Mio fratello il Papa – Cardinale

MIO FRATELLO, IL PAPA

Capitolo 8 – CARDINALE (1977-2005)

un libro scritto a due mani: in corsivo è Michael Hesemann, l’altro è mons. Georg Ratzinger in “Mio fratello il Papa”, Ed. Piemme, 2012.


All’inizio del 1977 l’apparente tranquillità della vita del professor Ratzinger ebbe fine. In un primo momento, quando il nunzio apostolico Guido Del Mestri gli fece visita con una scusa, non sospettò nulla. Dopo aver chiacchierato del più e del meno, però, il prelato italiano prese dalla veste talare una lettera e gliela consegnò, pregandolo di leggerla in tutta tranquillità. Quando la aprì rimase senza parole: conteneva la sua nomina ad arcivescovo di Monaco e Frisinga. Non ne era assolutamente contento. Era impegnatissimo con il suo lavoro e inoltre non si sentiva all’altezza di quell’incarico. Gli fu concesso di consultarsi con un uomo di fiducia, Johann Auer, prima di dare una risposta. Quest’ultimo conosceva la forza e la debolezza del suo collega ed era realista. Il futuro Papa fu quindi sconvolto dal suo consiglio: «Joseph, devi accettare». A malincuore, dopo qualche esitazione, acconsentì.

  • Anch’io fui molto sorpreso dalla notizia. Ero in tournée e lo venni a sapere grazie a una telefonata. Ricordo ancora il momento in cui la sua nomina fu resa nota a tutti. Era il 25 marzo 1977, il giorno dell’Annunciazione, e stavamo facendo un concerto a Monaco, nella chiesa di St. Anton. A mezzogiorno suonarono le campane di tutta la città. Era davvero molto commovente.
  • Prima di trasferirsi a Monaco celebrò la messa di congedo a Ziegetsdorf, dove cantò un gruppo di giovani leve del coro dei Passeri. Fu un momento molto intenso. Questa volta però non sarebbe andato lontano: Ratisbona e la sua nuova destinazione distavano soltanto un’ora e mezza di viaggio.

Il 28 maggio 1977, la vigilia di Pentecoste, Joseph Ratzinger fu consacrato nella cattedrale di Nostra Signora di Monaco. Come accadde in seguito dopo la sua elezione a Papa, anche in quel momento credette che l’esultanza con cui veniva accolto non avesse nulla a che fare con lui: «La gente salutava il vescovo, colui che porta il mistero di Cristo, anche se forse la maggior parte dei presenti non ne era consapevole. La gioia di quel giorno, però, era qualcosa di diverso dal consenso riservato a una determinata persona, che anzi doveva ancora mostrare le sue capacità. Era la contentezza di vedere che c’era qualcuno che si occupava nuovamente di quel ministero, di quel servizio, un uomo che non agisce e non vive solo per se stesso, ma per Gesù e quindi per tutti».

Fece poi un discorso che si potrebbe usare per definire il programma del suo pontificato: «Il vescovo non è soltanto un nome, ma rappresenta un altro, Cristo e la sua Chiesa. Non è un manager, un capo dotato di particolari doti, ma è un incaricato degli altri, di cui si fa garante. Perciò non può cambiare opinione a suo piacimento e prendere le parti ora per uno, ora per l’altro, in base alla convenienza. Non è qui per esporre le sue idee personali, ma è un inviato che deve trasmettere un messaggio più grande di lui. Viene giudicato in base a questa fedeltà, è questo il suo compito».

Sul suo stemma scrisse «collaboratori della verità». Era proprio questa che aveva cercato per tutta la sua vita e che aveva trovato nel Signore. Il simbolo del vescovo è diviso in quattro settori: nel primo e nel quarto c’è il moro di Frisinga, l’emblema della città, che per lui rappresenta «l’espressione dell’universalità della Chiesa». Nel secondo appare la conchiglia, che indica la nostra natura di pellegrini, collegata anche a una storia raccontata da Agostino di Ippona: un giorno, mentre meditava sul mistero della Trinità, vide sulla spiaggia un bambino che giocava con quell’oggetto, usandolo per cercare di trasferire l’acqua del mare in una piccola buca. Allora si rese conto di una cosa: tanto poco quella cavità può contenere del liquido, tanto poco la ragione può comprendere il mistero di Dio. La conchiglia diventò così un richiamo alla limitatezza della scienza rispetto alle dimensioni dell’ignoto. Nella quarta sezione c’è l’orso di san Corbiniano, l’animale legato alla storia del fondatore della diocesi di Frisinga. La leggenda narra che durante un viaggio a Roma un orso sbranò il cavallo del santo. Questi lo rimproverò aspramente e per punizione gli legò sulla schiena il fardello, costringendolo a portarlo al posto suo.

