Benedetto XVI Tre grandi parabole – Tomo 1 Gesù di Nazaret

– 2. TRE GRANDI RACCONTI IN PARABOLE DI LUCA

Voler spiegare anche solo una buona parte delle parabole di Gesù andrebbe oltre i limiti consentiti a questo libro. Voglio pertanto limitarmi ai tre grandi racconti in parabole del Vangelo di Luca, la cui bellezza e profondità tocca sempre in modo spontaneo anche chi non crede: la storia del buon samaritano; la parabola dei due fratelli; il racconto del ricco epulone e del povero Lazzaro.

La parabola del buon samaritano (Lc 10,25-37)

Al centro della storia del buon samaritano vi è la domanda fondamentale dell’uomo. È un dottore della Legge, quindi un maestro dell’esegesi, che la pone al Signore: «Maestro, che devo fare per ereditare la vita eterna?» (10,25). Luca aggiunge che il dottore avrebbe fatto quella domanda a Gesù per metterlo alla prova. Egli personalmente, in quanto dottore della Legge, conosce la risposta che a essa dà la Bibbia, ma vuole vedere che cosa dice al riguardo quel profeta digiuno di studi biblici. Il Signore lo rimanda molto semplicemente alla Scrittura che questi, appunto, conosce e lascia che sia lui stesso a dare la risposta. Il dottore della Legge risponde con esattezza mettendo insieme Deuteronomio 6,5 e Levitico 19,18: «Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente e il prossimo tuo come te stesso» (Lc 10,27). Riguardo a questa domanda Gesù non insegna cose diverse dalla Torah, il cui intero significato è unito in questo duplice comandamento. Ora, però, quest’uomo dotto, che da sé conosce benissimo la risposta alla sua domanda, deve giustificarsi: la parola della Scrittura è indiscussa, ma come essa debba essere applicata nella pratica della vita solleva questioni che sono molto dibattute nella scuola (e anche nella vita stessa).

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La domanda, nel concreto, è: chi è «il prossimo»? La risposta abituale, che poteva poggiarsi anche su testi delle Scritture, affermava che «prossimo» significava «connazionale».

Il popolo costituiva una comunità solidale, in cui ognuno aveva delle responsabilità verso l’altro, in cui ogni individuo era sostenuto dall’insieme e quindi doveva considerare l’altro, «come se stesso», parte di quell’insieme che gli assegnava il suo spazio vitale. Gli stranieri allora, le persone appartenenti a un altro popolo, non erano «prossimi»?

Ciò, però, andava contro la Scrittura, che esortava ad amare proprio anche gli stranieri ricordando che in Egitto Israele stesso aveva vissuto un’esistenza da forestiero. Tuttavia, dove porre i confini restava argomento di discussione. In generale si considerava appartenente alla comunità solidale e quindi «prossimo» solo lo straniero che si era stanziato nella terra d’Israele. Erano diffuse anche altre limitazioni

del concetto di «prossimo». Una dichiarazione rabbinica insegnava che non bisognava considerare «prossimo» eretici, delatori e apostati (Jeremias, p. 170). Inoltre era dato per scontato che i samaritani, che a Gerusalemme, pochi anni prima (tra il 6 e il 9 dopo Cristo) avevano contaminato la piazza del tempio proprio nei giorni della Pasqua spargendovi ossa umane (Jeremias, p. 171), non erano «prossimi».

Alla domanda, resa in questo modo concreta, Gesù risponde con la parabola dell’uomo che sulla strada da Gerusalemme a Gerico viene assalito dai briganti che lo abbandonano ai bordi della via, spogliato e mezzo morto. È una storia assolutamente realistica, perché su quella strada assalti simili accadevano regolarmente. Passano sulla medesima strada un sacerdote e un levita – conoscitori della Legge, esperti circa la grande domanda della salvezza di cui erano al servizio per professione – e vanno oltre.

Non dovevano essere necessariamente uomini particolarmente freddi; forse hanno avuto paura anche loro e hanno cercato di arrivare più presto possibile in città; forse erano maldestri e non sapevano da che parte cominciare per prestare aiuto – tanto più che, comunque, sembrava che non ci fosse più molto da aiutare.

Poi sopraggiunge un samaritano, probabilmente un mercante che deve percorrere spesso quel tratto di strada ed evidentemente conosce il padrone della locanda più vicina; un samaritano – quindi uno che non appartiene alla comunità solidale di Israele e non è tenuto a vedere nella persona assalita dai briganti il suo «prossimo».

Bisogna qui ricordare che, nel capitolo precedente, l’evangelista ha raccontato che Gesù, in cammino verso Gerusalemme, aveva mandato avanti dei messaggeri che erano giunti in un villaggio di samaritani e volevano preparare per Lui un alloggio: «Ma essi non vollero riceverlo, perché era diretto verso Gerusalemme» (9,52s). Infuriati, i figli del tuono – Giacomo e Giovanni – dissero allora a Gesù: «Signore, vuoi che diciamo che scenda un fuoco dal cielo e li consumi?». Il Signore li rimproverò. Si trovò poi alloggio in un altro villaggio.

Ed ecco ora apparire il samaritano. Che cosa farà? Egli non chiede fin dove arrivino i suoi doveri di solidarietà e nemmeno quali siano i meriti necessari per la vita eterna. Accade qualcos’altro: gli si spezza il cuore; il Vangelo usa la parola che in ebraico indicava in origine il grembo materno e la dedizione materna.

