Guai a diventare “i protestanti della Tradizione”!

I difensori della Tradizione debbono rimanere saldamente ancorati ai principi fondamentali del Cattolicesimo, che discendono dall’Incarnazione e si manifestano negli aspetti sacramentale, gerarchico e ascetico, rifiutando ogni tendenza “protestantizzante” che porterebbe a una riduzione o spiritualizzazione eccessiva della fede e della Chiesa visibile.

Trascrizione di un video-editoriale di Don Alberto Secci dell’8 giugno del 2020.

Ne I cori della rocca, il grande scrittore T.S. Eliot fa risuonare questa domanda: è l’umanità che ha abbandonato la Chiesa o è la Chiesa che ha abbandonato l’umanità? Contemplando l’ateismo dei nostri tempi, dei tempi moderni, “[hanno] abbandonato Dio per nessun dio”, dice Eliot. Ma la causa sta nella Chiesa o nell’umanità? È l’umanità che ha abbandonato la Chiesa? La Chiesa che ha abbandonato l’umanità? Tutte e due, e [la causa sta] nella Chiesa.

In che modo si è abbandonata l’umanità? Semplicemente con la protestantizzazione del cristianesimo, non cogliendo più il cristianesimo nella sua interezza. L’eresia è sempre una riduzione, e la Chiesa ha abbandonato l’umanità quando la Chiesa si è “protestantizzata”. Ma allora dobbiamo andare avanti e chiederci: che cos’è il protestantesimo? Meglio, che cos’è questa differenza tra il protestantesimo e il cattolicesimo?

C’è un bel capitolo del libro di Davies sulla riforma liturgica americana, intitolato “Cattolicesimo, religione dell’Incarnazione”, e prendono da questo capitolo una citazione del grande [Cardinale] Newman. A un certo punto dice che se gli avessero domandato di scegliere una dottrina come base della nostra fede, Newman avrebbe risposto: “Io direi, per quanto mi riguarda, che l’Incarnazione era il cuore del cristianesimo“. Cioè che il Verbo si fa uomo, l’Incarnazione, Dio si fa uomo. L’Incarnazione era al cuore del cristianesimo, e di là procedono i tre aspetti essenziali del suo insegnamento: il sacramentale, il gerarchico e l’ascetico.

Tutti e tre gli aspetti — il sacramentale, il gerarchico e l’ascetico — discendono dall’Incarnazione. Allora dovremmo stare attenti, noi che ci sentiamo chiamati a difendere la Tradizione o comunque riconosciamo il cattolicesimo compiuto come quello della Tradizione, a non spiritualizzare questa ricerca della Tradizione. Occorre riconoscere che dall’Incarnazione di Cristo, che dall’Incarnazione di Dio, discendono i tre aspetti:

  1. Il sacramentale: e facciamo bene a difendere l’integrità dei sacramenti.
  2. Il gerarchico: non possiamo essere dei rivoluzionari della Chiesa. Dobbiamo riconoscere che la Chiesa è visibile e che ha una gerarchia, anche quando la gerarchia non esercita pienamente la propria autorità. Siamo in una crisi, è così: ci sono vescovi che non fanno i vescovi, ci sono preti che non fanno i preti, ci può essere il Papa che non sempre esercita con coraggio il mandato petrino.
  3. L’ascetico: nonostante questo, occorre riconoscere l’aspetto ascetico. Non è perché la Chiesa è in crisi che io non debba farmi santo, che uno debba rinunciare al peccato e domandare la grazia di una vera conversione, e lavorare e faticare perché questa conversione avvenga, innanzitutto in noi, ben oltre il pregare perché avvenga negli altri e nella Chiesa tutta.

Stiamo attenti, allora, a non ridurre in senso “protestante” la lotta per la Tradizione. Potremmo essere i “protestanti della Tradizione”. No, noi riconosciamo che l’Incarnazione è il dono fondamentale e che per questo ne discendono i tre aspetti: sacramentale, gerarchico, ascetico. Per essere cattolici bisogna che questi tre aspetti siano tenuti insieme.

Questo non vuol dire non denunciare la crisi. Si denuncia la crisi del sacramentale, quando i sacramenti sono contraffatti o non si lavora perché le persone li ricevano secondo le condizioni che portano frutto. [Si denuncia la crisi] di fronte alla crisi della gerarchia, dove chi ha un posto di comando come pastore timidamente non lo esercita o si assoggetta alla cultura dominante — drammatico questo — o di fronte alla crisi dell’ascesi, per cui c’è la crisi dell’aspetto etico. Noi non possiamo rifugiarci in una Chiesa spirituale: la Chiesa è una sola, è quella che vediamo. Tutto ciò dipende dall’Incarnazione, ma è questo che ci fa cattolici. I cattolici non possono fuggire dal visibile, dall’incontrabile, da un’obbedienza evidente alla Chiesa.