Joseph Ratzinger non era un vescovo facile. Sapeva che sant’Agostino detestava i pastori, che vedeva come «cani muti» che si lasciano avvelenare pur di evitare la lotta. La tranquillità non era il suo obiettivo principale. Riteneva che la Chiesa non dovesse adattarsi allo spirito del tempo. Condannava «l’inquinamento spirituale» della nostra epoca, «la degenerazione del concetto di possesso e di piacere», «l’avidità capitalistica», ma anche «la diffusione della violenza e della barbarie tra gli uomini». Mentre i politici conservatori si opponevano, chiese di accogliere i profughi del Vietnam; per un paese ricco, non farlo sarebbe stata «una terribile vergogna». Era necessario, secondo lui, che i cristiani ritrovassero «il nonconformismo, cioè la capacità di opporsi ad alcune espressioni culturali». Un credente non deve adattarsi e vivere da ipocrita, ma essere coraggioso, scomodo e, in alcuni casi, anche pronto a dar fastidio.

Non sostenne mai un cattolicesimo molle, «annacquato», definito «alla chitarra», ma l’importanza dei valori. Un compito importante per i fedeli tedeschi di quel periodo era la riappacificazione con la Polonia. Questo avvenne in occasione dello scambio di visite tra i vescovi dei due paesi, durante le quali Karol Wojtyla, che nel frattempo era stato nominato cardinale, incontrò Joseph. «Il carattere umano, franco e semplice, la sincerità e la cordialità» del prelato polacco lo affascinarono: «Si sente che è un uomo di Dio».

Tre mesi dopo, Paolo VI nominò Ratzinger cardinale; all’epoca aveva cinquant’anni. In quanto tale, nel 1978, per due volte nell’arco di alcune settimane, votò per eleggere il successore di Pietro: prima Giovanni Paolo I e poi, in seguito alla morte improvvisa per un attacco cardiaco dopo soltanto trentatré giorni di pontificato, Giovanni Paolo II. A due anni dalla sua elezione, il 264° pontefice proveniente dalla Polonia decise di recarsi in visita in Germania. Una delle sue mete era Monaco, il suo ospite in quel luogo il futuro Benedetto XVI.

  • _02 Mio fratello il Papa 1All’epoca incontrai il grande polacco del quale mio fratello mi aveva parlato molto, e ne rimasi profondamente colpito. Irradiava un’aura tutta particolare, un’impressionante dignità, ma in modo diverso rispetto a Faulhaber, che sembrava sempre distaccato. L’atteggiamento di Giovanni Paolo II, invece, ispirava un senso di vicinanza, bontà e benevolenza. Era un misto di aspetti diversi che lo rendevano subito simpatico.
  • Durante la sua visita a Monaco fummo incaricati di cantare; fu organizzato un incontro con gli artisti, durante il quale si esibì anche il coro della radio bavarese, oltre che quello dei Passeri. Per i ragazzi fu un grande evento. Conservo ancora molte fotografie di quel momento. Quel primo viaggio di un pontefice in Germania dopo centinaia di anni fu una grande novità per tutti noi. Prima di allora il Santo Padre era un’istituzione che appariva molto lontana, lassù in alto, estranea alla nostra quotidianità. Vederlo così vicino, incontrarlo nel nostro mondo, nella nostra patria era un avvenimento eccezionale: improvvisamente, ci trovavamo di fronte a lui!

Evidentemente papa Wojtyla si trovò così bene con il suo ospite che un anno dopo lo chiamò a Roma per nominarlo prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, quell’autorità del Vaticano che durante il Concilio Vaticano II aveva contribuito in modo decisivo a riformare. Anche questa volta Ratzinger esitò e cercò delle scuse per rifiutare. Pensava infatti di non poter abbandonare in quel modo la sua diocesi. Riteneva poco prudente che un teologo giudicasse i lavori dei colleghi; avrebbe potuto essere rimproverato di parzialità. Come poteva conciliare questo incarico ufficiale accanto al Papa con la sua attività di scrittore? Che impressione avrebbe fatto se avesse presieduto proprio all’organizzazione che aveva appena revocato l’autorizzazione all’insegnamento al suo ex collega Hans Kung? E poi, se la sarebbe cavata, a Roma, un bavarese così legato alla sua patria? Giovanni Paolo II non mollò. Finalmente, dopo l’attentato subito dal pontefice, Ratzinger acconsentì. Insieme alla sorella Maria, che come sempre si occupava delle faccende domestiche, nel 1982 si trasferì sul Tevere, mentre Georg rimase a Ratisbona.

