Perché il digiuno è così importante?
L’anno della mia Cresima, il catechista consigliò a noi cresimandi di digiunare soprattutto da noi stessi. All’epoca però non approfondì la questione, perché ero adolescente e tutto quello che mi interessava era finire col catechismo settimanale e basta… Adesso però che ho deciso di prendere sul serio la Fede, vorrei saperne un po’ di più. Come posso, durante questa Quaresima, digiunare da me stesso?
Piero G.
***
il consiglio del catechista fu saggio perché digiunare da “noi stessi” non è certo cosa facile anzi, direi che per un adolescente (e purtroppo anche per un adulto) è più facile digiunare da un panino con prosciutto anziché stare lì a meditare su questo “noi stessi” e di conseguenza alle parole di Gesù: ” Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare..” (Lc.17,10).
Come sarebbe a dire “servi inutili?” Non sembra forse che il Signore ci stia sotto-stimando
Senza dubbio Gesù si esprime con usi, parole e costumi del suo tempo in cui, la figura del padrone e del servo, occupano molte pagine dei Vangeli. Gesù è l’immagine del Padrone, assume su di sé dei ruoli chiave per attirare le folle che a quei tempi erano abituati a questa condizione di servi. Ma poi Gesù – che non era venuto per abolire la legge ma per portarla a compimento – stravolge questi ruoli che rendevano l’uomo schiavo dell’uomo potente e trasforma questa autorità in servizio (Gv.13,5).
Gesù assume così la relazione tra padrone – servo e la pone come modello di servizio evangelico, di obbedienza verso Dio.
L’autorità non può essere evitata o eliminata ma Dio è il Signore e il padrone che poi, come sappiamo, Gesù ci insegnerà a chiamarlo “Padre”. Dunque noi siamo i suoi servi. Lui comanda. Noi obbediamo. Lui vuole. Noi eseguiamo.
Ma in questo rapporto Gesù non ci vuole come dei robot incapaci di capire, sudditi costretti o obbligati. Lui ha detto: “Vi ho dato infatti l’esempio, perché come ho fatto io, facciate anche voi.” (Gv.13,15)
L’obbedienza, l’ascolto, l’esecuzione di ogni ordine ricevuto è essenza, sostanza, natura della nostra relazione con Lui. In questo rapporto, nulla viene da noi. Tutto invece deve viversi con grande obbedienza. Non per un giorno o per una sola azione. Bensì per tutta la vita.
Ma l’obbedienza di cui parliamo è dovuta con assoluta gratuità, ossia, questo eccelso Padrone nulla deve – come pretesa di diritto – al servo per la sua obbedienza. Questa è nella natura del rapporto. Il padrone comanda. Il servo obbedisce. Il padrone dice. Il servo fa. Il servo non è un salariato o un bracciante a giornata che alla sera ha diritto alla sua ricompensa. La ricompensa del servo è la sua stessa obbedienza, l’ascolto del suo padrone. Questo ha fatto Gesù in qualità di Figlio del Padre: ” umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce“. (Filip.2,8)
Dice San Gregorio Magno nel Commento al Cantico dei Cantici:
” Bisogna notare che nella Scrittura il Signore definisce se stesso talvolta signore, talvolta padre, talvolta ancora sposo. Si fa chiamare signore quando vuole incutere timore, padre quando chiede onore, sposo quando vuol essere amato. Per bocca del profeta dice: Se sono il Signore, dov’è il timore che m’appartiene? E se io sono padre, dov’è l’onore che m’è dovuto? E ancora: Ti ho resa mia sposa nella giustizia e nella fedeltà….”
Quindi, in sostanza quel “digiunare a noi stessi” non significa altro che esercitarci – in questo Tempo di grazia che è la Quaresima – a riconoscere che non siamo abbandonati a noi stessi, che non siamo padroni di nulla e che il Signore si attende da noi il legittimo riconoscimento alla Sua sudditanza ma, attenzione, non come un atto triste e dove il “servo non sa quello che fa il suo padrone” (Gv.15,15) al contrario, al verso 14 ha anche detto: ” Voi siete miei amici, se farete ciò che io vi comando…”
Il “servo di Dio” allora, è colui che vive la propria vita cercando di soddisfare i desideri del Signore Dio e per arrivare a questa consapevolezza è necessario, come insegnano i santi, morire a se stessi, riconoscersi “servi inutili” poichè tutto ciò che di buono faremo non viene da noi, ma da Dio ed il male che compiamo è frutto del nostro allontanamento da Lui, è la disobbedienza ai suoi comandi che ci sono dati per amore. Per mettere riparo a tutto ciò si parte appunto con un senso profondo: la penitenza. Questa “penitenza” (che è entrata persino nei giochi dei fanciulli quando si perde al gioco) è un punto di partenza fondamentale perchè da origine dentro di noi al senso e al grado di giustizia che riconosciamo quale attributo divino. Uno sguardo sui miracoli compiuti da Gesù descritti nei Vangeli, ritroviamo spesso questa parola. Se facciamo penitenze riconosciamo in noi delle mancanze alle quali dobbiamo in qualche modo provvedere.
La Vergine Maria ci da l’esempio di come avviarci su questa strada.
