Davvero San Francesco d’Assisi era il Cicciobello che dicono?

Il vero San Francesco di Assisi

In questa pagina vi offriamo due articoli in uno, seri, atti a sviscerare i luoghi comuni su una falsa identità di San Francesco d’Assisi, pubblicato nel 2011 nel sito amico oramai dismesso di “papalepapale”.

Per esempio:

– Francesco, “romantico” come lama affilata! Il santo “decattolicizzato”;

– Cosa resta dell’antico carisma francescano nei suoi figli religiosi: in cosa lo hanno tradito?

Quanto al Francesco vero, autentico, cosa diceva? Vi facciamo meditare su queste parole, giusto come assaggio:

Cap II delle Fonti Francescane: Guai a quelli che non fanno penitenza.

  • [178/4] Tutti quelli e quelle, invece, che non vivono nella penitenza, e non ricevono il corpo e il sangue del Signore nostro Gesù Cristo, e si abbandonano ai vizi e ai peccati e camminano dietro la cattiva concupiscenza e i cattivi desideri della loro carne, e non osservano quelle cose che hanno promesso al Signore, e servono con il proprio corpo al mondo, agli istinti carnali ed alle sollecitudini del mondo e alle preoccupazioni di questa vita: costoro sono prigionieri del diavolo del quale sono figli e fanno le opere; sono ciechi, poiché non vedono la vera luce, il Signore nostro Gesù Cristo. Non hanno la sapienza spirituale, poiché non posseggono il Figlio di Dio, che è la vera sapienza del Padre; di loro è detto: ” La loro sapienza è stata ingoiata” e: ” Maledetti coloro che si allontanano dai tuoi comandamenti”. Essi vedono e riconoscono, sanno e fanno ciò che è male, e consapevolmente perdono la loro anima.
  • [178/5] Vedete, o ciechi, ingannati dai vostri nemici, cioè dalla carne, dal mondo e dal diavolo, che al corpo è cosa dolce fare il peccato e cosa amara sottoporsi a servire Dio, poiché tutti i vizi e i peccati escono e procedono dal cuore degli uomini, come dice il Signore nel Vangelo. E non avete niente in questo mondo e neppure nell’altro. E credete di possedere a lungo le vanità di questo secolo, ma vi ingannate, perché verrà il giorno e l’ora alla quale non pensate, non sapete e ignorate. Il corpo si ammala, la morte si avvicina e così si muore di amara morte.”
  • [178/7] ”Tutti coloro ai quali perverrà questa lettera, li preghiamo, nella carità che è Dio, che accolgano benignamente con divino amore queste fragranti parole del Signore nostro Gesù Cristo, che abbiamo scritto. E coloro che non sanno leggere, se le facciano leggere spesso, e le imparino a memoria, mettendole in pratica santamente sino alla fine, poiché sono spirito e vita. Coloro che non faranno questo, dovranno renderne, ragione nel giorno del giudizio, davanti al tribunale del Signore nostro Gesù Cristo.”

Crediamo che queste raccomandazioni di Francesco siano state abbondantemente “tradite” oggi dai suoi per le seguenti ragioni:

– la penitenza è stata congedata dalle prediche e dalle catechesi e dai Confessionali;

– il demonio, la sua azione, l’inferno, sono stati messi al bando;

– parlare dei vizi è diventato un tabù o, peggio, antifrancescano.


IL TESTO E’ SCARICABILE IN PDF QUI

Il Patrono d’Italia è stato il primo santo ad essere decattolicazzato dentro e fuori la Chiesa: gli hanno tolto la preghiera, l’adorazione, la penitenza, la croce; l’hanno lasciato solo a parlare con gli animali. Un matto! Sfatiamo la leggenda metropolitana per tornare alla leggenda aurea.

In una Catechesi all’inizio del 2010, Benedetto XVI mette in guardia da un “san Francesco non di Chiesa”. E infatti, dice testualmente il Papa:

“In realtà, alcuni storici nell’Ottocento e anche nel secolo scorso hanno cercato di creare dietro il Francesco della tradizione, un cosiddetto Francesco storico, così come si cerca di creare dietro il Gesù dei Vangeli, un cosiddetto Gesù storico. Tale Francesco storico non sarebbe stato un uomo di Chiesa, ma un uomo collegato immediatamente solo a Cristo, un uomo che voleva creare un rinnovamento del popolo di Dio, senza forme canoniche e senza gerarchia.”

Dice ancora Benedetto XVI:

“E’ anche vero che non aveva intenzione di creare un nuovo ordine, ma solamente rinnovare il popolo di Dio per il Signore che viene. Ma capì con sofferenza e con dolore che tutto deve avere il suo ordine, che anche il diritto della Chiesa è necessario per dar forma al rinnovamento e così realmente si inserì in modo totale, col cuore, nella comunione della Chiesa, con il Papa e con i Vescovi”.

E’ DAVVERO IL SANTO DELLA SEDIZIONE DISSIMULATA CONTRO IL PAPA? NO, QUELLO ERA VALDO…

Il Papa ci ha confermato ciò che in fondo si sapeva, ma non se ne parlava volentieri: san Francesco non voleva fondare un Ordine religioso, meno ancora tre, e fu invece la Chiesa di quel tempo a ritenere necessario un Ordine.

Il vero ed autentico “Poverello d’Assisi” dimostrò chiaramente, fin da subito, la sua filiale obbedienza al Papa. Lo stesso gesto, alla radice, di quello “spogliarsi” in piazza ha un duplice significato, sia materiale che teologico: egli rinuncia al bene e si spoglia, togliendosi di dosso tutto, perfino le proprie opinioni, anche il grado di parentela umana, per assumere, accettando il mantello del Vescovo, l’adozione a Figlio della Chiesa dove il Papa è il Padre che rappresenta Cristo in terra.

Una spiegazione simile la da anche Caterina da Siena, portandolo come esempio di colui che “rinuncia tutto a se stesso, muore a se stesso”. In una lettera, la Santa scrive: “Affinchè il mondo non gli gonfiasse lo stomaco (nutrisse di superbia), il padre nostro santo Francesco elesse la santa e vera estrema povertà, maggiormente davanti al Dolce Cristo in terra, in obbedienza e carità…”. In queste parole, è chiaro l’insegnamento: san Francesco non fu mai contro il Papa.

Va detto che l’interesse a presentare un Francesco contro il papato, specialmente nell’Ottocento, proviene da ambienti massonici e protestanti, come da questi ambienti pervenne, di fatto, una ricca letteratura, falsa, sulla storia della Chiesa. San Francesco è stato sempre associato, dal mondo protestante e catto-sincretista, a Pietro Valdo (valdesi) il quale era, solo fino a qualche anno prima, all’origine del movimento i “Poveri di Lione”. La sintesi della predicazione è apparentemente (ripeto: apparentemente) identica a quella di Francesco: richiamo ad una fede vissuta nella povertà del Vangelo, la non violenza, il riferimento alla pace, uno stile di vita che porti a rinunciare alle carriere politiche ed ecclesiastiche viste come tali, ossia “carriere”, l’interessamento alla natura che ci circonda, etc.

Una prima differenza con Pietro Valdo fu proprio l’obbedienza al Papa di san Francesco e la sua fedeltà.

In sostanza, l’errore di un certo francescanesimo moderno sta nel fatto di ingnorare che un conto è il messaggio di san Francesco che ragionevolmente valica i confini della Chiesa e s’instaura anche fra gruppi non cattolici, secondo il detto “l’erba del vicino è sempre più verde”, ma ben altra cosa è aver fatto di san Francesco, e spesso proprio dai suoi, una sorta di “giullare” in senso negativo, sobillatore e riformatore contro il Papa e i vescovi del suo tempo.

Francesco, infatti, non sarebbe mai diventato un santo, nè sarebbe rimasto dentro la Chiesa se, in quel paragonarlo a Pietro Valdo, si facesse della povertà che rincorreva lo scopo della sua predicazione, il fine ultimo come invece intendeva Valdo… o peggio i catari-albigesi. Al contrario, Francesco usava la virtù della povertà evangelica quale mezzo, e non come scopo, nè fine, per rivitalizzare la Chiesa, ponendosi sotto la guida del Papa, aiutandolo a combattere la grave crisi di corruzione penetrata anche nel basso clero, e tutto questo, a differenza di Valdo, senza mai mettere in discussione il Magistero dottrinale del Pontefice, men che meno il magistero dottrinale del suo vescovo.

Valdo in un primo tempo accettò l’obbedienza al Papa, salvo ritirarla dopo. San Francesco, invece, rimase fedele prima e dopo, e principalmente a riguardo della Dottrina, lasciandosi consigliare e correggere dal Papa e dal vescovo.

Non a caso così ha ricordato, Benedetto XVI, ai Figli di san Francesco nell’aprile 2009 in occasione dell’udienza concessa per gli 800 anni dall’approvazione della regola dei Frati Minori:

“Viene spontanea qui una riflessione: Francesco avrebbe potuto anche non venire dal Papa.

Molti gruppi e movimenti religiosi si andavano formando in quell’epoca e alcuni di essi si contrapponevano alla Chiesa come istituzione o, per lo meno, non cercavano la sua approvazione.

Sicuramente un atteggiamento polemico verso la Gerarchia avrebbe procurato a Francesco non pochi seguaci”.

Invece egli pensò subito a mettere il cammino suo e dei suoi compagni nelle mani del Vescovo di Roma, il Successore di Pietro. Questo fatto rivela il suo autentico spirito ecclesiale. Il piccolo “noi” che aveva iniziato con i suoi primi frati lo concepì fin dall’inizio all’interno del grande “noi” della Chiesa una e universale. E il Papa lo riconobbe e l’apprezzò.

Anche il Papa, infatti, da parte sua, avrebbe potuto non approvare il progetto di vita di Francesco.

Anzi, possiamo ben immaginare che, tra i collaboratori di Innocenzo III, qualcuno lo abbia consigliato in tal senso, magari proprio temendo che quel gruppetto di frati assomigliasse ad altre aggregazioni ereticali e pauperiste del tempo.

Invece, il Romano Pontefice, ben informato dal vescovo di Assisi e dal cardinale Giovanni di San Paolo, seppe discernere l’iniziativa dello Spirito Santo e accolse, benedisse ed incoraggiò la nascente comunità dei frati minori.”

Nulla a che vedere pertanto con il Francesco modernista o protestante, o peggio, sobillatore contro il Papa! Resta famoso l’episodio di san Francesco che, dopo una predica in un villaggio, si vede portare davanti un sacerdote macchiato dai peccati, del quale il popolo furioso vuol fare giustizia (non dimentichiamo che siamo nel mezzo dell’eresia catara-albigese, dei cosiddetti “puri”). Il prete, inginocchiato davanti a Francesco, attende la dura condanna, sa di essersi macchiato di gravi colpe e attende il verdetto, ma Francesco prende quelle mani e le bacia. Davanti agli sguardi attoniti degli ignoranti contadini o dei saggi del villaggio, il “poverello d’Assisi” spiega come quelle mani, seppur insudiciate dal peccato, sono le stesse che compiono il Prodigio nella Messa, e di quante volte queste avessero tenuto fra le mani Gesù-Ostia-Santa. Nel dirlo, Francesco si commuove e il sacerdote e gli abitanti del villaggio si convertono.

E sappiamo bene che san Francesco non volle mai diventare prete non perchè ce l’avesse con il clero, come certa letteratura ottocentesca ha millantato, ma perchè non si stimava degno di un dono così immenso, di un potere così grande, e ritenendosi un indegno peccatore fino alla fine, bisognoso, mendicante del perdono di Dio, ritenne inopportuno che gli si affidasse la confessione delle anime.

MA DAVVERO E’ IL SANTO BUCOLICO E SOGNATORE CHE CI VIENE PROPINATO OGGI?

San Francesco fu tutt’altro che romantico, sognatore, bucolico: la sua virilità si era semplicemente spostata, da sotto la cintola, salendogli su, nel cuore e nella mente, quando si convertì e si consegnò al suo vescovo. Altro che romantico! Ragionava e meditava, vedeva il cielo ma restava coraggiosamente con i piedi per terra, ma ciò non toglie che il francescanesimo ha sempre tentato di presentare un Francesco al di fuori della normalità e spesso anche fuori della stessa ecclesialità, una sorta di Riformatore interno alla Chiesa, per cambiare la Chiesa; un Francesco che spesso camminava “per conto suo” (qualcosa di vero, in fondo, potrebbe anche esserci)….ma fu proprio grazie all’umiltà di Francesco ed alla sua ostinata obbedienza al Papa, che egli potè restare sui binari giusti, contrariamente al deragliamento di non pochi suoi fraticelli!

Non so quanto la pratica de le Sortes Apostolorum aiuti a comprendere la situazione, ma forse aiuta noi a comprendere perchè è giunto a noi un san Francesco spesse volte al di fuori di ciò che era veramente…

Nel 2000, l’università di Verona ha presentato un Convegno Internazionale, molto interessante, dal titolo “L’illusione religiosa, rive e derive”, convegno riconosciuto, ai fini dell’aggiornamento degli insegnanti di religione cattolica, dall’Ufficio Diocesano apposito della curia veronese.

Riporto il passo di pagina 23 che ritengo importante:

“San Francesco d’Assisi è ricorso per ben tre volte nella sua vita alla pratica della sortes apostolorum. Questa pratica dell’apertura casuale della parola di Dio ha segnato i momenti fondamentali della sua vita spirituale: l’inizio della sua vocazione, la vocazione del primo compagno san Bernardo, le stimmate.

Francesco dà di questo testimonianza nel suo Testamento scrivendo: “e dopo che il Signore mi donò dei frati, nessuno mi mostrava che cosa dovessi fare; ma lo stesso Altissimo mi rivelò che dovevo vivere secondo la forma del Santo Vangelo”.

POI C’È QUELLA STORIA STRANA DELLA SORTES APOSTOLORUM

La pratica della sortes apostolorum era nota in ambiente popolare, ma era solo tollerata dall’istituzione ecclesiale perché era considerata una sorta di pratica magica o pagana. Nonostante questi divieti, essa era una pratica diffusa che traeva le proprie origini dalle ordalie, con un profondo significato spirituale e psicologico.

La sortes apostolorum infatti può essere letta alla luce del concetto junghiano di sincronicità, vale a dire la corrispondenza tra avvenimenti che riguardano la sfera collettiva e i significati che essi assumono a livello individuale.

Nell’esperienza di s. Francesco il ricorso alla sincronicità pone in rapporto il mondo divino con il mondo umano senza intermediari. Potrebbe essere questo uno dei motivi per cui la sortes apostolorum è sempre stata osteggiata dalla Chiesa: proprio perché questa pratica non necessita dell’intermediazione dell’istituzione nel rapporto con il divino.

Ma ben sappiamo che s. Francesco d’Assisi non volle diventare sacerdote perché si riteneva troppo indegno di così eccelsa vocazione. E anche un po’, certamente, per un calcolo di “convenienza”, affrancandosi da quale eventuale vescovo non troppo ben disposto verso di lui… non c’è nulla di male in ciò.

