Raccolta testi Benedetto XVI in Polonia

Raccolta interventi significativi di Benedetto XVI in Polonia

_06 Viaggio in Polonia BXVI 5INCONTRO CON IL CLERO

Warszawa-Cattedrale 25 maggio 2006

[FranceseInglese, PolaccoPortogheseSpagnoloTedesco]

“Anzitutto rendo grazie al mio Dio per mezzo di Gesù Cristo riguardo a tutti voi… Ho infatti un vivo desiderio di vedervi per comunicarvi qualche dono spirituale perché ne siate fortificati, o meglio, per rinfrancarmi con voi e tra voi mediante la fede che abbiamo in comune, voi e io” (Rm 1, 8-12).

Con queste parole dell’apostolo Paolo mi rivolgo a voi, cari sacerdoti, perché in esse trovo perfettamente rispecchiati i miei odierni sentimenti e pensieri, i desideri e le preghiere. (..)

Mi incontro oggi con voi, sacerdoti chiamati da Cristo a servirlo nel nuovo millennio. Siete stati scelti tra il popolo, costituiti nelle cose che riguardano Dio, per offrire doni e sacrifici per i peccati. Credete nella potenza del vostro sacerdozio! In virtù del sacramento avete ricevuto tutto ciò che siete. Quando voi pronunciate le parole “io” o “mio” (“Io ti assolvo… Questo è il mio Corpo…”), lo fate non nel nome vostro, ma nel nome di Cristo, “in persona Christi”, che vuole servirsi delle vostre labbra e delle vostre mani, del vostro spirito di sacrificio e del vostro talento. Al momento della vostra Ordinazione, mediante il segno liturgico dell’imposizione delle mani, Cristo vi ha preso sotto la sua speciale protezione; voi siete nascosti sotto le sue mani e nel suo Cuore. Immergetevi nel suo amore, e donate a Lui il vostro amore! Quando le vostre mani sono state unte con l’olio, segno dello Spirito Santo, sono state destinate a servire al Signore come le sue mani nel mondo di oggi. Esse non possono più servire all’egoismo, ma devono trasmettere nel mondo la testimonianza del suo amore.

La grandezza del sacerdozio di Cristo può incutere timore. Si può essere tentati di esclamare con Pietro: “Signore, allontanati da me che sono un peccatore” (Lc 5, 8), perché facciamo fatica a credere che Cristo abbia chiamato proprio noi. Non avrebbe potuto scegliere qualcun altro, più capace, più santo? Ma Gesù ha fissato con amore proprio ciascuno di noi, e in questo suo sguardo dobbiamo confidare. Non lasciamoci prendere dalla fretta, quasi che il tempo dedicato a Cristo in silenziosa preghiera sia tempo perduto. È proprio lì, invece, che nascono i più meravigliosi frutti del servizio pastorale. Non bisogna scoraggiarsi per il fatto che la preghiera esige uno sforzo, né per l’impressione che Gesù taccia. Egli tace ma opera.

Mi piace ricordare, a questo proposito, l’esperienza vissuta lo scorso anno a Colonia. Fui testimone allora di un profondo, indimenticabile silenzio di un milione di giovani, al momento dell’adorazione del Santissimo Sacramento! Quel silenzio orante ci unì, ci donò tanto sollievo. In un mondo in cui c’è tanto rumore, tanto smarrimento, c’è bisogno dell’adorazione silenziosa di Gesù nascosto nell’Ostia. Siate assidui nella preghiera di adorazione ed insegnatela ai fedeli. In essa troveranno conforto e luce soprattutto le persone provate.

Dai sacerdoti i fedeli attendono soltanto una cosa:  che siano degli specialisti nel promuovere l’incontro dell’uomo con Dio. Al sacerdote non si chiede di essere esperto in economia, in edilizia o in politica. Da lui ci si attende che sia esperto nella vita spirituale.

A tal fine, quando un giovane sacerdote fa i suoi primi passi, occorre che possa far riferimento ad un maestro sperimentato, che lo aiuti a non smarrirsi tra le tante proposte della cultura del momento. Di fronte alle tentazioni del relativismo o del permissivismo, non è affatto necessario che il sacerdote conosca tutte le attuali, mutevoli correnti di pensiero; ciò che i fedeli si attendono da lui è che sia testimone dell’eterna sapienza, contenuta nella parola rivelata. La sollecitudine per la qualità della preghiera personale e per una buona formazione teologica porta frutti nella vita. Il vivere sotto l’influenza del totalitarismo può aver generato un’inconsapevole tendenza a nascondersi sotto una maschera esteriore, con la conseguenza del cedimento ad una qualche forma di ipocrisia. È chiaro che ciò non giova all’autenticità delle relazioni fraterne e può condurre ad un’esagerata concentrazione su se stessi. In realtà, si cresce nella maturità affettiva quando il cuore aderisce a Dio. Cristo ha bisogno di sacerdoti che siano maturi, virili, capaci di coltivare un’autentica paternità spirituale. Perché ciò accada, serve l’onestà con se stessi, l’apertura verso il direttore spirituale e la fiducia nella divina misericordia.

Il Papa Giovanni Paolo II in occasione del Grande Giubileo ha più volte esortato i cristiani a far penitenza delle infedeltà passate. Crediamo che la Chiesa è santa, ma in essa vi sono uomini peccatori. Bisogna respingere il desiderio di identificarsi soltanto con coloro che sono senza peccato. Come avrebbe potuto la Chiesa escludere dalle sue file i peccatori? È per la loro salvezza che Gesù si è incarnato, è morto ed è risorto. Occorre perciò imparare a vivere con sincerità la penitenza cristiana. Praticandola, confessiamo i peccati individuali in unione con gli altri, davanti a loro e a Dio. Conviene tuttavia guardarsi dalla pretesa di impancarsi con arroganza a giudici delle generazioni precedenti, vissute in altri tempi e in altre circostanze. Occorre umile sincerità per non negare i peccati del passato, e tuttavia non indulgere a facili accuse in assenza di prove reali o ignorando le differenti pre-comprensioni di allora. Inoltre la confessio peccati, per usare un’espressione di sant’Agostino, deve essere sempre accompagnata dalla confessio laudis – dalla confessione della lode. Chiedendo perdono del male commesso nel passato dobbiamo anche ricordare il bene compiuto con l’aiuto della grazia divina che, pur depositata in vasi di creta, ha portato frutti spesso eccellenti.