Vedere l’uomo in quelle condizioni lo prende «nelle viscere», nel profondo dell’anima. «Ne ebbe compassione», traduciamo oggi indebolendo l’originaria vivacità del testo. In virtù del lampo di misericordia che colpisce la sua anima diviene lui stesso il prossimo, andando oltre ogni interrogativo e ogni pericolo.

Pertanto qui la domanda è mutata: non si tratta più di stabilire chi tra gli altri sia il mio prossimo o chi non lo sia. Si tratta di me stesso. Io devo diventare il prossimo, così l’altro conta per me come «me stesso».

Se la domanda fosse stata: «È anche il samaritano mio prossimo?», allora nella situazione data la risposta sarebbe stata un «no» piuttosto netto. Ma ecco, Gesù capovolge la questione: il samaritano, il forestiero, si fa egli stesso prossimo e mi mostra che io, a partire dal mio intimo, devo imparare l’essere-prossimo e che porto già dentro di me la risposta. Devo diventare una persona che ama, una persona il cui cuore è aperto per lasciarsi turbare di fronte al bisogno dell’altro. Allora trovo il mio prossimo, o meglio: è lui a trovarmi.

Helmut Kuhn, nella sua interpretazione della parabola, va certamente oltre il senso letterale del testo e tuttavia individua correttamente la radicalità del suo messaggio quando scrive: «L’amore politico dell’amico si fonda sull’uguaglianza dei partner. La parabola simbolica del samaritano, invece, sottolinea la radicale disuguaglianza: il samaritano, che non appartiene al popolo d’Israele, sta di fronte all’altro, a un individuo anonimo, egli che aiuta di fronte alla vittima inerme dell’attacco dei briganti. L’agape, così ci fa intendere la parabola, attraversa ogni tipo di ordinamento politico in cui domina il principio del do ut des, superandolo e caratterizzandosi in questo modo come soprannaturale. Per principio essa si colloca non solo al di là di questi ordinamenti, ma si comprende anzi come il loro capovolgimento: i primi saranno ultimi (cfr. Mt.19,30). E i miti erediteranno la terra (cfr. Mt 5,5)» (p. 88s). Una cosa è evidente: si manifesta una nuova universalità, che poggia sul fatto che io intimamente già divengo fratello di tutti quelli che incontro e che hanno bisogno del mio aiuto.

L’attualità della parabola è ovvia. Se la applichiamo alle dimensioni della società globalizzata, vediamo come le popolazioni dell’Africa che si trovano derubate e saccheggiate ci riguardano da vicino.

Allora vediamo quanto esse siano «prossime» a noi; vediamo che anche il nostro stile di vita, la storia in cui siamo coinvolti li ha spogliati e continua a spogliarli. In questo è compreso soprattutto il fatto che le abbiamo ferite spiritualmente. Invece di dare loro Dio, il Dio vicino a noi in Cristo, e accogliere così dalle loro tradizioni tutto ciò che è prezioso e grande e portarlo a compimento, abbiamo portato loro il cinismo di un mondo senza Dio, in cui contano solo il potere e il profitto; abbiamo distrutto i criteri morali così che la corruzione e una volontà di potere priva di scrupoli diventano qualcosa di ovvio. E questo non vale solo per l’Africa.

Sì, dobbiamo dare aiuti materiali e dobbiamo esaminare il nostro genere di vita. Ma diamo sempre troppo poco se diamo solo materia. E non troviamo anche intorno a noi l’uomo spogliato e martoriato? Le vittime della droga, del traffico di persone, del turismo sessuale, persone distrutte nel loro intimo, che sono vuote pur nell’abbondanza di beni materiali. Tutto ciò riguarda noi e ci chiama ad avere l’occhio e il cuore di chi è prossimo e anche il coraggio dell’amore verso il prossimo. Perché – come detto – il sacerdote e il levita passarono oltre forse più per paura che per indifferenza. Dobbiamo, a partire dal nostro intimo, imparare di nuovo il rischio della bontà; ne siamo capaci solo se diventiamo noi stessi interiormente «buoni», se siamo interiormente «prossimi» e se abbiamo poi anche lo sguardo capace di individuare quale tipo di servizio, nel nostro ambiente e nel raggio più esteso della nostra vita, è richiesto, ci è possibile e quindi ci è anche dato per incarico.

I Padri della Chiesa hanno dato alla parabola una lettura cristologica. Qualcuno potrebbe dire: questa è allegoria, quindi un’interpretazione che allontana dal testo. Ma se consideriamo che in tutte le parabole il Signore ci vuole invitare in modi sempre diversi alla fede nel regno di Dio, quel regno che è Egli stesso, allora un’interpretazione cristologica non è mai una lettura completamente sbagliata. In un certo senso corrisponde a una potenzialità intrinseca del testo e può essere un frutto che si sviluppa dal suo seme. I Padri vedono la parabola in dimensione di storia universale: l’uomo che lì giace mezzo morto e spogliato ai bordi della strada non è un’immagine di «Adamo», dell’uomo in genere, che davvero «è caduto vittima dei briganti»? Non è vero che l’uomo, questa creatura che è l’uomo, nel corso di tutta la sua storia si trova alienato, martoriato, abusato? La grande massa dell’umanità è quasi sempre vissuta nell’oppressione; e da altra angolazione: gli oppressori – sono essi forse le vere immagini dell’uomo o non sono invece essi i primi deformati, una degradazione dell’uomo? Karl Marx ha descritto in modo drastico l’«alienazione» dell’uomo; anche se non ha raggiunto la vera profondità dell’alienazione, perché ragionava solo nell’ambito materiale, ha tuttavia fornito una chiara immagine dell’uomo che è caduto vittima dei briganti.

