio» vengano evitati e sostituiti con le espressioni «il Benedetto» e «la Potenza» è un segno dell’originarietà del testo. Il sommo sacerdote interroga Gesù circa la sua messianicità e la definisce secondo il Salmo 2,7 (cfr Sal 110,3) con l’espressione «Figlio del Benedetto» – Figlio di Dio.
Nella prospettiva della domanda, questo appellativo appartiene alla tradizione messianica, lasciando però aperto il genere della figliolanza. Si può supporre che Caifa nel fare tale domanda non si sia soltanto attenuto a tradizioni teologiche, ma che l’abbia formulata in base all’annuncio di Gesù che gli era giunto all’orecchio.
Matteo pone nella formulazione della domanda un accento particolare.
Secondo lui Caifa dice: «Sei tu il Cristo, il Figlio di Dio?» (cfr 26, 63).
In questo modo egli riecheggia direttamente la professione di fede di Pietro presso Cesarea di Filippo: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente» (16,16).
Nello stesso momento in cui il sommo sacerdote rivolge a Gesù, in forma di domanda, le parole della professione di fede di Pietro, Pietro medesimo, separato da Gesù soltanto da una porta, asserisce di non conoscerlo. Mentre Gesù fa «la bella professione di fede» (cfr 1Tm 6,13), colui che per primo aveva pronunciato tale professione nega ciò che allora aveva ricevuto dal «Padre che è nei cieli»; ora la fonte delle sue parole è ormai soltanto «la carne e il sangue» (cfr Mt 16,17).
Secondo Marco, alla domanda da cui dipendeva il suo destino Gesù rispose in modo molto semplice e chiaro: «Io lo sono» (non vi risuona forse Esodo 3,14: «Io sono colui che sono»?).
Tuttavia con una parola tratta dal Salmo 110,1 e dal Libro di Daniele 7,13 Gesù definisce poi più precisamente come messianicità e figliolanza siano da intendere. Matteo esprime la risposta di Gesù in modo più discreto: «Tu l’hai detto; anzi io vi dico…» (26,64).
Così Gesù non contraddice Caifa; contrappone però alla sua formulazione il modo in cui Egli stesso vuole che si intenda la sua missione – e lo fa con parole della Scrittura.
Luca, infine, distingue due interventi diversi (cfr 22,67-70). Alla prima richiesta del sinedrio: «Se tu sei il Messia, dillo a noi!», il Signore risponde con un’affermazione enigmatica, non assentendo apertamente, ma neppure chiaramente negando. Segue poi la sua dichiarazione personale, formulata con il Salmo 110 e Daniele 7 intrecciati insieme; e infine, alla domanda insistente, posta dal sinedrio: «Tu dunque sei il Figlio di Dio?», risponde: «Voi stessi dite che io lo sono».
Da tutto ciò deriva quanto segue: Gesù ha assunto il titolo di Messia, che in base alla tradizione aveva diversi significati, ma al contempo l’ha precisato in modo tale da provocare una condanna che, con un rifiuto o con un’interpretazione attenuata del messianismo, avrebbe potuto evitare. Egli non dà alcuno spazio ad idee che potrebbero andare a finire in una comprensione politica o bellica dell’attività del Messia. No, il Messia – proprio Lui – verrà come Figlio dell’uomo con le nubi del cielo.
Oggettivamente, ciò ha più o meno lo stesso significato dell’affermazione che incontriamo in Giovanni: «Il mio regno non è di questo mondo» (18,36).
Egli rivendica il diritto di sedere alla destra della Potenza, cioè di venire alla maniera del Figlio dell’uomo di cui parla il Libro di Daniele, di venire da Dio, per erigere a partire da Lui il regno definitivo.
Ai membri del sinedrio questo dovette apparire politicamente privo di senso e teologicamente inaccettabile, poiché con ciò era ora di fatto espressa una vicinanza alla «Potenza», una partecipazione alla natura stessa di Dio, che veniva intesa come bestemmia. Comunque, Gesù aveva soltanto connesso insieme alcune parole della Scrittura ed espresso la sua missione «secondo la Scrittura», con parole della Scrittura stessa. Ma ai membri del sinedrio l’applicazione a Gesù delle sublimi parole della Scrittura, ovviamente, parve come un attacco insopportabile all’elevatezza di Dio, alla sua unicità.
Per il sommo sacerdote e gli altri convenuti, con la risposta di Gesù si era comunque realizzata la fattispecie della bestemmia e Caifa «si stracciò le vesti dicendo: “Ha bestemmiato!”» (Mt 26,65).
«L’atto di stracciarsi le vesti compiuto dal sommo sacerdote non avviene a motivo di irritazione, ma è prescritto al giudice in carica come segno di indignazione, quando sente una bestemmia» (Gnilka, Matthäusevangelium II, p. 429).