Oggi la Chiesa in Polonia si trova dinanzi ad una grande sfida pastorale:  quella di prendersi cura dei fedeli che hanno lasciato il Paese. La piaga della disoccupazione costringe numerose persone a partire verso l’estero. È un fenomeno diffuso su vasta scala. Quando le famiglie vengono in tal modo divise, quando si infrangono i legami sociali, la Chiesa non può rimanere indifferente. È necessario che le persone che partono siano accompagnate da sacerdoti che, collegandosi con le Chiese locali, assumano il lavoro pastorale in mezzo agli emigrati. La Chiesa che è in Polonia ha già dato numerosi sacerdoti e religiose, che svolgono il loro servizio non soltanto in favore dei Polacchi fuori dei confini del Paese, ma anche, e a volte in condizioni difficilissime, nelle missioni dell’Africa, dell’Asia, dell’America Latina e in altre regioni. Non dimenticate, cari sacerdoti, questi missionari. Il dono di numerose vocazioni, con cui Dio ha benedetto la vostra Chiesa, deve essere accolto in prospettiva veramente cattolica. Sacerdoti polacchi, non abbiate paura di lasciare il vostro mondo sicuro e conosciuto, per servire là dove mancano i sacerdoti e dove la vostra generosità può portare un frutto copioso.

Rimanete saldi nella fede! Anche a voi affido questo motto del mio pellegrinaggio. Siate autentici nella vostra vita e nel vostro ministero. Fissando Cristo, vivete una vita modesta, solidale con i fedeli a cui siete mandati. Servite tutti; siate accessibili nelle parrocchie e nei confessionali, accompagnate i nuovi movimenti e le associazioni, sostenete le famiglie, non trascurate il legame con i giovani, ricordatevi dei poveri e degli abbandonati. Se vivrete di fede, lo Spirito Santo vi suggerirà cosa dovrete dire e come dovrete servire. Potrete sempre contare sull’aiuto di Colei che precede la Chiesa nella fede. Vi esorto ad invocarla sempre con le parole a voi ben note: “Siamo vicino a Te, Ti ricordiamo, vegliamo”.

A tutti la mia Benedizione!


_06 Viaggio in Polonia BXVI 6OMELIA DEL SANTO PADRE CELEBRAZIONE EUCARISTICA IN PIAZZA PIŁSUDSKI

Warszawa, 26 maggio 2006

[FranceseInglese, PolaccoPortogheseSpagnoloTedesco]

Sia lodato Gesù Cristo!

Carissimi fratelli e sorelle in Cristo Signore, “insieme con voi desidero elevare un canto di gratitudine alla Provvidenza, che mi permette di stare qui oggi come pellegrino”. Con queste parole, 27 anni fa, iniziò la sua omelia a Varsavia il mio amato predecessore Giovanni Paolo II. Le faccio mie e ringrazio il Signore che mi ha concesso di poter giungere oggi in questa storica Piazza. Qui, alla vigilia della Pentecoste, Giovanni Paolo II pronunciò le significative parole della preghiera: “Discenda il tuo Spirito, e rinnovi la faccia della terra”. Ed aggiunse: “Di questa terra!”. In questo stesso luogo fu congedato con solenne cerimonia funebre il grande Primate della Polonia Cardinale Stefano Wyszyński, di cui in questi giorni ricordiamo il XXV anniversario della morte.

Dio unì queste due persone non solo mediante la stessa fede, speranza e amore, ma anche mediante le stesse vicende umane, che hanno collegato l’una e l’altra così fortemente alla storia di questo popolo e della Chiesa che vive in esso. All’inizio del pontificato Giovanni Paolo II scrisse al Cardinale Wyszyński: “Sulla Sede di Pietro non ci sarebbe questo Papa polacco, che oggi pieno di timore di Dio, ma anche di fiducia, inizia il nuovo pontificato, se non ci fosse stata la Tua fede, che non si è piegata davanti alla prigione e alla sofferenza, la Tua eroica speranza, il Tuo fidarti fino in fondo della Madre della Chiesa; se non ci fosse stata Jasna Góra e tutto questo periodo di storia della Chiesa nella nostra Patria, legato al Tuo servizio di Vescovo e di Primate” (Lettera di Giovanni Paolo II ai Polacchi, 23 ottobre 1978). Come non ringraziare oggi Dio per quanto si è realizzato nella vostra Patria e nel mondo intero, durante il pontificato di Giovanni Paolo II? Davanti ai nostri occhi sono avvenuti cambiamenti di interi sistemi politici, economici e sociali. La gente in diversi Paesi ha riacquistato la libertà e il senso della dignità. “Non dimentichiamo le grandi opere di Dio” (cfr Sal 78, 7). Ringrazio anche voi per la vostra presenza e per la vostra preghiera. Grazie al Cardinale Primate per le parole che mi ha rivolto. Saluto tutti i Vescovi qui presenti. Sono lieto della partecipazione del Signor Presidente e delle Autorità statali e locali. Abbraccio con il cuore tutti i polacchi che vivono in patria e all’estero.

“Rimanete saldi nella fede!”. Abbiamo sentito poc’anzi le parole di Gesù: “Se mi amate, osserverete i miei comandamenti. Io pregherò il Padre e Egli vi darà un altro Consolatore, perché rimanga con voi per sempre – lo Spirito di Verità” (Gv 14, 15-17a). In queste parole Gesù rivela il profondo legame che esiste tra la fede e la professione della Verità Divina, tra la fede e la dedizione a Gesù Cristo nell’amore, tra la fede e la pratica della vita ispirata ai comandamenti. Tutte e tre le dimensioni della fede sono frutto dell’azione dello Spirito Santo. Tale azione si manifesta come forza interiore che armonizza i cuori dei discepoli col Cuore di Cristo e rende capaci di amare i fratelli come Lui li ha amati. Così la fede è un dono, ma nello stesso tempo è un compito.

“Egli vi darà un altro Consolatore – lo Spirito di Verità”. La fede, come conoscenza e professione della verità su Dio e sull’uomo, “dipende dalla predicazione e la predicazione a sua volta si attua per la parola di Cristo”, dice san Paolo (Rm 10, 17). Lungo la storia della Chiesa gli Apostoli hanno predicato la parola di Cristo preoccupandosi di consegnarla intatta ai loro successori, i quali a loro volta l’hanno trasmessa alle successive generazioni, fino ai nostri giorni. Tanti predicatori del Vangelo hanno dato la vita proprio a causa della fedeltà alla verità della parola di Cristo. E così, dalla premura per la verità è nata la Tradizione della Chiesa.