La teologia medievale ha interpretato i due dati della parabola sullo stato dell’uomo depredato come fondamentali affermazioni antropologiche. Della vittima dell’imboscata si dice, da un lato, che fu spogliato (spoliatus); dall’altro lato, che fu percosso fin quasi alla morte (vulneratus: cfr. Lc 10,30).

Gli scolastici riferirono questi due participi alla duplice dimensione dell’alienazione dell’uomo. Dicevano che è spoliatus supernaturalibus e vulneratus in naturalibus: spogliato dello splendore della grazia soprannaturale, ricevuta in dono, e ferito nella sua natura. Ora, questa è allegoria che certamente va molto oltre il senso della parola, ma rappresenta pur sempre un tentativo di precisare il duplice carattere del ferimento che grava sull’umanità.

La strada da Gerusalemme a Gerico appare quindi come l’immagine della storia universale; l’uomo mezzo morto sul suo ciglio è immagine dell’umanità.

Il sacerdote e il levita passano oltre – da ciò che è proprio della storia, dalle sole sue culture e religioni, non giunge alcuna salvezza. Se la vittima dell’imboscata è per antonomasia l’immagine dell’umanità, allora il samaritano può solo essere l’immagine di Gesù Cristo. Dio stesso, che per noi è lo straniero e il lontano, si è incamminato per venire a prendersi cura della sua creatura ferita. Dio, il lontano, in Gesù Cristo si è fatto prossimo. Versa olio e vino sulle nostre ferite – un gesto in cui si è vista un’immagine del dono salvifico dei sacramenti – e ci conduce nella locanda, la Chiesa, in cui ci fa curare e dona anche l’anticipo per il costo dell’assistenza.

I singoli tratti dell’allegoria, che sono diversi a seconda dei Padri, possiamo lasciarli serenamente da parte.

Ma la grande visione dell’uomo che giace alienato e inerme ai bordi della strada della storia e di Dio stesso, che in Gesù Cristo è diventato il suo prossimo, la possiamo tranquillamente fissare nella memoria come una dimensione profonda della parabola che riguarda noi stessi. Il possente imperativo contenuto nella parabola non ne viene infatti indebolito, ma è anzi condotto alla sua intera grandezza. Il grande tema dell’amore, che è l’autentico punto culminante del testo, raggiunge così tutta la sua ampiezza.

Ora, infatti, ci rendiamo conto che noi tutti siamo «alienati» e bisognosi di redenzione. Ora ci rendiamo conto che noi tutti abbiamo bisogno del dono dell’amore salvifico di Dio stesso, per poter diventare anche noi persone che amano. Abbiamo sempre bisogno di Dio che si fa nostro prossimo, per poter diventare a nostra volta prossimi.

Le due figure, di cui abbiamo parlato, riguardano ogni singolo uomo: ogni persona è «alienata», estraniata proprio dall’amore (che è appunto l’essenza dello «splendore soprannaturale» di cui siamo stati spogliati); ogni persona deve dapprima essere guarita e munita del dono. Ma poi ogni persona deve anche diventare samaritano – seguire Cristo e diventare come Lui. Allora viviamo in modo giusto. Allora amiamo in modo giusto, se diventiamo simili a Lui, che ci ha amati per primo (cfr. 1 Gv 4,19).

La parabola dei due fratelli (il figlio prodigo e il figlio rimasto a casa) e del padre buono (Lc 15,11-32)

Questa, che è forse la più bella parabola di Gesù, è conosciuta con il nome di «parabola del figlio prodigo»; infatti, la figura del figlio prodigo è tratteggiata in modo così efficace e la sua sorte nel bene e nel male ci tocca talmente il cuore che non può non apparire il vero centro del racconto. La parabola, tuttavia, ha in realtà tre protagonisti. Joachim Jeremias e altri hanno proposto di chiamarla meglio «parabola del padre buono» – questi, difatti, sarebbe il vero centro del testo.

Pierre Grelot, invece, ha richiamato l’attenzione sulla figura del secondo fratello come elemento veramente essenziale ed è quindi dell’opinione – a mio avviso a ragione – che la denominazione più appropriata sarebbe «parabola dei due fratelli». Questo risulta anzitutto già dalla situazione a cui la parabola risponde e che Luca presenta così (15,1s): «Si avvicinavano a lui tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano: “Costui riceve i peccatori e mangia con loro”». Qui incontriamo due gruppi, due «fratelli»: pubblicani e peccatori; farisei e dottori della Legge.

Gesù risponde loro con tre parabole: la prima è quella delle 99 pecore rimaste a casa e di quella perduta, poi vi è quella della dramma perduta. Quindi inizia di nuovo e dice: «Un uomo aveva due figli» (15,11). Si tratta dunque di tutti e due.

Il Signore riprende in questo modo una tradizione che risale molto indietro: la tematica dei due fratelliattraversa tutto l’Antico Testamento, partendo da Caino e Abele, passando per Ismaele e Isacco, fino a Esaùe Giacobbe e si rispecchia in modo diverso ancora una volta nel comportamento degli undici figli diGiacobbe nei confronti di Giuseppe. Nella storia delle elezioni domina una sorprendente dialettica tra i duefratelli, una dialettica che nell’Antico Testamento resta come una domanda aperta. Gesù ha ripreso questatematica in una nuova ora dell’agire storico di Dio e le ha dato un nuovo indirizzo.