La sua obbedienza al Progetto di Dio in lei nell’Incarnazione, non avviene in modo automatico. Nel racconto di Luca leggiamo un dialogo bellissimo fra l’Arcangelo Gabriele e la Vergine Maria. Maria pone domande non perchè dubita, ma perchè aveva in mente di fare una sua offerta personale a Dio, aveva una sua idea che farà confluire nella richiesta di Dio, così Dio irrompe nella sua vita e le chiede l’impossibile. L’impossibile perchè Maria si era già offerta, cuore ed anima, al suo Dio e non aveva certo idea di “come avverrà questo?”. Dio allora rispetta la vocazione di Maria ed anzi, le da già il centuplo, la rende Madre di Dio rispettando la sua scelta verginale, in un certo senso da vita e senso alla sua vocazione portandola a compimento come Lui voleva.
Ora, se è vero che Maria è il caso unico, è anche vero che il suo “fiat” è stato trasmesso anche a tutti noi. Lei ha ricevuto l’Incarnazione divina, noi possiamo incarnare in noi la Parola con il nostro libero “fiat”.
Maria ha messo da parte i suoi progetti per far spazio, totalmente, al Progetto di Dio “meditando nel suo cuore”, così dobbiamo fare anche noi: digiunare da noi stessi, dai nostri progetti, dai nostri desideri per far posto a quelli di Dio in noi, meditando nel nostro cuore questo incontro e rapporto con Dio.
Allora non dobbiamo avere desideri, sogni, progetti? Non proprio, Gesù ci promette il centuplo se lo seguiremo, ci da degli “incentivi” e sarebbe da stolti rinunciare… Non si tratta di non avere sogni, progetti o desideri, al contrario, questi li avremo sempre, quello che ci viene chiesto è di mettere al servizio di Dio tutto ciò che noi sogniamo, desideriamo o progettiamo, eccolo il nostro autentico “fiat” e quel fiat che diciamo nel Pater Noster: “sia fatta la tua volontà, come in cielo, così in terra”.
Digiunare a noi stessi diventa allora la nostra vera offerta a Dio Padre.
San Francesco d’Assisi attese due lunghi anni, dalla conversione, per capire cosa volesse da lui il Signore. Ogni giorno il Santo sostava in ginocchio e supplicante davanti al Crocefisso chiedendo: “Signore, cosa vuoi da me? Cosa vuoi che io faccia?” Il Signore l’aveva convertito, ma non gli aveva ancora detto cosa voleva da lui, la sua “quaresima” durò molto tempo nel quale egli attese con fiducia come e quando e dove attenersi ai compiti che il Signore gli avrebbe poi dato, nel frattempo si occupava dei poveri, dei lebbrosi, della carità…. e pregava intensamente.
Anche Santa Caterina da Siena (tanto per citare i due Patroni d’Italia) attese per certo tempo cosa dovesse fare, ogni giorno chiedeva al Signore in preghiera quale fosse il progetto di Dio su di Lei. Eppure sappiamo quale inaudito compito fu affidato a colei che si definiva “serva inutile”, le fu affidato il compito di riportare a Roma il Papa dopo la cattività avignonese durata settanta anni.
In attesa di questo compito non se ne stette con le mani in mano, al contrario, ella preparava il corpo, l’anima, la mente e il cuore, ad essere esecutrice dei comandi di Dio pregando, digiunando, compiendo grandi opere di carità. Con la peste che mieteva vittime, ella si prodigava nel soccorso ai moribondi senza preoccuparsi di venirne contagiata, si occupava dei poveri che bussavano alla sua casa, li andava cercando lei per dare soccorso, andava nelle carceri per portare sollievo e molti ne convertiva…. Viveva e partecipava alla vita sociale della Città non come politicante o come aggregata ad un partito, il suo “partito” era Dio, la santa Chiesa; la sua bandiera era “il vessillo della Croce”, la Costituzione alla quale obbediva era il Vangelo, i Dieci Comandamenti e tutto svolgeva con entusiasmo.
Come possiamo digiunare, allora oggi, a noi stessi?
Non dobbiamo scimmiottare i Santi! Dio ci ha creati quali soggetti unici ed irripetibili. Restando noi stessi possiamo e dobbiamo però fare ciò che loro hanno fatto, ognuno secondo ciò che siamo e possiamo fare. Dio non ci chiede l’impossibile, perché l’impossibile lo compie Lui!
Iniziamo allora a digiunare dalle nostre prerogative, dalle nostre aspettative cercando di incarnare in noi quella Parola che ci rivelerà il Suo progetto su ognuno di noi, le sue aspettative chiedendo a noi, così ben disposti, di esercitare quel mandato che abbiamo ricevuto con il Battesimo e poi con gli altri Sacramenti.
Pensiamo a San Padre Pio da Pietralcina e alla beata Madre Teresa di Calcutta, leggiamo queste storie di Santi in questo Tempo di Quaresima, due ruoli diversi: uno chiuso dentro un convento, l’altra missionaria nel mondo, ma entrambi – digiunando a loro stessi – hanno saputo tradurre in opere i progetti di Dio.
Digiunare a noi stessi così non è pesante, al contrario, veniamo immersi in una gioia incontenibile che si tradurrà in opere che tutti potranno vedere.