Come nei secoli passati così anche oggi ci sono persone o ambienti che, trascurando questa Tradizione di secoli, vorrebbero falsificare la parola di Cristo e togliere dal Vangelo le verità, secondo loro, troppo scomode per l’uomo moderno. Si cerca di creare l’impressione che tutto sia relativo: anche le verità della fede dipenderebbero dalla situazione storica e dalla valutazione umana. Però la Chiesa non può far tacere lo Spirito di Verità.

I successori degli Apostoli, insieme con il Papa, sono responsabili per la verità del Vangelo, ed anche tutti i cristiani sono chiamati a condividere questa responsabilità accettandone le indicazioni autorevoli. Ogni cristiano è tenuto a confrontare continuamente le proprie convinzioni con i dettami del Vangelo e della Tradizione della Chiesa nell’impegno di rimanere fedele alla parola di Cristo, anche quando essa è esigente e umanamente difficile da comprendere. Non dobbiamo cadere nella tentazione del relativismo o dell’interpretazione soggettivistica e selettiva delle Sacre Scritture. Solo la verità integra ci può aprire all’adesione a Cristo morto e risorto per la nostra salvezza.

Cristo dice infatti: “Se mi amate…”. La fede non significa soltanto accettare un certo numero di verità astratte circa i misteri di Dio, dell’uomo, della vita e della morte, delle realtà future. La fede consiste in un intimo rapporto con Cristo, un rapporto basato sull’amore di Colui che ci ha amati per primo (cfr 1 Gv 4, 11), fino all’offerta totale di se stesso. “Dio dimostra il suo amore verso di noi perché, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi” (Rm 5, 8). Quale altra risposta possiamo dare ad un amore così grande, se non quella di un cuore aperto e pronto ad amare? Ma che vuol dire amare Cristo? Vuol dire fidarsi di Lui anche nell’ora della prova, seguirLo fedelmente anche sulla Via Crucis, nella speranza che presto verrà il mattino della risurrezione. Affidandoci a Cristo non perdiamo niente, ma acquistiamo tutto. Nelle sue mani la nostra vita acquista il suo vero senso. L’amore per Cristo si esprime nella volontà di sintonizzare la propria vita con i pensieri e i sentimenti del suo Cuore. Questo si realizza mediante l’unione interiore basata sulla grazia dei Sacramenti, rafforzata con la continua preghiera, la lode, il ringraziamento e la penitenza. Non può mancare un attento ascolto delle ispirazioni che Egli suscita mediante la sua Parola, le persone che incontriamo, le situazioni di vita quotidiana. AmarLo significa restare in dialogo con Lui, per conoscere la sua volontà e realizzarla prontamente.

Ma vivere la propria fede come rapporto d’amore con Cristo significa anche essere pronti a rinunciare a tutto ciò che costituisce la negazione del suo amore. Ecco perché Gesù ha detto agli Apostoli: “Se mi amate, osserverete i miei comandamenti”. Ma quali sono i comandamenti di Cristo? Quando il Signore Gesù insegnava alle folle, non mancò di confermare la legge che il Creatore aveva iscritto nel cuore dell’uomo ed aveva poi formulato sulle tavole del Decalogo.

“Non pensate che io sia venuto ad abolire la legge o i profeti; non sono venuto ad abolire, ma per dare compimento. In verità vi dico: finché non siano passati il cielo e la terra, non passerà dalla legge neppure uno iota o un segno, senza che tutto si sia compiuto” (Mt 5, 17-18). Gesù però ci ha mostrato con una nuova chiarezza il centro unificante delle leggi divine rivelate sul Sinai, cioè l’amore di Dio e del prossimo: “Amare [Dio] con tutto il cuore e con tutta la mente e con tutta la forza e amare il prossimo come se stessi vale più di tutti gli olocausti e i sacrifici” (Mc 12, 33). Anzi, Gesù nella sua vita e nel suo mistero pasquale ha portato a compimento tutta la legge. Unendosi con noi mediante il dono dello Spirito Santo, porta con noi e in noi il “giogo” della legge, che così diventa un “carico leggero” (Mt 11, 30). In questo spirito Gesù formulò il suo elenco degli atteggiamenti interiori di coloro che cercano di vivere profondamente la fede: Beati i poveri in spirito, quelli che piangono, i miti, quelli che hanno fame e sete della giustizia, i misericordiosi, i puri di cuore, gli operatori di pace, i perseguitati a causa della giustizia… (cfr Mt 5, 3-12)

Cari fratelli e sorelle, la fede in quanto adesione a Cristo si rivela come amore che spinge a promuovere il bene che il Creatore ha inserito nella natura di ognuno e ognuna di noi, nella personalità di ogni altro uomo e in tutto ciò che esiste nel mondo. Chi crede e ama così diventa costruttore della vera “civiltà dell’amore”, di cui Cristo è il centro. (..) Rimanete forti nella fede, tramandatela ai vostri figli, testimoniate la grazia, che avete sperimentato in modo così abbondante attraverso lo Spirito Santo nella vostra storia. Che Maria, Regina della Polonia, vi mostri la strada verso il Figlio suo e vi accompagni nel cammino verso un futuro felice e pieno di pace. Non manchi mai nei vostri cuori l’amore per Cristo e per la sua Chiesa. Amen!


_06 Viaggio in Polonia BXVI 3DISCORSO DEL SANTO PADRE

INCONTRO CON I RELIGIOSI, LE RELIGIOSE, I SEMINARISTI ED I RAPPRESENTANTI DEI MOVIMENTI ECCLESIALI

Częstochowa, 26 maggio 2006

[FranceseInglese, PolaccoPortogheseSpagnoloTedesco]

Cari religiosi, religiose, persone consacrate, voi tutti che mossi dalla voce di Gesù Lo avete seguito per amore!

Cari seminaristi, che vi state preparando al ministero sacerdotale!

Cari rappresentanti dei movimenti ecclesiali, che portate la forza del Vangelo nel mondo delle vostre famiglie, dei vostri luoghi di lavoro, delle università, nel mondo dei media e della cultura, nelle vostre parrocchie!