Nel Vangelo di Matteo sitrova un testo sui due fratelli che presenta delle analogie con la nostra parabola: l’uno dichiara di voler farela volontà del padre, ma non la compie; l’altro dice di no alla volontà del padre, ma in seguito si pente e fapoi quello che gli era stato chiesto (cfr. Mt 21,28-32). Anche qui si tratta del rapporto tra peccatori e farisei;anche qui il testo è ultimamente un invito a un nuovo sì a Dio che chiama.

Ma cerchiamo ora di seguire passo passo la parabola. C’è anzitutto la figura del figlio prodigo, ma già subito all’inizio vediamo anche la magnanimità del padre. Egli asseconda il desiderio del figlio più giovane di avere la sua parte del patrimonio e divide l’eredità. Concede libertà. Può ben immaginare che cosa farà il figlio più giovane, ma lo lascia andare per la sua strada.

Il figlio parte «per un paese lontano». I Padri hanno visto in questo soprattutto il discostarsi interiormente dal mondo del padre – dal mondo di Dio -, l’intima rottura della relazione, la grandezza dell’allontanamento da ciò che è proprio e da ciò che è autentico. Il figlio dilapida le sue sostanze. Vuole semplicemente godere.

Vuole sfruttare la vita fino all’estremo, avere quella che ritiene la «vita in pienezza». Non vuole più sottostare ad alcun comandamento, ad alcuna autorità: cerca la libertà radicale; vuole vivere solo per se stesso, non sottoposto ad alcun’altra esigenza. Si gode la vita; si sente pienamente autonomo.

È difficile per noi vedere in ciò proprio lo spirito della moderna ribellione contro Dio e la Legge di Dio?

L’abbandono di tutto ciò che finora era il fondamento portante, e la scelta di una libertà senza confini?

La parola greca usata nella parabola per indicare il patrimonio sperperato ha nel linguaggio dei filosofi greci il significato di «sostanza», di natura. Il figlio prodigo sperpera la sua natura, se stesso.

Alla fine è tutto consumato. Colui che è stato completamente libero ora diventa veramente servo – un guardiano di porci che sarebbe felice di ricevere per cibo il mangime dei porci. L’uomo che intende la libertà come puro arbitrio di fare quello che si vuole e andare dove si vuole vive nella menzogna, perché, secondo la sua stessa natura, egli è parte di una reciprocità, la sua libertà è una libertà da dividere con gli altri; la sua stessa natura porta in sé disciplina e norma; identificarsi intimamente con queste, ecco la libertà. Così una falsa autonomia porta alla schiavitù: la storia nel frattempo ce l’ha mostrato in modo fin troppo evidente.

Per gli ebrei il maiale è un animale impuro – il guardiano di porci è dunque l’espressione dell’estrema alienazione e dell’estremo immiserimento dell’uomo. L’uomo totalmente libero è diventato un misero schiavo.

A questo punto avviene la «svolta». Il figlio prodigo comprende di essere perduto. Comprende che a casa sua era un uomo libero e che i servi di suo padre sono più liberi di lui, che si era creduto totalmente libero.

«Rientrò in se stesso» dice qui il Vangelo (15,17). E anche questa espressione, come è accaduto con quella del paese lontano, rimette in movimento la riflessione filosofica dei Padri: vivendo lontano da casa, lontano dalle sue origini – essi dicono – quest’uomo si era allontanato anche da se stesso. Viveva lontano dalla verità della sua esistenza.

Il suo ritorno, la sua «conversione», consiste nel fatto che di questo si rende conto, che si riconosce alienato, prende coscienza di esser andato veramente «in un paese estraneo» e che ora ritorna verso di sé.

In se stesso, però, trova l’indicazione della via verso il padre, verso la libertà di «figlio». Le parole che si prepara per il ritorno ci permettono di conoscere la portata del pellegrinaggio interiore che egli ora compie.

Sono espressione di un’esistenza in cammino, un’esistenza che – attraverso tutti i deserti – ora ritorna «a casa», a se stesso e al padre. Egli è in viaggio verso la verità della sua esistenza e quindi «verso casa». Con questa interpretazione «esistenziale» del ritorno a casa i Padri ci spiegano contemporaneamente che cosa significhi «conversione», quali sofferenze e purificazioni interiori comprenda, e possiamo dire tranquillamente che con ciò hanno capito nel modo giusto l’essenza della parabola e ci aiutano a riconoscerne l’attualità.

Il padre vede il figlio «quando è ancora lontano» e gli va incontro. Ascolta la confessione del figlio e vede in essa il cammino interiore da lui percorso, vede che ha trovato la strada verso la vera libertà. Così non lo lascia neppure finire di parlare, lo abbraccia, lo bacia e fa preparare per lui un grande gioioso banchetto. È gioia perché il figlio che, già quando aveva abbandonato la casa paterna con le proprie sostanze, «era morto» e ora è tornato in vita, è risuscitato; «era perduto ed è stato ritrovato» (15,32).

I Padri della Chiesa hanno messo tutto il loro amore nell’interpretazione di questa scena. Il figlio perduto diventa per loro l’immagine dell’uomo in generale, l’«Adamo» che siamo tutti noi – quell’Adamo a cui Dio ora è andato incontro e lo ha accolto di nuovo nella sua casa. Nella parabola il padre dà ordine ai servitori di portare in fretta «il vestito primo». Per i Padri questo «vestito primo» è un’allusione all’abito perduto della grazia, con cui all’origine era rivestito l’uomo e che poi ha perso con il peccato. Ora questo «vestito primo» gli viene di nuovo donato – il vestito del figlio.

