Il compito del cristiano nella Chiesa e nella società

Conferenze, Omelie, Discorsi del cardinale Joseph Ratzinger (Benedetto XVI), raccolta di testi “365 giorni con il Papa” – Ed. paoline 2006.

Il compito del cristiano, oggi, non dovrebbe essere quello di stare accanto al mondo odierno, in atteggiamento di fondamentale disapprovazione, bensì quello di purificare, di esorcizzare, e così di liberare dal suo interno — nella caritas christiana — il mondo contemporaneo della scienza e del lavoro. Vivendo il mondo a partire da questo asse di riferìmento, e solo così, il cristiano può nello stesso tempo contribuire a eliminare criticamente, a «neutralizzare » ciò che di fatto, in ogni epoca, è opera in essa delle «potenze di questo mondo» (in senso negativo). Se, di fronte all’innegabile presenza anche di questo fattore il sì del cristiano al «mondo d’oggi» dev’essere un sì critico, questo non vuol certo dire però che egli possa impegnarsi solo a metà, perché non gli sarebbe possibile fare altrimenti. Ciò non può voler dire che egli se ne debba occupare solo perché trascinato, e non di sua spontanea iniziativa. La dedizione a metà non serve a niente. La risposta del cristiano ai problemi di oggi non può essere per metà un credere e per metà un lasciarsi trascinare da un mondo, dal quale non può tirarsi fuori. La sua risposta dev’essere piuttosto una fede piena, e un assenso al mondo odierno, nella sua interezza, sulla base della totalità della fede, cioè un agire sulla base della responsabilità dell’amore nel contesto di un universo di prestazioni, strutturato secondo le coordinate della scienza e della tecnica. Un simile servizio, reso di tutto cuore di fronte ai compiti posti dal mondo d’oggi, non significa affatto un’infedeltà nei confronti della stoltezza della croce, a favore invece di un’ingenua fede ottimistica nel progresso. Proprio l’oggettività di un servizio accolto con tale spirito richiede (se, diversamente dalla mentalità corrente, si vuole comprendere tutto a partire dall’intimo nucleo della carìtas christiana) la disponibilità a perdersi, a donarsi ogni giorno, di nuovo; senza questo perdersi non si può mai dare autentico ritrovarsi. L’ascesi cristiana non diventa superflua, anche se le sue forme cambiano. Ed è chiaro: anche il servizio dell’amore cristiano alla persona non diventerà mai qualcosa di superfluo, per quanto possa cambiare l’aspetto del mondo. (Dogma e predicazione, pp. 170s)

L’uomo è il nemico dell’uomo. Egli si sente impedito e minacciato dai successi dell’altro uomo, dalle sue conquiste e dai suoi errori, o addirittura dal semplice fatto che questi esiste; e cerca di risolvere con la forza il problema che l’altro è per lui. Ciò che Gesù Cristo ha proclamato a riguardo della forza e della violenza è sottratto a qualsiasi possibilità di equivoco. Conservare in tutta la sua inequivocabilità questo messaggio e farlo proprio, oggi non è più una questione puramente teorica, ma che concerne la stessa sopravvivenza della nostra società. Vorrei qui ricordare le parole che Giovanni Paolo II ha pronunciato in Irlanda: «La violenza è indegna dell’uomo. La violenza è una menzogna, poiché essa contraddice la verità della nostra fede, la verità della nostra umanità. La violenza distrugge ciò che finge di difendere: la dignità, la vita, la libertà dell’uomo». Ma il semplice rifiuto della violenza, a dire il vero, non è di per sé sufficiente. La violenza è oggi diventata così tanto affascinante perché essa ha potuto a suo vantaggio capovolgere lo splendore delle evidenze morali. Essa è diventata parte integrante di una più complessiva concezione del mondo, per la quale forza e violenza sono espressioni della lotta per la giustizia e in cui esse appaiono come simboli di un radicale impegno a favore dell’uomo. Spesso il violento si propone oggi come moralizzatore. Accanto a ciò c’è naturalmente anche quella violenza che è espressione di viltà, di mancanza di coraggio nell’esistenza, che è desiderio di distruzione di un mondo senza senso; e abbastanza spesso entrambi i motivi si annodano l’un l’altro. La violenza può essere vinta soltanto con una nuova purezza di cuore, che riscopra e faccia emergere la dignità della propria umanità e così di ogni umanità. Il disprezzo dell’uomo è sempre il primo passo della violenza: essa cade sempre là dove l’uomo si percepisce come un essere turpe e meschino. Solo chi può credere alla dignità dell’uomo, percependola in primo luogo in se stesso, può rispettarla anche nell’altra persona. Questa purezza del cuore, l’autentico bastione fortificato che protegge dal dominio e dalla violenza, non ha niente a che vedere con la debolezza. L’antitesi alla violenza non è la debolezza, bensì la fermezza e quell’ardimento che stanno coraggiosamente dalla parte del bene anche là dove questo viene messo in ridicolo. Diciamolo molto semplicemente: il «coraggio della virtù» è ciò di cui la nostra società ha di nuovo bisogno. Solo questo coraggio può vincere la violenza e fondare una vera fraternità tra gli uomini. (Trasmissione alla Radio Bavarese, 4 aprile 1981)