Come gli Apostoli insieme a Maria “salirono al piano superiore” e lì “erano assidui e concordi nella preghiera” (At 1, 12.14), così anche noi oggi ci siamo riuniti qui a Jasna Góra, che è per noi, in quest’ora, il “piano superiore”, dove Maria, la Madre del Signore, è in mezzo a noi. Oggi è Lei a guidare la nostra meditazione; Lei ci insegna a pregare. È Lei ad indicarci come aprire le nostre menti e i nostri cuori alla potenza dello Spirito Santo, che viene a noi per essere da noi portato al mondo intero. Desidero salutare cordialmente l’Arcidiocesi di Częstochowa con il suo Pastore, l’Arcivescovo Stanisław, e con i Vescovi Antoni e Jan. Tutti vi ringrazio per aver voluto riunirvi in questa preghiera.

Carissimi, abbiamo bisogno di un attimo di silenzio e di raccoglimento per sottometterci alla sua scuola, affinché Lei ci insegni come vivere di fede, come crescere in essa, come rimanere in contatto con il mistero di Dio negli eventi ordinari, quotidiani della nostra vita. Con delicatezza femminile e con la “capacità di coniugare l’intuizione penetrante con la parola di sostegno e di incoraggiamento” (Giovanni Paolo II, Redemptoris Mater, 46), Maria ha sostenuto la fede di Pietro e degli Apostoli nel Cenacolo, e oggi sostiene la mia e la vostra fede.

“La fede, infatti, è un contatto col mistero di Dio”, ha detto il  Santo  Padre  Giovanni  Paolo II (Redemptoris Mater, 17), perché credere “vuol dire “abbandonarsi” alla verità stessa della parola del Dio vivo, sapendo e riconoscendo umilmente “quanto sono imperscrutabili i suoi giudizi e inaccessibili le sue vie”” (Redemptoris Mater, 14). La fede è il dono, datoci nel battesimo, che ci rende possibile l’incontro con Dio. Dio si nasconde nel mistero: pretendere di comprenderLo significherebbe volerlo circoscrivere nei nostri concetti e nel nostro sapere e così irrimediabilmente perderlo. Mediante la fede, invece, possiamo aprirci un varco attraverso i concetti, perfino quelli teologici, e possiamo “toccare” il Dio vivente. E Dio, una volta toccato, ci trasmette immediatamente la sua forza. Quando ci abbandoniamo al Dio vivente, quando nell’umiltà della mente ricorriamo a Lui, ci pervade interiormente quasi un torrente nascosto di vita divina.

Quanto è importante per noi credere nella potenza della fede, nella sua capacità di stabilire un legame diretto con il Dio vivente! Noi dobbiamo curare con impegno lo sviluppo della nostra fede, affinché essa pervada realmente tutti i nostri atteggiamenti, i pensieri, le azioni e le intenzioni. La fede ha un posto non soltanto negli stati d’animo e nelle esperienze religiose, ma prima di tutto nel pensiero e nell’azione, nel lavoro quotidiano, nella lotta contro se stessi, nella vita comunitaria e nell’apostolato, poiché essa fa sì che la nostra vita sia pervasa dalla potenza di Dio stesso. La fede può sempre riportarci a Dio, anche quando il nostro peccato ci fa del male.

Nel Cenacolo gli Apostoli non sapevano che cosa li attendeva. Intimoriti, erano preoccupati per il proprio futuro. Continuavano ancora a sperimentare lo stupore provocato dalla morte e risurrezione di Gesù ed erano angosciati per essere restati soli dopo la sua ascensione al cielo. Maria, “colei che aveva creduto nell’adempimento delle parole del Signore” (cfr Lc 1, 45), assidua insieme agli Apostoli nella preghiera, insegnava la perseveranza nella fede. Con tutto il suo atteggiamento li convinceva che lo Spirito Santo, nella sua sapienza, ben conosceva il cammino su cui li stava conducendo, che si poteva quindi porre la propria fiducia in Dio, donando senza riserve a Lui se stessi, i propri talenti, i propri limiti e il proprio futuro.

Molti di voi qui presenti hanno riconosciuto questa segreta chiamata dello Spirito Santo ed hanno risposto con tutto lo slancio del cuore. L’amore per Gesù, “riversato nei vostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che vi è stato dato” (cfr Rm 5, 5), vi ha indicato la via della vita consacrata. Non siete stati voi a cercarla. È stato Gesù a chiamarvi, invitandovi ad una unione più profonda con Lui. Nel sacramento del santo Battesimo avete rinunciato a Satana e alle sue opere ed avete ricevuto le grazie necessarie per la vita cristiana e per la santità. Da quel momento è sbocciata in voi la grazia della fede, che vi ha permesso di unirvi con Dio. Al momento della professione religiosa o della promessa, la fede vi ha condotti verso un’adesione totale al mistero del Cuore di Gesù, del quale avete scoperto i tesori. Avete allora rinunciato a cose buone, a disporre liberamente della vostra vita, a formarvi una famiglia, ad accumulare dei beni, per poter essere liberi di donarvi senza riserve a Cristo e al suo Regno. Ricordate il vostro entusiasmo quando avete intrapreso il pellegrinaggio della vita consacrata, fidando sull’aiuto della grazia? Procurate di non smarrire lo slancio originario, e lasciate che Maria vi conduca verso un’adesione sempre più piena! Cari religiosi, care religiose, care persone consacrate! Qualunque sia la missione affidatavi, qualunque servizio claustrale o apostolico stiate compiendo, conservate nel cuore il primato della vostra vita consacrata. Sia essa a ravvivare la vostra fede. La vita consacrata vissuta nella fede, unisce strettamente a Dio, desta i carismi e conferisce una straordinaria fecondità al vostro servizio.

Carissimi candidati al sacerdozio! Quale aiuto può venire anche a voi dalla riflessione sul modo in cui Maria imparava da Gesù! Sin dal suo primo “fiat”, attraverso i lunghi, ordinari anni della vita nascosta, mentre educava Gesù, oppure quando a Cana di Galilea sollecitava il primo segno o quando, infine, sul calvario accanto alla croce fissava Gesù, Lo “imparava” momento per momento. Prima nella fede e poi nel proprio seno, aveva accolto il Corpo di Gesù e lo aveva dato alla luce. Giorno dopo giorno, lo aveva adorato estasiata, Lo aveva servito con amore responsabile, aveva cantato nel cuore il Magnificat.