Nella festa che viene preparata essi vedono un’immagine della festa della fede, l’Eucaristia festiva, nella quale si anticipa il banchetto eterno. Letteralmente secondo il testo greco, il fratello maggiore, quando torna a casa, sente «sinfonia e cori» – per i Padri di nuovo un’immagine della sinfonia della fede, che fa dell’essere cristiani una gioia e una festa.

Ma l’essenziale del testo ora non è senz’altro in questi dettagli: l’essenziale ora è senza dubbio la figura del padre. È comprensibile? Può ed è lecito a un padre agire così?

Pierre Grelot ha fatto notare che Gesù si esprime qui veramente sulla base dell’Antico Testamento: l’immagine originale di questa visione di Dio Padre si trova in Osea (cfr. 11,1-9). Lì si parla prima dell’elezione di Israele e del suo tradimento: «Più li chiamavo, più si allontanavano da me; immolavano vittime ai Baal, agli idoli bruciavano incensi» (11,2). Ma Dio vede anche come questo popolo è smembrato, come la spada fa strage nelle sue città (cfr. 11,6). E ora gli accade esattamente quello che viene descritto nella nostra parabola: «Come potrei abbandonarti, Èfraim, come consegnarti ad altri, Israele? […] Il mio cuore si commuove dentro di me, il mio intimo freme di compassione. Non darò sfogo all’ardore della mia ira, non tornerò a distruggere Èfraim, perché sono Dio e non uomo; sono il Santo in mezzo a te…» (11,8ss). Poiché Dio è Dio, il Santo, agisce come nessun uomo potrebbe agire. Dio ha un cuore e questo cuore si rivolta per così dire contro se stesso. Incontriamo di nuovo qui, nel profeta come nel Vangelo, la parola sulla «compassione», espressa con l’immagine del grembo materno. Il cuore di Dio trasforma l’ira e muta la pena in perdono.

A questo punto, per il cristiano sorge la domanda: dov’è qui il posto di Gesù Cristo?

Nella parabola compare solo il Padre. È forse assente la cristologia in questa parabola? Agostino ha cercato di introdurre la cristologia, dove si dice che il padre abbracciò il figlio (cfr. 15,20). «Il braccio del Padre è il Figlio», dice. E avrebbe potuto riferirsi a Ireneo, il quale definì il Figlio e lo Spirito come le due mani del Padre. «Il braccio del Padre è il Figlio» – quando ci posa questo braccio sulle spalle come «il suo dolce giogo», allora non è affatto un peso di cui ci carica, ma un gesto di amorosa accettazione. Il «giogo» di questo braccio non è un peso che dobbiamo sostenere, bensì un dono dell’amore che ci sostiene e fa di noi stessi dei figli. È un’interpretazione molto suggestiva, ma si tratta appunto di «allegoria», che va evidentemente oltre il testo.

Grelot ha trovato un’interpretazione che è conforme al testo e va ancora più a fondo. Fa notare che Gesù con questa parabola, come con quelle precedenti, giustifica la propria bontà nei confronti dei peccatori, la sua accoglienza dei peccatori con il comportamento del padre nella parabola. Con questo atteggiamento Gesù «diventa rivelazione vivente di Colui che egli chiamava suo Padre». Lo sguardo al contesto storico della parabola delinea quindi da sé una «cristologia implicita». «La sua passione e la sua risurrezione hanno accentuato questo aspetto delle cose: in che modo Dio ha manifestato il suo amore misericordioso verso i peccatori? Perché, “mentre noi eravamo ancora peccatori è morto per noi” (Rm 5,8) […] Gesù non può in nessun modo entrare nel quadro narrativo della sua parabola, perché vive identificandosi con il Padre celeste, ricalcando il suo atteggiamento su quello del Padre. Ora, il Cristo risorto resta ugualmente, in questo punto, nella stessa situazione di Gesù di Nazaret durante il suo ministero» (p. 228s). Di fatto Gesù giustifica, in questa parabola, il suo comportamento riconducendolo a quello del Padre, identificandolo con Lui. Così, proprio attraverso la figura del padre, Cristo si trova al centro della parabola come attuazione concreta dell’agire paterno.

Ed ecco comparire il fratello maggiore. Torna a casa dal lavoro nei campi, sente che si fa festa, ne apprende il motivo e s’adira. Semplicemente non riesce a trovare giusto che a questo buono a nulla, che ha divorato tutte le sue sostanze – i beni del padre – con le prostitute, ora venga immediatamente regalata una festa splendida senza che venga messo alla prova, senza un periodo di penitenza. Ciò contraddice il suo senso della giustizia: una vita di lavoro, la sua, appare priva d’importanza di fronte al sudicio passato dell’altro.

Dentro di lui monta l’amarezza: «Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai trasgredito un tuo comando» dice al padre «e tu non mi hai dato mai un capretto per far festa con i miei amici» (15,29). Anche a lui è andato incontro il padre, e ora gli parla con benevolenza. Il fratello maggiore non sa nulla dei mutamenti e dei percorsi interiori dell’altro, della strada che l’ha portato tanto lontano, della sua caduta e del suo ritrovamento. Vede solo l’ingiustizia. E qui si evidenzia forse che, di nascosto, anche lui ha sognato una libertà senza limiti, che nella sua obbedienza ha accumulato nell’intimo amarezza e non sa della grazia dell’essere a casa, della vera libertà che egli ha in quanto figlio. «Figlio, tu sei sempre con me» gli dice il padre «e tutto ciò che è mio è tuo» (15,31). Gli spiega in questo modo la grandezza dell’essere figlio. Sono le stesse parole con cui Gesù, nella preghiera sacerdotale, descrive il suo rapporto con il Padre: «Tutte le cose mie sono tue e tutte le cose tue sono mie» (Gv 17,10).