  • Mah, lo sapevo che il mio parere non era rilevante. Mi dispiaceva davvero molto, devo ammetterlo, che mio fratello si trasferisse ancora lontano. Pensavo anche che forse il cardinale Hoffner avrebbe potuto evitarlo, invece lui era tutto ammirato per quel trasferimento a Roma. Inizialmente per me fu una cosa negativa. Ero triste perché non potevamo più stare vicini come prima. Trascorrevamo le vacanze insieme, come sempre. Inizialmente a Ognissanti mandava nostra sorella da sola a rendere omaggio alla tomba dei genitori. Solo dopo la sua morte (avvenuta nel 1991) venne anche lui. Per Natale, dopo le feste, tornava sempre per un paio di giorni a Ratisbona, poi per l’Ascensione e durante l’estate. Anch’io mi recavo da lui ogni volta che mi era possibile. Così il nostro rapporto fraterno non venne mai meno, ci furono sempre occasioni per incontrarci. A poco a poco mi abituai alla nuova situazione, riuscendo anche a trovarvi alcuni aspetti positivi. Credo però che non volesse andare a Roma. Voleva convincere il Papa a lasciarlo in Germania e gli aveva citato molte buone ragioni per farlo. Giovanni Paolo II, però, pensava che Monaco fosse importante, ma la Città Eterna di più, e quindi per lui la questione era risolta. In Italia mio fratello doveva svolgere un incarico nuovo, impegnativo e significativo. Il suo predecessore, il cardinale Ottaviani (1890-1978), non aveva goduto di buona fama. All’epoca si aveva l’impressione che il Sant’Uffizio, come veniva chiamato a quel tempo, in realtà pilotasse in modo meschino le opinioni. In seguito capii che era un errore generato da una prospettiva che in realtà non era corretta. Se esiste una regola, da qualche parte c’è sempre qualcuno a cui dà fastidio, che non la capisce o non la vuole riconoscere. Il fatto che nei concetti di chiarezza e verità debba sempre esistere un ordine mi è apparso evidente solo un po’ per volta. Il motto scelto da mio fratello quando fu nominato arcivescovo di Monaco, «Cooperatores veritatis», risultava già programmatico e si riferiva direttamente a questo punto e al suo incarico a Roma.

Giovanni Paolo II aveva letto tutti i libri di Ratzinger in versione originale e lo conosceva molto bene; con la sua scelta dimostrò eccellenti doti di comando. Il futuro Benedetto XVI lo completava perfettamente, impersonava tutto quello che lui non era. Infatti non c erano persone più diverse del polacco sportivo e del gracile bavarese. Il carismatico ed estroverso «John Paul super star» era un “Papa da toccare”, che voleva abbracciare tutto il mondo, mentre l’altro era un uomo tranquillo e introverso, sensibile, timido e timoroso. Uno era un mistico e un poeta, il secondo un teologo dedito all’analisi. Il grande cuore della Chiesa e il suo acuto intelletto: le debolezze dell’uno erano i punti di forza dell’altro.

Ratzinger si dedicò al nuovo incarico con una precisione tipicamente tedesca. Per prima cosa cercò di svecchiare la Congregazione e di renderla più internazionale, facendo venire dall’università giuristi e teologi di tutti e cinque i continenti. Alla fine il suo gruppo era formato da trentanove collaboratori fissi che lavoravano in modo collegiale. Dava ascolto a ognuno di loro e spesso, se c era il rischio che nascessero delle controversie, le questioni importanti venivano discusse in gruppi ristretti durante la pausa caffè. Queste le parole di un suo stretto collaboratore: «Non era mai dispiaciuto quando qualcuno metteva in dubbio la sua opinione. Era tutt’altro che ostinato e sempre disponibile ad ammettere di aver sbagliato. Ascoltava chi gli stava di fronte a lungo e attentamente, poi formulava la sua risposta in modo preciso e raffinato. Quando scriveva, lo faceva con una tale chiarezza da non aver mai bisogno di apportare modifiche per migliorare il testo, tanto era concentrato mentre svolgeva quell’attività. In un certo senso era un genio».