Ora su Gesù, che ha predetto la sua venuta nella gloria, si abbatte lo scherno brutale di coloro che sanno di essere i più forti e gli fanno sentire il loro potere e tutto il loro disprezzo. Colui del quale nei giorni precedenti avevano avuto ancora paura è adesso nelle loro mani. Il vile conformismo di animi deboli si sente forte nell’aggredire Colui che sembra essere ormai soltanto impotenza.
Non si rendono conto che, proprio schernendolo e colpendolo, adempiono in Gesù letteralmente il destino del Servo di YHWH: umiliazione ed esaltazione si intrecciano tra loro in modo misterioso. Proprio in quanto colpito Egli è il Figlio dell’uomo, viene da Dio nella nube dell’occultamento ed erige il regno del Figlio dell’uomo, il regno dell’umana benevolenza che proviene da Dio. «D’ora innanzi vedrete…», aveva detto, secondo Matteo (26,64), Gesù in un paradosso irritante. D’ora innanzi inizia qualcosa di nuovo. Lungo la storia gli uomini guardano al volto deturpato di Gesù e riconoscono proprio in esso la gloria di Dio.
In quello stesso momento Pietro asserisce per la terza volta di non aver nulla a che fare con Gesù. «E subito, per la seconda volta, un gallo cantò. E Pietro si ricordò…» (Mc 14,72). Il canto del gallo veniva considerato come la fine della notte: esso inaugurava la giornata. Anche per Pietro con il canto del gallo termina la notte dell’anima in cui era sprofondato. All’improvviso, la parola di Gesù circa il suo rinnegamento prima del canto del gallo gli sta di nuovo davanti e ora nella sua terribile verità. Luca aggiunge ancora la notizia che in quell’istante Gesù, incatenato e condannato, viene condotto via per essere portato davanti al tribunale di Pilato. Gesù e Pietro s’incontrano. Lo sguardo di Gesù raggiunge gli occhi e l’anima del discepolo infedele. E Pietro, «uscito fuori, pianse amaramente» (Lc 22,62).
3. Gesù davanti a Pilato
L’interrogatorio di Gesù davanti al sinedrio si era concluso così come Caifa se l’era aspettato: Gesù era stato dichiarato colpevole di bestemmia, un reato per il quale era prevista la pena di morte. Ma siccome il potere di infliggere la pena capitale era riservato ai Romani, il processo doveva essere trasferito davanti a Pilato e con ciò doveva entrare in primo piano l’aspetto politico della sentenza di colpevolezza. Gesù si era dichiarato Messia, aveva quindi preteso per sé la dignità regale, anche se in modo del tutto particolare. La rivendicazione della regalità messianica era un reato politico, che dalla giustizia romana doveva essere punito. Con il canto del gallo era sorto il giorno. Il governatore romano usava sedere in giudizio nelle prime ore del mattino.
Così Gesù viene dai suoi accusatori condotto al pretorio e presentato a Pilato come malfattore meritevole di morte. È il giorno della «Parasceve» per la festa di Pasqua: nel pomeriggio vengono immolati gli agnelli per il banchetto serale. Per questo è esigita la purezza rituale; i sacerdoti accusatori non possono quindi mettere piede nel pretorio pagano e trattano con il governatore romano davanti all’edificio. Giovanni che ci trasmette tale notizia (cfr 18,28s) lascia con ciò trasparire la contraddizione tra l’osservanza corretta delle prescrizioni cultuali di purezza e la questione della vera, interiore purezza dell’uomo: agli accusatori non viene in mente che non l’entrare nella casa pagana sia ciò che inquina, ma l’intimo sentimento del cuore. Al tempo stesso l’evangelista sottolinea con ciò che la cena pasquale non ha ancora avuto luogo e che l’immolazione degli agnelli deve ancora avvenire.
Nella descrizione dell’andamento del processo i quattro Vangeli concordano in tutti i punti essenziali.
Giovanni è l’unico che riferisce il colloquio tra Gesù e Pilato, in cui la questione circa la regalità di Gesù, circa il motivo della sua morte, viene scandagliata in tutta la sua profondità (cfr 18,33- 38).
Il problema del valore storico di tale tradizione è – ovviamente – discusso tra gli esegeti. Mentre Charles H. Dodd ed anche Raymond E. Brown la valutano in senso positivo, Charles K. Barrett s’esprime in senso estremamente critico: «Le integrazioni e le modifiche che Giovanni fa non suscitano fiducia nella sua affidabilità storica» (op cit., p. 511).
Sicuramente nessuno s’aspetta che Giovanni voglia offrire qualcosa come un verbale del processo. Si può però certamente supporre che egli sappia interpretare con grande esattezza la questione centrale di cui si trattava e che ci ponga quindi davanti alla verità essenziale di tale processo. Così anche Barrett dice che «Giovanni con massima sagacia ha individuato la chiave interpretativa per la storia della passione nella regalità di Gesù e ha messo in risalto il suo significato forse più chiaramente di qualunque altro autore neo- testamentario» (p. 512).