La parabola s’interrompe qui; non ci dice nulla della reazione del fratello maggiore. Né poteva essere altrimenti, perché a questo punto la parabola passa immediatamente alla realtà: con queste parole del padre, Gesù parla al cuore dei farisei e degli scribi che mormoravano, che si indignavano della bontà di Gesù nei confronti dei peccatori (cfr. 15,2).

Ora diventa perfettamente chiaro che Gesù identifica la sua bontà verso i peccatori con la bontà del padre nella parabola e che tutte le parole messe sulla bocca del padre le dice Lui stesso alle persone pie. La parabola non racconta qualcosa di lontano, ma tratta di ciò che accade qui e adesso per mezzo di Lui. Cerca di conquistare il cuore dei suoi avversari. Li prega di entrare e di partecipare alla gioia in quest’ora del ritorno a casa e della riconciliazione. Queste parole restano nel Vangelo come un invito implorante. Paolo riprende questo invito implorante, quando scrive: «Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio!» (2 Cor5,20).

La parabola, pertanto, da un lato si colloca molto realisticamente nel punto della storia in cui Gesù l’ha raccontata; ma allo stesso tempo trascende il momento storico, poiché l’invito supplichevole di Dio continua. Ma a chi è diretta adesso? Molto in generale i Padri hanno riferito il tema dei due fratelli al rapporto tra ebrei e pagani. Per loro non è stato difficile riconoscere nel figlio dissoluto, che si era allontanato da Dio e da se stesso, il mondo del paganesimo, al quale Gesù ha aperto la porta verso la

comunione con Dio nella grazia e per il quale celebra ora la festa del suo amore. Così non era neppure difficile riconoscere nel fratello rimasto a casa il popolo d’Israele che a ragione poteva dire di sé: «Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai trasgredito un tuo comando». Proprio nella fedeltà alla Torah si manifesta la fedeltà di Israele e anche la sua immagine di Dio.

Questa applicazione agli ebrei non è ingiustificata, se la si lascia così come l’abbiamo trovata nel testo: come il delicato tentativo di Dio di persuadere Israele, un tentativo che sta completamente nelle mani di Dio. Rileviamo infatti doverosamente che il padre della parabola non solo non contesta la fedeltà del figlio maggiore, ma conferma espressamente la sua figliolanza: «Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo». L’interpretazione sarebbe invece errata, se la si volesse trasformare in una condanna degli ebrei, cosa di cui nel testo non si parla affatto.

Se quindi è lecito considerare l’applicazione della parabola dei due fratelli a Israele e ai pagani come una dimensione implicita al testo, restano comunque ancora altre dimensioni.

In Gesù il discorso sul fratello maggiore, appunto, non ha semplicemente di mira Israele (anche i peccatori che si recavano da Lui erano ebrei), ma il pericolo specifico dei pii, di coloro che con Dio sono in regola, «en règie», come si esprime Grelot (p. 229) mettendo in risalto la breve frase: «Non ho mai trasgredito un tuo comando». Per loro, Dio è soprattutto Legge; si vedono in rapporto giuridico con Dio e sotto questo aspetto sono alla pari con Lui. Ma Dio è più grande: devono convertirsi dal Dio- Legge al Dio più grande, al Dio dell’amore. Allora non abbandoneranno la loro obbedienza, ma essa verrà da fonti più profonde e perciò sarà più grande, più sincera e pura, ma soprattutto anche più umile.

Aggiungiamo, come ulteriore punto di vista, una cosa già accennata prima: nell’amarezza di fronte alla bontà di Dio si manifesta un’amarezza interiore per l’obbedienza prestata, che denuncia i limiti di tale obbedienza: dentro di sé, in fondo, avrebbero gradito anch’essi di andarsene verso la grande libertà. C’è un’invidia nascosta per quello che l’altro ha potuto permettersi. Non hanno percorso il cammino che ha purificato il fratello più giovane e gli ha fatto conoscere che cosa significa la libertà, che cosa significa essere figlio. Gestiscono la loro libertà, in definitiva, come una schiavitù e non sono maturi fino al vero essere di figli. Anche loro hanno ancora bisogno di un cammino; possono trovarlo se semplicemente danno ragione a Dio, accettando la sua festa come fosse anche la loro. In questo modo, con la parabola il Padre attraverso Cristo parla a noi che siamo rimasti a casa, perché anche noi ci convertiamo per davvero e gioiamo della nostra fede.

La parabola del ricco epulone e del povero Lazzaro (Lc 16,19-31)

In questa storia ci troviamo un’altra volta di fronte a due figure contrastanti: il ricco che gozzoviglia nella sua agiatezza e il povero che non può nemmeno afferrare i bocconi che i ricchi crapuloni buttano dal tavolo – i pezzetti di pane con cui i commensali, secondo il costume del tempo, si pulivano le mani e che poi buttavano via. I Padri, in parte, hanno inquadrato anche questa parabola nello schema dei due fratelli applicandola al rapporto tra Israele (il ricco) e la Chiesa (il povero Lazzaro), perdendo però in questo modo la tipologia completamente diversa che qui è in gioco. Lo si vede già nella differente conclusione. Mentre i testi sui due fratelli restano aperti, terminando come domanda e invito, qui viene descritta la fine irrevocabile di entrambi i protagonisti.