Concludo con le parole di Benedetto XVI:
“Prima si pensava e si credeva che, accantonando Dio ed essendo noi autonomi, seguendo solo le nostre idee, la nostra volontà, saremmo divenuti realmente liberi, potendo fare quanto volevamo senza che nessun altro potesse darci alcun ordine. Ma dove scompare Dio, l’uomo non diventa più grande; perde anzi la dignità divina, perde lo splendore di Dio sul suo volto. Alla fine risulta solo il prodotto di un’evoluzione cieca e, come tale, può essere usato e abusato. È proprio quanto l’esperienza di questa nostra epoca ha confermato. Solo se Dio è grande, anche l’uomo è grande” (Omelia per la Messa nella solennità dell’Assunzione della Beata Vergine Maria, 15 agosto 2005).
Sia lodato Gesù Cristo.
La Quaresima è un “tempo forte di conversione e digiuno”, insegna la Chiesa cattolica. Allora perché, negli ultimi anni, nelle parrocchie si insiste solamente con la “carità”, cioè con l’aiutare il povero, però in un modo più filantropico che cristiano. Non voglio fare polemiche, ma chi vuole fare del volontariato sociale si rivolta ad una ONG, durante la Quaresima invece pensi alla propria anima. Grazie.
Adriana R.
***
Carissima Adriana,
basterebbe ascoltare i tanti moniti del santo Padre Francesco, contro una carità filantropica, contro una Chiesa ridotta ad una istituzione umana ONG, per comprendere le deviazioni intraprese dentro la Chiesa. Ma non dobbiamo chiuderci in questi errori i quali erano già pienamente vissuti e condannati nelle prime comunità cristiane, così come leggiamo nelle Lettere apostoliche e di Paolo inserite nel Canone del Nuovo Testamento.
Non si tratta dunque degli “ultimi anni”, ahimè questa tentazione ci accompagna da duemila anni, ma sempre i Papi l’hanno condannata. Non dobbiamo poi dimenticare che la Parrocchia nasce (il suo termine è già in uso nel primo secolo) proprio come punto di aggregazione per i fedeli non soltanto per ricevere la catechesi, la dottrina e i Sacramenti, ma anche per ricevere del bene materiale.
Questa caratteristica fu talmente vincente che non pochi scrittori storici hanno saputo descrivere che in tempi di carestie e di crisi economiche, soltanto nella Chiesa non si moriva di fame perché i poveri, benché poveri, potevano ricevere quel minimo di fabbisogno quotidiano ritemprando corpi ed anime.
Le stesse “foresterie” in ambienti monacali del primo Millennio, sorsero proprio con questo specifico compito attraverso il quale i due cibi venivano dati insieme: il cibo della Parola e dei Sacramenti (specialmente la Confessione e l’Eucaristia) e il cibo per il corpo, ma spesso venivano soccorsi anche i pagani ai quali non si imponeva loro una immediata conversione per ricevere aiuti materiali.
I famosi “ostelli” oggi tanto di moda, nacquero nel 1300 dopo la prima indizione dell’Anno del Giubileo. In questi ostelli si ricevevano i pellegrini i quali erano più poveri che ricchi a pagamento e che non andavano a Roma a fare turismo, ma per acquistare le indulgenze. In questi ostelli il pellegrino trovava così alimenti per l’anima e per il corpo.
Certo non possiamo fare solo una descrizione idilliaca a tal punto da doverci rammentare i motivi per cui Martin Lutero poté attaccare, indiscutibilmente, la profanazione delle indulgenze a pagamento… questo tanto per rendere l’idea che in ogni tempo c’è chi ha abusato della pazienza di Dio e delle opere sante della Chiesa.
Chiarito questo, dove si annida oggi il problema?
Veramente è il Papa stesso che lo sta descrivendo in molte occasioni….
“La Chiesa non è un’organizzazione burocratica, è una storia di amore. Le letture del giorno raccontano le vicende della prima comunità cristiana che cresce e moltiplica i suoi discepoli. Una cosa buona – osserva il Papa – ma che può spingere a fare “patti” per avere ancora “più soci in questa impresa”. Invece, la strada che Gesù ha voluto per la sua Chiesa è un’altra: la strada delle difficoltà, la strada della Croce, la strada delle persecuzioni … E questo ci fa pensare: ma cosa è questa Chiesa? Questa nostra Chiesa, perché sembra che non sia un’impresa umana. La Chiesa – sottolinea – è “un’altra cosa”: non sono i discepoli a fare la Chiesa, loro sono degli inviati, inviati da Gesù. E Cristo è inviato dal Padre..” (Omelia del mattino – 24.3.2013).
Ma cosa c’entra questo con il digiuno?
Una parte della risposta l’ho data al messaggio sopra, rispondendo a Piero, è da quel digiuno che dobbiamo iniziare a pensare in grande!