Ma soprattutto venerava i sacerdoti con tale devozione da considerarli suoi “Signori”, poiché in essi vedeva solamente “il Figlio di Dio”; e il suo amore all’Eucaristia si fondeva con l’amore al sacerdote, il quale consacra e amministra il Corpo e Sangue di Gesù, e assolve dai peccati. In particolare, venerava le mani dei sacerdoti, che egli baciava sempre in ginocchio con grande devozione, quindi è palese che la pratica sortes apostolorum non influenzò san Francesco che riteneva il sacerdote l’unico intermediario fra l’uomo e Dio, fra il penitente e Dio, e riteneva il Papa l’intermediario fra tutti, sacerdoti e laici, vescovi e imperatori, villici o stranieri, un intermediario necessario per l’uomo, e per questo usava anche per lui il termine “Signor, Signor Papa!” e, a differenza di certa interpretazione spicciola, l’uso del termine “Signore” per Francesco era rivolto proprio non all’immagine, ma alla funzione del prete, alla funzione del Papa, in quanto “Alter Christi” e non per sminuirne il ruolo.

ROMANTICO? COME LAMA AFFILATA!

Si comprende così e meglio ciò che ha detto Benedetto XVI citato all’inizio:

“E’ anche vero che non aveva intenzione di creare un nuovo ordine, ma solamente rinnovare il popolo di Dio per il Signore che viene. Ma capì con sofferenza e con dolore che tutto deve avere il suo ordine, che anche il diritto della Chiesa è necessario per dar forma al rinnovamento e così realmente si inserì in modo totale, col cuore, nella comunione della Chiesa, con il Papa e con i vescovi.” E, ancora, ricorda il Papa, una raccomandazione rivolta da Francesco ai sacerdoti: “Quando vorranno celebrare la Messa, puri in modo puro, facciano con riverenza il vero sacrificio del santissimo Corpo e Sangue del Signore nostro Gesù Cristo” (Francesco di Assisi, Scritti, 399).”

E non era bucolico, o sognatore o romantico…. ciò che doveva dire lo diceva usando la parola come lama affilata. Ecco un passo dalla Letteraai Fedeli di san Francesco nelle Fonti Francescane, dove già il titolo dice tutto:

Guai a quelli che non fanno penitenza. Cap II°

[178/4] Tutti quelli e quelle, invece, che non vivono nella penitenza, e non ricevono il corpo e il sangue del Signore nostro Gesù Cristo, e si abbandonano ai vizi e ai peccati e camminano dietro la cattiva concupiscenza e i cattivi desideri della loro carne, e non osservano quelle cose che hanno promesso al Signore, e servono con il proprio corpo al mondo, agli istinti carnali ed alle sollecitudini del mondo e alle preoccupazioni di questa vita: costoro sono prigionieri del diavolo del quale sono figli e fanno le opere; sono ciechi, poiché non vedono la vera luce, il Signore nostro Gesù Cristo. Non hanno la sapienza spirituale, poiché non posseggono il Figlio di Dio, che è la vera sapienza del Padre; di loro è detto: ” La loro sapienza è stata ingoiata” e: ” Maledetti coloro che si allontanano dai tuoi comandamenti”. Essi vedono e riconoscono, sanno e fanno ciò che è male, e consapevolmente perdono la loro anima.

[178/5] Vedete, o ciechi, ingannati dai vostri nemici, cioè dalla carne, dal mondo e dal diavolo, che al corpo è cosa dolce fare il peccato e cosa amara sottoporsi a servire Dio, poiché tutti i vizi e i peccati escono e procedono dal cuore degli uomini, come dice il Signore nel Vangelo. E non avete niente in questo mondo e neppure nell’altro. E credete di possedere a lungo le vanità di questo secolo, ma vi ingannate, perché verrà il giorno e l’ora alla quale non pensate, non sapete e ignorate. Il corpo si ammala, la morte si avvicina e così si muore di amara morte.”

Dovrebbe forse meravigliarci che, al giorno d’oggi, non si senta più predicare un francescano con le parole del santo Fondatore, ma bensì usando un linguaggio del mondo e giungendo perfino all’uso dei balli sfrenati, salti e danze senza dire più la verità ai giovani, senza dire loro che “se restano nella concupiscenza e non vivono di penitenza per frenare i desideri della carne, restano prigionieri del diavolo”?

No, nessuna meraviglia. I francescani di oggi usano il Waka Waka per sollecitare i giovani a trovare ugualmente l’amicizia di Dio senza fare una benchè minima penitenza, e lo fanno in nome di san Francesco, citando, non si sa bene da dove, un bucolico san Francesco, o interpretandolo secondo le mode del momento…

E meno male che san Francesco chiude la Lettera ai Fedeli con questa memorabile raccomandazione:

[178/7] Tutti coloro ai quali perverrà questa lettera, li preghiamo, nella carità che è Dio, che accolgano benignamente con divino amore queste fragranti parole del Signore nostro Gesù Cristo, che abbiamo scritto. E coloro che non sanno leggere, se le facciano leggere spesso, e le imparino a memoria, mettendole in pratica santamente sino alla fine, poiché sono spirito e vita. Coloro che non faranno questo, dovranno renderne ragione nel giorno del giudizio, davanti al tribunale del Signore nostro Gesù Cristo.

Non mi pare ci sia molto da interpretare: c’è solo il fatto che queste raccomandazioni del Santo Patrono d’Italia, sono letteralmente disattese da gran parte dei Frati dei tre Ordini, ma anche da non poche suore. Non si tratta di giudicare, basti pensare al fatto che, se vuoi sapere cosa ha detto Francesco, te lo devi andare a cercare da solo, perchè nelle prediche troviamo solo il trito e ritrito Signore fa di me uno strumento della tua pace, preghiera attribuita a Francesco, ma che non è sua e lo spiegheremo al termine di questo modesto lavoro, e il Cantico delle Creature aggiornato con le frasi più consone allo spirito di questo mondo e di questo tempo, tagliato nelle sue frasi più severe:

“Laudato si’ mi’ signore per quelli ke perdonano per lo tuo amore,

et sostengo infirmitate et tribulatione.

Beati quelli ke l’ sosterrano in pace,

ka da te altissimo sirano incoronati.

Laudato si’ mi’ signore per sora nostra morte corporale,

da la quale nullu homo vivente pò skappare.

Guai acquelli ke morrano ne le peccata mortali,

beati quelli ke trovarà ne le tue santissime voluntati,

ka la morte secunda nol farrà male”.

Ringraziamo il cielo che ci sono i Francescani dell’Immacolata che stanno riportando alla luce l’autentico carisma, integrale, del Fondatore!

IL SANTO “DECATTOLICIZZATO”

Ad aprile del 2009 il francescanesimo ha vissuto un anno di grazia: 800 anni dall’approvazione dei Frati Minori (il primo gruppo di Francesco) da parte di Papa Innocenzo III (era il 16 aprile 1209) ed è curioso come il 16.4.2009 l’OR riportò un interessante articolo sul “Vero san Francesco delle origini”, liberando un Francesco appesantito da leggende varie e successive, messe oggi, finalmente ed ufficialmente, in discussione. L’occasione è l’uscita di una nuova ed ultima traduzione della Vita di san Francesco, la cosiddetta Legenda Maior di san Bonaventura da Bagnoregio, di Fr. Pietro Messa, della Pontificia Università Antonianum.

Vi riporto i passi più salienti della presentazione che vale la pena meditare:

“Francesco ha subito una sorta di decattolicizzazione, ed è stato sottoposto alla critica rigorosa dell’analisi storica, la quale, tuttavia, non è giunta al superamento del mito, ma anzi la questione francescana ha rappresentato un esempio piuttosto raro in cui la ricerca storica ha contribuito alla formazione di un vero e proprio mito contemporaneo.

“Di fronte a queste osservazioni, che costringono a ripensare il rapporto tra storia e agiografia, diviene inevitabile porsi anche altri quesiti: chi decide dove finisce la historia salutis – intesa come lettura provvidenziale degli avvenimenti – e comincia la storia? E ancora, chi decide dove debba collocarsi il confine tra mito e realtà? Similmente, sempre circa l’approccio che abbiamo definito decattolicizzato con Francesco d’Assisi, si deve quanto meno ricordare che il contesto in cui si colloca la sua vicenda è quello cristiano cattolico, come mostra, ad esempio, l’importanza della liturgia nella vicenda della fraternità minoritica. Gli studi moderni hanno certamente contribuito a creare il mito di una determinata immagine di san Francesco, spesso raffigurato come un antesignano dell’idea di tolleranza.

“(…) A questo proposito sono interessanti alcune osservazioni inerenti al passaggio dalla storia alla teologia che l’arcivescovo Giuseppe Betori ha esposto nelle conclusioni a un convegno inerente al Liber di Angela da Foligno, una penitente francescana il cui pensiero è debitore anche della teologia di Bonaventura: Non è vero forse che proprio la separazione tra fatti e dottrina, tra storia e teologia, tra contesto e testo è ciò che conduce a due assurdi: quello di ridurre Angela – nel nostro caso san Francesco– a un trattato mistico e quello di annullarne l’originalità nella temperie spirituale del suo tempo? Qui proprio dall’esperienza dell’esegesi biblica può venire un decisivo aiuto: gli ultimi due secoli della sua storia non insegnano forse come sia impossibile separare il Gesù della storia dal Cristo della fede, se non si vuole rendere irrilevante il primo e inconsistente il secondo?.”

FRANCESCO E IL SULTANO: DIALOGO INTERRELIGIOSO UNA CIPPA!

Un altro esempio concreto è la famosa storia, trita e ritrita per certi versi, dell’incontro di san Francesco con il Sultano, in Terra Santa.

Storia spesso infarcita di buonismo e semplicismo. La realtà dell’incontro è, però, piuttosto complessa perchè riportata da più fonti con sfumature diverse, ma oseremo dire provvidenziale nel suo insieme, per come è avvenuta e per come si è conclusa: senza spargimento di sangue per Francesco, ma senza dubbio con una grande lezione per noi, oggi, sull’autentico dialogo che dovremo tenere in campo interreligioso.

Nel san Francesco autentico, delle autentiche Fonti francescane, si narra di quando andò dal Sultano in piena crociata e gli mostrò che cosa comportasse l’essere cristiani: “I cristiani giustamente attaccano voi e la terra che avete occupato, perché bestemmiate il nome di Cristo e allontanate dal suo culto quelli che potete”…

San Francesco non è andato lì per intraprendere un dialogo interreligioso! Non è andato ad accusare il Papa e le Crociate! È andato, invece, a giustificare l’offensiva dei cristiani anche se è vero che preferiva la predicazione di Cristo alle armi, ma era consapevole che ognuno doveva agire nel posto in cui Dio l’aveva messo, avendo come bene comune la causa ultima: la conversione a Cristo.

Era andato perchè voleva convertire il Sultano, non lo voleva fare con la forza o con le armi, però voleva parlare con lui di Gesù Cristo, e riportano le Fonti: “Quando il beato Francesco per la fede in Cristo volle entrare in un grande fuoco coi sacerdoti del Soldano di Babilonia; ma nessuno di loro volle entrare con lui, e subito tutti fuggirono dalla sua vista”. E rifiutò i ricchi doni del Sultano perchè non volle convertirsi…. un segnale, come a sottolineare che non c’era nulla fra loro che valesse uno scambio di doni: il dono che portava Francesco era Cristo!

Ma vale la pena riflettere sull’insieme del dialogo avvenuto fra i due:

FF. 2690-2691

IL SULTANO: II vostro Signore insegna nei Vangeli che voi non dovete rendere male per male, e non dovete rifiutare neppure il mantello a chi vuol togliervi la tonaca, dunque voi cristiani non dovreste imbracciare armi e combattere i vostri nemici.

FRANCESCO: Mi sembra che voi non abbiate letto tutto il Vangelo. Il perdono di cui Cristo parla non è un perdono folle, cieco, incondizionato, ma un perdono meritato.

Gesù infatti ha detto: “Non date ciò che è santo ai cani e non gettate le vostre perle ai porci, perché non le calpestino e, rivoltandosi, vi sbranino”. Infatti il Signore ha voluto dirci che la misericordia va dispensata a tutti, anche a chi non la merita, ma che almeno sia capace di comprenderla e farne frutto, e non a chi è disposto ad errare con la stessa tenacia e convinzione di prima.

Altrove, oltretutto, è detto: “Se il tuo occhio ti è occasione di scandalo, cavalo e gettalo lontano da te”. E, con questo, Gesù ha voluto insegnarci che, se anche un uomo ci fosse amico o parente, o perfino fosse a noi caro come la pupilla dell’occhio, dovremmo essere disposti ad allontanarlo, a sradicarlo da noi, se tentasse di allontanarci dalla fede e dall’amore del nostro Dio. Proprio per questo, i cristiani agiscono secondo massima giustizia quando vi combattono, perché voi avete invaso delle terre cristiane e conquistato Gerusalemme, progettate di invadere l’Europa intera, oltraggiate il Santo Sepolcro, distruggete chiese, uccidete tutti i cristiani che vi capitano tra le mani, bestemmiate il nome di Cristo e vi adoperate ad allontanare dalla sua religione quanti uomini potete.

Se invece voi voleste conoscere, confessare, adorare, o magari solo rispettare il Creatore e Redentore del mondo e lasciare in pace i cristiani, allora essi vi amerebbero come se stessi.

Troviamo forse oggi predicatori francescani con lo stesso coraggio puramente cristiano del loro Fondatore? E poichè avere questo tipo di coraggio non è detto che a tutti sia dato, diciamo dunque: troviamo predicatori francescani onesti nell’ortodossia della fede come lo fu il loro Fondatore? Senza dubbio sì, e se qualcuno può additarceli quale esempio e perchè noi possiamo ascoltarli, ne saremo infinitamente grati!

Notare che san Francesco pone una condizione all’essere amati: se voi voleste conoscere, confessare, adorare… il Redentoreallora i cristiani vi amerebbero come se stessi: ossia, l’amore Cristiano è solo quello che si vive attraverso il Cristo, tutto il resto non è amore, non è amare, ma illusione, ipocrisia, mediocrità, non è la radicalità chiesta e vissuta da Francesco!

LA POVERTÀ SECONDO FRANCESCO, NON È QUELLA CHE S’IMMAGINANO LE IDEOLOGIE

Cominciamo con il sottolineare un punto fermo: la povertà a cui sorride Francesco è quella verso se stesso, ossia “morire a se stesso”, una netta conversione dal ciò che era al ciò che divenne: sempre più “conforme al Cristo”. La povertà di Francesco è la radicalità: “Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me”. Francesco si spoglia di tutto letteralmente, per lasciarsi vestire da Cristo in tutto. La sua radicalità è talmente eccessiva che non può impedire ai suoi le collette, o l’elemosina, per mangiare almeno un tozzo di pane. La povertà evangelica di Francesco è una penitenza continua.