I romani si affezionarono subito a lui, perché non si dava importanza. Sapevano che il mattino si svegliava alle 6.00 e la sera si ritirava alle 22.00. Ogni giorno lo vedevano andare al lavoro a piedi con la borsa di pelle un po’ rovinata sotto il braccio, attraversando piazza San Pietro. Quando i turisti, che lo scambiavano per un sacerdote qualunque, gli chiedevano qualcosa, rispondeva gentilmente. Conosce dieci lingue, era in grado di parlare con chiunque, e il suo francese era così buono che alcuni lo scambiavano per un abitante dell’Esagono. «Padre, sa dove abita il Papa?» «Sì, lassù, le ultime tre finestre dell’ultimo piano.» «Grazie, sarebbe bello andare lì. Piacerebbe anche a lei?» Il cardinale sorrideva divertito, ma non diceva nulla. Incontrava il pontefice almeno una volta alla settimana.

Il pomeriggio passeggiava nel vecchio quartiere di fronte alla basilica, il Porgo Pio, dove lo conoscevano tutti. Spesso si fermava per salutare i negozianti. Un bavarese a Roma. Il suo ristorante preferito era la «Cantina Tirolese», dove venivano serviti a poco prezzo piatti sostanziosi tipici della zona delle Alpi, come canederli di pane e gulasch con salsiccia. Inoltre rinunciava quasi completamente agli alcolici. Gli italiani lo guardavano un po’ inorriditi quando, per accompagnare un piatto di pesce, ordinava un succo d’arancia. Era molto orgoglioso dei vasi di fiori sul terrazzo del suo appartamento, arredato in modo semplice. La sua passione era il pianoforte; suonava la musica di Mozart per rilassarsi. Il suo cuore, però, era tutto per i gatti della zona. Lentamente “il tedesco” diventò un romano tra i romani, e si passò sopra alla questione del vino.

  • Nella Città Eterna cambiò poco, era sempre molto costante ed è rimasto lo stesso. Non so come si sia adattato alla nuova attività, non ho mai voluto intromettermi nelle sue questioni lavorative. Comunque per lui non fu un grande stravolgimento. Prosegui in modo metodico il suo cammino, anche se con un obiettivo diverso e un altro stile di vita. Gli riuscì in un modo piuttosto armonico. Aveva un buon rapporto con il Papa, che lo riceveva in udienza ogni settimana. Lì le cose sono organizzate così: il lunedì il Santo Padre incontra il segretario di stato vaticano, il martedì il secondo di quell’ufficio per ordine di importanza e così via. Ogni giorno arriva un diverso funzionario della curia per parlare con lui e presentare dei resoconti, mentre il venerdì tocca al prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede. Spesso lo accompagnavo fino all’ingresso, alla Porta Sant’Anna. Non ha mai parlato molto di quegli incontri. Stimava moltissimo Giovanni Paolo II, sia per la sua bontà e umanità, come un amore paterno, che per la sua cultura.
  • Che nutrisse i gatti del quartiere è vero solo in parte. A Roma quegli animali sono molto timorosi. La storia vera, di cui alcuni sono anche stati testimoni, è la seguente: ogni giovedì celebrava la messa del mattino nel Campo Santo Teutonico, la chiesa del cimitero nella zona del Vaticano; qui trovava sempre un gatto che lo aspettava e che compariva lì solo quel giorno. Negli edifici vicini abitano i teologi tedeschi che possono confermarlo: l’animale era presente ogni volta che Joseph arrivava, pronto a ricevere le sue carezze! Devo ammettere che a noi Ratzinger i felini piacciono molto. Un bel micino è sempre simpatico! Come ho già detto, quelli romani, però, sono molto timidi. A mio fratello viene anche attribuito, ma erroneamente, un particolare rapporto con Chico, il gatto del nostro vicino, il signor Hofbauer. Quello a volte diventa piuttosto cattivo. All’inizio era simpatico, ma ora è abbastanza vecchio e capita che si comporti male, che cominci a graffiare e a mordere. Una volta entrò furtivamente nella casa di mio fratello a Pentling. Joseph voleva uscire, ma non aveva il coraggio di mandarlo fuori e chiamò il proprietario perché lo riprendesse. Lo avrebbe anche accarezzato, ma niente di più… Chico ha un carattere davvero difficile, è come se avesse due personalità.