Oggi come oggi, soffocati quasi da una società edonista che pensa individualmente e pensa solo al proprio orticello, al proprio benessere, è importante ritornare a pensare in grande, a pensare come si pensava e si viveva nelle prime comunità cristiane descritte, per esempio, negli Atti degli Apostoli dove emerge non la disciplina dell’osservanza del digiuno personale, ma lo sviluppo armonico delle prime comunità che digiunavano dei propri averi per mettere il ricavato ai piedi degli Apostoli così che si potesse pensare ai più poveri e bisognosi:
“Erano assidui nell’ascoltare l’insegnamento degli apostoli e nell’unione fraterna, nella frazione del pane e nelle preghiere. Un senso di timore era in tutti e prodigi e segni avvenivano per opera degli apostoli. Tutti coloro che erano diventati credenti stavano insieme e tenevano ogni cosa in comune; chi aveva proprietà e sostanze le vendeva e ne faceva parte a tutti, secondo il bisogno di ciascuno. Ogni giorno tutti insieme frequentavano il tempio e spezzavano il pane a casa prendendo i pasti con letizia e semplicità di cuore, lodando Dio e godendo la simpatia di tutto il popolo. Intanto il Signore ogni giorno aggiungeva alla comunità quelli che erano salvati” (Atti 2, 42-48).
Il problema è che mentre “ieri” la carità aveva un stretto legame con la conversione e dunque veniva distribuita in conformità a quanti – convertendosi appunto – entravano a far parte della Chiesa, oggi si sta togliendo il riscontro alla conversione trasformando la carità in una esclusiva donazione materiale o materialista, non solo senza parlare più di Cristo quale vero elargitore d’ogni bene, ma lasciando che il povero, perchè povero, resti nella propria condizione di peccatore come se – il povero perchè povero – non avesse bisogno di convertirsi e che la sua situazione di povertà sarebbe quasi una implicita santificazione… o canonizzazione.
Certo, i poveri materiali hanno ed avranno sempre un posto speciale in Cristo, ma la povertà che ci rende santi è ben altra cosa e che la povertà materiale può arricchire, ma da sola non basta se mancasse la povertà del cuore.
Certo, la povertà materiale ci predispone più facilmente alla povertà del cuore, ma il punto è trovare sempre quell’equilibrio che non deve andare a discapito ne della carità materiale, ne della carità dottrinale.
Non dimentichiamo che le opere di misericordia non sono solo sette ma quattordici, divise in due gruppi di sette:
Le sette opere di misericordia corporale
Dar da mangiare agli affamati. Dar da bere agli assetati. Vestire gli ignudi. Alloggiare i pellegrini. Visitare gli infermi. Visitare i carcerati. Seppellire i morti.
Le sette opere di misericordia spirituale
Consigliare i dubbiosi. Insegnare agli ignoranti. Ammonire i peccatori. Consolare gli afflitti. Perdonare le offese. Sopportare pazientemente le persone moleste. Pregare Dio per i vivi e per i morti.
Da questo schema che possiamo approfondire con il Catechismo, riusciamo a giungere al cuore della tua domanda e trovare il giusto intendimento o orientamento.
Il punto è dunque questo:
le quattordici opere di misericordia non vanno disgiunte, non vanno separate e la “conversione e il digiuno” del Tempo quaresimale deve inserirsi all’interno delle quattordici opere di misericordia.
Il digiuno – che nasce come preparazione a disporci alle “cose di Dio” – se è fatto fine a se stesso non produce frutti che sono, appunto, le opere materiali. Così come un digiuno senza la conversione non produce nulla.
I problemi da te descritti nascono laddove il digiuno viene usato solo come atteggiamento personale, come ritualistico, come una tantum che si deve fare per sentirsi in ordine con la coscienza…. tanto per poter dire di aver “rispettato” una dottrina… in questo modo tal digiuno non ci servirà a nulla.
Ma anche un digiuno predicato senza spingere il fedele alla conversione a Cristo diventa inutile.
Dove mancano gli equilibri si arriva ai fanatismi, ai radicalismi, a quel fermarsi sulle parole dottrinali usate più come schemi che non quali atti indispensabili per una pratica equilibrata che porti il digiuno e la conversione a compiere le opere della fede.
Il volontariato, dunque, privato della sua essenza che è convertirsi a Cristo perchè non siamo padroni di nulla e tutto ciò che possiamo dare ci è stato dato perché a nostra volta lo doniamo, diventa speculazione, filantropia, ONG… Il vero cristiano infatti, quando dona o fa volontariato, sa perfettamente che di suo ci mette solo un atto di volontà nel farsi dispensatore della Provvidenza alla quale riconosce la padronanza di ogni bene che possiede.
E’ sbagliato parlare di “volontariato sociale”, perciò, se con questo ci si dissocia dall’opera “sociale” che è sempre stata della missione della Chiesa – leggasi tutto Matteo cap.25 – e che purtroppo oggi, tale termine, viene usato per indicare l’opera socialista-comunista nella falsa distribuzione dei beni. A tal proposito suggerisco l’approfondimento della Dottrina sociale della Chiesa iniziata magistralmente, come dottrina propria, dal grande Papa Leone XIII – vedi qui –.
Concludo queste riflessioni citando Benedetto XVI:
“All’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva” (Enciclica Deus caritas est, n. 1, 2005), a fronte di ciò ci è più comprensibile cosa significa “digiuno e conversione” in questo Tempo di grazia che è la Quaresima: trovare il tempo per ritirarci con Dio incontrato e trovare il tempo per comunicarlo al prossimo attraverso le opere di carità.