E attenzione, come dicevamo sopra, a differenza di altri movimenti che inseguivano la povertà come scopo, per Francesco la povertà non è lo scopo della sua missione, nè della sua vocazione, ma un mezzo, e questo mezzo è la sua penitenza che si esprime nella spoliazione totale. Francesco comprende che senza radicalità non può essere un degno testimone di ciò che va predicando all’interno di un mondo corrotto: il suo fine dunque, è Cristo Crocefisso e Risorto; il suo scopo è testimoniare la radicalità della povertà (intesa anche in quel “morire a se stessi”) per convertire a Cristo. Inoltre, come si accennava, c’era il problema dell’eresia catara-albigese, i cosiddetti “puri” per i quali c’era bisogno di essere autentici testimoni per dimostrare loro che avevano torto.

Lo scopo di Francesco è raggiungere Cristo passando per la cosa più semplice che sente di fare meglio: vivere quella povertà come stile di vita PER AMORE di Cristo e non come impeto di una moda del momento, non come ideologia. Il suo “piacere” non gli viene certo dalle privazioni in sè che sono per lui una vera sofferenza, una continua penitenza, ma da ciò che la privazione e tale sofferenza provoca nel suo cuore, facendolo sentire libero, totalmente, libero non di fare ciò che vuole, ma libero di andare verso Cristo, senza pesi, libero di aderire con questi sentimenti alla Chiesa e di sentirsi accolto, compreso dal “Signor Papa” al quale rimette a giudizio ciò che ritiene essere un “buon progetto”.

Tale povertà è così radicale per “contrastare lì piaceri dello mondo“, che san Francesco la invoca affettuosamente come “sposa”: rappresenta, quindi, una convivenza nuziale, una compagna per la vita, uno stile di vita che potesse convincere la gente che la povertà non è l’origine dei mali che affliggevano le popolazioni del suo tempo. Era semmai la schiavitù delle ricchezze, la schiavitù del possesso, la schiavitù del peccato a condurre verso una vita infelice ed inquieta, mentre la povertà evangelica, che non era altro che vivere da persone semplici e “povere di spirito”, arricchiva e donava il centuplo perchè, spiegava Francesco, “sollecita la Divina Provvidenza a farsi prodiga, in tutto”. Esisteva, pertanto, ed esiste la povertà dignitosa, una dignità nell’essere povero… che produce “valori salvifici”, produce frutti.

Attenzione a non confondere la povertà evangelica predicata e vissuta da Francesco con la miseria e la fame, causate dalla schiavitù del vizio e del peccato: non era questo che egli intendeva per povertà da “sposare”. Non a caso, nella regola definitiva, Francesco spiega ai suoi frati in modo chiaro e inequivocabile il suo concetto di povertà, quali ne siano i fondamenti e quali i valori salvifici: “I frati non si approprino di niente, né casa, né luogo, né cosa alcuna. E come pellegrini e forestieri, servendo in questo mondo al Signore in povertà e umiltà, vadano per elemosina con confidenza; e non sta bene che si vergognino, perché il Signore per amor nostro si fece povero in questo mondo. Questa è la vetta sublime di quell’altissima povertà, che ha fatto voi, fratelli carissimi, eredi e re del regno dei cieli, e, rendendovi poveri di sostanze, vi ha arricchito di virtù. Questa sia la vostra porzione che conduce nella terra dei viventi. E a essa, fratelli dilettissimi, totalmente stando uniti, nient’altro mai dovete, per il nome del Signor Nostro Gesù Cristo, cercare di possedere sotto il cielo”.

La radicalità di Francesco è chiara: Gesù si fece povero in questo mondo, ma non andava chiedendo l’elemosina materiale, piuttosto “mendicava cuori da convertire, mendicava anime e non disdiceva l’offerta di un pasto o di un invito a Nozze…”. Ecco allora che Francesco sente la necessità di andare oltre e per amore del Signore, che si fece umile e povero, è necessario che ci spogliamo di ogni vanità (appropriarsi di case e cose), per testimoniare l’amore totale a Lui. Non dobbiamo vergognarci di chiedere perché, chiedendo, sollecitiamo gli altri alla carità in nome di Cristo, questo è lo scopo di Francesco. Per lui il povero è un dono e, di conseguenza, egli si fa dono al prossimo.

Nel sontuoso inno Veni Creator, la Chiesa canta: “Vieni, Padre dei poveri”. Francesco dà prova di conoscere le Scritture e conosce i due concetti di povertà biblica: quella effettiva e quella spirituale; sa che quei due concetti sono inseparabili e che può viverli entrambi arricchendoli vicendevolmente e ottenendo da Dio ogni favore.

Diceva santa Teresa del Bambin Gesù: “La santità non consiste in tale o tal’altra pratica, bensì consiste in una disposizione del cuore che ci rende umili e piccoli nelle braccia di Dio, consci della nostra debolezza e fiduciosi fino all’impudenza nella sua bontà di Padre….Quello che piace (al Buon Dio) nella mia anima, è il vedermi amare la mia piccolezza e povertà, è la cieca speranza che ho nella sua misericordia e nella sua provvidenza…Non temere; rinuncia a tutto ciò che puoi, perchè più sarai povero e più sarai amato da Gesù.”

QUINDI, DOVE DIAVOLO STA QUESTO FRANCESCO “MARXISTA”? PER TACER DI QUELLO “PACIFISTA”

Nulla a che vedere con lo schema marxista!

Visto che a proposito ha parlato il papa, lasciamo dire a lui direttamente. Spiega, infatti, Benedetto XVI nella Deus Caritas Est, la sua prima enciclica:

“Il marxismo aveva indicato nella rivoluzione mondiale e nella sua preparazione la panacea per la problematica sociale: attraverso la rivoluzione e la conseguente collettivizzazione dei mezzi di produzione — si asseriva in tale dottrina — doveva improvvisamente andare tutto in modo diverso e migliore. Questo sogno è svanito. Nella situazione difficile nella quale oggi ci troviamo anche a causa della globalizzazione dell’economia, la Dottrina Sociale della Chiesa è diventata un’indicazione fondamentale, che propone orientamenti validi ben al di là dei confini di essa […]

L’attività caritativa cristiana deve essere indipendente da partiti ed ideologie. Non è un mezzo per cambiare il mondo in modo ideologico e non sta al servizio di strategie mondane, ma è attualizzazione qui ed ora dell’amore di cui l’uomo ha sempre bisogno […]

Il programma di Gesù è « un cuore che vede ». Questo cuore vede dove c’è bisogno di amore e agisce in modo conseguente […] La carità, inoltre, non deve essere un mezzo in funzione di ciò che oggi viene indicato come proselitismo. L’amore è gratuito; non viene esercitato per raggiungere altri scopi. Ma questo non significa che l’azione caritativa debba, per così dire, lasciare Dio e Cristo da parte. È in gioco sempre tutto l’uomo. Spesso è proprio l’assenza di Dio la radice più profonda della sofferenza […]

È venuto il momento di riaffermare l’importanza della preghiera di fronte all’attivismo e all’incombente secolarismo di molti cristiani impegnati nel lavoro caritativo. Ovviamente, il cristiano che prega non pretende di cambiare i piani di Dio o di correggere quanto Dio ha previsto. Egli cerca piuttosto l’incontro con il Padre di Gesù Cristo, chiedendo che Egli sia presente con il conforto del suo Spirito in lui e nella sua opera […]

Fede, speranza e carità vanno insieme. La speranza si articola praticamente nella virtù della pazienza, che non vien meno nel bene neanche di fronte all’apparente insuccesso, ed in quella dell’umiltà, che accetta il mistero di Dio e si fida di Lui anche nell’oscurità”.

Nulla a che vedere con il pacifismo, dunque: il suo stile di vita è sofferenza e penitenza, ma con “Laude e gaudio”. San Francesco, come Gesù, era pacifico, ma non lesinava parole severe, come abbiamo potuto leggere sopra, quando c’era da predicare la Salvezza al prossimo. Non imponeva a nessuno il suo stile di vita, ma la sua testimonianza personale conduceva gli altri a seguirlo, come, del resto, avveniva per tutti i grandi santi Fondatori e Fondatrici della Chiesa.

L’hanno lasciato solo a parlare con gli animali: un matto!

Chi è il vero san Francesco? in cosa è l’immagine per antonomasia dell’ortodossia portata allo zelo estremo?

Il vero san Francesco, oggi, a mio parere, lo ritroviamo nel “Perdono di Assisi” dove ritengo sia racchiuso tutto il suo essere e il suo pensiero.

Illuminante, in tal senso, è l’opuscolo che nel 2005 Benedetto XVI ha dedicato proprio a questo “Perdono d’ Assisi”, riproponendo, per altro, la sua stessa esperienza.

“Voglio mandarvi tutti in Paradiso”: in questa affermazione si trova il vero san Francesco, con tutto quello che, naturalmente, comporta perché in Paradiso non si va se non per la via stretta dell’ortodossia dei Comandamenti – tutti: nessuno è escluso – che è la via “ordinaria”. Non ci si va senza penitenza, non ci si va se non si è “poveri” bisognosi del Perdono, della misericordia di Dio…

Possiamo citare brevemente il passo dalle Fonti:

(FF 3391-3397): «Insieme ai vescovi dell’Umbria, al popolo convenuto alla Porziuncola, Francesco disse tra le lacrime: “Fratelli miei, voglio mandarvi tutti in paradiso!”». Poco prima, il santo si era recato dal papa Onorio III, che in quei giorni si trovava a Perugia, per chiedergli il privilegio dell’indulgenza plenaria per tutti coloro che in stato di grazia, nel giorno del 2 agosto, avrebbero visitato questa chiesetta, dove egli viveva in povertà, aveva accolto s. Chiara, fondato l’Ordine dei Minori per poi inviarli nel mondo come messaggeri di pace. Alla domanda del Papa: «Francesco, per quanti anni vuoi questa indulgenza?», il santo rispose: «Padre Santo, non domando anni, ma anime». E felice si avviò verso la porta, ma il Pontefice lo chiamò: «Come, non vuoi nessun documento?». E Francesco: «Santo Padre, a me basta la vostra parola! Se questa indulgenza è opera di Dio, egli penserà a manifestare l’opera sua; io non ho bisogno di alcun documento; questa carta deve essere la Santissima Vergine Maria, Cristo il notaio e gli Angeli i testimoni».

Per lucrare l’indulgenza occorre essere in “stato di grazia”: più chiaro di così non si può! Nessuno sconto al peccato. L’indulgenza riguarda infatti la pena, non l’assoluzione dei peccati senza essersi confessati e senza essersi convertiti.

BENEDETTO XVI: QUELLA PREGHIERA CHE SAPEVO CERTAMENTE ESAUDITA

Racconta il papa Benedetto XVI, in un passo molto significativo perchè parla anche di se stesso:

“Qui devo aggiungere che nel corso del tempo l’indulgenza, in un primo momento riservata solo al luogo della Porziuncola, fu poi estesa prima a tutte le chiese francescane e, infine, a tutte le chiese parrocchiali per il 2 agosto. Nei ricordi della mia giovinezza il giorno del perdono d’Assisi è rimasto come un giorno di grande interiorità, come un giorno in cui si ricevevano i sacramenti in un clima di raccoglimento personale, come un giorno di preghiera. Nella piazza antistante la nostra chiesa parrocchiale in quel giorno regnava un silenzio particolarmente solenne. Entravano e uscivano in continuazione persone dalla chiesa. Si sentiva che il cristianesimo è grazia e che questa si dischiude nella preghiera. Indipendentemente da ogni teoria sull’indulgenza (qui vi suggeriamo di leggere il testo integralmente perché spiega altre cose interessanti), era quello un giorno di fede e di silenziosa speranza, di una preghiera che si sapeva certamente esaudita e che valeva soprattutto per i defunti…”

Che cosa è stato portato alle estreme conseguenze?

Non è semplice racchiudere una risposta esauriente in poche righe e, in parte, quello che occorre dire è stato spiegato nella prima parte dell’articolo [vedi nella home la Parte 1]: la trasformazione di un “santo” in una una sorta di “mito, decattolicizzandolo” è già una risposta coraggiosa.

TRASFORMATO IN LACCHÈ DEI CATTOCOMUNISTI

Il 10 ottobre 2007, Sandro Magister scrive un breve e durissimo attacco all’ennesimo tentativo di far passare san Francesco come “pacifista”. Rivediamone alcuni punti salienti.

San Francesco pacifista, ennesima bugia della tv.

– Ma che san Francesco è quello portato in tv dalla Lux Vide del “cattolicissimo” Ettore Bernabei? Quando il racconto ha toccato il tasto delle crociate, quel che sappiamo dai resoconti dell’epoca è stato capovolto come una frittata.

– Davanti al sultano Malik al-Kamil, san Francesco non chiese affatto perdono per l’offensiva dell’esercito cristiano. Dalla testimonianza di frate Illuminato, che l’accompagnò nella missione, sappiamo che il santo disse invece:

I cristiani agiscono secondo giustizia quando invadono le vostre terre e vi combattono, perché voi bestemmiate il nome di Cristo e vi adoperate ad allontanare dalla sua religione quanti più uomini potete. Se invece voi voleste conoscere, confessare e adorare il Creatore e Redentore del mondo, vi amerebbero come se stessi”.

– Quanto poi al dialogo interreligioso, sappiamo da san Bonaventura che san Francesco col sultano andò subito al sodo, mettendo nel conto che rischiava il martirio: “Predicò al Soldano il Dio uno e trino e il Salvatore di tutti, Gesù Cristo”.

E quando capì che nessuno gli dava retta? ‘Vedendo che non faceva progressi nella conversione di quella gente e che non poteva realizzare il suo sogno, preammonito da una rivelazione divina, ritornò nei paesi cristiani’.

– Contro le moderne “mutilazioni” di san Francesco è utile ripassare quanto ha detto Benedetto XVI ad Assisi, lo scorso 17 giugno:

Perché san Francesco ‘è un vero maestro’ per i cristiani d’oggi”.

Confesso che non conosco il Bernabei citato da Sandro Magister, ma conosco molti francescani che hanno predicato il medesimo Francesco pacifista, e spesso nelle omelie domenicali; così come ho conosciuto, è giusto dirlo, alcuni (purtroppo pochi) che si mantengono all’interno dell’ortodossia di un san Francesco ecclesiale e dottrinale.

I FRATI TALVOLTA PARLANO SENZA CAPIRE, OK. MA CHIARA FRUGONI, INVECE, PARLA CAPENDO BENISSIMO (DI MENTIRE)

E’ onesto sottolineare che le voci peggiori di un Francesco “distorto” non provengono dai suoi frati (molti dei quali hanno avuto “solo” la debolezza di sposarne un’immagine deformata perché, spesso, il vero san Francesco non è conosciuto neppure da loro), ma da una storica medievista italiana, Chiara Frugoni, che sul santo ne ha scritte di cotte e di crude, spingendosi perfino a parlare di “invenzione delle stimmate”. E’ lei oggi la principale “fonte” – specialmente in campo catto-progressista – del Francesco pacifista, del Francesco contro il papato, contro le Crociate, perfino contro le Indulgenze. Tanto per fare un esempio, spiega la Frugoni:

«Francesco non era un asceta. Ammirava il creato. Amava il cibo, purché consumato con parsimonia. Quando sta per morire chiede a una matrona romana, sua amica spirituale: “Portami quei mostacciòli, che mi piacciono tanto!”. E lei glieli offre. In un tempo in cui tutti sono molto osservanti quanto a regole ed astinenze, dice ai suoi: “Se vi offrono un pollo di venerdì, mangiatelo, perché è essenziale che percepiate la carità di chi lo offre”. Un novizio, dedito a digiunare per sacrificio, una certa notte si sente morire. Lui, Francesco, lo rimprovera: “Non fare più così”. Poi fa accendere le lucerne e indice una cena con tutti i frati». Un agguato in pieno stile progressista: ideologico e autodemolitorio. Vediamo come stanno veramente le cose.