Ma domandiamoci anzitutto: chi erano precisamente gli accusatori?
Chi ha insistito per la condanna di Gesù a morte?
Nelle risposte dei Vangeli vi sono differenze su cui dobbiamo riflettere.
Secondo Giovanni, essi sono semplicemente i «Giudei». Ma questa espressione, in Giovanni, non indica affatto – come il lettore moderno forse tende ad interpretare – il popolo d’Israele come tale, ancor meno essa ha un carattere «razzista».
In definitiva, Giovanni stesso, per quanto riguarda la nazionalità, era Israelita, ugualmente come Gesù e tutti i suoi. L’intera comunità primitiva era composta da Israeliti. In Giovanni tale espressione ha un significato preciso e rigorosamente limitato: egli designa con essa l’aristocrazia del tempio. Così nel quarto Vangelo il cerchio degli accusatori che perseguono la morte di Gesù è descritto con precisione e chiaramente delimitato: si tratta, appunto, dell’aristocrazia del tempio – ma anch’essa non senza eccezione, come lascia capire l’accenno a Nicodèmo (cfr 7,50ss).
In Marco, nel contesto dell’amnistia pasquale (Barabba o Gesù), il cerchio degli accusatori appare allargato: compare «ochlos» ed opta per il rilascio di Barabba. «Ochlos» significa innanzitutto semplicemente una quantità di gente, la «massa».
Non di rado la parola ha un sapore negativo nel senso di «plebaglia». In ogni caso con ciò non è indicato «il popolo» degli Ebrei come tale. Nell’amnistia pasquale (che, in realtà, non conosciamo da altre fonti, ma della quale tuttavia non v’è ragione di dubitare) il popolo – come al solito in simili amnistie – ha il diritto di fare una proposta manifestata per «acclamazione»: l’acclamazione del popolo ha in questo caso un carattere giuridico.
Per quanto riguarda questa «massa», si tratta di fatto dei sostenitori di Barabba, mobilitati per l’amnistia; come rivoltoso contro il potere romano, questi poteva naturalmente contare su un certo numero di simpatizzanti.
Erano quindi presenti i seguaci di Barabba, la «massa», mentre gli aderenti a Gesù per paura rimanevano nascosti, e in questo modo la voce del popolo su cui il diritto romano contava era presentata in modo unilaterale. Così in Marco accanto ai «Giudei», cioè agli autorevoli circoli sacerdotali, compare, sì, l’ochlos, il gruppo dei sostenitori di Barabba, non però il popolo ebreo come tale, ma la “massa” dei seguaci di Barabba.
Un’amplificazione dell’ochlos di Marco, fatale nelle sue conseguenze, si trova in Matteo (27,25), che parla invece di «tutto il popolo», attribuendo ad esso la richiesta della crocifissione di Gesù. Con questo, Matteo sicuramente non esprime un fatto storico: come avrebbe potuto essere presente in tale momento tutto il popolo e chiedere la morte di Gesù? La realtà storica appare in modo sicuramente corretto in Giovanni e in Marco. Il vero gruppo degli accusatori sono i circoli contemporanei del tempio e, nel contesto dell’amnistia pasquale, si associa ad essi la «massa» dei sostenitori di Barabba.
Si può forse in ciò dare ragione a Joachim Gnilka, secondo cui Matteo – andando oltre i fatti storici – ha voluto formulare un’eziologia teologica, con cui spiegarsi il terribile destino di Israele nella guerra giudeo-romana, nella quale vennero tolti al popolo la Terra, la città e il tempio.
In tale contesto Matteo pensa forse alle parole di Gesù nelle quali Egli predice la fine del tempio: «Gerusalemme, Gerusalemme, tu che uccidi i profeti e lapidi quelli che sono mandati a te, quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli, come una chioccia raccoglie i suoi pulcini sotto le ali, e voi non avete voluto! Ecco, la vostra casa è lasciata a voi deserta…» (Mt 23, 37s).
A proposito di queste parole bisogna – come indicato già nella riflessione sul discorso escatologico di Gesù – ricordare l’intima analogia tra il messaggio del profeta Geremia e quello di Gesù. Geremia annuncia – contro l’accecamento dei circoli dominanti d’allora – la distruzione del tempio e l’esilio di Israele. Ma parla anche di una «nuova alleanza»”: il castigo non è l’ultima parola; esso serve alla guarigione. Analogamente Gesù annuncia la «casa deserta» e dona già fin d’ora la nuova alleanza «nel suo sangue»: in ultima analisi si tratta di guarigione, non di distruzione e ripudio.