Stiamo attenti, perché il protestantesimo, combattuto, uscito dalla porta rientra dalla finestra se non vigiliamo su questo. Tutto questo può aprire mille domande, può far soffrire, ma a questo noi non possiamo rinunciare: avremmo rinunciato al cattolicesimo stesso. Pensiamoci bene. Facciamoci guidare da Maria Santissima in questa vicinanza.

Sia lodato Gesù Cristo. Sempre sia lodato.


AGGIORNAMENTO SETTEMBRE 2025

Obbedienza e verità: L’unità infrangibile della Chiesa

di Daniele Trabucco

Nella Chiesa di Cristo l’obbedienza e la verità non sono mai termini contrapposti, ma espressioni inseparabili dell’unico mistero ecclesiale. L’obbedienza non è cieca sottomissione a un comando esterno, né mero formalismo giuridico, ma atto spirituale e razionale con cui la libertà si piega al vero bene, riconoscendo che l’ordine divino precede e fonda ogni azione umana. Perciò essa è radicata nel movimento stesso della fede, che è adesione totale della mente e del cuore a ciò che Dio ha rivelato e che la Chiesa, non in virtù di se stessa ma per mandato divino, custodisce e propone come norma di salvezza.

Da qui consegue che non si dà autentica obbedienza se disgiunta dalla verità; e non si dà autentica difesa della verità se recisa dalla comunione ecclesiale. La tentazione, che talvolta attraversa la storia, è quella di credere di poter salvaguardare la verità uscendo dalla comunione visibile della Chiesa, quasi che l’unità fosse un vincolo secondario o accessorio rispetto all’integrità della fede. In realtà, tale posizione dissolve la logica stessa dell’ecclesialità: chi pretende di custodire la fede rompendone la comunione visibile, nega performativamente ciò che intende difendere, poiché la fede non è mai proprietà privata ma appartenenza al Corpo di Cristo.

È dunque necessario chiedersi: che cosa accadrebbe se l’autorità ecclesiastica, anche nel suo complesso, apparisse corrotta fino al punto di insegnare ciò che è radicalmente contrario al deposito della fede? Il pensiero stesso di una simile possibilità appare paradossale, perché l’autorità, in quanto tale, non può ontologicamente imporsi contro la verità rivelata: il suo essere è ministeriale e totalmente dipendente dal depositum fidei. Qualora un’autorità pretendesse di negare ciò che appartiene in modo irreformabile alla fede cattolica, essa non agirebbe più in persona Ecclesiae, ma in virtù di una deviazione che corrompe l’atto stesso dell’autorità. Si tratterebbe, pertanto, non di un atto autentico della Chiesa, ma di un abuso fenomenico e storicamente concreto.

E tuttavia, anche in un’ipotesi estrema — che non appartiene alla promessa divina ma che la mente può concepire per assurdo — in cui tutto l’ordine visibile sembrasse precipitare nell’errore, la comunione non dovrebbe mai essere spezzata. L’assistenza dello Spirito Santo, infatti, non è distribuita genericamente a tutti gli atti ecclesiastici, né garantisce l’impeccabilità delle persone o l’infallibilità di ogni decisione disciplinare o pastorale. Essa si esercita in modo indefettibile quando la Chiesa definisce solennemente in materia di fede e di costumi (ex cathedra o in Concilio ecumenico), si prolunga nel magistero ordinario universale quando esso converge nell’insegnamento costante, e vivifica l’intera Tradizione rendendola presente ed efficace in ogni tempo. L’assistenza non implica che non possano verificarsi errori, omissioni, deviazioni persino gravi nel governo o nella prassi, ma significa che il deposito rivelato non sarà mai cancellato dalla vita della Chiesa, e che lo Spirito custodisce indefettibilmente la verità salvifica.

Per questo, il fedele che percepisce un abisso tra la propria coscienza illuminata dalla fede e le indicazioni provenienti dall’autorità non è chiamato a una fuga né a una rottura, bensì a una forma di martirio silenzioso, una perseveranza dentro la comunione visibile che, pur senza cedere all’errore, non abbandona mai l’unità sacramentale. Tale atteggiamento non è passività, ma testimonianza radicale: come il seme che muore in terra, il cristiano custodisce la verità senza infrangere il vincolo dell’amore che lo lega alla Chiesa, confidando che la purificazione verrà operata dallo Spirito che guida la Sposa di Cristo.