Nel vostro cammino e nel vostro futuro ministero sacerdotale fatevi guidare da Maria ad “imparare” Gesù! FissateLo, lasciate che sia Lui a formarvi, per essere in grado un domani, nel vostro ministero, di far vedere Lui a quanti vi avvicineranno. Quando prenderete nelle vostre mani il Corpo eucaristico di Gesù, per cibare di Lui il Popolo di Dio, e quando assumerete la responsabilità per quella parte del Corpo Mistico che vi verrà affidata, ricordate l’atteggiamento di stupore e di adorazione che caratterizzò la fede di Maria. Come Lei nel suo responsabile, materno amore verso Gesù, conservò l’amore verginale colmo di stupore, così anche voi, inginocchiandovi liturgicamente al momento della consacrazione, conservate nel vostro animo la capacità di stupirvi e di adorare. Sappiate riconoscere nel Popolo di Dio affidatovi i segni della presenza di Cristo. Siate attenti e sensibili ai segni di santità che Dio vi farà vedere tra i fedeli. Non temete per i doveri e le incognite del futuro! Non temete che vi manchino le parole o che vi imbattiate nel rifiuto! Il mondo e la Chiesa hanno bisogno di sacerdoti, di santi sacerdoti.

Cari rappresentanti dei nuovi Movimenti nella Chiesa. La vitalità delle vostre comunità è un segno della presenza attiva dello Spirito Santo! È dalla fede della Chiesa e dalla ricchezza dei frutti dello Spirito Santo che è nata la vostra missione. Il mio augurio è che possiate essere sempre più numerosi, per servire la causa del Regno di Dio nel mondo di oggi. Credete nella grazia di Dio che vi accompagna e portatela nei vivi tessuti della Chiesa e in modo particolare là dove non può giungere il sacerdote, il religioso o la religiosa. I Movimenti a cui appartenete sono molteplici. Vi nutrite di dottrina proveniente da diverse scuole di spiritualità, riconosciute dalla Chiesa. Approfittate della sapienza dei santi, ricorrete all’eredità che hanno lasciata. Formate le vostre menti e i vostri cuori sulle opere dei grandi maestri e dei testimoni della fede, memori che le scuole di spiritualità non devono essere un tesoro chiuso nelle biblioteche dei conventi. La sapienza evangelica, letta nelle opere dei grandi santi e verificata nella propria vita, va portata in modo maturo, non infantile e non aggressivo, nel mondo della cultura e del lavoro, nel mondo dei media e della politica, nel mondo della vita familiare e di quella sociale. La verifica dell’autenticità della vostra fede e della vostra missione, che non attira l’attenzione su di sé, ma realmente porta intorno a sé la fede e l’amore, sarà il confronto con la fede di Maria. Specchiatevi nel suo cuore. Rimanete alla sua scuola!

Quando gli Apostoli, pieni di Spirito Santo, andarono in tutto il mondo annunciando il Vangelo, uno di loro, Giovanni, l’apostolo dell’amore, in modo particolare “prese Maria nella sua casa” (cfr Gv 19, 27). Fu proprio grazie al suo profondo vincolo con Gesù e con Maria che egli poté insistere così efficacemente sulla verità che “Dio è amore” (1 Gv 4, 8.16). Queste parole ho voluto prendere io stesso come avvio della prima Enciclica del mio Pontificato: Deus caritas est! Questa verità su Dio è la più importante, la più centrale. A tutti coloro a cui è difficile credere in Dio, io oggi ripeto:  “Dio è amore”. Siate voi stessi, cari amici, testimoni di questa verità. Lo sarete efficacemente, se vi metterete alla scuola di Maria. Accanto a Lei sperimenterete voi stessi che Dio è amore, e ne trasmetterete il messaggio al mondo con la ricchezza e la varietà che lo stesso Spirito Santo saprà suscitare.

Sia lodato Gesù Cristo.


SALUTO DEL SANTO PADRE – INCONTRO CON I MALATI

Kraków-Łagiewniki, 27 maggio 2006

Carissimi fratelli e sorelle, sono lieto di potermi incontrare con voi in occasione della mia visita a questo Santuario della Divina Misericordia. Saluto di cuore tutti voi: i malati, gli assistenti, i sacerdoti che in questo santuario si dedicano alla pastorale, le suore della Beata Vergine Maria della Misericordia, i membri del “Faustinum” e tutti gli altri.

In questa circostanza stiamo davanti a due misteri: il mistero della sofferenza umana e il mistero della Divina Misericordia. Ad un primo sguardo questi due misteri sembrano contrapporsi. Ma quando cerchiamo di approfondirli alla luce della fede, vediamo che essi si pongono in reciproca armonia. Ciò grazie al mistero della croce di Cristo. Come ha detto qui Giovanni Paolo II, “la croce è il più profondo chinarsi della Divinità sull’uomo… La croce è come un tocco dell’eterno amore sulle ferite più dolorose dell’esistenza terrena dell’uomo” (17.08.2002).

Voi, cari malati, segnati dalla sofferenza del corpo o dell’animo, siete i più uniti alla croce di Cristo, ma nello stesso tempo i più eloquenti testimoni della misericordia di Dio. Per vostro tramite e mediante la vostra sofferenza Egli si china sull’umanità con amore. Siete voi che, dicendo nel silenzio del cuore: “Gesù, in te confido”, ci insegnate che non c’è una fede più profonda, una speranza più viva e un amore più ardente della fede, della speranza e dell’amore di chi nello sconforto si mette nelle mani sicure di Dio. E le mani di coloro che vi aiutano nel nome della misericordia siano un prolungamento di queste grandi mani di Dio.

Vorrei tanto abbracciare ognuno e ognuna di voi. Anche se praticamente questo non è possibile, vi stringo al cuore nello spirito, e vi imparto la mia Benedizione, nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo.


_06 Viaggio in Polonia BXVI 9DISCORSO DEL SANTO PADRE – INCONTRO CON I GIOVANI

Kraków-Błonie, 27 maggio 2006

[FranceseIngleseItalianoPolaccoPortogheseSpagnoloTedesco]

Cari giovani amici, vi porgo il mio cordiale benvenuto! La vostra presenza mi rallegra. Sono grato al Signore per questo incontro con il calore della vostra cordialità. Sappiamo che “dove due o tre sono uniti nel nome di Gesù, Egli è in mezzo a loro” (cfr Mt 18, 20). Ma voi siete qui oggi ben più numerosi! Ringrazio per questo ciascuno e ciascuna di voi. Gesù dunque è qui con noi. Egli è presente tra i giovani della terra polacca, per parlare loro di una casa, che non crollerà mai, perché edificata sulla roccia. È la parola  evangelica  che  abbiamo poc’anzi ascoltato (cfr Mt 7, 24-27).