Se secondo Matteo «tutto il popolo» avrebbe detto: «Il suo sangue ricada su di noi e sui nostri figli» (27,25), il cristiano ricorderà che il sangue di Gesù parla un’altra lingua rispetto a quello di Abele (cfr Eb 12,24): non chiede vendetta e punizione, ma è riconciliazione. Non viene versato contro qualcuno, ma è sangue versato per molti, per tutti. «Tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio… È lui [Gesù] che Dio ha stabilito apertamente come strumento di espiazione … nel suo sangue», dice Paolo (Rm 3,23.25).
Come in base alla fede bisogna leggere in modo totalmente nuovo l’affermazione di Caifa circa la necessità della morte di Gesù, così deve farsi anche con la parola di Matteo sul sangue: letta nella prospettiva della fede, essa significa che tutti noi abbiamo bisogno della forza purificatrice dell’amore, e tale forza è il suo sangue. Non è maledizione, ma redenzione, salvezza. Soltanto in base alla teologia dell’ultima cena e della croce presente nell’intero Nuovo Testamento la parola di Matteo circa il sangue acquisisce il suo senso corretto.
Passiamo dagli accusatori al giudice: il governatore romano Ponzio Pilato.
Mentre Giuseppe Flavio ed in modo particolare Filone d’Alessandria tracciano di lui un’immagine del tutto negativa, egli appare in altre testimonianze come risoluto, pragmatico e realistico. Si dice spesso che i Vangeli, in base ad una tendenza filo-romana motivata politicamente, lo avrebbero presentato in modo sempre più positivo, caricando progressivamente sugli Ebrei la responsabilità per la morte di Gesù.
A sostegno di una tale tendenza, però, non c’era alcuna ragione nella situazione storica degli evangelisti: quando furono redatti i Vangeli, la persecuzione di Nerone aveva ormai mostrato il lato crudele dello Stato romano e tutta l’arbitrarietà del potere imperiale. Se possiamo datare l’Apocalisse più o meno al periodo in cui fu composto il Vangelo di Giovanni, diventa evidente che il quarto Vangelo non si è formato in un contesto che avrebbe dato motivo ad un’impostazione filo-romana.
L’immagine di Pilato nei Vangeli ci mostra il prefetto romano molto realisticamente come un uomo che sapeva intervenire in modo brutale, se questo gli sembrava opportuno per l’ordine pubblico. Ma egli sapeva anche che Roma doveva il suo dominio sul mondo non da ultimo alla tolleranza di fronte a divinità straniere e alla forza pacificatrice del diritto romano. Così egli ci si presenta nel processo a Gesù.
L’accusa secondo cui Gesù si sarebbe dichiarato re dei Giudei era pesante. È vero che Roma poteva effettivamente riconoscere dei re regionali – come Erode -, ma essi dovevano essere legittimati da Roma ed ottenere da Roma la descrizione e la delimitazione dei loro diritti di sovranità. Un re senza tale legittimazione era un ribelle che minacciava la pax romana e di conseguenza si rendeva reo di morte.
Ma Pilato sapeva che da Gesù non era sorto un movimento rivoluzionario. Dopo tutto ciò che egli aveva sentito, Gesù deve essergli sembrato un esaltato religioso, che forse violava ordinamenti giudaici riguardanti il diritto e la fede, ma ciò non gli interessava. Su ciò dovevano giudicare i Giudei stessi. Sotto l’aspetto degli ordinamenti romani concernenti la giurisdizione e il potere, che rientravano nella sua competenza, non c’era nulla di serio contro Gesù.
A questo punto dobbiamo passare dalle considerazioni sulla persona di Pilato al processo stesso.
In Giovanni 18,34s è detto chiaramente che presso Pilato, in base alle informazioni in suo possesso, non c’era nulla contro Gesù. All’autorità romana non era giunta alcuna notizia su qualcosa che in qualche modo avrebbe potuto minacciare la pace legale. L’accusa proveniva dagli stessi connazionali di Gesù, dall’autorità del tempio. Doveva stupire Pilato che i connazionali di Gesù si presentassero davanti a lui come difensori di Roma, dal momento che le sue personali conoscenze non gli avevano dato l’impressione che un intervento fosse necessario.
Ma nell’interrogatorio, ecco all’improvviso un momento che suscita eccitazione: la dichiarazione di Gesù.
Alla domanda di Pilato: «Dunque tu sei re?», Egli risponde: «Tu lo dici: io sono re. Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per dare testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce» (Gv 18,37).
Già prima Gesù aveva detto: «La mia regalità [il mio regno] non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei; ma il mio regno non è di quaggiù» (18,36).