Il cristianesimo non è una speculazione filosofica, non è una costruzione della nostra mente. Il cristianesimo non è nostro, è la rivelazione di Dio, è un messaggio che ci è stato consegnato e che non abbiamo il diritto di ricostruire a piacimento. Dunque non siamo autorizzati a trasformare il Padre nostro in una Madre nostra: il simbolismo usato da Gesù è irreversibile ed è fondato sulla stessa relazione uomo-Dio che egli è venuto a rivelarci. Ancor meno ci è lecito sostituire Cristo con un’altra figura. Ma ciò che il femminismo radicale — talvolta anche quello che dice di richiamarsi al cristianesimo — non è disposto ad accettare è proprio questo: il carattere esemplare, universale, immodificabile della relazione tra Cristo e il Padre. Sono infatti convinto che ciò cui porta il femminismo nella sua forma radicale non è più il cristianesimo che conosciamo, è una religione diversa. Ma sono anche convinto (cominciamo a vedere le ragioni profonde della posizione biblica) che la Chiesa cattolica e quelle ortodosse, difendendo la loro fede e il loro concetto di sacerdozio, difendono in realtà sia gli uomini che le donne nella loro totalità, nella loro distinzione irreversibile in maschile e femminile, dunque nella loro irriducibilità a una semplice funzione o a un «ruolo». Vale del resto, anche qui, quanto non mi stanco di ripetere: per la Chiesa, il linguaggio della natura (nel nostro caso: due sessi complementari tra loro e insieme ben distinti) è anche il linguaggio della morale (uomo e donna chiamati a destini egualmente nobili, entrambi eterni, ma insieme diversi). (Rapporto sulla fede, pp. 97s)

Maternità e verginità, i due valori altissimi in cui la donna realizza la sua vocazione più profonda, sono diventati valori opposti a quelli dominanti. La donna, creatrice per eccellenza dando la vita, non «produce» però in quel senso tecnico che è il solo valorizzato da una società più maschile che mai nel suo culto dell’efficienza. La si convince che la si vuole «liberare», «emancipare», inducendola a mascolinizzarsi e rendendola così omogenea alla cultura della produzione, facendola rientrare sotto il controllo della società maschile dei tecnici, dei venditori, dei politici che cercano profitto e potere, tutto organizzando, tutto vendendo, tutto strumentalizzando per i loro fini. Affermando che lo specifico sessuale è in realtà secondario — e, dunque, negando il corpo stesso come incarnazione dello Spirito in un essere sessuato — la donna è derubata non solo della maternità, ma anche della libera scelta della verginità. Eppure, come l’uomo non può procreare, così egli non può essere vergine se non «imitando» la donna, la quale, anche per questa via, ha per l’altra parte dell’umanità valore altissimo di «segno» e di «esempio». (Rapporto sulla fede, p. 99)