Come sfondo che schiude a noi la comprensione di questo racconto dobbiamo considerare la serie di Salmi nei quali si leva a Dio il lamento del povero che vive nella fede in Dio e nell’obbedienza ai suoi comandamenti ma conosce solo sventura, mentre i cinici che disprezzano Dio passano da un successo all’altro e godono tutta la felicità della terra. Lazzaro fa parte di quei poveri, la cui voce udiamo per esempio nel Salmo 44: «Ci hai resi la favola dei popoli, su di noi le nazioni scuotono il capo. […] Per te ogni giorno siamo messi a morte, stimati come pecore da macello» (v. 15-23; cfr. Rm 8,36).

L’antica sapienza di Israele si fondava sul presupposto che Dio premia il giusto e punisce il peccatore, che cioè al peccato corrisponde l’infelicità e alla giustizia la felicità. Almeno dal tempo dell’esilio, questa sapienza era entrata in crisi. Non solo Israele come popolo nel suo insieme pativa più dei popoli che lo circondavano, che lo avevano costretto all’esilio e lo opprimevano – anche in ambito privato diventava sempre più evidente che il cinismo è vantaggioso e che, in questo mondo, il giusto è destinato alla sofferenza. Nei Salmi e nella tarda letteratura sapienziale assistiamo alla faticosa ricerca di sciogliere questa contraddizione, a un nuovo tentativo di diventare «saggi» – di comprendere la vita in modo corretto, di trovare e intendere in modo nuovo Dio, che sembra ingiusto o del tutto assente.

Uno dei testi più penetranti di questa ricerca, il Salmo 73, sotto certi aspetti può essere considerato come sfondo culturale della nostra parabola. Vediamo quasi stagliarsi innanzi a noi la figura del ricco epulone, del quale l’orante – Lazzaro – si lamenta:

«Ho invidiato i prepotenti, vedendo la prosperità dei malvagi.  Non c’è sofferenza per essi, sano e pasciuto è il loro corpo. Non conoscono l’affanno dei mortali […]. Dell’orgoglio si fanno una collana […]. Esce l’iniquità dal loro grasso […]. Levano la loro bocca fino al cielo […]. Perciò seggono in alto, non li raggiunge la piena delle acque. Dicono: “Come può saperlo Dio? C’è forse conoscenza nell’Altissimo?”» (Sal 73,3-11).

Il giusto che soffre e vede tutto ciò corre il pericolo di smarrirsi nella sua fede. Davvero Dio non vede? Non sente? Non lo preoccupa la sorte degli uomini? «Invano dunque ho conservato puro il mio cuore […] poichésono colpito tutto il giorno, e la mia pena si rinnova ogni mattina. […] si agitava il mio cuore» (Sal

73,13s.21). Il cambiamento improvviso sopraggiunge quando il giusto sofferente nel santuario volge lo sguardo verso Dio e, guardandolo, allarga la sua prospettiva. Adesso vede che l’apparente intelligenza dei cinici ricchi di successo, osservata alla luce, è stupidità: questo genere di sapienza significa essere «stolti e non capire», essere «come una bestia» (cfr. Sal 73,22). Essi rimangono nella prospettiva delle bestie e hanno perduto la prospettiva dell’uomo che va oltre l’aspetto materiale: verso Dio e la vita eterna.

A questo punto ci tornerà alla memoria un altro Salmo, in cui un perseguitato dice alla fine: «Sazia pure dei tuoi beni il loro ventre, se ne sazino anche i figli […]. Ma io per la giustizia contemplerò il tuo volto, al risveglio mi sazierò della tua presenza» (Sal 17,14s).

Qui si contrappongono due generi di sazietà: la sazietà dei beni materiali e il saziarsi «della tua presenza» – la sazietà del cuore mediante l’incontro con l’amore infinito. «Al risveglio» – ciò rimanda, in definitiva, al risveglio alla vita nuova, eterna, ma si riferisce anche a un «risveglio» più profondo già in questo mondo: il destarsi alla verità, che già fin d’ora dona all’uomo una nuova sazietà.

Di questo destarsi nella preghiera parla il Salmo 73. Ora, infatti, l’orante vede che la tanto invidiata felicità dei cinici è solo «come un sogno al risveglio»; vede che il Signore, quando sorge, fa «svanire la loro immagine» (Sal 73,20). E adesso l’orante riconosce la vera felicità: «Ma io sono con te sempre: tu mi hai preso per la mano destra. […] Chi altri avrò per me in cielo? Fuori di te nulla bramo sulla terra. […] Il mio bene è stare vicino a Dio» (Sal 73,23.25.28).

Queste non sono belle parole per far sperare nell’aldilà, bensì è il destarsi alla percezione della vera grandezza dell’essere uomo, della quale naturalmente fa parte anche la vocazione alla vita eterna.

Con ciò solo apparentemente ci siamo allontanati dalla nostra parabola. In realtà, con questa storia il Signore ci vuole introdurre proprio nel processo del «risveglio» che ha trovato la sua espressione nei Salmi.

Non si tratta di una condanna meschina della ricchezza e dei ricchi, generata dall’invidia. Nei Salmi su cui abbiamo brevemente riflettuto ogni invidia è superata: anzi, all’orante si rende ovvio che l’invidia per questo genere di ricchezza è stolta, perché egli ha conosciuto il vero bene.