Questa «confessione» di Gesù mette Pilato davanti ad una strana situazione: l’accusato rivendica regalità e regno (basitela). Ma sottolinea la totale diversità di questa regalità, e ciò con l’annotazione concreta che per il giudice romano deve essere decisiva: nessuno combatte per questa regalità. Se il potere, e precisamente il potere militare, è caratteristico per la regalità e il regno – niente di ciò si trova in Gesù. Per questo non esiste neanche una minaccia per gli ordinamenti romani. Questo regno è non violento. Non dispone di alcuna legione.
Con queste parole, Gesù ha creato un concetto assolutamente nuovo di regalità e di regno mettendo Pilato, il rappresentante del classico potere terreno, di fronte ad esso. Che cosa deve pensare Pilato, che cosa dobbiamo pensare noi di tale concetto di regno e di regalità? E una cosa irreale, una fantasticheria della quale ci si può disinteressare? O forse in qualche modo ci riguarda?
Accanto alla chiara delimitazione del concetto di regno (nessuno combatte, impotenza terrena), Gesù ha introdotto un concetto positivo, per rendere accessibile l’essenza e il carattere particolare del potere di questa regalità: la verità.
Pilato, nell’ulteriore sviluppo dell’interrogatorio, ha messo in gioco un altro termine che proviene dal suo mondo e viene normalmente collegato con il termine «regno»: il potere – l’autorità (exousia). Il dominio richiede un potere, addirittura lo definisce.
Gesù invece qualifica come essenza della sua regalità la testimonianza alla verità. La verità è forse una categoria politica? Oppure il «regno» di Gesù non ha niente a che fare con la politica? A quale ordine allora esso appartiene?
Se Gesù basa il suo concetto di regalità e di regno sulla verità come categoria fondamentale, molto comprensibilmente il pragmatico Pilato chiede: «Che cos’è la verità? »(18,38).
È la domanda che pone anche la moderna dottrina dello Stato: può la politica assumere la verità come categoria per la sua struttura? O deve lasciare la verità, come dimensione inaccessibile, alla soggettività e invece cercare di riuscire a stabilire la pace e la giustizia con gli strumenti disponibili nell’ambito del potere? Vista l’impossibilità di un consenso sulla verità, la politica puntando su di essa non si rende forse strumento di certe tradizioni che, in realtà, non sono che forme di conservazione del potere?
Ma, dall’altra parte – che cosa succede se la verità non conta nulla? Quale giustizia allora sarà possibile? Non devono forse esserci criteri comuni che garantiscano veramente la giustizia per tutti – criteri sottratti all’arbitrarietà delle opinioni mutevoli ed alle concentrazioni del potere? Non è forse vero che le grandi dittature sono vissute in virtù della menzogna ideologica e che soltanto la verità potè portare la liberazione?
Che cos’è la verità?
La domanda del pragmatico, posta superficialmente con un certo scetticismo, è una domanda molto seria, nella quale effettiva- mente è in gioco il destino dell’umanità. Che cosa è, dunque, la verità? Possiamo riconoscerla? Può essa entrare, come criterio, nel nostro pensare e volere, nella vita sia del singolo che in quella della comunità?
La definizione classica formulata dalla filosofia scolastica qualifica la verità come «adaequatio intellectus et rei – corrispondenza tra intelletto e realtà» (Tommaso d’Aquino, S. theol. I q 21 a 2 c). Se la ragione di una persona rispecchia una cosa così come essa è in se stessa, allora la persona ha trovato la verità. Ma solo un piccolo settore di ciò che esiste realmente – non la verità nella sua grandezza ed interezza.
Con un’altra affermazione di san Tommaso ci avviciniamo già di più alle intenzioni di Gesù: «La verità è nell’intelletto di Dio in senso vero e proprio e in primo luogo (proprie et primo); nell’intelletto umano, invece, essa è in senso vero e proprio, e derivato (proprie quidem et secundario)» (De verit. q 1 a 4 c). E così s’arriva infine alla formula lapidaria: Dio è «ipsa summa et prima veritas – la stessa somma e prima verità » (S. theol. I q 16 a 5 c).
Con questa formula siamo vicini a ciò che Gesù intende dire quando parla della verità, per dare testimonianza alla quale è venuto nel mondo. Verità ed opinione errata, verità e menzogna nel mondo sono continuamente mescolate in modo quasi inestricabile. La verità in tutta la sua grandezza e purezza non appare. Il mondo è «vero» nella misura in cui rispecchia Dio, il senso della creazione, la Ragione eterna da cui è scaturito. E diventa tanto più vero quanto più si avvicina a Dio. L’uomo diventa vero, diventa se stesso se diventa conforme a Dio. Allora egli raggiunge la sua vera natura. Dio è la realtà che dona l’essere e il senso.