C’è del vero nei racconti sul santo (a parte la storia di un Francesco morente che, in mezzo agli spasmi del dolore, chiede i mostaccioli: altre fonti, infatti, sostengono che il racconto non sia vero), ma questi vanno letti nel contesto. Come abbiamo spiegato in precedenza, Francesco “sposa” la povertà e di conseguenza sa benissimo che non può imporla a nessuno: la povertà non è il suo scopo, bensì un mezzo. Se c’è qualcuno che non resiste, la carità e l’umiltà di riconoscere il proprio limite conducono alla seconda povertà biblica, quella del cuore. In tal senso la prova del digiuno e la prova dell’estrema povertà hanno prodotto l’effetto che ci si prefiggeva: l’umiltà del riconoscersi limitati (Francesco non attribuisce mai a se stesso i meriti del suo successo nella penitenza), la semplicità, la povertà di spirito.

Come è stato già ricordato, il tempo in cui visse il santo è quello dei Catari-Albigesi, i “puri”, per i quali il digiuno era lo scopo, era uno strumento di tortura e di ricatto, era un obbligo anche di fronte alla malattia, essendo il fondo della loro dottrina eretica, nemico della vita stessa, sostanzialmente tendente alla distruzione fisica, al suicidio (è loro la teoria che non ci si debbe più riprodurre). San Francesco invece non fa altro che comportarsi come dice Cristo: “In qualunque casa entriate, prima dite: “Pace a questa casa!”. Se vi sarà un figlio della pace, la vostra pace scenderà su di lui, altrimenti ritornerà su di voi. Restate in quella casa, mangiando e bevendo di quello che hanno, perché chi lavora ha diritto alla sua ricompensa. Non passate da una casa all’altra. Quando entrerete in una città e vi accoglieranno, mangiate quello che vi sarà offerto, guarite i malati che vi si trovano, e dite loro: “È vicino a voi il regno di Dio”» (Lc 10, 5-9). E’ ovvio che, per Francesco, la pratica dell’autentica povertà si applica principalmente all’interno della comunità, proprio perché ci si può anche aiutare nel perseguire tale virtù. E, quando si va in giro a predicare, occorre raccogliere anche la carità della gente, il cibo che le persone possono offrire…

Tutto questo non può essere usato per dire che san Francesco non era un’asceta! Ed anche se “ammirare il creato” non fa di lui un asceta, egli lo era ogni volta che leggeva la Scrittura perché la “incarnava in sè”, gli dava vita, gli diventava via, gli indicava la Verità. Togliendo al Francesco ecclesiale la preghiera, che era il suo vero e principale nutrimento, togliendogli l’adorazione, che faceva sovente ai piedi del Crocefisso e davanti al Tabernacolo, è ovvio che lo si trasforma in un pacifista sornione, in un visionario che parlava agli animali… un matto inoffensivo, in pratica.

La Frugoni, da studiosa e ideologa, riporta dei fatti raccolti dalle fonti, ufficiali e non. Tuttavia il suo errore consiste nell’interpretazione che offre di questi, mettendo in bocca a Francesco il suo personale anticlericalismo, nemmeno troppo velato, trasformando il santo in un rivoluzionario assai particolare, insofferente verso la Chiesa…

Secondo la medievista, Francesco non attacca direttamente la Chiesa, ma “la contesta nei fatti”. Spiega, ad esempio, che la richiesta del Perdono di Assisi in realtà era contro le Indulgenze, interpretando, a modo suo, la frase a noi già nota (la riportiamo ancora, ripetersi serve talora): «Francesco, per quanti anni vuoi questa indulgenza?», il Santo rispose: «Padre Santo, non domando anni, ma anime». E felice si avviò verso la porta, ma il Pontefice lo chiamò: «Come, non vuoi nessun documento?». E Francesco: «Santo Padre, a me basta la vostra parola! Se questa indulgenza è opera di Dio, egli penserà a manifestare l’opera sua; io non ho bisogno di alcun documento; questa carta deve essere la Santissima Vergine Maria, Cristo il notaio e gli Angeli i testimoni». Questa ripetizione, vi è stata utile o no, a capire da voi stessi, la malafede dell’interpretazione dell’ideologa medievista Frugoni? Rileggete, in caso.

In verità, spiega papa Ratzinger, la richiesta di Francesco serviva proprio per facilitare i poveri, coloro che non potevano recarsi in Terra Santa o in nessun altro Pellegrinaggio per ottenere le indulgenze. Pertanto, le disposizioni sul come lucrare un’indulgenza non vengono affatto contestate dal santo, ma egli chiede al Papa un nuovo metodo che favorisca i poveri e il Papa viene incontro alla sua richiesta. Questa – e solo questa – è l’interpretazione!

L’immagine di un Francesco pio e devoto sarebbe, invece, per la Frugoni, una invenzione di san Bonaventura. Pur facendo molte ricerche, trovo assolutamente inspiegabile perché la studiosa non abbia trovato “prove” di un altro santo che smentisca la santità di vita che san Bonaventura ha attribuito a Francesco!

Resta palese che la cosiddetta “questione francescana” è purtroppo una realtà, causata dalla spaccatura interna ai tre Ordini, molto in competizione fra loro, tale da spingere ognuno di essi a dipingersi un Francesco a propria immagine, seguendo le mode del momento.

Ciò che è importante è, come diciamo sempre, la “parola della Chiesa e la sua interpretazione”. Pietro Valdo, ad esempio, sarà stato pure un santo per molti nei gesti e nelle intenzioni, ma resta scritto “in terra e in cielo” che era un eretico! Al contrario, Francesco – insieme a tutti i santi, di cui la Chiesa ha redatto le motivazioni per le canonizzazioni, che sono un atto dell’infallibilità stessa – è veramente santo. Probabilmente è vero che spesso rasentava il rischio di oltrepassare i limiti consentiti, come è stato già spiegato, ma è proprio quando i limiti non vengono superati (e la volontà umana resta fedele all’ortodossia della fede) che la persona diventa santa. Per tutti i santi valgono le parole dell’Apostolo Paolo: “Ho combattuto la buona battaglia, ho conservato la fede…”: naturalmente, la fede della Chiesa Cattolica e nessun’altra.

COSA RESTA DELL’ANTICO CARISMA FRANCESCANO NEI SUOI FIGLI RELIGIOSI. IN COSA LO HANNO TRADITO?

Non sono una francescana (semmai, sono una terziaria domenicana): pertanto non avrei diritto di rispondere a queste domande, ma siamo “ecclesiali” e, in questa “Comunione dei Santi”, abbiamo il dovere della correzione fraterna e di segnalare ciò che ci appare anomalo.

Torniamo a quello che diceva Francesco e che è stato già riportato in precedenza.

Cap II delle Fonti Francescane: Guai a quelli che non fanno penitenza.

[178/4] Tutti quelli e quelle, invece, che non vivono nella penitenza, e non ricevono il corpo e il sangue del Signore nostro Gesù Cristo, e si abbandonano ai vizi e ai peccati e camminano dietro la cattiva concupiscenza e i cattivi desideri della loro carne, e non osservano quelle cose che hanno promesso al Signore, e servono con il proprio corpo al mondo, agli istinti carnali ed alle sollecitudini del mondo e alle preoccupazioni di questa vita: costoro sono prigionieri del diavolo del quale sono figli e fanno le opere; sono ciechi, poiché non vedono la vera luce, il Signore nostro Gesù Cristo. Non hanno la sapienza spirituale, poiché non posseggono il Figlio di Dio, che è la vera sapienza del Padre; di loro è detto: ” La loro sapienza è stata ingoiata” e: ” Maledetti coloro che si allontanano dai tuoi comandamenti”. Essi vedono e riconoscono, sanno e fanno ciò che è male, e consapevolmente perdono la loro anima.

[178/5] Vedete, o ciechi, ingannati dai vostri nemici, cioè dalla carne, dal mondo e dal diavolo, che al corpo è cosa dolce fare il peccato e cosa amara sottoporsi a servire Dio, poiché tutti i vizi e i peccati escono e procedono dal cuore degli uomini, come dice il Signore nel Vangelo. E non avete niente in questo mondo e neppure nell’altro. E credete di possedere a lungo le vanità di questo secolo, ma vi ingannate, perché verrà il giorno e l’ora alla quale non pensate, non sapete e ignorate. Il corpo si ammala, la morte si avvicina e così si muore di amara morte.”

[178/7] ” Tutti coloro ai quali perverrà questa lettera, li preghiamo, nella carità che è Dio, che accolgano benignamente con divino amore queste fragranti parole del Signore nostro Gesù Cristo, che abbiamo scritto. E coloro che non sanno leggere, se le facciano leggere spesso, e le imparino a memoria, mettendole in pratica santamente sino alla fine, poiché sono spirito e vita. Coloro che non faranno questo, dovranno renderne, ragione nel giorno del giudizio, davanti al tribunale del Signore nostro Gesù Cristo.”

Io credo che queste raccomandazioni di Francesco siano state abbondantemente e “tradite” oggi dai suoi per le seguenti ragioni:

-la penitenza è stata congedata dalle prediche e dalle catechesi;

– il demonio, la sua azione, l’inferno, sono stati messi al bando;

– parlare dei vizi è diventato un tabù o, peggio, antifrancescano.

IL TRADIMENTO PIÙ GRANDE (PER TACER DEL POLLO SGOZZATO SULL’ALTARE)

Resiste il “Perdono di Assisi”, forse perché è un fatto ecclesiale e non prettamente di “proprietà” francescana: le concessioni le ha fatte il Papa. Inoltre, si può lucrare non solamente recandosi alla Porziuncola, ma in ogni Chiesa parrocchiale. Quindi, il francescanesimo non ne ha il monopolio perché il “Perdono di Assisi” è diventato una “pratica ecclesiale”.

Il tradimento più grande credo, però, sia in quel sincretismo religioso che ha fatto di Assisi la sua capitale. Mi si obbietterà: “guarda che l’ha voluto il Papa”. Certo. Il Papa ha voluto l’incontro interreligioso-ecumenico, ma in quali termini lo ha pensato il Santo Padre e in quali modi, invece, lo hanno realizzato i francescani?

Vittorio Messori riportò il triste episodio accaduto ad Assisi nel 1986: durante il Meeting interreligioso che lì si celebrava, “li boni frati” pensarono di far cosa buona e giusta di ospitare i non cattolici. Fin qui nulla di male: questa era la richiesta del Papa e l’ospitalità non si nega a nessuno. Il problema sopraggiunse, però, quando “li boni frati”, di loro iniziativa, prestarono ai non cattolici l’altare dedicato a santa Chiara, sul quale “sacerdoti” animisti non meglio identificati sgozzarono un pollo per fare il loro sacrificio propiziatorio…

C’è anche un altro episodio poco piacevole. Quello della statua di Budda, messa sull’altare davanti alla tomba di san Francesco, con tanto di ceri accesi, mentre “li boni frati” osservavano attenti la cerimonia sincretista. Dalle foto, rarissime e fatte sparire presto, si vedeva bene perfino qualche frate in ginocchio! Gli stessi che sarebbero capaci pure di prenderti a calci se ti inginocchi a ricevere l’eucarestia, e che peggio, in moltissimi casi, oggi neppure si inginocchiano quando è previsto dal canone alla consacrazie eucaristica. Solo un benedettino lì presente si ribellò a questo sacrilegio osceno, lo additarono come pazzo, “li boni frati”, e lo fecero trascinare via dai carabinieri.

E “ALLI BONI FRATI” IL PAPA TOLSE LA BANDIERA DELLA PACE… SECONDO IL MONDO (QUELLA DI LUCIFERO: CHE PREPARA LA GUERRA)

accio notare che appena eletto Papa, Benedetto XVI il primo Motu Proprio che scrive e firma (19.11.2005), con l’urgenza di essere immediatamente applicato, è proprio su Assisi, su “li boni frati” e sull’obbedienza che devono al vescovo, naturalmente dopo aver sostituito anche il vescovo….

Da quel momento ci saranno altri cambiamenti. Per esempio, la bandiera della pace: una truffa sincretista, bambinescamente adottata da “li boni frati”, portata in giro come in trionfo e usata perfino come “tovaglia per l’altare” o per accogliere i giovani nelle Messe del Pontefice. Ebbene: Benedetto XVI la farà eliminare dalle manifestazioni cattoliche ecclesiali.

Possiamo dire, senza ombra di dubbio, che il Papa è arrivato a toccare i punti nevralgici di un’esasperazione francescana spinta “ai limiti del sopportabile”, per nulla fedele allo “spirito del Fondatore”. Tuttavia, ciò che ancora il Papa non ha toccato è la modalità evangelizzatrice interna al francescanesimo modernista. Non credo che ci arriverà con ulteriori atti magisteriali: al Papa sta a cuore l’elemento ortodosso di livello ecclesiale dal quale, spera, si diparta l’autentica Riforma atta a ripulire ogni comunità, non solo Francescana, della Chiesa, dagli abusi seminati in questi ultimi 40 anni…

Come è stato ampiamente mostrato, l’identità di Francesco è stata compromessa. Ne è prova sia l’attenzione che il Papa ha dedicato al santo in diverse Catechesi, centrate proprio sul Francesco storico ed ecclesiale, e sia la visita dello stesso Benedetto XVI ha fatto ad Assisi in occasione (una coincidenza?) dell’Ottavo centenario della conversione di Francesco, nel 2007.

BENEDETTO XVI RICORDA AI FRANCESCANI DI ASSISI CHE LA DEVONO PIANTARE COL FRANCESCO “MUTILATO” ANZICHÈ “STIGMATIZZATO”

Nel Discorso tenuto al Capitolo Generale (altra coincidenza?), il Papa ha esordito con queste parole:

Con la mia odierna visita, infatti, ho voluto sottolineare il significato di questo evento, al quale occorre sempre ritornare, per comprendere Francesco e il suo messaggio. Egli stesso, quasi a sintetizzare con una sola parola la sua vicenda interiore, non trovò concetto più pregnante di quello di penitenza: “Il Signore dette a me, frate Francesco, di incominciare a fare penitenza così” (Testamento,1: FF 110). Egli dunque si percepì essenzialmente come un “penitente”, in stato, per così dire, di conversione permanente.[…] Sia dunque per ogni figlio di San Francesco saldo principio quello che il Poverello esprimeva con le semplici parole: “La Regola e vita dei frati minori è questa, cioè osservare il santo Vangelo del Signore nostro Gesù Cristo (Rb I,1: FF 75).