A Roma, l’incarico di Ratzinger consisteva nel definire, diffondere e proteggere la dottrina della Chiesa cattolica. Non doveva formulare giudizi arbitrari. Il credo è determinato nelle Sacre Scritture e in una tradizione di quasi duemila anni. Per offrire ai fedeli un riassunto di questa dottrina, nel 1986 Giovanni Paolo II gli diede l’incarico di redigere un catechismo che risultasse vincolante per i fedeli. L’opera fu pubblicata dopo cinque anni di lavoro, nel 1991. «Naturalmente è un libro scritto da uomini, che si può sempre migliorare», affermò Ratzinger, «ma è un buon testo.» Diventò un best-seller in tutto il mondo; solo negli Stati Uniti furono vendute più di due milioni di copie. Su incarico del Papa furono composti altri scritti, come II terzo segreto di Fatima, dato alle stampe nel 2000, e la dichiarazione Dominus Jesus.

  • _02 Mio fratello il Papa 4Come ho già accennato, nei primi anni mandava sempre Maria a Ratisbona per la festa di Ognissanti, per far visita alla tomba dei nostri genitori. Venne a Pentling anche nel 1991 e naturalmente soggiornò nella casa di mio fratello. Il giorno stesso del suo arrivo i vicini mi avvertirono che stava male. Andai subito da lei e chiamai il dottore, che diagnosticò un infarto. L’ambulanza la portò nell’ospedale del Fatebenefratelli. In un primo momento sembrò che non fosse così grave, che avesse superato la fase peggiore, ma poi, il 2 novembre, non mi fecero entrare nella sua stanza. Mi dissero di andare dalla dottoressa, che mi comunicò che aveva avuto un’estesa emorragia cerebrale e non era più cosciente. Morì la sera stessa per le conseguenze di quel problema. Naturalmente mio fratello arrivò subito. L’8 novembre fu celebrato il requiem solenne nella cattedrale, poi venne sepolta nella tomba dei nostri genitori, nel cimitero di Ziegetsdorf.

Nell’annuncio di morte si legge: «Per 34 anni ha servito il fratello Joseph in tutte le tappe del suo percorso, con instancabile dedizione, bontà e umiltà».

  • In quel periodo anche mio fratello era malato. Soffriva di continui mal di testa e rimase in cura dalle suore per qualche giorno vicino all’aeroporto. Maria perciò aveva prenotato solo un volo di andata per Ratisbona, il ritorno a parte, perché temeva che gli potesse succedere qualcosa e avesse bisogno delle sue cure. In realtà poi morì lei. Non so se questa disgrazia abbia unito noi fratelli ancora di più, se abbia reso il nostro rapporto più profondo. In ogni caso, sapevamo che da quel momento c’eravamo soltanto noi due; la nostra famiglia era diventata più piccola.

Allora abbiamo reso ancora più frequenti le nostre vacanze insieme. C’erano alcuni posti in cui ci recavamo sempre volentieri. Uno di questi era Bressanone, in Trentino Alto Adige, che ci piaceva molto, un altro Hofgastein: avevamo conosciuto il parroco di questa località durante una conferenza. Amavamo anche visitare il Petrinum, un seminario e liceo di Linz. Naturalmente portava con sé molto lavoro da sbrigare, corrispondenza e altro.

Di solito, però, ci restava abbastanza tempo per fare lunghe passeggiate e gite. Spesso eravamo invitati in posti diversi da quelli in cui alloggiavamo; ci mandavano un’automobile e ne eravamo molto contenti. A parte questo, celebravamo messa insieme e poi facevamo colazione. La mattina lavorava, a mezzogiorno pranzavamo e nel pomeriggio camminavamo, se non doveva riprendere le sue attività. La maggior parte delle volte ci rilassavamo e ci divertivamo. Inoltre veniva regolarmente a Ratisbona, tre o quattro volte all’anno. Mangiavamo di frequente insieme nella sua casa di Pentling. Per fortuna le suore mettevano sempre qualcosa nel frigorifero, perché nessuno dei due è un grande cuoco. Alla fine lui lavava i piatti e io li asciugavo. Poi facevamo quattro passi e parlavamo di Dio, del mondo, dei fatti del giorno e delle cose quotidiane. E molto affezionato alla sua dimora e allora io, quando tornava a Roma, di domenica verificavo che fosse tutto a posto. Spesso quando ero lì lo chiamavo e gli dicevo semplicemente che «la casa c’era ancora» e che non doveva preoccuparsi.