Nel cuore di ogni uomo c’è, amici miei, il desiderio di una casa. Tanto più in un cuore giovane c’è il grande anelito ad una casa propria, che sia solida, nella quale non soltanto si possa tornare con gioia, ma anche con gioia si possa accogliere ogni ospite che viene. È la nostalgia di una casa nella quale il pane quotidiano sia l’amore, il perdono, la necessità di comprensione, nella quale la verità sia la sorgente da cui sgorga la pace del cuore. È la nostalgia di una casa di cui si possa essere orgogliosi, di cui non ci si debba vergognare e della quale non si debba mai piangere il crollo. Questa nostalgia non è che il desiderio di una vita piena, felice, riuscita. Non abbiate paura di questo desiderio! Non lo sfuggite! Non vi scoraggiate alla vista delle case crollate, dei desideri vanificati, delle nostalgie svanite. Dio Creatore, che infonde in un giovane cuore l’immenso desiderio della felicità, non lo abbandona poi  nella faticosa costruzione di  quella  casa che si chiama vita.

Amici miei, una domanda si impone: “Come costruire questa casa?”. È una domanda che sicuramente si è già affacciata molte volte al vostro cuore e che ancora tante volte ritornerà. È una domanda che è doveroso porre a se stessi non una volta soltanto. Ogni giorno deve stare davanti agli occhi del cuore: come costruire quella casa chiamata vita? Gesù, le cui parole abbiamo ascoltato nella redazione dell’evangelista Matteo, ci esorta a costruire sulla roccia. Soltanto così infatti la casa non crollerà. Ma che cosa vuol dire costruire la casa sulla roccia? Costruire sulla roccia vuol dire prima di tutto: costruire su Cristo e con Cristo. Gesù dice: “Perciò chiunque ascolta queste mie parole e le mette in pratica, è simile a un uomo saggio che ha costruito la sua casa sulla roccia” (Mt 7, 24). Non si tratta qui di parole vuote dette da una persona qualsiasi, ma delle parole di Gesù. Non si tratta di ascoltare una persona qualunque, ma di ascoltare Gesù. Non si tratta di compiere una cosa qualsiasi, ma di compiere le parole di Gesù.

Costruire su Cristo e con Cristo significa costruire su un fondamento che si chiama amore crocifisso. Vuol dire costruire con Qualcuno che, conoscendoci meglio di noi stessi, ci dice: “Tu sei prezioso ai miei occhi, …sei degno di stima e io ti amo” (Is 43, 4). Vuol dire costruire con Qualcuno che è sempre fedele, anche se noi manchiamo di fedeltà, perché egli non può rinnegare se stesso (cfr 2 Tm 2, 13). Vuol dire costruire con Qualcuno che si china costantemente sul cuore ferito dell’uomo e dice: “Non ti condanno; va’ e d’ora in poi non peccare più” (cfr Gv 8, 11). Vuol dire costruire con Qualcuno, che dall’alto della croce stende le sue braccia, per ripetere per tutta l’eternità: “Io do la mia vita per te, uomo, perché ti amo”. Costruire su Cristo vuol dire infine fondare sulla sua volontà tutti i propri desideri, le attese, i sogni, le ambizioni e tutti i propri progetti. Significa dire a se stessi, alla propria famiglia, ai propri amici e al mondo intero e soprattutto a Cristo: “Signore, nella vita non voglio fare nulla contro di Te, perché Tu sai che cosa è il meglio per me. Solo Tu hai parole di vita eterna” (cfr Gv 6, 68). Amici miei, non abbiate paura di puntare su Cristo! Abbiate nostalgia di Cristo, come fondamento della vita! Accendete in voi il desiderio di costruire la vostra  vita  con  Lui  e   per Lui!  Perché  non può perdere colui che punta tutto sull’amore  crocifisso  del  Verbo incarnato.

Costruire sulla roccia significa costruire su Cristo e con Cristo, che è la roccia. Nella Prima Lettera ai Corinzi san Paolo, parlando del cammino del popolo eletto attraverso il deserto, spiega che tutti “bevvero … da una roccia spirituale che li accompagnava, e quella roccia era il Cristo” (1 Cor 10, 4). I padri del popolo eletto certamente non sapevano che quella roccia era Cristo. Non erano consapevoli di essere accompagnati da Colui il quale, quando sarebbe venuta la pienezza dei tempi, si sarebbe incarnato, assumendo un corpo umano. Non avevano bisogno di comprendere che la loro sete sarebbe stata soddisfatta dalla Sorgente stessa della vita, capace di offrire l’acqua viva per dissetare ogni cuore. Bevvero tuttavia a questa roccia spirituale che è Cristo, perché avevano nostalgia dell’acqua della vita, ne avevano bisogno. In cammino sulle strade della vita, forse a volte non siamo consapevoli della presenza di Gesù. Ma proprio questa presenza, viva e fedele, la presenza nell’opera della creazione, la presenza nella Parola di Dio e nell’Eucaristia, nella comunità dei credenti e in ogni uomo redento dal prezioso Sangue di Cristo, questa presenza è la fonte inesauribile della forza umana. Gesù di Nazaret, Dio che si è fatto Uomo, sta accanto a noi nella buona e nella cattiva sorte e ha sete di questo legame, che è in realtà il fondamento dell’autentica umanità. Leggiamo nell’Apocalisse queste significative parole: “Ecco sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me” (Ap 3, 20).

Amici miei, che cosa vuol dire costruire sulla roccia? Costruire sulla roccia significa anche costruire su Qualcuno che è stato rifiutato. San Pietro parla ai suoi fedeli di Cristo come di una “pietra viva rigettata dagli uomini, ma scelta e preziosa davanti a Dio” (1 Pt 2, 4). Il fatto innegabile dell’elezione di Gesù da parte di Dio non nasconde il mistero del male, a causa del quale l’uomo è capace di rigettare Colui che lo ha amato sino alla fine. Questo rifiuto di Gesù da parte degli uomini, menzionato da san Pietro, si protrae nella storia dell’umanità e giunge anche ai nostri tempi. Non occorre una grande acutezza di mente per scorgere le molteplici manifestazioni del rigetto di Gesù, anche lì dove Dio ci ha concesso di crescere. Più volte Gesù è ignorato, è deriso, è proclamato re del passato, ma non dell’oggi e tanto meno del domani, viene accantonato nel ripostiglio di questioni e di persone di cui non si dovrebbe parlare ad alta voce e in pubblico. Se nella costruzione della casa della vostra vita incontrate coloro che disprezzano il fondamento su cui voi state costruendo, non vi scoraggiate! Una fede forte deve attraversare delle prove. Una fede viva deve sempre crescere. La nostra fede in  Gesù  Cristo, per rimanere tale, deve spesso confrontarsi con la mancanza di fede degli altri.