Al Clero di Assisi, nel suo Discorso, il Papa, con la sua ferma mitezza, ha espresso chiaramente il nucleo di un tradimento allo spirito autentico di Assisi, dicendo:

I milioni di pellegrini che passano per queste strade attirati dal carisma di Francesco, devono essere aiutati a cogliere il nucleo essenziale della vita cristiana ed a tendere alla sua “misura alta”, che è appunto la santità. Non basta che ammirino Francesco: attraverso di lui devono poter incontrare Cristo, per confessarlo e amarlo con “fede dritta, speranza certa e caritade perfetta” (Preghiera di Francesco davanti al Crocifisso, 1: FF 276). I cristiani del nostro tempo si ritrovano sempre più spesso a fronteggiare la tendenza ad accettare un Cristo diminuito, ammirato nella sua umanità straordinaria, ma respinto nel mistero profondo della sua divinità. Lo stesso Francesco subisce una sorta di mutilazione, quando lo si tira in gioco come testimone di valori pur importanti, apprezzati dall’odierna cultura, ma dimenticando che la scelta profonda, potremmo dire il cuore della sua vita, è la scelta di Cristo. Ad Assisi, c’è bisogno più che mai di una linea pastorale di alto profilo.

[…] è chiaro che la vocazione dialogica di Assisi è legata al messaggio di Francesco, e deve rimanere ben incardinata sui pilastri portanti della sua spiritualità. In Francesco tutto parte da Dio e torna a Dio. Le sue Lodi di Dio altissimo rivelano un animo costantemente rapito nel dialogo con la Trinità. Il suo rapporto con Cristo trova nell’Eucaristia il luogo più significativo. Lo stesso amore del prossimo si sviluppa a partire dall’esperienza e dall’amore di Dio.

[…] Francesco è un uomo per gli altri, perché è fino in fondo un uomo di Dio. Voler separare, nel suo messaggio, la dimensione “orizzontale” da quella “verticale” significa rendere Francesco irriconoscibile…

Non sembrano, queste, parole di circostanza o dette “per caso”: esse ci spiegano bene il nucleo del problema.

A PROPOSITO: VOGLIAMO PARLARE DEL “TAU”?! NO, NON È LA STESSA COSA DI UNA TESTA MOZZA DI CHE GUEVARA

Un’ultima riflessione mi sia concessa per il Tau, l’ormai famosa “croce” francescana, che, senza voler giudicare il cuore delle persone, è portata più per superstizione o come talismano, anziché essere usata con lo spirito sensibile di Francesco. Ma cosa significava il tau per il santo di Assisi?

Il tau è l’ultima lettera dell’alfabeto ebraico. Esso venne adoperato con valore simbolico sin dall’Antico Testamento. Se ne parla già nel libro di Ezechiele: “Il Signore disse: Passa in mezzo alla città, in mezzo a Gerusalemme e segna un Tau sulla fronte degli uomini che sospirano e piangono…” (Ez.9,4). Esso è il segno che, posto sulla fronte dei poveri di Israele, li salva dallo sterminio: san Francesco lo collega subito anche al passo dell’Apocalisse 7,2-3 dove si parla di un sigillo posto sulla fronte e lo identifica quale segno di redenzione, segno esteriore di quella novità di vita cristiana, più interiormente segnata dal Sigillo dello Spirito Santo, dato a noi in dono il giorno del Battesimo (Ef.1,13).

Esso fu adottato prestissimo dai cristiani e, per la verità, prima del Crocefisso. Tale segno si trova già nelle catacombe a Roma. I primi cristiani adottarono il Tau perché, come ultima lettera dell’alfabeto ebraico, era una profezia dell’ultimo giorno ed aveva la stessa funzione della lettera greca Omega, come appare dall’Apocalisse: “Io sono l’Alfa e l’Omega, il principio e la fine. A chi ha sete io darò gratuitamente dal fonte dell’acqua della vita… Io sono l’Alfa e l’Omega, il primo e l’ultimo, il principio e la fine” (Ap.21,6; 22,13).

San Francesco d’Assisi, per lo stesso motivo, faceva riferimento al Cristo, l’Alfa e l’Omega, il Primo e l’Ultimo, il principio e la fine, anzi il fine: per la somiglianza che il Tau ha con la croce, ebbe carissimo questo segno, tanto che esso occupò un posto rilevante nella sua vita come pure nei gesti.

Vi è da dire, però, che se il Tau era per Francesco “il segno, il simbolo” – tanto da usarlo anche come firma nelle lettere – il Crocefisso era l’oggetto della sua adorazione: davanti a Lui si inginocchiava, trascorrendo molte ore e aspettando spesso anche risposte alle sue domande. Il tau, dunque, non sostituisce il Crocefisso, come taluni erroneamente credono trasformandolo in una sorta di feticcio. Portare il Tau significa avere risposto sì alla volontà di Dio di salvarci, accettare la sua proposta di salvezza: significa, quindi, convertirci a Gesù Cristo – incarnato, morto e risorto – e non ad una sua immagine generica, privandolo, come spesso avviene, della Sua Sposa, la Chiesa…

Per concludere, come ciliegina sulla torta, non possiamo dimenticare il famoso canto attribuito a san Francesco: Signore fa’ di me uno strumento della tua pace. E’ uno di quei fiori all’occhiello, fino a qui descritti, di un Francesco “mitico” e pacifista, che nulla ha a che vedere con quello autentico.

Roberto Beretta, in un articolo intitolato Gli apocrifi del Poverello (Avvenire 9 gennaio 2002, p.23), ha scritto:

Tutti conoscono la cosiddetta “Preghiera semplice” – quella che suona: “Signore, fa’ di me uno strumento della tua pace. Dove è odio, fa’ che io porti l’amore…”- e quasi tutti ne allegano la paternità all’autore del “Cantico delle creature”. Gli storici, peraltro, e gli addetti ai lavori hanno sempre saputo invece che tale suggestiva orazione è tutt’altro che francescana: infatti ha un secolo d’anzianità al massimo e non è stata neppure composta da un frate minore; l’attribuzione al Poverello si deve al fatto accidentale che essa fu stampata una volta sul retro di un santino di Francesco d’Assisi…

Certo: la “Preghiera semplice” è un inno alla pace, all’amore, insomma alle virtù cristiane che ben corrispondono all’immagine di san Francesco divulgata popolarmente. Ma si tratta comunque di uno stereotipo: è corretto alimentarlo senza ricorrere alle fonti originali? Padre Willibrord-Christian van Dijk, un cappuccino che ha studiato la vicenda della “Preghiera semplice” per 40 anni, ha notato, per esempio, la stranezza di attribuire a un “santo che passa per essere un grande mistico cristiano un testo che non s’indirizza a Gesù Cristo e nemmeno lo nomina, né vi si trova alcuna citazione evangelica o biblica”. Osservazione pertinente, visto che tutte le preghiere autentiche di Francesco sono nient’altro che centoni di frasi desunte dalle Scritture e/o dalla liturgia…

San Francesco non è un “archetipo” astratto, bensì un personaggio storico; e come tale merita di essere trattato anche nell’esame dei suoi scritti. Con metodo rigoroso, infatti, lo studioso francese arriva a risultati pressoché definitivi sull’origine della “Preghiera semplice”: la sua più antica stampa conosciuta risale al dicembre 1912, quando l’orazione comparve sulla pia rivista parigina La Clochette (“La campanella”), bollettino mensile della Lega della Santa Messa: era anonima, ma forse attribuibile al direttore del periodico stesso, il prete poligrafo normanno Esther Auguste Bouquerel.

Di lì a poco la strofetta fu ripresa da un’altra rivista francese e quindi, nel 1916, sulla prima pagina dell’Osservatore romano, che la lanciò internazionalmente come invocazione per la pace.

L’abbinamento col saio del grande Assisate avviene dopo il 1918, quando il cappuccino padre Etienne Benoit stampa il testo dell’orazione sul retro di un’immaginetta destinata al suo terz’ordine e recante in facciata la figura del Fondatore: “Questa preghiera riassume meravigliosamente la fisionomia esterna del vero figlio di san Francesco”, scrive il religioso. E’ un santino, dunque, l’origine della falsa attribuzione francescana, che però diventa esplicita per la prima volta nel 1927 in una pubblicazione protestante: i cattolici infatti rifiuteranno tale abusiva paternità almeno fino agli anni Cinquanta…”

Chiudiamo così, con un falso, uno dei tanti, questa ricapitolazione del Francesco autentico.


Quest’articolo è stato già pubblicato nel 2011.


ECCO UN EXTRA

Lettera ai reggitori dei popoli di San Francesco d’Assisi

Fuori dagli ambienti francescani in pochi conoscono la lettera di San Francesco ai reggitori dei popoli, il cui approccio etico-politico e socio-economico francescano appare ancor oggi attuale. Ecco il testo:

“A tutti i potestà e consoli, magistrati e reggitori ovunque, e a tutti coloro a cui giungerà questa lettera, frate Francesco, vostro servo nel Signore Dio, piccolo e disprezzato, augura salute e pace.

Ricordate e pensate che il giorno della morte si avvicina. Vi supplico allora, con rispetto per quanto posso, di non dimenticare il Signore, presi come siete dalle cure e dalle preoccupazioni del mondo.

Obbedite ai suoi comandamenti, poiché tutti quelli che dimenticano il Signore e si allontanano dalle sue leggi sono maledetti e saranno dimenticati da Lui.

E quando verrà il giorno della morte, tutte quelle cose che credevano di avere saranno loro tolte. E quanto più saranno sapienti e potenti in questo mondo, tanto più dovranno patire le pene dell’inferno.

Perciò vi consiglio, signori miei, di mettere da parte ogni cura e preoccupazione e di ricevere devotamente la comunione del santissimo corpo e sangue del Signore nostro Gesù Cristo in sua santa memoria.

E dovete dare al Signore tanto onore fra il popolo a voi affidato, che ogni sera un banditore proclami o altro segno annunci che siano rese lodi e grazie all’Onnipotente Signore Iddio da tutto il popolo. E se non farete questo, sappiate che voi dovete rendere ragione al Signore Dio vostro Gesù Cristo nel giorno del giudizio. Coloro che porteranno con sé questa lettera e la osserveranno, sappiano che sono benedetti dal Signore.

Il Signore vi benedica e vi custodisca. Mostri a voi il suo Volto e abbia misericordia di voi. Volga a voi il Suo sguardo e vi dia pace. Il Signore vi benedica” (Fonti Francescane nn. 210-213).

Il messaggio incomincia con una raccomandazione che San Francesco rivolge “ai reggitori dei popoli”, in cui li invita a riconciliarsi con la morte. Francesco rimarca il fatto che la consapevolezza di non essere eterni aiuta a cambiare il cuore, ad essere persone umane, avvia il percorso di accettazione dei nostri limiti e di quelli altrui. Ricordarsi che la vita è breve aiuta a capire ciò per cui vale la pena di essere vissuto, amato, goduto e cosa invece è superfluo, vanità o inutile. Ricordarsi della morte ci aiuta a riportare il tutto nel giusto equilibrio, così il potere separato dalla riflessione sul grande invalicabile limite di “sorella morte” diventa illusione, delirio e negazione della realtà. È il sedativo contro la paura della solitudine, del limite, della vulnerabilità e dell’impotenza. Il potere infatti è forte e fragile, può essere usato per la felicità e l’infelicità, può costruire, distruggere e autodistruggere.

San Francesco invita a ricordare che al di sopra di tutto vi è Dio e che i reggitori dei popoli sono dei suoi semplici rappresentanti, chiamati a realizzare il bene comune. L’esperienza insegna che quando i reggitori dei popoli nel governare si sono dimenticati di Dio e dei suoi comandamenti, hanno visto precipitare nell’abisso i popoli affidati alle loro cure. Per questo esorta i governanti a promuovere nel popolo la cura di amare il Creatore, perché ciò significa promuovere anche l’osservanza del diritto dei governanti al rispetto, alla stima e all’amore, a suscitare la pace, la giustizia, la fratellanza e l’amore. È in Dio che gli uomini si sentono fratelli, quando non credono più in Dio diventano belve feroci. San Francesco con la sua lettera ci riporta alla realtà, ora il potere non è una divinità a cui vale la pena sacrificare le nostre vite, ci ricorda che questo va restituito. È un prestito che non è nella nostra disponibilità, ci viene affidato da Dio per piantare semi di futuro e di speranza e qualora l’uomo lo utilizzerebbe contro gli altri, è la vita che ci presenterà poi il conto.

fr. Felice Autieri ofm


San Francesco d’Assisi e il Sultano nel 1219: ecumenismo o professione di fede?

di Alberto Spataro
da La Tradizione Cattolica, n° 111 (2019 n° 3)

In una lettera del 7 gennaio 2019 indirizzata ai confratelli dell’Ordine dei frati minori, ai fratelli e alle sorelle della “Famiglia francescana”, nonché a tutti i «fratelli e sorelle Musulmani», padre Michael A. Perry, ministro generale minorita, ricorda l’ottocentesimo anniversario dell’incontro tra san Francesco d’Assisi (1182-1226) e il sultano d’Egitto al-Malik al-Kāmil (1177-1238), avvenuto a Damietta nell’anno del Signore 1219, nel contesto della quinta crociata [1].
Nello scritto non si perde occasione di condannare, fin da subito, «i cristiani latini che attraverso anni di predicazione e di retorica sulla guerra santa erano stati indotti a disprezzare i Musulmani». Da costoro si sarebbe distinto san Francesco, il quale avrebbe dialogato proficuamente con il sultano, per poi tornare in Europa e riflettere più a fondo sul compito assegnatogli da Dio e dalla Provvidenza di mandare i suoi frati tra i Musulmani e, citando la regula non bullata del 1221 «fare e dire quelle cose che piacciono al Signore» [2].

Che cosa l’attuale ministro generale dei frati Minori intenda è ampiamente spiegato nel resto della lettera, dove si susseguono i classici topoi neomodernistici: dialogo interreligioso, collaborazione con i membri di altre religioni in vista di un futuro di pace e di giustizia sociale, il tutto corredato da riferimenti ai testi del Vaticano II, in particolare la dichiarazione Nostra aetate. A ciò si aggiunge l’immancabile menzione dell’incontro di Assisi nel 1986 da Woytila e poi replicato da Ratzinger vent’anni dopo. Inoltre, continua la lettera, la vicenda di san Francesco e il sultano al Kamil sarebbe quasi una prefigurazione dell’incontro avvenuto a febbraio di quest’anno ad Abu Dhabi e al documento stilato da Bergoglio e dal grande imam Al-Azhar Ahmad Al-Tayyeb [3]. Sempre secondo M.A. Perry, «molte voci in qualche modo tristemente insistono sul fatto che il dialogo tra Cristiani e Musulmani sia impossibile. Molti contemporanei di san Francesco e del Sultano concordavano nel ritenere il conflitto e lo scontro l’unica risposta alla sfida tra loro». Insomma, oggi come allora, la divisione non è tanto tra Cattolici, Musulmani, Giudei etc…, quanto piuttosto tra chi vuole la pace e la giustizia sociale e chi invece no.