Nel 1994, dopo trent’anni di attività, diedi le dimissioni dal mio incarico di direttore dei Passeri. Mio fratello venne a Ratisbona appositamente per quella occasione, celebrò la messa solenne nella cattedrale e pronunciò una bella omelia. Era un momento gioioso, la chiesa era gremita. Alla fine il coro, diretto da uno dei cantanti, eseguì Denti erhat seinen Engeln befohlen, un pezzo molto usato nelle occasioni importanti, che fu seguito da un lunghissimo applauso. Poi ci fu una festa nell’istituto Kolping e mio fratello tenne il discorso ufficiale. Regnava un’atmosfera piuttosto malinconica, ma io mi ero già abituato all’idea. Avevo settant’anni ed è normale che a quell’età un sacerdote vada in pensione. Così anch’io avevo pensato di ritirarmi. Poco dopo, quando i ragazzi partirono per le vacanze, mi occupai del trasloco insieme alla signora Hindi, che assunsi in quel periodo e che da allora è la mia governante.

Non volevo trasferirmi a Roma e continuo a essere della stessa opinione. Lì gli affitti sono molto alti, non è facile trovare un buon appartamento, e inoltre conosco solo qualche parola d’italiano. Mi augurai che Joseph venisse regolarmente da me, mi sarebbe bastato. Il suo progetto era proprio quello. Non pensava di tornare in Germania, nemmeno dopo il pensionamento, che sperava di ottenere nel 2002. Non intendeva spostare ancora una volta attraverso le Alpi la grande quantità di libri che nel frattempo aveva accumulato. A Pentling non avrebbe avuto abbastanza spazio per sistemarli tutti. Voleva restare a vivere a Roma, ma tornare spesso in patria per lunghi periodi, in modo da poter stare insieme. Inoltre aveva intenzione di scrivere ancora qualche testo e completare altri lavori già iniziati. Giovanni Paolo II, però, non lo lasciava andare, pregandolo di continuare a svolgere il suo incarico. Poi arrivò il conclave, che mise fine a tutti i suoi progetti per il futuro.

In questo modo l’orso di san Corbiniano, che come arcivescovo di Monaco e Frisinga aveva già usato nello stemma, diventò davvero il simbolo del suo cammino. E divertente notare come questo animale abbia svolto sempre un ruolo importante nella sua vita. Nel 1928 a Marktl c’era stato il peluche in vetrina di cui si era innamorato e che poi aveva ricevuto in regalo a Natale, e in seguito un altro, un po’ più grande. Era davvero molto affezionato a quei pupazzi, tanto che in famiglia occupavano un posto molto importante, ci erano simpatici. Poi nella storia è comparso un altro orso, che però all’inizio non aveva una parte molto bella, perché sbranava il cavallo del santo. Questi lo aveva rimproverato così severamente che l’animale si era sentito in colpa e aveva portato il bagaglio al suo posto. Questo bel racconto è anche una metafora della vita di mio fratello che, come arcivescovo di Monaco e Frisinga, non era solo il successore del patrono di quelle città, ma anche il primo dei suoi discendenti a essere chiamato a Roma, dove rimase e fu scelto per salire sul trono di Pietro. L’orso ha riottenuto la sua libertà, ma deve portare il peso che il buon Dio gli ha assegnato sino alla fine. Il fardello, però, è benefico!

Nel settembre 2006, quando Benedetto XVI si recò in visita nella sua patria, in Baviera, prese spunto dall’immagine dell’orso di san Corbiniano e lo interpretò come una metafora del suo servizio reso alla Chiesa. Riprese le parole di sant’Agostino: «Sono diventato per te un animale da soma, ma proprio per questo ti sono sempre accanto». Infatti, grazie al fardello di cui si fa carico, la bestia feroce, e come lui il Papa, rimane continuamente vicino al suo padrone. Quindi, afferma il pontefice, quell’immagine «mi incoraggia a svolgere il mio incarico ogni giorno in modo nuovo, con gioia e fiducia, e a pronunciare, giorno dopo giorno, il mio sì a Dio… Il protagonista di quella storia a Roma ha ritrovato la libertà. Nel mio caso, invece, il Signore ha deciso altrimenti».