«Dare testimonianza alla verità» significa mettere in risalto Dio e la sua volontà di fronte agli interessi del mondo e alle sue potenze. Dio è la misura dell’essere. In questo senso, la verità è il vero «re» che a tutte le cose dà la loro luce e la loro grandezza. Possiamo anche dire che dare testimonianza alla verità significa: partendo da Dio, dalla Ragione creatrice, rendere la creazione decifrabile e la sua verità accessibile in modo tale che essa possa costituire la misura e il criterio orientativo nel mondo dell’uomo, che ai grandi e ai potenti si faccia incontro il potere della verità, il diritto comune, il diritto della verità.
Diciamolo pure: la non-redenzione del mondo consiste, appunto, nella non-decifrabilità della creazione, nella non-riconoscibilità della verità, una situazione che poi conduce inevitabilmente al dominio del pragmatismo, e in questo modo fa sì che il potere dei forti diventi il dio di questo mondo.
A questo punto, come uomini moderni, si è tentati di dire: «Grazie alla scienza, per noi la creazione è diventata decifrabile». Di fatto, dice ad esempio Francis S. Collins, con lieto stupore: «Il linguaggio di Dio era stato decifrato» (The Language ofGod, p. 99). Sì davvero, nella grandiosa matematica della creazione, che oggi possiamo leggere nel codice genetico dell’uomo, percepiamo il linguaggio di Dio. Ma purtroppo non il linguaggio intero. La verità funzionale sull’uomo è diventata visibile. Ma la verità su lui stesso – su chi egli sia, di dove venga, per quale scopo esista, che cosa sia il bene o il male – quella, purtroppo, non si può leggere in tal modo. Con la crescente conoscenza della verità funzionale sembra piuttosto andare di pari passo una crescente cecità per «la verità» stessa – per la domanda su ciò che è la nostra vera realtà e ciò che è il nostro vero scopo.
Che cos’è la verità? Non soltanto Pilato ha accantonato questa domanda come irrisolvibile e, per il suo compito, impraticabile. Anche oggi, nella disputa politica come nella discussione circa la formazione del diritto, per lo più si prova fastidio per essa. Ma senza la verità l’uomo non coglie il senso della sua vita, lascia, in fin dei conti, il campo ai più forti.
«Redenzione» nel senso pieno della parola può consistere solo nel fatto che la verità diventi riconoscibile. Ed essa diventa riconoscibile, se Dio diventa riconoscibile. Egli diventa riconoscibile in Gesù Cristo. In Lui Dio è entrato nel mondo, ed ha con ciò innalzato il criterio della verità in mezzo alla storia.
La verità esternamente è impotente nel mondo; come Cristo, secondo i criteri del mondo, è senza potere: Egli non possiede alcuna legione. Viene crocifisso. Ma proprio così, nella totale mancanza di potere, Egli è potente, e solo così la verità diviene sempre nuovamente una potenza.
Nel colloquio tra Gesù e Pilato si tratta della regalità di Gesù e quindi della regalità, del «regno» di Dio. Proprio nel colloquio di Gesù con Pilato si rende evidente che non esiste alcuna rottura tra l’annuncio di Gesù in Galilea – il regno di Dio – e i suoi discorsi in Gerusalemme.
Il centro del messaggio fino alla croce – fino all’iscrizione sulla croce – è il regno di Dio, la nuova regalità che Gesù rappresenta. Il centro di ciò è, però, la verità. La regalità annunciata da Gesù nelle parabole e, infine, in modo del tutto aperto davanti al giudice terreno è, appunto, la regalità della verità. L’erezione di questa regalità quale vera liberazione dell’uomo è ciò che interessa.
Al contempo, diventa evidente che tra la focalizzazione pre-pasquale sul regno di Dio e quella post-pasquale sulla fede in Gesù Cristo come Figlio di Dio non c’è alcuna contraddizione. In Cristo, Dio è entrato nel mondo, la Verità. La cristologia è l’annuncio diventato concreto del regno di Dio.
Per Pilato dopo l’interrogatorio è chiaro ciò che, in linea di principio, egli sapeva già prima. Questo Gesù non è un rivoluzionario politico, il suo messaggio e il suo comportamento non costituiscono un pericolo per il dominio romano. Se abbia contravvenuto alla Torà, a lui che è romano non interessa.
Sembra però che Pilato abbia provato anche un certo timore superstizioso di fronte a questa figura strana. Certo, Pilato era uno scettico.
Ma come uomo dell’antichità, egli tuttavia non escludeva che dèi o in ogni caso esseri simili agli dèi potessero comparire sotto l’aspetto di esseri umani. Giovanni dice che i «Giudei» accusavano Gesù di farsi Figlio di Dio, e aggiunge: «All’udire queste parole, Pilato ebbe ancor più paura» (19,8).
Penso che si debba tener conto di questa paura in Pilato: c’era forse veramente qualcosa di divino in quest’uomo? Condannandolo si metteva forse contro una potenza divina? Doveva forse aspettarsi l’ira di tali potenze? Penso che il suo atteggiamento in questo processo non si spieghi soltanto in ragione di un certo impegno per la giustizia, ma proprio anche in base a queste idee.