Cari amici, che cosa vuol dire costruire sulla roccia? Costruire sulla roccia vuol dire essere consapevoli che si avranno delle contrarietà. Cristo dice: “Cadde la pioggia, strariparono i fiumi, soffiarono i venti e si abbatterono sulla casa…” (Mt 7, 25). Questi fenomeni naturali non sono soltanto l’immagine delle molteplici contrarietà della sorte umana, ma ne indicano anche la normale prevedibilità. Cristo non promette che su una casa in costruzione non cadrà mai un acquazzone, non promette che un’onda rovinosa non travolgerà ciò che per noi è più caro, non promette che venti impetuosi non porteranno via ciò che abbiamo costruito a volte a prezzo di enormi sacrifici. Cristo comprende non solo l’aspirazione dell’uomo ad una casa duratura, ma è pienamente consapevole anche di tutto ciò che può ridurre in rovina la felicità dell’uomo. Non vi meravigliate dunque delle contrarietà, qualunque esse siano! Non vi scoraggiate a motivo di esse! Un edificio costruito sulla roccia non equivale ad una costruzione sottratta al gioco delle forze naturali, iscritte nel mistero dell’uomo. Aver costruito sulla roccia significa poter contare sulla consapevolezza che nei momenti  difficili  c’è  una  forza  sicura su cui fare affidamento.

Amici miei, consentitemi di insistere: che cosa vuol dire costruire sulla roccia? Vuol dire costruire con saggezza. Non senza un motivo Gesù paragona coloro che ascoltano le sue parole e le mettono in pratica a un uomo saggio che ha costruito la sua casa sulla roccia. È stoltezza, infatti, costruire sulla sabbia, quando si può farlo sulla roccia, avendo così una casa in grado di resistere ad ogni bufera. È stoltezza costruire la casa su un terreno che non offre le garanzie di reggere nei momenti più difficili. Chissà, forse è anche più facile fondare la propria vita sulle sabbie mobili della propria visione del mondo, costruire il proprio futuro lontano dalla parola di Gesù, e a volte perfino contro di essa. Resta tuttavia che chi costruisce in questo modo non è prudente, perché vuol persuadere se stesso e gli altri che nella sua vita non si scatenerà alcuna tempesta, che nessuna onda colpirà la sua casa. Essere saggio significa sapere che la solidità della casa dipende dalla scelta del fondamento. Non abbiate paura di essere saggi, cioè non abbiate paura di costruire sulla roccia!

Amici miei, ancora una volta: che cosa vuol dire costruire sulla roccia? Costruire sulla roccia vuol dire anche costruire su Pietro e con Pietro. A lui infatti il Signore disse: “Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le porte degli inferi non prevarranno contro di essa” (Mt 16, 16). Se Cristo, la Roccia, la pietra viva e preziosa, chiama il suo Apostolo pietra, significa che egli vuole che Pietro, e insieme a lui la Chiesa intera, siano segno visibile dell’unico Salvatore e Signore. Qui, a Cracovia, la città prediletta del mio Predecessore Giovanni Paolo II, le parole sul costruire con Pietro e su Pietro non stupiscono certo nessuno. Perciò vi dico: non abbiate paura a costruire la vostra vita nella Chiesa e con la Chiesa! Siate fieri dell’amore per Pietro e per la Chiesa a lui affidata. Non vi lasciate illudere da coloro che vogliono contrapporre Cristo alla Chiesa! C’è un’unica roccia sulla quale vale la pena di costruire la casa. Questa roccia è Cristo. C’è solo una pietra su cui vale la pena di poggiare tutto. Questa pietra è colui a cui Cristo ha detto: “Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa” (Mt 16, 18). Voi giovani avete conosciuto bene il Pietro dei nostri tempi. Perciò non dimenticate che né quel Pietro che sta osservando il nostro incontro dalla finestra di Dio Padre, né questo Pietro che ora sta dinanzi a voi, né nessun Pietro successivo sarà mai contro di voi, né contro la costruzione di una casa durevole sulla roccia. Anzi, impegnerà il suo cuore ed entrambe le mani nell’aiutarvi a costruire la vita su Cristo e con Cristo.

Cari amici, meditando le parole di Cristo sulla roccia come fondamento adeguato per la casa, non possiamo non rilevare che l’ultima parola è una parola di speranza. Gesù dice che, nonostante lo scatenarsi degli elementi, la casa non è crollata, perché era fondata sulla roccia. In questa sua parola c’è una straordinaria fiducia nella forza del fondamento, la fede che non teme smentite perché confermata dalla morte e risurrezione di Cristo. Questa è la fede che, dopo anni, verrà confessata da san Pietro nella sua lettera: “Ecco, io pongo in Sion una pietra angolare, scelta, preziosa e chi crede in essa non resterà confuso” (1 Pt 2, 6). Certamente “Non resterà confuso…”. Cari giovani amici, la paura dell’insuccesso può a volte frenare perfino i sogni più belli. Può paralizzare la volontà e rendere incapaci di credere che possa esistere una casa costruita sulla roccia. Può persuadere che la nostalgia della casa è soltanto un desiderio giovanile e non un progetto per la vita. Insieme a Gesù dite a questa paura: “Non può cadere una casa fondata sulla roccia”! Insieme con san Pietro dite alla tentazione del dubbio: “Chi crede in Cristo non resterà confuso!”. Siate testimoni della speranza, di quella speranza che non teme di costruire la casa della propria vita, perché sa bene di poter contare sul fondamento che non crollerà mai: Gesù Cristo nostro Signore.

(nella serata i giovani hanno continuato a manifestare a Benedetto XVI affetto e gioia, tanto che, ha dovuto fermarsi con loro per un ulteriore saluto fuori protocollo)

Cari amici!