Ricorda Benedetto XVI nel suo Messaggio per la Quaresima del 2008:
” Secondo l’insegnamento evangelico, noi non siamo proprietari bensì amministratori dei beni che possediamo: essi quindi non vanno considerati come esclusiva proprietà, ma come mezzi attraverso i quali il Signore chiama ciascuno di noi a farsi tramite della sua provvidenza verso il prossimo. Come ricorda il Catechismo della Chiesa Cattolica, i beni materiali rivestono una valenza sociale, secondo il principio della loro destinazione universale (cfr n. 2404)… La preoccupazione del discepolo è che tutto vada a maggior gloria di Dio. Gesù ammonisce: “Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al Padre vostro che è nei cieli” (Mt 5,16). Tutto deve essere dunque compiuto a gloria di Dio e non nostra… (..) Ogni volta che per amore di Dio condividiamo i nostri beni con il prossimo bisognoso, sperimentiamo che la pienezza di vita viene dall’amore e tutto ci ritorna come benedizione in forma di pace, di interiore soddisfazione e di gioia.
Il Padre celeste ricompensa le nostre elemosine con la sua gioia. E c’è di più: san Pietro cita tra i frutti spirituali dell’elemosina il perdono dei peccati. “La carità – egli scrive – copre una moltitudine di peccati” (1 Pt 4,8). Come spesso ripete la liturgia quaresimale, Iddio offre a noi peccatori la possibilità di essere perdonati. Il fatto di condividere con i poveri ciò che possediamo ci dispone a ricevere tale dono. Penso, in questo momento, a quanti avvertono il peso del male compiuto e, proprio per questo, si sentono lontani da Dio, timorosi e quasi incapaci di ricorrere a Lui. L’elemosina, avvicinandoci agli altri, ci avvicina a Dio e può diventare strumento di autentica conversione e riconciliazione con Lui e con i fratelli.”
Sia lodato Gesù Cristo
Ho letto che, durante la Quaresima, ma pure durante tutto l’anno, una delle penitenze “preferite” di alcuni santi era la flagellazione. Onestamente, questo mi lascia perplesso. Mi pare più masochismo che penitenza. Sbaglio?
Benedetto, detto Tino, G.
***
Carissimo Benedetto, detto Tino,
qui entriamo in un campo che esula un po’ dal mio compito, entriamo nella mistica. Tuttavia posso aiutarti a capire che non si tratta di masochismo e spiegarti meglio questo genere di penitenza che non è da tutti e che deve essere lasciata anche nel mistero degli imperscrutabili disegni di Dio.
Non tutto può o deve esserci rivelato, Dio rivela a chi vuole e come vuole, a noi è richiesto l’atteggiamento di Maria Santissima, per esempio, la quale “meditava tutte queste cose nel suo cuore”.
Innanzi tutto non è che i santi “preferivano” farsi del male… l’uso del cilicio, o degli oggetti contundenti, o delle flagellazioni seguivano molto più semplicemente un iter di formazione personale che coinvolgeva l’anima prima ancora del corpo, e che sul corpo arrivava come mortificazione e non come un gioiello da esibire, infatti questi atti erano compiuti sotto severissimi consigli dei loro padri Confessori e spirituali i quali a volte li approvavano, altre volte le vietavano, altre volte le distribuivano a piccole dosi. C’era anche molta obbedienza per l’uso di queste pratiche.
Nel processo di beatificazione di san Giovanni Paolo II è emerso che egli stesso faceva uso del cilicio e che spesso veniva trovato a dormire per terra in segno di penitenza.
Il grande san Tommaso d’Aquino, uomo razionale e grande dottore della Chiesa, usava portare una cinta nel basso ventre, per mortificare gli istinti della carne….
Ma come si arriva a questi atti che a noi sembrano cose di un passato da dimenticare?
Il primo a mortificarsi nella carne è stato proprio Dio Incarnato. San Paolo spiega bene che la più grande e prima umiliazione di Dio è in quell’assumere la nostra carne mortale e corrotta, Lui! il Creatore della Madre che si rende bisognoso e Figlio di Colei che ha creato…. un mistero che manda in frantumi ogni cervello!
Una carne da purificare – la nostra e non la sua naturalmente che era incorrotta e senza peccato – nel momento in cui l’ha assunta su di Se, e che una volta venuta al mondo doveva anche sopportare la mortificazione della morte. E non di una morte naturale, ma violenta e ignominiosa quale è stata, appunto, quella del Cristo sulla Croce, l’Agnello puro e immacolato, senza colpa e senza peccato. Gesù va incontro alla Passione con la Sua libera scelta. Si lascia flagellare restando “muto come agnello condotto al macello”; si lascia crocifiggere, schernire, abbandona il corpo nelle mani degli uomini, rimanendo sempre padrone della Sua anima che riconsegnerà al Padre.
Sulla scia di tutto questo emerge nei Santi di Dio il desiderio di seguirlo in una radicalità che senza dubbio – e soprattutto oggi – ci è difficile comprendere. Cresce in loro l’esigenza di offrire a Gesù-Amore almeno un briciolo di ciò che possono sopportare quale mortificazione per Lui, con Lui ed in Lui. Perché essi stessi sanno bene che un atto senza di Lui non solo non gli piacerebbe e non lo accetterebbe, ma diventerebbe superbia, per questo i Santi che hanno fatto uso di questi gesti si attenevano scrupolosamente all’obbedienza dei loro Confessori.