Ovviamente gli accusatori se ne rendono conto ed oppongono ora ad una paura un’altra paura. Alla paura superstiziosa per una possibile presenza divina, essi oppongono la paura molto concreta di restare privo del favore dell’imperatore, di perdere la posizione e di precipitare così in una situazione senza sostegno. L’affermazione: «Se liberi costui, non sei amico di Cesare» (Gv 19,12), è una minaccia. Alla fine, la preoccupazione per la carriera è più forte della paura di fronte alle potenze divine.
Ma prima della decisione finale vi è ancora un intermezzo drammatico e doloroso in tre atti, che almeno brevemente dobbiamo considerare.
Il primo atto consiste nel fatto che Pilato presenta Gesù come candidato per l’amnistia pasquale, cercando in questo modo di liberarlo.
Con questo, però, si espone ad una situazione fatale. Chi viene proposto come candidato per l’amnistia è di per sé già condannato. Soltanto così l’amnistia ha un senso. Se alla folla spetta il diritto d’acclamazione, allora dopo il suo pronunciamento è da considerare come condannato colui che essa non ha scelto. In questo senso, nella proposta per la liberazione attraverso l’amnistia è tacitamente inclusa già una condanna.
Sul confronto tra Gesù e Barabba come anche sul significato teologico di tale alternativa ho scritto in modo dettagliato già nella Prima Parte di quest’opera. Basta quindi ricordare qui brevemente soltanto l’essenziale.
Giovanni qualifica Barabba, secondo le nostre traduzioni, semplicemente un «brigante» (18,40). Ma nel contesto politico di allora la parola greca da lui usata aveva assunto anche il significato di «terrorista», ovvero di «combattente della resistenza». Che questo fosse il significato inteso diventa evidente nel racconto di Marco: «Un tale, chiamato Barabba, si trovava in carcere insieme ai ribelli che nella rivolta avevano commesso un omicidio» (15,7).
Barabba («figlio del padre») è una specie di figura messianica; nella proposta dell’amnistia pasquale due interpretazioni della speranza messianica stanno di fronte l’una all’altra. Secondo la legge romana si tratta di due delinquenti accusati dello stesso delitto – sono rivoltosi contro la pax romana. È chiaro che Pilato preferisce l’«esaltato» non violento, che era Gesù ai suoi occhi. Ma le categorie della folla ed anche dell’autorità del tempio sono diverse. Se l’aristocrazia del tempio come massimo arriva alla frase: «Non abbiamo altro re che Cesare» (Gv 19,15), ciò è solo apparentemente una rinuncia alla speranza messianica di Israele: questo re noi non lo vogliamo. Essi desiderano un altro genere di soluzione del problema.
L’umanità si troverà sempre nuovamente davanti a tale alternativa: dire «sì» a quel Dio che opera soltanto con il potere della verità e dell’amore o contare sul concreto, su ciò che è a portata di mano, sulla violenza.
I seguaci di Gesù non sono presenti nel luogo del giudizio, sono assenti per paura. Ma essi mancano anche perché non si propongono come massa. La loro voce si farà sentire a Pentecoste nella predica di Pietro, che allora «trafiggerà il cuore» di quegli uomini che in precedenza si erano decisi in favore di Barabba. Alla domanda: «Che cosa dobbiamo fare, fratelli?» ricevono la risposta: «Convertitevi» – rinnovate e trasformate il vostro modo di pensare, il vostro essere (cfr At 2,37s). È questo il grido che, di fronte alla scena di Barabba e a tutte le sue riedizioni, deve squarciarci il cuore e portarci alla svolta della vita.
Il secondo atto, Giovanni lo sintetizza laconicamente nella frase: «Allora Pilato fece prendere Gesù e lo fece flagellare» (19,1).
La flagellazione era la punizione che, nel diritto penale romano, veniva inflitta come castigo concomitante la condanna a morte. In Giovanni essa appare invece come un atto posto durante l’interrogatorio – un provvedimento che il prefetto, in virtù del suo potere di polizia, era autorizzato a prendere. Era una punizione estremamente barbara; il condannato «veniva picchiato da più aguzzini finché questi si stancavano e la carne del delinquente pendeva giù in brandelli sanguinanti» (Blinzler, p. 321). Rudolf Pesch commenta: «Il fatto che Simone il Cireneo debba portare per Gesù la traversa della croce e che Gesù muoia così presto viene forse con ragione collegato con la tortura della flagellazione, durante la quale altri delinquenti già morivano» (Markuse- vangelium II, p. 467).