L’anniversario dell’incontro tra san Francesco e il Sultano è quindi l’occasione per celebrare la prima categoria di persone e demonizzare la seconda, all’interno della quale – si legge tra le righe –, non vi erano tanto i Musulmani o il Sultano (i quali odiavano i Cristiani solamente perché vittime degli attacchi crociati), ma piuttosto le gerarchie ecclesiastiche, diametralmente opposte allo spirito pacifista francescano.
Del resto, la contrapposizione tra il Poverello di Assisi e la Chiesa romana è un tema classico della narrativa neo-modernista e ha le sue radici più profonde nell’opera dello storico, nonché pastore calvinista, Paul Sabatier (1858-1928), che nel 1893 pubblicò una biografia di san Francesco.
Il dotto francese applicò alla vicenda del Poverello il medesimo metodo storicocritico, che, negando a priori l’influsso soprannaturale nella storia, era stato precedentemente applicato allo studio delle Sacre Scritture sia dai protestanti sia dai modernisti, per essere infine condannato solennemente da san Pio X nell’enciclica Pascendi dominici gregis [4].
Il lavoro del Sabatier, poi continuato dai modernisti nostrani quali Ernesto Buonaiuti e Giovanni Miccoli, si basava fondamentalmente sull’utilizzo delle biografie francescane precedenti alla Legenda maior di san Bonaventura (1221-1274), diventata a partire dal capitolo generale dell’Ordine celebrato nel 1266 l’agiografia ufficiale dell’Assisiate. Il quadro effettivamente più sfaccettato che emerge dall’analisi di tali biografie divenne il pretesto per piegare le vicende storiche relative al Santo d’Assisi a ogni prurito ideologico sia ecclesiale sia politico. Naturalmente da parte dell’Ordine francescano (prima della crisi nella Chiesa) non vi fu alcun timore nel nascondere le fonti relative alla loro storia, come testimonia la monumentale impresa editoriale condotta dai frati di Quaracchi con l’imprimatur della Sede apostolica [5]. Del resto, come sta avvenendo anche per lo studio della Bibbia, la scoperta di nuove fonti e di nuovi metodi, se unite a buon senso e onestà e senza riduzioni positivistiche, anziché contraddire i dati forniti dalla Tradizione, al contrario li precisano e li confermano, dimostrando quanto siano veritiere le parole che Leone XIII pronunciò in occasione dell’apertura agli studiosi di buona volontà dell’Archivio Segreto Vaticano il 18 agosto 1883: «I non travisati ricordi dei fatti, se analizzati con animo tranquillo e senza opinioni pregiudiziali, di per se stessi difendono, spontaneamente e magnificamente, la Chiesa ed il Pontificato» [6].
E dunque, volendo considerare da un punto di vista storico quanto avvenne in Egitto ottocento anni fa, occorre, prima di tutto, accostare con oggettività le fonti storiche che tramandano quei fatti.
Si prenda per cominciare la Legenda maior composta da san Bonaventura e divenuta l’agiografia ufficiale di san Francesco dalla metà del XIII secolo.
Il capitolo IX, intitolato significativamente De fervore caritatis et desiderio martyrii, si apre con una sublime descrizione dello spirito di carità che infiammava l’Assisiate “quasi come un carbone acceso” e che lo portava a digiunare devotamente dalla festa dei santi apostoli Pietro e Paolo fino all’Assunta in onore di Maria santissima e, poi, per altri quaranta giorni in onore dei santi angeli, in particolare di san Michele, a motivo del suo compito di presentare le anime a Dio, a testimonianza dello zelo del Santo di Assisi per la salvezza di tutte le anime, come afferma esplicitamente la Legenda maior [7].

Il testo prosegue, raccontando come nel 1212 mosso dal il desiderio di “emulare con il fuoco della carità il glorioso trionfo dei santi martiri” san Francesco tentò per ben due volte di imbarcarsi rispettivamente verso la Siria e il Marocco, molto probabilmente anche grazie all’entusiasmo suscitato dalla vittoria delle forze ispanico-cattoliche sui Mori durante la battaglia di Las Navas de Tolosa il 16 luglio di quell’anno. Tuttavia la Provvidenza aveva piani diversi, giacché ambedue due i tentativi non riuscirono.
Finalmente, sette anni dopo, il capitolo minoritico, avviando una vasta campagna di predicazione con il sostegno del pontefice Onorio III (papa dal 1216 al 1227) e del cardinale d’Ostia Ugo (futuro papa Gregorio IX dal 1227 al 1241), san Francesco si recò con Illuminato dell’Arce a Damietta, dove erano accampati i guerrieri crociati.

Durante una tregua, racconta san Bonaventura, i due frati partirono “come agnelli in mezzo ai lupi” verso il campo nemico, dove successivamente furono fatti prigionieri dalle sentinelle saracene, che non si fecero problemi a malmenare i due religiosi. Tuttavia, anziché essere uccisi, come sovente capitava ai prigionieri cristiani, furono portati al cospetto del sultano Al-Kamil. Pur rimanendo ignote le parole esatte che si scambiarono san Francesco e il principe egiziano, è possibile affermare con certezza che l’Assisiate non solo proclamò pubblicamente la fede cattolica, in particolare, secondo san Bonaventura: “il Dio uno e trino e il Salvatore di tutti, Gesù Cristo”, ma cercò anche di convincere il Sultano a convertirsi e a lasciar convertire il suo popolo, di qui la sfida lanciata dal Poverello di entrare nel fuoco acceso con dei “sacerdoti” maomettani per dimostrare su chi sarebbe sceso il favore di Dio [8]. Ma Al Kamil rifiutò, anche in considerazione del fatto che uno dei suoi “sacerdoti” più famosi e anziani fuggì non appena aveva udito le parole relative alla sfida.

Allora san Francesco rilanciò, offrendo di sottoporsi da solo alla prova e, qualora fosse rimasto illeso, il Sultano avrebbe dovuto riconoscere la fede cattolica, ma questi, temendo una rivolta popolare, si rifiutò. Il principe d’Egitto, infine, volle fare dei doni a san Francesco, tuttavia questi li rifiutò sia per amor di povertà sia, come afferma san Bonaventura “perché non vedeva nell’animo del sultano la radice della vera pietà” [9].
Se la Legenda maior costituisce tra le fonti a nostra disposizione la narrazione più completa e teologicamente più profonda, la cosiddetta Vita prima di Tommaso da Celano, commissionata da papa Gregorio IX nel contesto della canonizzazione di san Francesco avvenuta nel 1228, offre al capitolo 20 una descrizione dell’avvenuto più succinta ma assolutamente in armonia con il testo bonaventuriano [10]. Sempre il Celanese nella Vita secunda, composta tra il 1246 e il 1247 commissionata dall’Ordine francescano, si concentra invece su un altro episodio legato alla missione di san Francesco a Damietta, ovvero al tentativo di scongiurare la battaglia che sarebbe avvenuta il 29 agosto 1219 con un immane sfacelo delle armate cristiane [11]. Lo sforzo inutile dell’Assisiate è stato da diversi storici interpretato come una sostanziale opposizione al progetto crociato, tuttavia la questione è ben più complessa e le altre fonti che ne parlano dipingono uno scenario che, sebbene più articolato delle fonti agiografiche, non permette in alcun modo di individuare un contrasto tra l’azione di san Francesco e quella dei crucesignati [12].
Prendiamo, quindi, una fonte diversa di quelle considerate finora: non un’agiografia destinata allo studio e alla meditazione dei frati, ma una cronaca in antico francese proveniente dal mondo aristocratico crociato di provenienza franca: la Chronique d’Ernoul et de Bernard le Trésorier. Se si legge il testo, il cuoi originale è andato perduto e del quale se ne possiede una versione successiva riassunta, san Francesco e il suo compagno Illuminato, chiamati semplicemente “du clers” (due chierici), sembrano avere alcune frizioni con Pelagio (ca. 1165-1230), il cardinale vescovo di Albano, che conduceva le azioni militari in veste di legato papale. L’alto prelato, dopo aver cercato di dissuaderli dal recarsi oltre le linee nemiche per incontrare il Sultano, non potendo convincerli, si dissociò dall’iniziativa di san Francesco e del suo compagno, considerandola come imprudente e azzardata [13]. Prima di qualunque altra considerazione è opportuno ricordare che questa cronaca, peraltro come visto riassunta e rielaborata in seguito agli avvenimenti, è nel suo insieme venata di una forte polemica nei confronti del cardinale legato, il quale rischiando il tutto per tutto con lo scontro militare diretto sarebbe stato colpevole della sconfitta subita nell’agosto di quell’anno e la conseguente perdita di terre da parte dell’aristocrazia franca, da cui l’acceso risentimento nella cronaca.

Quello che emerge da questi due passi tratti rispettivamente dalla Vita secunda e dalla Chronique d’Ernoul, pur aggiungendo particolari espunti dalla Legenda maior di san Bonaventura, non contraddicono in alcun modo né la lettera né tantomeno il senso profondo che emerge da quest’ultima. Nel testo di Tommaso da Celano il dispiacere di san Francesco è motivato specificamente e limitatamente dalla sconfitta dell’esercito crociato; il Santo aveva poi tentato di fermarne la partenza – si badi bene – solo perché il Signore gli rivelò personalmente che l’armata cristiana sarebbe stata pesantemente debellata. Il testo della Chronique, invece, pur ammettendo – al netto della polemica contro Pelagio d’Albano – che riporti veridicamente i fatti, ritrae una scena che non deve essere sopravvalutata e caricata di significati ulteriori: semplicemente il cardinale non approvava l’iniziativa dei due frati perché preoccupato della loro incolumità (apprensione giustificata peraltro dal fatto che i due furono effettivamente percossi e torturati dalle sentinelle del Sultano). A ciò va aggiunto che san Francesco aveva già ricevuto l’autorizzazione a predicare nel 1209 nel contesto dell’approvazione orale della regola da parte di Innocenzo III (1198-1216), pertanto non si può in alcun modo considerare il gesto dell’Assisiate come una disobbedienza nei confronti dell’autorità ecclesiastica.
Piuttosto, secondo lo spirito di totale obbedienza alla Sede apostolica espresso sin dal primo incontro con il vicario di Cristo testé menzionato, va sottolineata la sua costante volontà a consultarsi con i rappresentanti della gerarchia ecclesiastica anche quando, come in questo caso, non ve n’era bisogno, giacché canonicamente avrebbe potuto procedere senza il permesso del legato.
Un ultimo appunto va fatto alle indicazioni relative alle missioni francescani nei primi testi normativi dell’ordine, rispettivamente la regola non bullata del 1221 e quella bullata di due anni dopo.

Nella prima, una sorta di testo provvisorio, si prescrive di predicare con prudenza «senza liti o dispute» la vera fede per la conversione degli infedeli, insegnando «ciò che piace al Signore», secondo quanto affermato da Gesù Cristo nel Vangelo (Mt 10, 13-42): “Chi mi riconoscerà davanti agli uomini, io lo riconoscerò davanti al Padre mio che è nei cieli […] Chiunque si vergognerà di me e delle mie parole, il Figlio dell’uomo si vergognerà di lui, quando tornerà nella gloria sua e del Padre e degli angeli” [14]. La cautela espressa nel dettato della Regula era probabilmente motivata non solo dall’inasprirsi dell’odio islamico contro i Cristiani a seguito della sconfitta crociata del 1219, ma anche e soprattutto,
dal sanguinoso martirio dei frati francescano inviati in Marocco avvenuto l’anno successivo. La regola definitiva e bullata nel 1223 si limita invece a ricordare, viste le difficoltà delle missioni in partibus infidelium, di scegliere solo frati ritenuti idonei [15].
Ricapitolando le informazioni desunte dalle fonti prese in esame emerge che il contesto dell’incontro tra san Francesco e il Sultano non è certo quello di un anacronistico dialogo ecumenico. L’obiettivo di san Francesco è quello di professare pubblicamente e fino al martirio la fede cattolica e l’incontro con il Sultano non è assolutamente una discussione “alla pari”, tanto più se è vero che questi aveva un iniziale desiderio di convertirsi. Ancor di meno è ipotizzabile uno spirito di contestazione da parte del Poverello di Assisi nei confronti del movimento crociato, del quale anzi ne condivide lo spirito e, più di ogni altro, l’obbedienza al Papato romano, che dell’impresa d’Oltremare era il regista. Sopravalutare e decontestualizzare alcune accidentali frizioni con l’immediata strategia militare e diplomatica è un’operazione disonesta dal punto di vista storico e caratteristica di chi vuole capziosamente riempire i silenzi lasciati dalle fonti con le sue idee.
Piuttosto è necessario per una più veritiera comprensione considerare l’iniziativa di san Francesco motivata da quello che dicono sia le fonti agiografiche sia normative: la professione e la pubblica testimonianza della fede. Tale finalità non era in alcun modo opposta al movimento crociato; quest’ultimo, anzi, almeno nelle sue motivazioni più profonde, era volto a corroborarne l’efficacia.
Un utile testo per comprendere il senso profondo della santità dell’Assisiate è la bolla di canonizzazione promulgata da Gregorio IX il 19 luglio 1228 a Perugia, tre giorni dopo la solenne cerimonia che conferì gli onori degli altari a san Francesco. In questo diploma papale, redatto in uno stile aulico e fortemente simbolico secondo l’uso della cancelleria papale duecentesca, si presenta l’Assisiate come l’inviato nella vigna del Signore assieme agli operai dell’undecima ora per sradicare le spine e le erbacce con il sarchio e con il vomere. Il riferimento a tale arnese è esplicitamente riferito all’arma con la quale, come narra l’Antico testamento (Giudici 3, 31), Sagmar abbatté seicento Filistei, persecutori dell’antico Israele, a sua volta figura della Chiesa romana [16].
Più avanti il testo paragona san Francesco a Sansone: come questi con una mandibola d’asino annientò mille Filistei (Giudici 15, 9-20), così il Poverello con la forza di una predicazione semplice, «non adorna dei colori della sapienza umana, della potente forza di Dio […] ridusse nella servitù dello spirito coloro che prima servivano alle immondezze della carne» [17].
Un’altra interessante testimonianza è un inno composto probabilmente da Gregorio IX stesso per l’officio liturgico francescano.

San Francesco è qui dipinto niente meno che come un eccezionale inviato di Cristo pronto a brandire il vessillo glorioso della Croce al fine sgominare il dragone infernale, la cui ultima delle sette teste si leva contro il Cielo e tenta di portare alla dannazione quante più anime possibili [18].
In ultima analisi si constata come il san Francesco della Chiesa cattolica, il quale attraverso le armi spirituali della povertà e della penitenza combatte senza tregua Satana e i suoi seguaci bramando il martirio per difesa della fede, sia ben altra cosa rispetto al precursore dell’ecumenismo che i modernisti tentano di proporre e che, dovendo aggirare la verità storica, forzano le fonti e piegano la storia a proprio uso per trovare dei fondamenti.
Del resto, manomettere il passato per giustificare lo status quo presente è peculiarità di tutti i regimi ideologici gemmati dalla modernità, i quali, a loro volta, non sono che parenti stretti dell’eresia modernista.