San Domenico di Guzman, per esempio, Fondatore dell’Ordine dei Predicatori, usava il cilicio ma soprattutto offriva intere notti davanti al Santissimo, prostrato per terra, offrendo lacrime per la conversione dei peccatori.
San Giovanni Paolo II lo disse chiaramente in diverse occasioni: “la famiglia è minacciata! la famiglia è aggredita e il Papa deve soffrire…. non ha altre parole”, e questo grande Pontefice ha davvero sofferto molto per impetrare da Dio l’aiuto per le Famiglie.
Possiamo citare la Beata Caterina Emmerich che vivendo praticamente inchiodata a letto tutta la sua vita, disse che ciò era conseguenza ad una richiesta del Cielo: “soffrire per la conversione dei peccatori e per la Chiesa afflitta di domani…”, lei accettò di buon grado e attraverso questa oblazione diventerà la mistica che oggi conosciamo. E da qui anche l’offerta di coloro che inchiodati nel letto per una malattia, la offrono in oblazione e uniti al Sacrificio di Gesù per noi.
I Santi non usavano questi espedienti per un fine a se stesso, ma sempre in relazione al fatto che chi aveva patito prima di loro e più di loro restava Gesù Cristo al quale desideravano, senza superbia, unirsi con queste mortificazioni perseguendo l’insegnamento di san Paolo: “Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me. Questa vita nella carne, io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me.” (Gal.2,20), e ancora più esplicitamente: “Perciò sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi e completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo, a favore del suo corpo che è la Chiesa” (Colos.1,24).
Non c’è nulla da comprendere se non la grandezza interiore di queste Anime che nel fare ciò pensavano a noi, pensavano alle nostre anime da salvare. Non ci deve lasciare perplessi l’uso di queste cosiddette “discipline”, quanto piuttosto le nostre critiche spesse volte poco caritatevoli nei loro confronti. Pensiamo al digiuno per esempio, non lo facciamo forse perchè spinti dalla testimonianza di Giovanni il Battista o per il fatto che Gesù stesso digiunò quaranta giorni e quaranta notti (da qui si sviluppa il Tempo della Quaresima fatta appunto di quaranta giorni)? “Vi ho dato infatti l’esempio, perché come ho fatto io, facciate anche voi.” (Gv.13,15), in queste parole si sviluppa anche una radicale scelta nel fare non solo ciò che Lui ha fatto, ma anche ciò che Lui ha dovuto sopportare per noi! I Santi lo facevano – e lo fanno anche se sempre di meno – a partire senza dubbio per una mortificazione della propria carne, essi si riconoscevano peccatori e molti di loro erano anche afflitti dalle tentazioni quanto maggiormente salivano il grado della perfezione, ma lo facevano anche per impetrare da Dio la salvezza delle nostre anime. Certamente a Dio non interessa questa radicalità esteriore, ma di certo accetta con gratitudine l’offerta di se stessi a Lui mediante anche delle prove fisiche, così come ebbe a cuore l’immensa gratitudine del Figlio che – obbediente fino alla morte – berrà quel calice amaro fino in fondo, umiliandosi fino alla morte di croce.
Tanto per capirci e giungere ad una conclusione.
Pensiamo e rileggiamo alcuni passaggi nelle Apparizioni di Fatima che possiamo definire “magistero” ecclesiale per quanto esso è entrato nelle parole degli ultimi Papi. La Vergine Santissima fa delle richieste – apparentemente inaudite per noi oggi – a tre bambini: chiede loro di sacrificarsi, di compiere ogni sacrificio possibile, in riparazione ai Cuori di Gesù e Maria “tanto offesi”. Suor Lucia spiegherà che queste richieste, in un primo momento incomprensibili ai loro cuori innocenti, li trasformerà inondando i loro cuori di gioia immensa. Essa racconta come rimanessero senza acqua anche per due giorni per fare questi sacrifici per la conversione dei peccatori. Quando la Madonna fece vedere loro l’inferno e le anime che vi ci andavano, la loro paura fu tale che a volte si radunavano tutti e tre per escogitare quale sacrificio da compiere per soddisfare le richieste di mortificazione e di privazione. Sì, anche questi tre bambini portarono il cilicio!
La piccola Giacinta e Francesco con Lucia escogitarono delle funi fatte di ortica o di piccoli arbusti di rovi e che si legavano, di nascosto dei genitori, sotto ai vestiti. Nessun sacerdote aveva detto loro di fare questo! L’istinto sano che li muove è l’imitazione di Cristo nella Sua Passione perchè sapevano bene che solo Lui poteva salvare quelle anime. E quando Giacinta e Francesco comprendono che la Vergine Santa aveva loro predetto che sarebbero morti presto, non si rattristano affatto, ma anzi, si prodigano a compiere più sacrifici possibili per giungere al Cielo con un bel carico di opere sante da presentare a Gesù.
Di fronte all’annuncio della loro morte, non si rassegnano ad attenderla con le mani in mano, ma si danno da fare fino all’ultimo respiro.