Il terzo atto è l’incoronazione di spine. I soldati si prendono gioco in modo crudele di Gesù. Sanno che Egli pretende di essere re. Ma ora si trova nelle loro mani, ed è loro piacere umiliarlo, dimostrare in Lui la loro forza, forse anche scaricare su di Lui, in modo sostitutivo, la loro rabbia contro i grandi.
Rivestono Lui – uomo colpito e ferito in tutto il corpo – con i segni caricaturali della maestà imperiale: il mantello scarlatto, la corona di spine intrecciate e lo scettro di canna. Gli rendono omaggio: «Salve, re dei Giudei!»; il loro omaggio consiste in ceffoni con cui manifestano ancora una volta tutto il loro disprezzo nei suoi confronti (cfr Mt 27,28ss; Mc 15,17ss; Gv 19,2s).
La storia delle religioni conosce la figura del re-caricatura – affine al fenomeno del «capro espiatorio». Su di lui si scarica tutto ciò che angustia gli uomini: in questo modo s’intende allontanare tutto ciò dal mondo. Senza saperlo, i soldati compiono quanto in quei riti e in quelle usanze non poteva realizzarsi: «Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui; per le sue piaghe noi siamo stati guariti» (Is 53,5). In questa apparenza caricaturale Gesù viene condotto da Pilato, e Pilato lo presenta alla folla – all’umanità: Ecce homo – Ecco l’uomo! (Gv 19,5). Probabilmente il giudice romano è sconvolto dalla figura percossa e schernita di questo misterioso accusato. Egli conta sulla compassione di coloro che lo vedono.
«Ecce homo» – questa parola acquisisce spontaneamente una profondità che va al di là del momento. In Gesù appare l’essere umano come tale. In Lui si manifesta la miseria di tutti i colpiti e rovinati. Nella sua miseria si rispecchia la disuma- nità del potere umano, che schiaccia così l’impotente. In Lui si rispecchia ciò che chiamiamo «peccato»: ciò che l’uomo diventa quando volge le spalle a Dio e prende autonomamente in mano il governo del mondo.
Ma è vero anche l’altro aspetto: a Gesù non può essere tolta la sua intima dignità. Resta presente in Lui il Dio nascosto. Anche l’uomo percosso ed umiliato rimane immagine di Dio. Da quando Gesù si è lasciato percuotere, proprio i feriti e i percossi sono immagine del Dio che ha voluto soffrire per noi. Così, nel mezzo della sua passione, Gesù è immagine di speranza: Dio sta dalla parte dei sofferenti.
Alla fine Pilato si pone sul seggio del giudice. Dice ancora una volta: «Ecco il vostro re!» (Gv 19,14). Poi pronuncia la sentenza a morte.
Certo – la grande verità, di cui aveva parlato Gesù, gli è rimasta inaccessibile; la verità concreta di questo caso, però, Pilato la conosceva bene. Sapeva che questo Gesù non era un delinquente politico e che la regalità rivendicata da Lui non costituiva alcun pericolo politico – sapeva quindi che era da prosciogliere.
Come prefetto egli rappresentava il diritto romano su cui si basava la pax romana – la pace dell’impero che abbracciava il mondo. Questa pace, da una parte, era assicurata mediante la potenza militare di Roma.
Ma con la potenza militare, da sola, non si può stabilire nessuna pace. La pace si fonda sulla giustizia. La forza di Roma era il suo sistema giuridico, l’ordine giuridico, sul quale gli uomini potevano contare. Pilato – lo ripetiamo – conosceva la verità di cui si trattava in questo caso e sapeva quindi che cosa la giustizia richiedeva da lui.
Ma alla fine vinse in lui l’interpretazione pragmatica del diritto: più importante della verità del caso è la forza pacificante del diritto, questo fu forse il suo pensiero e così si giustificò davanti a se stesso. Un’assoluzione dell’innocente poteva recare danno non solo a lui personalmente – il timore per questo fu certamente un motivo determinante per il suo agire -, ma poteva anche provocare ulteriori dispiaceri e disordini che, proprio nei giorni della Pasqua, erano da evitare.
La pace fu in questo caso per lui più importante della giustizia. Doveva passare in seconda linea non soltanto la grande ed inaccessibile verità, ma anche quella concreta del caso: credette di adempiere in questo modo il vero senso del diritto – la sua funzione pacificatrice. Così forse calmò la sua coscienza. Per il momento tutto sembrò andar bene. Gerusalemme rimase tranquilla. Il fatto, però, che la pace, in ultima analisi, non può essere stabilita contro la verità, doveva manifestarsi più tardi.
(*) dal Tomo 2 “Gesù di Nazaret” – di Benedetto XVI – cliccare qui per altri capitoli
Nota: dal testo abbiamo voluto omettere solo alcune parentesi poiché c’è il copyright, chi volesse leggere i testi integralmente, con le parentesi, deve acquistare il libro.