La Chiesa presume da sempre che chiunque celebri l’eucarestia abbia bisogno di dire: «Io ho peccato; non guardare, Signore, ai miei peccati». È stata l’invocazione obbligatoria di ogni sacerdote: i vescovi, il papa stesso alla pari dell’ultimo prete dovevano pronunciarla nella loro celebrazione quotidiana della messa. E anche i laici, tutti gli altri membri della Chiesa, erano chiamati a unirsi a quel riconoscimento di colpa. Dunque tutti nella Chiesa, senza alcuna eccezione, dovevano confessarsi peccatori, invocare il perdono, mettersi quindi sulla via della loro vera riforma. Ma questo non significava affatto che fosse peccatrice anche la Chiesa in quanto tale. La Chiesa è una realtà che supera, misteriosamente e insieme infinitamente, la somma dei suoi membri. Infatti, per ottenere il perdono di Cristo, si opponeva il mio peccato alla fede della sua Chiesa. Oggi questo sembra dimenticato da molti teologi, da molti ecclesiastici, da molti laici. Non si è verificata solo un’oscillazione, quasi uno slittamento dall’«io» al «noi», dalla responsabilità personale alla sottolineatura di quella collettiva. Si ha addirittura l’impressione che alcuni, magari inconsciamente, rovescino l’invocazione, intendendola come: «Non guardare ai peccati della Chiesa ma alla mia fede» […]. Se davvero avviene questo, le conseguenze sono gravi: le colpe dei singoli diventano le colpe della Chiesa e la fede è ridotta a un fatto personale, al mio modo di comprendere e riconoscere Dio e le sue richieste. Temo proprio che questo sia oggi un modo molto diffuso di sentire e di ragionare: è un segno ulteriore di quanto la comune coscienza cattolica si sia allontanata in molti punti dalla retta concezione della Chiesa. (Rapporto sulla fede, pp. 52s)

Nelle lettere di san Paolo si può scorgere quanto siano stati determinanti per la sua attività apostolica i servizi offertigli da donne che appartenevano alla comunità dei credenti. Nel sedicesimo capitolo della lettera ai Romani, per esempio, egli nomina Febe, diaconessa della Chiesa di Cenere, e anzi dice che ella è stata protettrice e ha recato aiuto a molti altri, oltre che a Paolo stesso. Che donna dev’essere stata costei, a tal punto che l’apostolo la cita con il titolo liturgico di «diacono»! A dire il vero, Paolo non usa ancora questo nome nell’odierna accezione sacramentale; a maggior ragione, esso tuttavia esprime qui con molta profondità il servizio al vangelo nella sua totalità: Paolo stesso si definisce, di preferenza, diacono della nuova alleanza (2Cor 6,4) o diacono di Cristo (2Cor 11,23). Il lettore riconoscerà subito che donne di questa stoffa non furono sminuite o svantaggiate per il fatto che non poterono essere presbiteri o apostoli; riconoscerà che esse cooperarono all’edificazione della Chiesa in un modo del tutto peculiare e irrinunciabile, secondo la loro sensibilità femminile e le loro personali attitudini. Paolo non ha mai parlato di alcun uomo della comunità credente allo stesso modo in cui, in questo punto, egli scrive di Febe, dicendo cioè che ella si è fatta sua protettrice. Sullo stesso piano si dispone un cenno di saluto che egli, nello stesso capitolo, rivolge alla madre di Rufo, aggiungendo: « Ella è diventata anche per me una madre » (Rm 16,13). Prima c’era stato il saluto alla « carissima Perside, che molto ha faticato per il Signore » (Rm 16,12). In queste donne e nelle molte altre che la Scrittura e particolarmente i vangeli menzionano, la missione mariana si sviluppa nelle più diverse direzioni. Gli ordini religiosi femminili sono l’ininterrotta prosecuzione e attualizzazione del mistero mariano nella Chiesa. (Bollettino diocesano, 1978, n. 24)