Quando pensiamo a Fatima, purtroppo, siamo spesso attratti solo dal sensazionalismo delle Apparizioni e del Terzo Segreto, mettendo in ombra la vita di queste tre Anime ordinarie rese eccezionali dall’obbedienza e dalla propria fantasia di piacere a Gesù affidandosi completamente alla Madonna.
Dobbiamo dunque flagellarci per piacere a Gesù?
Certo che no! sarebbe superbia e pure ipocrisia. Questi tre bambini di Fatima non hanno smesso di vivere l’ordinarietà, erano ordinari ma lasciandosi formare dall’evento straordinario che vissero donandosi gratuitamente a Gesù per mezzo di Maria, così come i loro cuori e i loro corpi potevano fare, dimostrando per altro molta creatività nei loro doni, entusiasmo, gioia.
Così di molti Santi, solo dopo la loro morte si è saputo cosa facessero del proprio corpo nel chiuso delle loro celle.
Gesù non ci chiede l’impossibile, non ci chiede una sofferenza masochista, ma gratuità nel seguirlo anche in ciò che Lui ha passato per noi che, naturalmente, potremo risolvere con i digiuni, con frequenti confessioni, con il combattere seriamente i nostri vizi…. frequentando la Messa più spesso rimanendo in adorazione del Santissimo. Imitazione non significa scimmiottare o fare il mimo…
Una cosa è certa: maggiore sarà la nostra mortificazione quale atto gratuito unito alla Passione del Cristo, maggiori saranno le consolazioni e le grazie del Cielo. Nel fare questo è consigliabile avere sempre un sacerdote spirituale, un Confessore, che possa guidarci e aiutarci e a lui obbedire a ciò che ci dirà di fare quale convenienza al nostro stato.
Siamo grati perciò a queste Anime, siamo a loro grati nella meravigliosa Comunione dei Santi che invochiamo – forse in modo distratto – nel Credo!
Sia lodato Gesù Cristo
sempre sia lodato
Riflessioni del testo anche in video catechesi:
TUTTO QUANTO ABBIAMO DETTO, deve intendersi con quanto segue:
A che servono i digiuni e le penitenze? Ad espiare i peccati? Ma non li ha già espiati Nostro Signore?
Quesito
Grazie Padre Angelo,
le domando qualcosa sul valore del digiuno che Gesù ha praticato e che viene richiamato a Medjugorje.
E’ per espiare i peccati? (I Peccati non vengono perdonati con la confessione? Le pene non vengono rimesse con le indulgenze?)
E’ per patire il nostro limite della carne e ricordarci di che siamo fatti?
E’ per partecipare della grazia altrui? (Come l’indemoniato di cui sopra?)
Come si vive il digiuno per essere gradito a Dio?
Non vorrei digiunare quando lo sposo è con me.
Magari domani mi arriva una situazione particolarmente sgradita nella mia vita e so che lì stando ai piedi della croce vivrò il mio digiuno più importante.
Scusi le domande, ma questi sono temi che dopo il Concilio mi sembra si vivano poco o niente come le penitenze corporali.
Sembra siano destinati a pochi strani nostalgici di forme arcaiche e ormai inutili.
Che il Signore la benedica
Luca
Risposta del sacerdote
Caro Luca,
1. i nostri peccati non vengono espiati dai nostri digiuni e neanche dalle nostre penitenze, ma dalla passione e dalla morte di Cristo.
I nostri digiuni e le nostre penitenze non aggiungono nulla al sacrificio di Cristo che ha un merito infinito.
Sono però necessari perché gli effetti del sacrificio di Cristo possa essere applicati a noi.
Non basta che nella dispensa ci sia tutto ciò che è necessario per non morire di fame. Si richiede anche che noi prendiamo di lì quanto ci è necessario.
2. Nell’enciclica Mediator Dei Pio XII scrive: “Mentre moriva sulla Croce, Cristo donò alla Sua Chiesa, senza nessuna cooperazione di essa, l’immenso tesoro della Redenzione; quando invece si tratta di distribuire tale tesoro, Egli non solo comunica con la Sua Sposa incontaminata l’opera dell’altrui santificazione, ma vuole che tale santificazione scaturisca in qualche modo anche dall’azione di lei” (EE 6, 193).
Pertanto la necessità dei digiuni e delle penitenze non si trova nella linea della causa efficiente dell’espiazione dei peccati.
Questi sono stati espiati tutti una volta per sempre da Cristo.
La necessità dei digiuni e delle penitenze si richiede invece da parte del soggetto perché possa applicare a sé i tesori della Redenzione.
Un esempio: perché la macchina corra non basta che ci sia il serbatoio pieno di benzina, ma è necessario anche che si pigi l’acceleratore.
E più lo si pigia, più la macchina corre.
Allora nella misura in cui è maggiore la nostra partecipazione alla passione e morte del Signore, più profonda è anche la purificazione e la santificazione che riceviamo nelle nostre anime.
È in questo senso che San Paolo scrive: “Ora io sono lieto nelle sofferenze che sopporto per voi e do compimento a ciò che, dei patimenti di Cristo, manca nella mia carne, a favore del suo corpo che è la Chiesa” (Col 1,24).
3. Pertanto che cosa manca ai patimenti di Cristo?
Oggettivamente niente. È stata abbondante, anzi sovrabbondante.