In questo orizzonte si rivela la dimensione paradossale ma essenziale dell’obbedienza cristiana: essa non consiste nel sostituire la verità con il potere, né nel sacrificare l’unità alla propria interpretazione, ma nel credere che la verità e la comunione sono inseparabili perché hanno la loro radice nel medesimo Cristo. Egli, che ha promesso di non abbandonare mai la sua Chiesa, rimane il fondamento ultimo di ogni certezza: la fedeltà alla verità e la fedeltà alla comunione visibile non sono due doveri paralleli ma due volti dello stesso atto teologale. Se dunque accadesse, anche per assurdo, che tutta l’autorità ecclesiastica cadesse nell’errore, il cristiano fedele sarebbe chiamato non a rompere la comunione, ma a viverla come croce, entrando in quel martirio nascosto che testimonia la verità proprio attraverso l’obbedienza dell’amore.


Un nuovo episodio doloroso: la scelta di don Pompei

di Roberto de Mattei

Dopo i “casi” dell’arcivescovo Carlo Maria Viganò, di don Alessandro Minutella e di padre Giorgio Faré, giunge ora, in Italia, quello, non meno grave e doloroso, di don Leonardo Pompei, un sacerdote che si è fatto fino ad ora apprezzare per la sua ortodossia e condotta morale.

Il 29 agosto, don Pompei, parroco di S. Maria Assunta in Cielo in Sermoneta, in una lettera scritta al vescovo di Latina mons. Mariano Crociata, suo superiore ecclesiastico, ha annunciato di non sentirsi più in comunione né con il vescovo diocesano né con la gerarchia ecclesiastica.

Nella mattinata del 4 settembre, mons. Crociata ha notificato al sacerdote un decreto che prevede la sua sospensione «da tutti gli atti della potestà di ordine, da tutti gli atti della potestà di governo e dall’esercizio di tutti i diritti o funzioni inerenti all’ufficio. Qualunque atto di governo dovesse essere posto dal presbitero in parola è da ritenersi invalido. Al Rev. don Leonardo Pompei è concessa la dispensa dall’obbligo di portare l’abito ecclesiastico ed è chiesto di non presentarsi pubblicamente come sacerdote».  

A questa decisione, secondo il comunicato della diocesi, si è arrivati per la violazione del precetto penale imposto il 2 settembre da mons. Crociata a don Pompei, «che imponeva e ordinava al presbitero, sotto pena di sospensione, di non convocare alcun incontro o assemblea parrocchiali con i fedeli della parrocchia di S. Maria Assunta in Cielo in Sermoneta, e di sospendere qualunque tipo di attività sui social media». Invece, il 3 settembre sera, «don Pompei ha violato il precetto penale a suo carico – si legge nella nota della diocesi di Latina –, convocando un incontro online aperto a chiunque fosse in grado di connettersi da remoto e trasmesso in diretta sulla piattaforma social YouTube. Con tale comportamento, il rev. don Leonardo Pompei ‘è venuto meno in forma positiva e pubblica all’obbligo di obbedienza al suo ordinario, per cui il passo successivo è stato quello della sospensione dal ministero presbiterale’”. 

Don Pompei non ha contestato questa ricostruzione dei fatti, né ha impugnato la legittimità canonica del decreto. Il 4 settembre in un video su You tube, nel quale ha dettagliatamente illustrato la sua «sofferta ma inevitabile scelta» e in un successivo video di “precisazioni” del giorno successivo, si è autodefinito, con tranquillità d’animo, “scismatico”.  È questo un primo punto che è importante sottolineare. Non si gioca con le parole. Don Pompei si è proclamato scismatico, perché sa di esserlo, a norma del diritto canonico, che è l’ordine giuridico della Chiesa. Gesù Cristo, infatti, non ha annunciato un messaggio solo spirituale, ma ha istituito una società gerarchica, affidando agli Apostoli, con Pietro come capo (cf. Mt 16, 18-19; Gv 21, 15-17), l’autorità di insegnare, governare e santificare i fedeli.  

Per i Padri della Chiesa, lo scisma è uno dei peccati più gravi, spesso considerato pari o peggiore dell’eresia, perché nega l’autorità della Chiesa e lacera l’unità del Corpo di Cristo.  Il giudizio di sant’Agostino è lapidario: «Nihil gravius est quam scisma» (Enarrationes in Psalmos, 30, 2,7); lo scisma è più grave dello stesso errore dottrinale, perché chi è nello scisma perde l’amore fraterno e quindi la salvezza, anche se custodisce la retta fede (De Baptismo, 1,1). Se gli eretici hanno una dottrina perversa, gli scismatici si separano dalla carità fraterna; «perciò, pur credendo su Dio quello che crediamo anche noi, non avendo la carità dicono invano di essere cristiani» (Contra Faustum, 20,3)

Don Pompei afferma di trovarsi nell’impossibilità di esercitare il suo ministero nella Chiesa attuale e di aver deciso di abbandonarla, per scegliere la «Chiesa di sempre», dopo aver conosciuto, quest’anno, il «mondo della tradizione». Ma alcune domande sorgono spontanee. 