[1] M.A. Perry OFM, Queste e altre cose, che piaceranno al Signore (Rnb 16,8). Lettera del Ministro generale dell’Ordine dei Frati Minori per l’800° Anniversario dell’Incontro tra san Francesco e il Sultano al-Malik al-Kamil, scaricabile dal sito ofm.org.
[2] K. Esser OFM, Die Opuscula des hl. Franziskus von Assisi. Neue textkritische Edition, Grottaferrata 1976, p. 390.
[3] Si veda a riguardo l’approfondita analisi di don Mauro Tranquillo FSSPX, Papa Francesco e l’islam: dal Concilio alla religione mondiale
[4] P. Sabatier, Vie de saint François d’Assise, Parigi 1893.
[5] Analecta Franciscana sive Chronica aliaque varia documenta ad historiam fratrum minorum spectantia edita a patribus Collegii S. Bonaventurae adiuvantibus aliis eruditis viris, 10 volumi, Quaracchi-Firenze, 1895-1941 (d’ora in poi AF).
[6] Leone XIII, Saepenumero considerantes, https://w2.vatican.va/content/leo-xiii/it/letters/documents/hf_l-xiii_let_18830818_saepenumero-considerantes.html; per degli esempi di scoperte archeologiche che confermano il racconto biblico si veda la rassegna pubblicata sul sito https://fsspx.news/fr/de-recentes-decouvertes-viennent-a-nouveau-confirmer-la-veracite-de-la-bible-50052.
7 «Totus namque quasi quidem carbo ignitus divini amoris flamma videbatur absorptus […] Matrem Domini Iesu indicibili complectebatur amore, eo quod Dominum maiestatis fratrem nobis effecerit, et per eam simus misericordiam consecuti. In ipsa post Christum preacipue fidens, eam sui ac suorum advocatum constituit et ad honorem ipsius a festo Apostolorum Petri et Pauli usque ad festum Assumptionis devotissime ieiunabat. Angelicis spritibus ardentibus igne mirifico ad exercendum in Deum et electorum animas inflammandas inseparabilis erat amoris vinculo copulatus et ob devotionem ipsorum ab Assumptione Virginis gloriosae quadraginta diebus ieiunans orationi iugiter insistebat. Beato autem Michaeli archangelo, eo quod animarum repraesentadarum haberet officium, speciali erat amore devotior propter fervidum quem habebat zelum ad salutem omnium salvandorum» (AF, vol. X, pp. 597-598).
[8] Tanta vero mentis constantia, tanta virtute animi tantoque fervore spiritus praedicto Soldano praedicavit Deum trinum et unum et Salvatorem omnium Iesum Christum, ut evangelicum illud in ipso claresceret veraciter esse completum: Ego dabo vobis os et sapientiam, cui non potuerunt resistere et contradicere omnes adversarii vestri (Lc 21, 15)» (Ibi, pp. 600-601).
[9] «Ipse vero, quia pondus fugiebat pecuniae et in animo Soldani verae pietatis non videbat radicem, nullatenus acquievit» (Ibi, p. 601). Un indizio circa il desiderio, più o meno sincero, di convertirsi da parte del sultano proviene dalla lettera del maestro di teologia e vescovo di San Giovanni d’Acri Giacomo da Vitry, il quale, da testimone oculare degli eventi in questione, riporta che il Sultano avrebbe chiesto a san Francesco di intercedere presso Dio affinché potesse aderire alla vera Fede: «Soldanus autem, rex Egypti, ab eo secreto petiit ut pro se domino supplicaret quatinus religionis, que magis Deo placeret, divinitus inspiratus adhereret» (Lettres de Jacques de Vitry. Edition critique, ed. R.B.C. Huygens, Leiden 1960, lettera VI p. 133). Se le cose stessero così, ne uscirebbe ulteriormente rinforzato il fatto che l’incontro non fu affatto, per così dire, su un piano di parità tra le due fedi, ma che fosse piuttosto teso a proclamare la vera fede a un personaggio che mostrava un certo interesse verso essa, ma che poi per amor di pace (e di politica) tornò sui suoi passi.
[10] AF, vol. X, pp. 43-44.
[11] «Cum igitur ad diem belli nostri pararentur in pugnam, audito hoc, sanctus vehementer indoluit. Dixitque socio suo: “Si tali die congressus fiat, ostendit mihi Dominus, non in prosperum cedere Christianis”» (AF, vol. X, p. 149).
[12] Cosa che invece sostengono C. Frugoni, Francesco e le terre dei non cristiani, Milano, 2012, pp. 9-10 e P. Annala, Frate Francesco e la quinta crociata, «Frate Francesco», 69 (2003), pp. 413, dove si afferma, secondo quanto riportato nell’Historia Occidentalis del già menzionato Giacomo da Vitry (J.F. Hinnebusch OP, The Historia Occidentalis of Jacques de Vitry. A critical edition, Fribourg 1972, p. 162), che l’Assisate presentandosi come christianus e non come crucesignatus avrebbe voluto smarcarsi dalla Crociata. Tale ricostruzione appare chiaramente forzata e lontana pure dal punto di vista dell’autore di tale testo, giacché poi non esita a indicare il sultano come bestia crudelis. Per inciso, si noti che a differenza di quanto si evince dalla lettera menzionata alla nota 8, scritta a ridosso degli eventi, il giudizio sul Sultano è qui molto più negativo verosimilmente in considerazione del fatto che egli non solo non si convertì ma inflisse una sonora sconfitta ai crociati.
[13] «Or vous dirai de .ii. clers qui estoient en l’ost à Damiete. Il vinrent au cardenal, si disent qu’il voloient aler al soudan preçier, et qu’il n’i voloient mie aler sans son congié. Et li cardenals lor dist que par son congié ne par son commandement n’iroient pas, car il ne lor voloit mie donne congiet à essient d’aler en te liu où il fuissent ocis; car il savoit bien s’il i aloient, il n’en revenroient ja […]» (Chronique d’Ernoul et de Bernard le Trésorier, ed. M.L. de Mas Latrie, Paris 1871, p. 432).
[14] «Dicit Dominus: “Ecce ego mitto vos sicut oves in medio luporum. Estote ergo prudentes sicut serpentes et simplices sicut columbae (Mt 10, 16)”. Unde quicumque frater voluerit ire inter saracenos et alios infideles, vadat de licentia sui ministri et servi. […] Fratres vero, qui vadunt, duobus modis inter eos possunt spiritualiter conversari. Unus modus est, quod non faciant lites neque contentiones, sed sint subditi omni humanae creaturae propter Deum (1 Petr 2, 13) et confiteantur se esse christianos. Alius modus est, quod, cum viderint placere Domino, annuntient verbum Dei, ut credant Deum omnipotentem, Patrem et Filium et Spiritum Sanctum, creatorem omnium, redemptorem et salvatorem Filium et ut baptizentur et efficiantur christiani, qua quis renatus non fuerit ex aqua et Spiritu Sancto, non potest intrare in regnum Dei (Io 3, 5)» (Esser, Die Opuscula, p. 390).
[15] «Quicumque fratrum divina inspiratione voluerint ire inter saracenos et alios infideles petant inde licentiam a suis ministris provincialibus. Ministri vero nullis eundi licentiam tribuant, nisi eis quos viderint esse idoneos ad mittendum» (Ibi, p. 371).
[16] «Mira cira nos divinae pietatis dignatio et inestimabilis dilectio charitatis, qua filium pro servo tradidit redimendo! Dona suae miserationis non deserens et vineam dextera eius plantatam continua protectione conservans, in illam, qui salubriter ipsam excolant, evellentes sarculo ac vomere, quo Samgar sexcentos Philistheos percussit, spinas et tribulos ex eadem, operarios etiam in undecima hora transmitti, ut superfluitate palmitum resecata et vitulaminibus spuriis radices altas non dantibus, nec non sentibus extirpatis, fructum suavem afferat et iucundum» (Bullarium Franciscanum Romanorum pontificum constitutiones, epistolas, ac diplomata continens, volume I, Roma 1759, p. 42)
[17 «Qui, audita interius voce invitantis amici, impiger surgens mundi vincula blandientis quasi alter Sampson gratia divina praeventus dirupit et, Spiritu fervoris concepto, asinique arrepta mandibula, praedicatione siquidem simplici, nullis verborum persuasibilium humanae sapientiae coloribus adornata, sed tamen Dei virtute potenti, qui infirma Mundi eligit ut fortia quaecumque confundat, non tantum mille, sed multa Philistinorum eo, qui tangit montes et fumigant, favente prostravit et in Spiritus servitutem redegit carnis illecebris antea servientes» (Ibi, pp. 42-43).
[18] «1a. Caput draconis ultimum / Ultorem ferens gladium / Adversus Dei populum / Excitat bellum septimum 1b. Contra coelum erigitur / Et attrahere nititur / Maximam partem siderum / Ad damnatorum numerum 2a. Verus de Christi latere / Novus legatus mittitur / In cujus sacro corpore / Vexillum crucis cernitur 2b. Fide protectus clipeo / Spe galeatus, utitur / Mucrone verbi, baltheo / Vir castitatis cingitur 3a. Franciscus
princeps inclitus / Signum regale bajulat / Et celebrat concilia / Per cuncta mundi climata / Contra draconis schismata 3b Acies ternas ordinat
/ Expeditorum militum / Ad fugandum exercitum / Et tres catervas daemonum / Quas draco semper roborat 4a Jussus a rege properat / Ad sempiterna gaudia / Ut militum stipendia / Sanctus Franciscus exigat 4b Fac nos, pater piisime, Patris haeredes gratiae, Ut possint patri filii / Consortes esse gloriae» (Analecta Hymnica Medii Aevi, ed. G.M. Dreves SJ, vol. IX, Leipzig 1890, pp. 161-162)


Un attualissimo insegnamento di Pio XI contro la falsificazione di San Francesco

Nella festa di tutti i Santi dei Tre Ordini di San Francesco ed anniversario della definitiva approvazione da parte di Papa Onorio III della Regola dell’Ordine dei Frati Minori (29 novembre 1223), offriamo ai Lettori uno stralcio della Enciclica Rite Expiatis che Pio XI, terziario francescano, pubblicò il il 30 aprile 1926 nel VII centenario del beato transito del Serafico Patriarca. Il testo, se messo a confronto con una qualsiasi pubblicazione moderna e modernista su San Francesco, evidenzia la totale non cattolicità (oltre che mendacità) di coloro che nell’attuale contesto ecclesiale propagandano un Francesco panteista, ecologista, ecumenista e dialoganteun Francesco che vada bene anche a tutti; un Francesco falso, che non è mai esistito se non nella mente di coloro che invece di condurre il mondo a Cristo, col mondo trescano tradendo Cristo.

  • “Oh, quando male fanno e quanto vanno lungi dalla cognizione dell’Assisiate coloro che, per servire alle loro fantasie ed errori, s’immaginano, (cosa incredibile!) un Francesco intollerante della disciplina della Chiesa, noncurante degli stessi dogmi della Fede, precursore anzi e banditore di quella molteplice e falsa libertà, che si cominciò ad esaltare sul principio dell’età moderna, e tanto disturbo recò alla Chiesa ed alla società civile”.

Giovane d’indole esuberante e fervida, amante del lusso nel vestire, usava invitare a splendidi banchetti gli amici che si era scelto tra i giovani eleganti ed allegri e girava per le strade lietamente cantando, pur allora però facendosi notare per integrità di costumi, castigatezza nel conversare e disprezzo delle ricchezze. Dopo la prigionia di Perugia e le noie di una malattia, sentendosi non senza meraviglia intimamente trasformato, tuttavia, come se volesse sfuggire dalle mani di Dio, andò nella Puglia per compiervi imprese di valore. Ma durante il cammino, da un chiaro comando divino si sentì ordinare di ritornarsene ad Assisi per apprendere che cosa dovesse poi fare. Indi, dopo molti ondeggiamenti di dubbio, per divina ispirazione e per aver inteso alla messa solenne quel passo evangelico che riguarda la missione e il genere di vita apostolico, comprese di dover vivere e servire a Cristo «secondo la forma del Santo Vangelo». Fin d’allora pertanto cominciò a congiungersi strettamente a Cristo e a renderglisi simile in tutto; e «tutto il suo impegno, sia pubblico sia privato, si rivolse alla croce del Signore; e fin dai primi tempi in cui cominciò a militare per Cristo, rifulsero intorno a lui i diversi misteri della croce» [Th. a Cel., Tract. de mirac., n. 2]. E veramente egli fu buon soldato e cavaliere di Cristo per nobiltà e generosità di cuore; tanto che per non discordare in nulla, né egli né i suoi discepoli, dal suo Signore, oltre che ricorrere come ad oracolo al libro dei Vangeli quando doveva prendere una deliberazione, diligentemente conformò la legislazione degli Ordini da lui fondati con lo stesso Vangelo e la vita religiosa dei suoi con la vita apostolica. Perciò in fronte alla Regola giustamente scrisse: «Questa è la vita e la regola dei frati Minori, di osservare cioè il santo Vangelo di nostro Signor Gesù Cristo» [Reg. Fr. Minorum., initio]. Ma per stringere più dappresso l’argomento, vediamo con quale preclaro esercizio di virtù perfette si apparecchiasse Francesco a servire ai consigli della misericordia divina e a rendersi strumento idoneo della riforma della società.
Anzitutto, se non è difficile immaginare con la mente, crediamo impresa assai ardua descrivere a parole di quale amore avvampasse per la povertà evangelica. Nessuno ignora com’egli fosse per indole portato a soccorrere i poveri, e come, al dire di San Bonaventura, fosse pieno di tanta benignità, che « non sordo uditore del Vangelo » aveva stabilito di non mai negare soccorso ai poveri, massime se questi nel chiedere «allegassero l’amor di Dio» [Leg. mai., c.1, n. 1]; ma la grazia spinse al culmine della perfezione la natura. Pertanto, avendo una volta respinto un povero, subito pentitosene, per intimo impulso divino si diede tosto a ricercarlo e ad alleviarne la miseria con ogni bontà ed abbondanza; un’altra volta, andandosene con una comitiva di giovani dopo un allegro convito cantando per la città, all’improvviso si fermò come attratto fuori di sé da una soavissima dolcezza spirituale, e tornato in se stesso ai compagni che l’interrogavano se allora avesse pensato a prender moglie, subito rispose con calore che avevano indovinato, perché egli veramente si proponeva di condurre una sposa, di cui non si troverebbe altra o più nobile o più ricca o più bella; intendendo con tali parole o la povertà o una religione che poggiasse specialmente sulla professione della povertà. Egli infatti da Cristo Signore, che si fece povero per noi, pur essendo ricco, affinché noi divenissimo ricchi della sua povertà [II Cor., VIII, 9], apprese quella divina sapienza, che non potrà mai essere cancellata dai sofismi della sapienza umana, e che sola può santamente rinnovare e restaurare tutto. Certo Gesù aveva detto: «Beati i poveri in spirito» [Matth. V, 3]. «Se vuoi essere perfetto, va, vendi quanto hai e donalo ai poveri, e avrai un tesoro nel cielo; poi vieni e seguimi» [Matth. XIX, 21].