Il passo in avanti e il progredire nel cammino devono nel contempo essere anche un passo che ritorna verso il fondamento e un cammino verso la profondità e le altezze della realtà. Cristo è il centro: guardare a lui è il nostro primo e principale compito. Come dice la prima lettera di Clemente, la lettera di uno dei primi successori di Pietro, «teniamo dunque il nostro sguardo incrollabilmente rivolto al sangue redentore di Gesù Cristo». Ma che cosa significa tutto ciò, percepire Cristo come il centro », accoglierlo come la risposta, come il pane che è vita, come il Verbo vivente? La Scrittura espone questa semplice e insieme grande idea di fondo (che è stata nel contempo il cuore del moto spirituale del concilio), dicendo: «Fa’ che viviamo di ogni parola che esce dalla tua bocca». Fa’ che viviamo delle parole che servono a farci comprendere il Verbo: e che sono tali in lui e per la sua grazia. Tutto ciò ci invita a rivolgerci alla sacra Scrittura; ci rinvia al fatto che nella Scrittura ci viene incontro la parola vivente di Dio. Questa è una sorgente che sempre ci offre nuovamente risposta e che sempre introduce nuovamente la vita in questo mondo; solo a partire da essa noi ritroviamo continuamente la via che ci conduce al nostro cuore, a noi stessi e a Dio, e così edifichiamo il mondo. Insieme al cristocentrismo, la seconda istanza concreta del concilio è stata quella di impiantare la sacra Scrittura nel centro della vita cristiana, e di ricondurci così al cuore della fede. Non conoscere la Scrittura significa non conoscere Cristo, afferma san Gerolamo. E noi la conosciamo soltanto dialogando con quelle parole che sono la parola di Dio. La Scrittura parla del modo in cui si può diventare una cosa sola con Cristo e di come questa fusione col centro possa realizzarsi in pratica. Essa parla del fatto che la fede non è qualcosa di lontano, per la quale si debbano intraprendere grandi ricerche, magari attraversare un oceano o spingersi fin nelle profondità della terra. Parla di una realtà vicina: il Verbo è presente nel tuo cuore: devi solo rientrare in te stesso, là lo troverai. E afferma: Gesù è il Signore, Gesù è risorto. Con queste espressioni, Paolo nomina entrambe le formule di confessione usate nella Chiesa e che costituiscono il nucleo della nostra confessione di fede. Egli dice: se tu ti inoltri davvero nel tuo cuore, ti inoltri nello stesso tempo in Gesù. E, reciprocamente: tu ti inoltri per davvero nel tuo cuore solo quando non ti rinchiudi tutto e puramente in te stesso, bensì quando tu credi nella fede e con la fede della Chiesa vivente. In quest’adesione di fede con e nella Chiesa vivente, nel lasciarsi sostenere insieme a essa — persino anche quando molti particolari restano oscuri e incompresi — noi veniamo compaginati e custoditi nella comunione della fede, le apparteniamo e a essa comunichiamo. E leggeremo correttamente la Scrittura a partire dal suo centro, dalla sua intima unità, quando la leggeremo in accordo con la fede della Chiesa. (L’Osservatore romano, 13 (1983), n. 8, p. 12)

Negli ultimi vent’anni si è veramente molto riflettuto, e anche veramente molto litigato a proposito del sacerdozio […]. Ora, a poco a poco diventano più chiaramente individuabili i presupposti che, nei primi tempi, facevano apparire a prima vista quasi irrefutabili le une o le altre argomentazioni. Il superamento dei pregiudizi rende inoltre di nuovo possibile una più profonda comprensione della testimonianza biblica nella sua intima unità e corrispondenza di antica e nuova alleanza, di Bibbia e di Chiesa. Se vedo bene, in futuro ci si misurerà proprio con questo interrogativo: come si «legge» propriamente la Scrittura? Al tempo della formazione del canone scritturistico — di per sé, il tempo anche della formazione della Chiesa e della sua cattolicità — è stato Ireneo di Lione a dover affrontare, prima di tutti gli altri, tale questione, nella risposta alla quale si gioca la possibilità o l’impossibilità della vita ecclesiale. Nella sua epoca, Ireneo ha riconosciuto come principi di un «cristianesimo» « adattato al mondo » e «illuminato» (cioè della cosiddetta «gnosi»), che minacciava in radice la Chiesa di allora, il principio del frazionamento della Bibbia e quello della separazione tra Bibbia e Chiesa. A monte di questa doppia divisione sta l’intrinseco frazionamento della Chiesa in comunità che, volta per volta, cercano di darsi una propria legittimazione, scegliendo arbitrariamente le fonti e le autorità cui riferirsi. La disgregazione delle fonti autorevoli della fede ha come conseguenza la disgregazione della communio e viceversa. La gnosi, che cerca di accreditare come propriamente e autenticamente razionale la prassi del frazionamento — la divisione tra i due Testamenti, la separazione della Scrittura dalla tradizione, la discriminazione tra cristiani « colti » e cristiani « incolti » — è in verità un fenomeno di disgregazione. L’unità della Chiesa, al contrario, fa sì che divenga manifesta l’unità di ciò di cui essa vive. E viceversa: la Chiesa resta viva soltanto se attinge alla totalità, alla multiforme unità tra Antico e Nuovo Testamento, tra Scrittura, tradizione e vivente realizzazione, nel credente, della parola di Dio. (Diener eurer Freude, pp. 85s)

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