Don Pompei, nato nel 1971, è stato ordinato sacerdote nel 2004. Ha conosciuto solo ora, nel 2025, l’esistenza di un “mondo della Tradizione”, che esiste da oltre cinquant’anni? Il prof. Plinio Corrêa de Oliveira,il 15 gennaio 1976, in una conferenza di apertura della XXVI Settimana di Formazione Anticomunista, qualche mese prima dell’esplosione mediatica del cosiddetto “caso Lefebvre”, descriveva già con chiarezza l’esistenza di due grandi correnti all’interno della Chiesa Cattolica: la progressista e la tradizionalista. «Le concezioni di queste correnti sono diametralmente opposte, in completo contrasto. Non è possibile che entrambe abbiano ragione, perché due posizioni contrarie non possono essere simultaneamente vere. (…) La grande battaglia contemporanea non è soltanto  e, aggiungo, non è principalmente  quella dei cattolici contro i comunisti o contro i non cattolici. Il grande centro della battaglia contemporanea — la battaglia immensa tra verità ed errore, tra bene e male, che si svolge ovunque — è nel cuore stesso della Santa Chiesa Cattolica, Apostolica e Romana: lo scontro tra tradizionalisti e progressisti» (https://www.corrispondenzaromana.it/notizie-dalla-rete/la-grande-divisione-nella-chiesa-cattolica-tradizionalisti-e-progressisti-chi-avra-la-vittoria/).

Il prof. de Oliveira fu, fino alla sua morte, nel 1995, un campione della causa tradizionalista e contro-rivoluzionaria, ma non uscì mai dalla Chiesa, né subì sanzioni da parte di essa. Lo stesso mons. Lefebvre, che fu scomunicato nel 1988 per la consacrazione di quattro vescovi, giudicò la sanzione “nulla e senza valore”, perché il Codice di Diritto Canonico prevede l’assenza di pena per chi agisce in stato di necessità (can. 1323 e 1324), ma non mise mai in dubbio la legittimità dell’autorità ecclesiastica che l’aveva emanata e che, nel 2009 rimosse la scomunica. 

Don Pompei definisce inaccettabile la Nuova Messa e il Concilio Vaticano II, che però ha accettato per 20 anni. Perché li ha accettati? Per obbedire, sia pure con   grande sofferenza all’autorità della Chiesa, ha spiegato nei suoi video. E oggi, per rifiutare ciò che ieri ha accettato, mette in discussione l’autorità della Chiesa. L’errore di don Pompei, comune a molti di coloro che slittano verso il sedevacantismo, è una malintesa idea dell’autorità della Chiesa. In un primo tempo si accetta dall’autorità ecclesiastica anche ciò a cui sarebbe lecito resistere; poi, partendo dal presupposto che l’autorità ha sempre ragione, si rifiuta, non solo l’ordine che appare ingiusto, ma l’autorità stessa che lo emana. In realtà, un’autorità può comminare sanzioni ingiuste nei confronti di un sacerdote (sospensione a divinis, scomunica, riduzione allo stato laicale), ma l’ordine ingiusto non fa decadere l’autorità della Chiesa. I vescovi non sono infallibili nel governo della Chiesa, ma l’esistenza di una chiesa gerarchica è verità proclamata come infallibile dal Concilio Vaticano I nel 1870 (DS 3064) e ribadita nel 1943 da Pio XII nella Mystici corporis (DS 3808; 3827). 

All’autorità si può resistere, talvolta anche pubblicamente, come avvenne con la Correctio filialis a papa Francesco del 2017, ma non disubbidire su punti che non toccano direttamente la fede e la morale cattolica. Ad esempio, un sacerdote può rifiutare di distribuire la comunione in mano, ritenendolo un atto irriverente verso Dio, ma non può rifiutare l’ordine del vescovo di sospendere l’attività di un blog, poiché quest’atto non viola, in sé, alcun principio religioso o morale.  Il vescovo ha come mandato divino di curare il bene comune del suo gregge, e può sbagliare nell’esercitare questo diritto, ma il sacerdote ha il dovere di ubbidire alle disposizioni del vescovo presso cui è incardinato, salvo il caso di un ordine che violi una legge naturale e divina. 

Don Pompei afferma di rifiutare la comunione gerarchica con la Chiesa cattolica, quale ora si presenta, per aderire a una chiesa che definisce “alternativa”. Ma dove approderà? Esiste una “chiesa di sempre” alternativa alla Chiesa cattolica apostolica romana, che ha oggi in Leone XIV il legittimo successore di Pietro?

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