Siffatta povertà che consiste nella rinuncia volontaria di ogni cosa, fatta per amore e per ispirazione divina e che è del tutto contraria alla povertà forzata, arcigna e affettata di alcuni filosofi antichi, fu da Francesco abbracciata con tanto affetto, che la chiamava con riverente amore signora, madre e sposa. In proposito scrive San Bonaventura: «Nessuno fu mai così avido dell’oro com’egli della povertà, né più geloso nella custodia di un tesoro quanto egli di questa perla evangelica» [Leg mai., c. 7] E lo stesso Francesco, raccomandando e prescrivendo ai suoi nella Regola dell’Ordine il particolare esercizio di questa virtù, manifesta la stima ch’egli ne aveva e quanto la amasse con queste chiarissime parole: «Questa è la sublimità dell’altissima povertà che costituisce voi carissimi fratelli miei, eredi e re del regno dei cieli; vi fece poveri di cose, vi sublimò di virtù. Questa sia la vostra porzione, a cui aderendo totalmente, null’altro vogliate avere in eterno sotto il cielo per il nome del Signor nostro Gesù Cristo» [Reg. Fr. Min., c. 6]. La ragione per cui Francesco amò particolarmente la povertà, fu perché la considerava come familiare della Madre di Dio, e perché Gesù Cristo sul legno della croce, più che familiare, se la scelse a sposa, benché poi dagli uomini fosse dimenticata e riuscisse al mondo troppo amara ed importuna. Al che spesso ripensando, soleva prorompere in gemiti e lacrime.

Orbene, chi non si commuoverà a questo insigne spettacolo di un uomo, che tanto s’innamorò della povertà da parere agli antichi compagni di divertimento e a molti altri uscito di senno? Che dire poi dei posteri, i quali, anche se lontanissimi dall’intelligenza e dalla pratica della perfezione evangelica, furono compresi per sì ardente amante della povertà di un’ammirazione, che ognora aumentando riesce ancora a colpire gli uomini dell’età nostra? Questo senso di ammirazione dei posteri precorse l’Alighieri con quel canto dello sposalizio tra Francesco e la Povertà [Par., XI], dove non sapresti se più ammirare la grandiosa sublimità delle idee o la dolcezza e l’eleganza del verso.
Ma l’alto concetto e il generoso amore che della povertà nutrivano la mente e il cuore di Francesco, non potevano restringersi soltanto alla rinunzia dei beni esterni. Chi infatti riuscirebbe ad acquistare, sull’empio del Signor nostro Gesù, la vera povertà, se non si facesse povero in ispirito e piccolo per mezzo della virtù dell’umiltà? Ciò ben comprendendo Francesco, non disgiungendo mai l’una dall’altra virtù, ambedue così insieme calorosamente saluta: «Santa Signora povertà, il Signore ti salvi con la sorella santa umiltà … La santa povertà confonde ogni cupidigia e avarizia e ansietà di questo secolo. La santa umiltà confonde la superbia e tutti gli uomini di questo mondo e le cose tutte che sono nel mondo» [Opusc. Salutatio virtutum (Ed. 1904), p. 20 et seqq.].
Così per dipingere Francesco in una parola, l’autore dell’aureo libro «Dell’Imitazione di Cristo», lo chiama «l’umile». «Quale è ciascuno innanzi ai tuoi occhi (o Signore), tanto vale e non più, dice l’umile San Francesco» [ L. III, c. 50]. Egli ebbe infatti soprattutto a cuore di comportarsi con umiltà, come il minimo e ultimo di tutti. Perciò, fin dal principio della sua conversione, desiderava con ardore di essere schernito e deriso da tutti; e poi, sebbene fondatore, legislatore e Padre dei Frati Minori, si prendeva qualcuno dei suoi per superiore e padrone, da cui dipendere; indi, appena fu possibile, senza lasciarsi piegare da preghiere e da pianti dei suoi, volle deporre il governo supremo dell’Ordine «per osservare la virtù della santa umiltà» e restare «quindi innanzi suddito fino alla morte, vivendo più umilmente che qualsiasi altro» [Th. a Cel., Leg. II, n. 143]; offertagli spesso da Cardinali e da magnati ospitalità generosa e splendidissima, la ricusava recisamente; mentre agli altri mostrava maggiore stima e rendeva ogni onore, metteva se stesso in dispregio fra i peccatori, facendosi come uno di loro.

Si credeva infatti il più grande peccatore, usando dire che se la misericordia usatagli da Dio fosse stata fatta a qualche altro scellerato, questi sarebbe riuscito migliore dieci volte tanto, e a Dio solo doversi quindi attribuire, perché da Dio unicamente derivato, quanto si trovava in lui di bello e di buono. Per questa ragione occultava con ogni studio i privilegi e carismi che potevano procacciargli la stima e la lode degli uomini, e anzitutto le stimmate del Signore impresse nel suo corpo; e se talora in privato o in pubblico veniva lodato, non solo si reputava e protestava degno di disprezzo e vituperio, ma se ne contristava, tra sospiri e lamenti, con incredibile rammarico.
Che dire poi dell’essersi stimato tanto indegno da non volere ordinarsi sacerdote? Su questo medesimo fondamento dell’umiltà egli volle che si appoggiasse e consolidasse l’Ordine dei Minori. E se con esortazioni di una sapienza meravigliosa ammaestrava ripetutamente i suoi come non potessero gloriarsi di nulla, e molto meno delle virtù e grazie celesti, ammoniva soprattutto, e secondo l’opportunità rimproverava quei frati che per i loro officii andavano esposti al pericolo di vanagloria e di superbia, come i predicatori, i letterati, i filosofi, i superiori dei conventi e delle province. Sarebbe lungo scendere ai particolari, ma basti questo solo: San Francesco dagli esempi e dalle parole di Cristo [Matth., XX, 26-28; Luc., XXII, 26] derivò l’umiltà nei suoi, quale distintivo proprio dell’Ordine; volle infatti che i suoi fossero chiamati «minori», e «ministri» fossero detti tutti i prelati del suo Ordine, e «ciò per usare il linguaggio del vangelo ch’egli aveva promesso di osservare, sia perché suoi discepoli dallo stesso nome capissero di essere venuti alla scuola dell’umile Cristo per imparare l’umiltà» [S. Bonav. Leg. mai., c. 6, n. 5].

Abbiamo veduto come il Serafico per l’ideale stesso che aveva in mente della povertà più perfetta, si faceva tanto piccolo ed umile da ubbidire con semplicità di bambino ad un altro o meglio, possiamo aggiungere, a quasi tutti, perché chi non rinnega se stesso e non rinunzia alla propria volontà, certo non può dirsi o che si sia spogliato di tutte le cose, o che possa divenire umile di cuore. San Francesco, pertanto, col voto di obbedienza consacrò di buon animo e sottomise interamente al Vicario di Gesù Cristo la libertà della volontà, questo dono sopra tutti eminente da Dio conferito alla natura umana. Oh, quando male fanno e quanto vanno lungi dalla cognizione dell’Assisiate coloro che, per servire alle loro fantasie ed errori, s’immaginano, (cosa incredibile!) un Francesco intollerante della disciplina della Chiesa, noncurante degli stessi dogmi della Fede, precursore anzi e banditore di quella molteplice e falsa libertà, che si cominciò ad esaltare sul principio dell’età moderna, e tanto disturbo recò alla Chiesa ed alla società civile. Ora, con quanta intimità aderisse alla gerarchia della Chiesa, a questa Sede Apostolica e agli insegnamenti di Cristo, il banditore del gran Re può bene insegnare nei suoi mirabili esempi ai cattolici ed agli acattolici tutti. Consta infatti dai documenti storici di quell’età, i più degni di fede, che egli «venerava i sacerdoti e con estremo affetto abbracciava tutto l’Ordine ecclesiastico» [Th. a Cel., Leg. I, n. 62]; da «uomo cattolico e tutto apostolico» insisteva principalmente, nella sua predicazione, «che si mantenesse inviolabile la fedeltà alla Chiesa, e per la dignità del Sacramento del Signore, che si compie per ministero dei sacerdoti, si tenesse in riverenza somma l’ordine sacerdotale. E parimenti insegnava doversi in gran maniera riverire i maestri della legge divina e tutti gli ordini del Clero» [Iulian. a Spira, Vita S. Fr. ,n. 28]. E ciò che insegnava dal pulpito al popolo, inculcava molto più caldamente ai suoi frati, cui soleva anche avvisare di tempo in tempo — come nel suo famoso testamento e in punto di morte li ammonì con gran forza — che nell’esercizio del sacro ministero obbedissero umilmente ai prelati ed al clero, e si portassero con essi quali figliuoli della pace.
Ma il punto più capitale in questo argomento è che appena il Serafico Patriarca ebbe formata e scritta la Regola propria del suo Ordine, non indugiò un istante a presentarla personalmente, con i primi undici discepoli, ad Innocenzo III perché l’approvasse. E quel Pontefice d’immortale memoria, mirabilmente commosso dalle parole e dalla presenza dell’umilissimo Poverello divinamente ispirato, abbracciò con grande amore Francesco, sancì con l’autorità apostolica la Regola da lui presentata ed ai nuovi operai diede inoltre la facoltà di predicare la penitenza. A questa Regola poi di poco ritoccata, come ci attesta la storia, Onorio III aggiunse nuova conferma su preghiera di Francesco. Il Serafico Padre volle che la Regola e la vita dei Frati Minori fosse questa: osservare «il santo Vangelo del Signor Nostro Gesù Cristo vivendo in obbedienza, senza cosa propria e in castità», né già a capriccio proprio o secondo una propria interpretazione, ma al cenno dei Romani Pontefici, canonicamente eletti.

Quanti poi anelano a «ricevere questa vita… siano esaminati diligentemente dai Ministri intorno alla fede cattolica ed ai sacramenti della Chiesa, e se credono tutte queste cose e intendono confessarle e osservarle fermamente sino alla fine; coloro poi che siano incorporati nell’Ordine, non se ne allontanino per nessun conto «secondo il mandato del Signor Papa». Ai chierici si prescrive che celebrino i divini offici, «secondo l’Ordine della Chiesa Romana»; ai frati in generale, che non predichino nel territorio di un vescovo senza suo comando, e non entrino, anche per causa di ministero, nei conventi delle religiose senza facoltà speciale dell’Apostolica Sede. Né minore riverenza e docilità verso la Sede Apostolica ci mostrano le parole che usa Francesco nel prescrivere che si domandi un Cardinale protettore: «Per obbedienza ingiungo ai Ministri che domandino al Signor Papa qualcuno dei Cardinali della Santa Chiesa Romana che sia guida, protettore e correttore di questa Fratellanza; affinché, sempre subordinati e soggetti ai piedi della stessa Santa Chiesa Romana, stabili nella fede cattolica, osserviamo il santo Vangelo del Signor nostro Gesù Cristo» [Reg Fr. Minor., passim].
Ma non si può tacere di quella «bellezza e mondezza di onestà» che il Serafico «singolarmente amava», cioè di quella castità di anima e di corpo che egli custodiva e difendeva con l’asperrima macerazione di se stesso. E l’abbiamo pure veduto giovane, festoso ed elegante, aborrire da qualsiasi bruttura anche di parole. Ma quando poi rigettò i vani piaceri del secolo, cominciò tosto a reprimere con ogni rigore i sensi, e se mai gli accadeva di sentirsi agitato da moti sensuali, egli non esitava o a ravvolgersi fra gli spinosi roveti, o ad immergersi nelle gelide acque del più crudo inverno.
È, infatti, noto che il nostro Santo, studiandosi di richiamare gli uomini a conformare la loro vita agli insegnamenti del Vangelo, soleva esortare tutti «ad amare e temere Dio ed a far penitenza dei proprii peccati» [Leg. Trium Sociorum, n. 33 et seqq.], ed a tutti si faceva predicatore di penitenza col suo stesso esempio. Infatti cingeva alle carni un cilicio, vestiva una povera e ruvida tonaca, andava a piedi nudi, prendeva riposo appoggiando il capo a una pietra o ad un tronco, si nutriva quel tanto solo che bastasse a non morire d’inedia, e al suo cibo mescolava acqua e cenere per togliergli ogni gusto; anzi, passava quasi interamente digiuno la maggior parte dell’anno. Inoltre, sia che fosse sano o infermo, trattava con dura asprezza il suo corpo, ch’egli soleva paragonare ad un asinello; e non s’indusse a concedere al suo corpo qualche sollievo o riposo, neanche quando, negli ultimi anni della sua vita, fatto a Cristo similissimo per le Stimmate, quasi inchiodato alla Croce, era tormentato da molte infermità. Né trascurò di avvezzare i suoi all’austerità ed alla penitenza, benché — ed in ciò soltanto «la lingua fu diversa dall’opera del santissimo patriarca» [Th. a Cel., Leg.II, n. 129] — li ammonisse di moderare l’eccessiva astinenza e afflizione del corpo.
Chi non vede quanto manifestamente tutto ciò procedesse dal medesimo fonte della carità divina? Infatti, come scrive Tommaso da Celano [Leg. I, n. 55], «ardendo sempre di amore divino, bramava di dar mano ad opere forti, e camminando di gran cuore nella via dei comandamenti divini, anelava a raggiungere la somma perfezione». Secondo la testimonianza di San Bonaventura, «tutto quanto … quasi brace ardente, sembrava consumarsi nella fiamma dell’amore divino» [Legmai., c. 9, n. 1]; onde vi erano taluni che si scioglievano in lacrime «vedendolo sì rapidamente levato a tanta ebbrezza di divino amore» [Leg. Trium Sociorum, n. 21].

E siffatto amore di Dio si effondeva talmente verso il prossimo, che egli, vincendo se stesso, abbracciava con particolare tenerezza i poveri, e tra essi i più miseri, i lebbrosi, dai quali aveva tanto aborrito nella sua giovinezza; e dedicò ed obbligò tutto se stesso e i suoi alle loro cure e al loro servizio. Né minor carità fraterna volle regnasse tra i suoi discepoli: onde la francescana famiglia sorse come «un nobile edificio di carità, nel quale pietre vive, radunate da ogni parte del mondo, vengono edificate in abitacolo dello Spirito Santo» [ Th. a Cel., Leg. I, n. 38 et seqq.].
Ci è piaciuto, Venerabili Fratelli, trattenervi alquanto più a lungo nella contemplazione di queste altissime virtù, appunto perché, nei nostri tempi, molti, infetti dalla peste del laicismo, hanno l’abitudine di spogliare i nostri eroi della genuina luce e gloria della santità, per abbassarli ad una specie di naturale eccellenza e professione di vuota religiosità, lodandoli e magnificandoli soltanto come assai benemeriti del progresso nelle scienze e nelle arti, delle opere di beneficenza, della patria e del genere umano. Non cessiamo perciò dal meravigliarci come una tale ammirazione per San Francesco, così dimezzato e anzi contraffatto, possa giovare ai suoi moderni amatori, i quali agognano alle ricchezze e alle delizie, o azzimati e profumati frequentano le piazze, le danze e gli spettacoli o si avvolgono nel fango delle voluttà, o ignorano o rigettano le leggi di Cristo e della Chiesa. Molto a proposito cade qui quell’ammonimento: «A chi piace il merito del Santo, deve altresì piacere l’ossequio e il culto a Dio. Perciò, imiti quel che loda, o non lodi quella che non vuole imitare. Chi ammira i meriti dei Santi, deve egli stesso segnalarsi nella santità della vita» [Brev. Rom. d. 7 Nov., lect. IV].

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