San Tommaso nell’Adoro Te devote dice che una sola goccia del Sangue di Cristo sarebbe stata sufficiente per liberare tutto il mondo dai peccati.
Soggettivamente, invece, e cioè da parte nostra è necessario che noi apriamo la porta.
E quanto più la apriamo, tanto maggiormente facciamo scorrere in noi e nella Chiesa i tesori della redenzione.
Per questo Pio XII dice ancora: “Mistero certamente tremendo, né mai sufficientemente meditato: che cioè la salvezza di molti dipenda dalle preghiere e dalle volontarie mortificazioni, a questo scopo intraprese dalle membra del mistico Corpo di Gesù Cristo, e dalla cooperazione dei Pastori e dei fedeli, specialmente dei padri e delle madri di famiglia, in collaborazione col divin Salvatore” (EE 6, 193).
4. Perché in particolare con i digiuni e le penitenze?
Perché amare significa donare.
E quando noi ci priviamo di qualche cosa per donarlo agli altri compiamo un vero atto di amore, doniamo del bene.
Non è il dolore o il sacrificio in quanto tale ad avere una capacità redentrice. Perché anche il cattivo ladrone ha sofferto e ha sofferto molto, ma la sua sofferenza non è giovata né alla sua salvezza né a quella di altri.
Il dolore e la sofferenza sono salvifici quando vengono animati dall’amore e vengono trasformati in amore.
Allora la carità con la sua intrinseca e soprannaturale forza congiuntiva diventa capace di attirare a Cristo.
In questo senso Giovanni Paolo II ha detto: “La sofferenza è presente nel mondo per sprigionare amore, per far nascere opere di amore verso il prossimo, per trasformare tutta la civiltà umana nella civiltà dell’amore”…
Cristo allo stesso tempo ha insegnato all’uomo a far del bene con la sofferenza e a far del bene a chi soffre. In questo duplice aspetto egli ha svelato fino in fondo il senso della sofferenza” (Salvifici Doloris 30).
Pertanto per rispondere ad una tua precisa domanda “Come si vive il digiuno per essere gradito a Dio” la risposta è chiara: deve essere comandato dall’amore e impregnato di amore.
5. Inoltre i digiuni e le penitenze ci aiutano anche ad essere più corazzati contro le tentazioni dei demoni e del mondo.
Come ricorda San Paolo: “La nostra battaglia infatti non è contro la carne e il sangue, ma contro i Principati e le Potenze, contro i dominatori di questo mondo tenebroso, contro gli spiriti del male che abitano nelle regioni celesti” (Ef 6,12).
E servono anche per tenere a freno le nostre cattive inclinazioni. Per questo ancora San Paolo dice: “Tratto duramente il mio corpo e lo riduco in schiavitù, perché non succeda che, dopo avere predicato agli altri, io stesso venga squalificato” (1 Cor 9,27).
Tutto questo evidentemente per essere maggiormente capaci di amare, e cioè di donare.
6. In tale ottica va anche vista la penitenza sacramentale imposta dal sacerdote nell’atto della confessione dei nostri peccati.
Di essa Giovanni Paolo II dice:
“Non è certo il prezzo che si paga per il peccato assolto e per il perdono acquistato; nessun prezzo umano può equivalere a ciò che si è ottenuto, frutto del preziosissimo sangue di Cristo. Le opere della soddisfazione – che, pur conservando un carattere di semplicità e umiltà, dovrebbero essere rese più espressive di tutto ciò che significano – vogliono dire alcune cose preziose:
1- esse sono il segno dell’impegno personale che il cristiano ha assunto con Dio, nel sacramento, di cominciare un’esistenza nuova (e perciò non dovrebbero ridursi soltanto ad alcune formule da recitare, ma consistere in opere di culto, di carità, di misericordia, di riparazione);
2- includono l’idea che il peccatore perdonato è capace di unire la sua propria mortificazione fisica e spirituale, ricercata o almeno accettata, alla passione di Gesù che gli ha ottenuto il perdono;
3- ricordano anche che dopo l’assoluzione rimane nel cristiano una zona d’ombra, dovuta alle ferite del peccato, all’imperfezione dell’amore nel pentimento, all’indebolimento delle facoltà spirituali, in cui opera ancora un focolaio infettivo di peccato, che bisogna sempre combattere con la mortificazione e la penitenza. Tale è il significato dell’umile, ma sincera soddisfazione” (RP 31,III).
7. Ecco dunque vari motivi per cui Paolo VI all’inizio della Costituzione Apostolica Paenitemini ha scritto: “«Convertitevi e credete al Vangelo» (Mc 1,15): queste parole del Signore Ci sembra di dover ripetere oggi, nel momento in cui, chiuso il Concilio Ecumenico Vaticano II, la Chiesa con passo più vigoroso continua il suo cammino.
Tra i gravi ed urgenti problemi, infatti, che si pongono alla Nostra sollecitudine pastorale, non ultimo Ci sembra essere quello di richiamare ai Nostri figli – e a tutti gli uomini religiosi del nostro tempo – il significato e l’importanza del precetto divino della penitenza” (n.1).
Ti ringrazio di avermi dato l’occasione di toccare un tema così importante e prezioso per la nostra vita cristiana.
Ti ricordo al Signore e ti benedico.
Padre Angelo