Il valore dei grandi mistici a servizio degli uomini

La mistica, un pezzo di cielo sulla terra

HENRI BERGSON (1859-1941) Nato a Parigi da famiglia ebrea di origine irlandese poco più che trentenne sali in cattedra e per oltre un quarantennio fu affascinante maestro di filosofia, dando vita a un movimento di reazione spiritualistica al positivismo imperante nella seconda metà dell’Ottocento.

Egli dedicò all’esame dei problemi della vita morale e religiosa l’opera da cui togliamo alcune pagine e che costituisce l’esaltazione dell’intuizione mistica, della religione e della morale dei santi. Morì a Parigi, mentre la Francia era invasa dai tedeschi.

Si veda (testo a seguire: Il valore dei grandi Mistici) un suo colloquio con padre Pougety attraverso i ricordi di uno scolaro prediletto.


L’AVVENIRE DELL’UMANITÀ E IL MISTICISMO

L’amore che consuma il mistico non è solamente l’amore di un uomo per Dio, ma è l’amore di Dio per tutti gli uomini.

000-bergsonschede2_5448dab860cd6Attraverso Dio, per mezzo di Dio, egli ama tutta l’umanità di un amore divino. Non è la fraternità che i filosofi hanno raccomandato in nome della ragione, prendendo lo spunto dal fatto che tutti gli uomini all’origine fanno parte di una medesima natura raziocinante: davanti a un ideale così nobile ci si inchinerà con rispetto; ci si sforzerà di realizzarlo se non è troppo d’impaccio all’individuo e alla collettività, ma non vi si aderirà con passione.

Oppure vorrà dire che si sarà respirato in qualche angolo della nostra civiltà il profumo inebriante che vi ha lasciato il misticismo.

Forse che gli stessi filosofi avrebbero posto con tanta sicurezza il principio, così poco conforme alla esperienza normale, dell’eguale partecipazione di tutti gli uomini a una natura superiore, se non vi fossero stati dei mistici che abbracciano l’umanità intera in un solo indivisibile amore?

Non si tratta dunque della fraternità di cui i filosofi hanno costruito l’ideale per fame un ideale.
E non si tratta neppure della intensificazione d’una innata simpatia dell’uomo per l’uomo.
Ci si può anche chiedere se un tale istinto sia mai esistito all’infuori dell’immaginazione dei filosofi, dove si è formato per ragioni di simmetria.
Dato che famiglia, patria, umanità si presentano come cerchi sempre più larghi, si è pensato che come l’uomo ama la propria famiglia e la propria patria, doveva naturalmente amare anche l’umanità, mentre in realtà il raggruppamento familiare e quello sociale sono i soli che la natura abbia voluto, i soli ai quali corrispondano degli istinti, e gli istinti sociali porterebbero gli uomini a lottare fra di loro piuttosto che a unirsi per costituire effettivamente l’umanità. Tutt’al più il sentimento sociale e familiare potrà accidentalmente sovrabbondare ed essere riversato oltre le frontiere naturali per lusso e per gioco: ma non se ne andrà molto lontano.

Ben diverso è l’amore mistico dell’umanità.

Non si allarga in virtù di un istinto, non deriva da un’idea. Non appartiene né al sensibile, né al razionale. È implicitamente l’uno e l’altro ed effettivamente assai di più. Perché un tale amore è alla radice stessa della sensibilità e della ragione, come di ogni altra cosa. Coincidendo con l’amore di Dio per la propria opera, amore che ha creato tutto, esso svelerebbe a chi sapesse interrogarlo il segreto della creazione.

Esso è di natura metafisica ancor più che morale.
Vorrebbe, con l’aiuto di Dio, condurre a termine la creazione della specie umana e fare dell’umanità ciò che essa sarebbe stata fin dal principio se avesse potuto costituirsi definitivamente senza l’aiuto dello stesso uomo.
O, per impiegare parole che dicono la stessa cosa in modo diverso: la sua direzione è quella stessa dello sforzo vitale; questo stesso sforzo è stato integralmente trasfuso in esseri privilegiati che vorrebbero imprimerlo all’umanità intera e, con una contraddizione realizzata, convertire in sforzo creatore e trasformare in movimento ciò che per definizione è un arresto.

Riuscirà? Se il misticismo deve trasformare l’umanità, non potrà farlo se non trasfondendo da uomo a uomo, lentamente, una parte di sé.
I mistici ben lo sanno.