Dopo la crocifissione di Gesù incontriamo due uomini benestanti – Nicodemo e Giuseppe d’Arimatea – che hanno trovato il Signore e sono persone che stanno «risvegliandosi». Il Signore ci vuole condurre da un’intelligenza stolta alla vera sapienza, ci vuole insegnare a riconoscere il vero bene. E così, anche se ciò non si trova nel testo, possiamo in base ai Salmi dire che il ricco epulone già in questo mondo era un uomo dal cuore vuoto, che nei suoi stravizi voleva solo soffocare il vuoto che era in lui: nell’aldilà viene solo alla luce la verità che era ormai presente anche nell’aldiquà.

Naturalmente questa parabola, risvegliandoci, è al contempo anche un’esortazione all’amore che dobbiamo donare ora ai nostri fratelli poveri e alla responsabilità nei loro

confronti – su ampia scala, nella società mondiale, così come nell’ambito ridotto della nostra vita di tutti i giorni.

Nella descrizione dell’aldilà, che segue poi nella parabola, Gesù si attiene ai concetti correnti nel giudaismo del suo tempo. Pertanto non è lecito forzare questa parte del testo: Gesù adotta gli elementi immaginifici preesistenti senza con questo elevarli formalmente a suo insegnamento sull’aldilà. Approva, tuttavia, chiaramente la sostanza delle immagini. Pertanto non è privo d’importanza il fatto che Gesù riprenda qui le idee dello stato intermedio tra morte e risurrezione, che ormai erano diventate patrimonio comune del giudaismo. Il ricco si trova nell’Ade come luogo provvisorio, non nella «geenna» (l’inferno), che è il termine per lo stato definitivo (Jeremias, p. 152). Gesù non conosce una «risurrezione nella morte». Ma, come detto, non è questo il vero insegnamento che il Signore ci vuole trasmettere con questa parabola. Come ha illustrato in modo convincente Jeremias, si tratta piuttosto, in un secondo vertice della parabola, della richiesta di segni.

L’uomo ricco dice dall’Ade ad Abramo quello che, allora come oggi, tanti uomini dicono o vorrebbero dire a Dio: se vuoi che ti crediamo e che conformiamo la nostra esistenza alla parola di rivelazione della Bibbia, allora devi essere più chiaro. Mandaci qualcuno dall’aldilà che ci possa dire che è davvero così. Il problema della richiesta di segni – la pretesa di una maggiore evidenza della rivelazione – pervade l’intero Vangelo.

La risposta di Abramo, come, al di fuori della parabola, quella di Gesù alla richiesta di segni da parte dei suoi contemporanei, è chiara: chi non crede alla parola della Scrittura, non crederà nemmeno a uno che venga dall’aldilà. Le verità più sublimi non possono essere costrette alla stessa evidenza empirica che, appunto, è propria solo della dimensione materiale.

Abramo non può mandare Lazzaro nella casa paterna dell’uomo ricco. Ma ora ci viene in mente una cosa che ci colpisce. Pensiamo alla risurrezione di Lazzaro di Betania, narrata nel Vangelo di Giovanni. Che cosa succede? «Molti dei Giudei […] credettero in lui» ci racconta l’evangelista. Vanno dai farisei e riferiscono l’accaduto. Il Sinedrio si riunisce per discuterne. La faccenda, in quella sede, viene considerata sotto l’aspetto politico: un movimento del popolo, che può risultarne, potrebbe chiamare in causa i romani e generare una situazione pericolosa. Così si decide di uccidere Gesù: il miracolo non porta alla fede bensì all’indurimento (Gv 11,45-53).

Ma i nostri pensieri non si fermano qui. Non riconosciamo forse dietro la figura di Lazzaro, che giace coperto di piaghe fuori della porta dell’uomo ricco, il mistero di Gesù che «patì fuori della porta della città» (Eb 13,12) e, nudo e disteso sulla croce, il corpo ricoperto di sangue e ferite, fu abbandonato allo scherno e al disprezzo della moltitudine? – «Ma io sono verme, non uomo, infamia degli uomini, rifiuto del mio popolo» (Sal 22,7).

Questo vero Lazzaro è risorto – Egli è venuto per dircelo. Se dunque vediamo nella storia di Lazzaro la risposta di Gesù alla richiesta di segni da parte dei suoi contemporanei, ci troviamo d’accordo con la risposta centrale che Gesù ha dato a questa richiesta. In Matteo questa risposta dice: «Una generazione perversa e adultera pretende un segno! Ma nessun segno le sarà dato, se non il segno di Giona profeta.

Come infatti Giona rimase tre giorni e tre notti nel ventre del pesce, così il Figlio dell’uomo resterà tre giorni e tre notti nel cuore della terra» (Mt 12,39s).

In Luca leggiamo: «Questa generazione è una generazione malvagia; essa cerca un segno, ma non le sarà dato nessun segno fuorché il segno di Giona. Poiché come Giona fu un segno per quelli di Nìnive, così anche il Figlio dell’uomo lo sarà per questa generazione» (Lc.11,29s).

Non è necessario che analizziamo qui le differenze tra le due versioni. Una cosa è chiara: il segno di Dio per gli uomini è il Figlio dell’uomo, è Gesù stesso. E lo è in profondità nel suo mistero pasquale, nel mistero di morte e risurrezione. Egli stesso è «il segno di Giona». Egli, il Crocifisso e Risorto, è il vero Lazzaro: credere in Lui e seguire Lui, il grande segno di Dio – è questo l’invito della parabola che è più di una parabola. Essa parla della realtà, della realtà decisiva della storia per eccellenza.

Ratzinger-Benedetto XVI – Tre grandi parabole – Tomo 1 Gesù di Nazaret

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