Il grande ostacolo che essi incontreranno è lo stesso che ha impedito di creare una umanità divina: il peccato. L’uomo deve guadagnarsi il pane con il sudore della fronte; in altre parole, l’umanità è una specie animale, sottoposta perciò alla legge che regge il mondo animale e condanna l’essere vivente a pascersi del vivente.
Il proprio mantenimento essendogli disputato dalla natura in generale e dai propri simili, esso compie naturalmente ogni sforzo per procurarselo, la sua intelligenza è fatta per fornirgli armi e utensili per affrontare questa lotta e questo lavoro.

Come potrebbe l’umanità, in queste condizioni, volgere verso il cielo un’attenzione essenzialmente attratta dalla terra? Se ciò è possibile, non potrà avvenire che mediante l’impiego simultaneo o successivo di due metodi diversissimi.

Il primo consisterebbe nell’intensificare a tal punto il lavoro intellettuale, portando l’intelligenza al di là di come la natura l’aveva voluta, da far sì che il semplice strumento ceda il posto a un immenso sistema di macchine capaci di liberare l’attività umana, consolidando tale liberazione attraverso una organicità politica e sociale che garantisca alla meccanizzazione la sua vera meta.
Mezzo pericoloso, perché la meccanizzazione, sviluppandosi, potrà rivolgersi contro la mistica: anzi la meccanizzazione si svilupperà vieppiù in apparente reazione ad essa. Vi sono rischi che si debbono affrontare: un’attività superiore, che ha bisogno di un’attività inferiore, dovrà suscitarla o almeno lasciarla fare, salvo difendersi in caso di bisogno…
Comunque sia, questo mezzo non poteva essere utilizzato che assai più tardi, e nel frattempo v’era da seguire un ben diverso metodo. Non era già da immaginare un’immediata propagazione generale dello slancio mistico, evidentemente impossibile, bensì di comunicarlo, benché già affievolito, a una ristretta cerchia di privilegiati che insieme avrebbero formato una società spirituale; le associazioni di questo genere potrebbero moltiplicarsi; così si conserverebbe, anzi si prolungherebbe lo sforzo, fino al giorno in cui un mutamento profondo delle condizioni materiali imposte dalla natura all’umanità permetterebbe una radicale trasformazione dell’elemento spirituale.

Questo è il metodo che i grandi mistici hanno seguito.
È per necessità, e perché non potevano far di più, che essi dedicarono le proprie esuberanti energie soprattutto alla fondazione di conventi od ordini religiosi. Essi non dovevano guardare più lontano, per il momento.

Lo slancio d’amore che li portava a elevare l’umanità fino a Dio e a completare la creazione divina non poteva compiersi, a parer loro, che con l’aiuto di Dio, di cui erano gli strumenti. Ogni loro sforzo doveva quindi concentrarsi in un compito grandissimo, difficilissimo, ma limitato.
Altri sforzi si sarebbero dovuti compiere, così come altri erano già stati affrontati: tutti sarebbero stati convergenti, poiché Dio ne formava l’unità.

(Da: HENRI BERGSON, Les deux sources de la morale et de la religiotn. Parigi, Presse Univ. de France, 1958).


Dai colloqui del grande filosofo francese con Jacques Chevalier (vedi sopra) riportiamo un altro brano in cui Bergson narrando del suo “incontro” con i grandi mistici, mette a fuoco la loro importanza e come lo aiutarono a credere nella sopravvivenza dell’anima.

IL VALORE DEI GRANDI MISTICI

Racconto a Bergson la mia visita a Ortega y Gasset.

«Ricordo benissimo », mi dice, « d’averlo visto a Madrid durante la guerra, con Morente e Zaraguéta: lo trovai simpaticissimo, come i suoi due colleghi, quantunque fosse di formazione tedesca. Uno di loro, Morente mi pare, mi diceva: “Il nostro paese ha brillato nelle arti, ma non nella filosofia; ci dispiace molto non poter annoverare alcun filosofo degno di questo nome”. “Ma voi avete nella mistica la più alta filosofia”, gli risposi, ”e i vostri grandi mistici, santa Teresa, san Giovanni della Croce, hanno raggiunto d’un balzo ciò che noi filosofi ci sforziamo vanamente di raggiungere” »…

000-bergsonschede3_5448dc1f959ffDico a Bergson ciò che ho narrato a Ortega, cioè ch’egli aveva ‘‘ritrovato” Dio grazie ai mistici spagnoli.

« A dire il vero », replica Bergson, « non ho mai abbandonato Dio. Ma possedevo solo uno spiritualismo assai vago. M’era necessario trovare prove, ragioni di credere in Dio. Santa Teresa e san Giovanni della Croce mi misero sulla strada buona: essi si completano mirabilmente l’un l’altro; san Giovanni della Croce è soltanto in apparenza più intellettuale, ma ha la medesima ispirazione. Essi m’orientarono verso la morale. Quando si venne a saperlo, un americano mi scrisse: “Bravo professore! State dunque per darci qualcosa di meglio del Discorso della montagna”. Come se il Discorso della montagna non avesse già detto tutto, e tutto in esso non fosse contenuto!

Ma, grazie ai mistici, trovai il fatto, la storia, il Discorso della montagna. Trovata la prova, la mia scelta fu stabilita. Non credo che la natura umana sia trasformabile: anche negli intellettuali il fondo di essa è l’invidia.
Ma il cristianesimo ha piegato questa natura: e se l’umanità può essere salvata, solo questo può salvarla.

Attualmente siamo in balìa d’una catastrofe interiore ed esteriore che vota l’umanità alla distruzione totale: è infatti la rabbia di distruzione che caratterizza quest’opera satanica…
Insomma, per dirvi in breve il mio pensiero, non è che la morale sia ancora da trovare, ma solo da spiegare. Essa è stata data all’uomo dal Discorso della montagna»…
« Non c’è stata in me conversione nel significato di illuminazione improvvisa. Sono giunto lentamente a idee che probabilmente non erano mai state del tutto lontane da me, ma delle quali non avevo piena coscienza e di cui non mi preoccupavo. Vi arrivai a poco a poco.

Vi fu tuttavia uno scatto: la lettura dei mistici…
Il caso volle che facessi la conoscenza di piccoli mistici.

Ricevetti le confidenze di persone che, senza aver avuto da Dio particolari rivelazioni, hanno certamente superato, quanto a intuizione, il punto a cui può giungere la media degli uomini: cosi avvenne per la signora Semer, della quale m’aveva parlato l’abate Klein in occasione d’un incontro avvenuto in casa di Anatolio Leroy- Beaulieu a un ricevimento della Scuola di scienze politiche nel 1912.
Conobbi poi quella signora, il cui vero nome era Rémès, ed ella mi fece alcune confidenze.
Dopo la sua morte l’abate Klein venne a conoscenza delle sue esperienze intime, e sapendo che l’avevo conosciuta venne a trovarmi per parlarmi di lei…
« Mi venne confidata la sua storia. Rimasi profondamente colpito da ciò che v’era di meraviglioso in quel caso: una donna estranea, e persino ostile a ogni religione, che, un bel giorno, aveva visto tutta la verità, che l’aveva vista nel senso proprio, non per ragionamento, non in maniera astratta, ma come un fatto concreto.
Conobbi altri casi simili, ma meno accentuati.
Queste furono le ragioni accidentali della mia lettura dei mistici.

« Ma la ragione vera, credo, fu che a un certo momento mi resi conto che col Vangelo si è avuto un taglio netto, l’inizio d’un mondo nuovo, che il cristianesimo ne è il risultato, e che la sua diffusione nel mondo civile aveva costituito un rinnovamento dell’anima umana. Impossibile, mi dicevo, che un effetto cosi grande sia risultato semplicemente dalla diffusione di cose scritte.
Bisogna che certuni abbiano visto ciò che era accaduto.
Mi chiesi se a costoro non appartenessero i grandi mistici.
Essi hanno ricominciato, in una certa misura, la vita di Cristo, ma non, se cosi posso dire, come ”ricominciatori’’, bensì come “imitatori”; imitatori e continuatori originali, ma incompleti, di ciò che fu, in completezza, il Cristo dei Vangeli, colui che prese su di sé i peccati e le sofferenze di tutto il genere umano.
E avevano potuto imitarlo perché qualche indefinibile privilegio aveva permesso loro di vedere, in una certa misura, ciò che Cristo aveva veduto e vissuto. Ebbi di ciò un’idea più chiara a cose fatte, però lo compresi sin da principio.

« Vedevo, inoltre, che la diffusione del cristianesimo era la diffusione non soltanto di una dottrina, ma di uno stato d’animo e, più specificamente, d’una carità che si esprime attraverso le azioni. Si rimane sorpresi di costatare che tanta gente vede chiaro ma non agisce in conformità. Coloro, però, che hanno realmente visto hanno agito…
« Non sono arrivato a Dio approfondendo le classiche prove dell’esistenza di Dio. Vedo ora come queste prove possono confermare, precisare una convinzione già acquisita. Ma la convinzione non si raggiunge così.

« Santa Teresa, san Giovanni della Croce m’han fatto comprendere questo stato indefinibile (si cerca invano di definirlo, si accumulano parole senza approdare a nulla): stato di gioia, ma non nel significato comune della parola; non la rinunzia, ma la gioia (è il termine che permette di avvicinarsi di più), il sentimento, che non può essere illusorio, di una comunione, di un contatto con la divinità; una sensazione, o meglio uno stato d’animo che s’accompagna in maniera tangibile a un’intelligenza molto più profonda delle cose: se si può parlare ancora d’intelligenza, perché il ragionamento non c’entra per nulla.

« Fui cosi portato a concludere che il vero superuomo è il mistico.
Però all’inverso di ciò che ha visto Nietzsche.
La volontà di potenza esiste, ma non assolutamente nel senso in cui egli la considera. Il mistico ha la volontà del superumano; si sente — e ha ragione di sentirlo – infinitamente al di sopra della media degli uomini; ma non ne trae motivo alcuno d’orgoglio, perché sente che da solo non sarebbe nulla. Cosi unisce a un infinito orgoglio una infinita umiltà.
Il Cristo, poi, è più ancora di ciò.
Ma bisognerebbe, per poterlo esprimere, essere uno storico, un teologo come padre Pouget (1), che sarebbe riuscito a rendere religiosa un’anima priva di qualsiasi religione. Mi colpisce l’azione di presenza che esercitano, come nei processi di catalisi, gli uomini simili a lui e fa sì che accanto a loro, e dopo di loro, certe cose, prima abituali, divengano impossibili»…

Poiché chiedevo a Bergson se non era arrivato alla sopravvivenza dell’anima prima di giungere a Dio, mi rispose:
« Sì. Fin dal 1896 ero giunto a credere nella sopravvivenza come conclusione del mio libro Materia e memoria, al quale m’ero dedicato dopo il Saggio sui dati immediati della coscienza, e anche prima della pubblicazione del Saggio. Ma, al principio, la sopravvivenza dell’anima mi apparve indipendente da ogni religione. Mi rendevo conto che la religione potrebbe invocare i fatti che anch’io invoco, ma la sopravvivenza non mi appariva come esclusivamente religiosa.
La religione – di ciò ero allora convinto – implica il credere nella sopravvivenza, ma non l’inverso.
Per arrivare all’immortalità, la filosofìa non basta, bisogna ricorrere alla Rivelazione che ci mostra nell’anima qualcosa dell’essenza divina destinata a una vita, se non proprio coeterna a quella di Dio, almeno capace di prolungarsi indefinitamente.
In altri termini, in ciò che andavo esponendo, vedevo un mezzo di parlare del prolungarsi dell’esistenza oltre la morte o, se preferite, della sopravvivenza: si può dunque e si deve, come filosofi, parlarne.
Ma l’immortalità è qualcosa di più. Non si può ricorrere ad alcun fatto, ad esperienza alcuna. E la fede, quella Fede soltanto che, in seguito alla Rivelazione, può darci la credenza precisa nell’immortalità…».

Bergson entra nella via delle confidenze. Depongo la matita, ed egli aggiunge (ricordo testualmente certe sue espressioni):
«Mi rimprovero talvolta di unire a questa speranza un sentimento troppo personale. Il fatto è che la perdita della motilità e la sofferenza che me n’è derivata mi fanno considerare ancor di più la morte come una liberazione, e me la fanno desiderare e attendere».
«Ma», gli dico, «è il distacco». E aggiungo: «Credo che lassù ci si riconoscerà».

Mi fa ripetere, tendendo l’orecchio, perché ha creduto ch’io volessi dire che ci si riconoscerà gli uni gli altri, e risponde: « Si riconoscerà se stessi, certamente. Gli altri? Lo spero. A meno che, non avendone più il desiderio, non se ne abbia più il rimpianto. Sussisteranno gli affetti nell’aldilà? ».
« Sicuramente », gli dico. « Si arriva a Dio attraverso l’amore ».

« Certo », replica Bergson, « non attraverso l’intelligenza. Ma forse l’amore di Dio ci basterà ».
« No », aggiungo, « Dio ci unisce a Lui senza assorbirci ».
« Questo è vero », risponde.
« Il panteismo, del resto, non mi ha mai attratto, neppure al tempo in cui non m’ero ancora sbarazzato del materialismo. Fichte, che dovetti studiare per gli esami di concorso, non mi piaceva. Fra i tedeschi mi piaceva solo Schopenhauer, senza dubbio perché s’è nutrito degli psicologi francesi e inglesi… Ma, per tornare a noi, che ne dice la teologia cattolica? ».
« Essa proclama la comunione dei santi, chiede di pregare per i morti, afferma che le anime si amano e si riconoscono in Dio ».
« Sì », egli mi dice profondamente commosso, « ritrovare coloro che abbiamo amato»…

Note

1) Padre Guillaume Pouget, lazarista, biblista, teologo e filosofo – 1847 + 1933

(Da: JACQUES CHÉVALIER, Entretiens avec Bergson. Parigi, Plon, 1959. – F.M.C.)