Stasera ho incontrato i giovani radunati sul prato di Blonia. È stata una serata indimenticabile, in cui si è testimoniata la fede e la volontà di costruire il futuro sulla base degli insegnamenti che Cristo ha lasciato ai suoi discepoli. Ringrazio di cuore la gioventù polacca per questa testimonianza. In essa si iscrive anche la vostra presenza in via Franciszkanska. So che essa è l’espressione del vostro grande affetto per il Papa, per il quale pure vi ringrazio. Il giorno di domani è davanti a noi. Nel salutarvi vi invito per la Santa Messa che celebrerò domani.  Vi  benedico di cuore: nel  nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Buona notte!


Benedetto XVI nella Cella di San Massimiliano Kolbe

Benedetto XVI nella Cella di San Massimiliano Kolbe

OMELIA DEL SANTO PADRE – CELEBRAZIONE EUCARISTICA

Kraków-Błonie, 28 maggio 2006

[FranceseInglesePolaccoPortogheseSpagnoloTedesco]

“Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo?” (At 1, 11).

Fratelli e sorelle, oggi, sulla spianata di Błonie di Cracovia risuona nuovamente questa domanda riferita negli Atti degli Apostoli. Questa volta essa viene rivolta a tutti noi: “Perché state a guardare il cielo?” Nella risposta a questa domanda è racchiusa la verità fondamentale sulla vita e sul destino dell’uomo.

La domanda in questione si riferisce a due atteggiamenti connessi con le due realtà, nelle quali è inscritta la vita dell’uomo: quella terrena e quella celeste. Prima la realtà terrena: “Perché state?” – Perché state sulla terra? Rispondiamo: Stiamo sulla terra, perché il Creatore ci ha posto qui come coronamento all’opera della creazione. L’onnipotente Dio, conformemente al suo ineffabile disegno d’amore, creò il cosmo, lo trasse dal nulla. E dopo aver compiuto quest’opera, chiamò all’esistenza l’uomo, creato a propria immagine e somiglianza (cfr Gn 1, 26-27). Gli elargì la dignità di figlio di Dio e l’immortalità. Sappiamo però che l’uomo si smarrì, abusò del dono della libertà e disse “no” a Dio, condannando in questo modo se stesso ad un’esistenza in cui entrarono il male, il peccato, la sofferenza e la morte. Ma sappiamo anche che Dio stesso non si rassegnò a una situazione del genere ed entrò direttamente nella storia dell’uomo e questa divenne storia della salvezza. “Stiamo sulla terra”, siamo radicati in essa, da essa cresciamo. Qui operiamo il bene sugli estesi campi dell’esistenza quotidiana, nell’ambito della sfera materiale, ed anche nell’ambito di quella spirituale: nelle reciproche relazioni, nell’edificazione della comunità umana, nella cultura. Qui sperimentiamo la fatica dei viandanti in cammino verso la meta lungo strade intricate, tra esitazioni, tensioni, incertezze, ma anche nella profonda consapevolezza che prima o poi questo cammino giungerà al termine. Ed è allora che nasce la riflessione: Tutto qui? La terra su cui “ci troviamo” è il nostro destino definitivo?

In questo contesto, occorre soffermarsi sulla seconda parte dell’interrogativo riportato nella pagina degli Atti: “Perché state a guardare il cielo?” Leggiamo che quando gli Apostoli tentarono di attirare l’attenzione del Risorto sulla questione della ricostruzione del regno terrestre di Israele, Egli “fu elevato in alto sotto i loro occhi e una nube lo sottrasse al loro sguardo”. Ed essi “stavano fissando il cielo mentre egli se n’andava” (At 1, 9-10). Stavano dunque fissando il cielo, poiché accompagnavano con lo sguardo Gesù Cristo, crocifisso e risorto, che veniva sollevato in alto. Non sappiamo se si resero conto in quel momento del fatto che proprio dinanzi ad essi si stava schiudendo un orizzonte magnifico, infinito, il punto d’arrivo definitivo del pellegrinaggio terreno dell’uomo. Forse lo capirono soltanto il giorno di Pentecoste, illuminati dallo Spirito Santo. Per noi, tuttavia, quell’evento di duemila anni fa è ben leggibile. Siamo chiamati, rimanendo in terra, a fissare il cielo, ad orientare l’attenzione, il pensiero e il cuore verso l’ineffabile mistero di Dio. Siamo chiamati a guardare nella direzione della realtà divina, verso la quale l’uomo è orientato sin dalla creazione. Là è racchiuso il senso definitivo della nostra vita.

Cari fratelli e sorelle, con profonda commozione celebro oggi l’Eucaristia sulla spianata di Błonie di Cracovia, luogo in cui più volte celebrò il Santo Padre Giovanni Paolo II durante i suoi indimenticabili viaggi apostolici nel Paese natale. Durante la liturgia si incontrava con il popolo di Dio quasi in ogni angolo del mondo, ma non vi sono dubbi, che ogni volta la celebrazione della Santa Messa sulla spianata di Błonie a Cracovia, era per lui un evento eccezionale. Qui tornava con il pensiero e con il cuore alle radici, alle fonti della sua fede e del suo servizio nella Chiesa. Da qui vedeva Cracovia e tutta la Polonia. Durante il primo pellegrinaggio in Polonia, il 10 giugno del 1979, terminando la sua omelia su questa spianata, disse con nostalgia: “Permettete che, prima di lasciarvi, rivolga ancora uno sguardo su Cracovia, questa Cracovia della quale ogni pietra e ogni mattone mi sono cari. E che guardi ancora da qui la Polonia…”. Durante l’ultima Santa Messa celebrata in questo luogo il 18 agosto 2002, nell’omelia disse: “Sono riconoscente per l’invito a visitare la mia Cracovia e per l’ospitalità offertami” (n. 2). Voglio accogliere queste parole, farle mie e ripeterle oggi: vi ringrazio di tutto cuore “per l’invito a visitare la mia Cracovia e per l’ospitalità offertami”. Cracovia, la città di Karol Wojtyła e di Giovanni Paolo II, è anche la mia Cracovia! È anche una Cracovia cara al cuore di innumerevoli moltitudini di cristiani in tutto il mondo, i quali sanno che Giovanni Paolo II giunse sul colle Vaticano da questa città, dal colle di Wawel, “da un paese lontano”, il quale, grazie a questo avvenimento, divenne un paese caro a tutti.

All’inizio del secondo anno del mio pontificato sono venuto in Polonia e a Cracovia per un bisogno del cuore, come pellegrino sulle orme del mio Predecessore. Volevo respirare l’aria della sua Patria. Volevo guardare la terra nella quale nacque e dove crebbe per assumere l’instancabile servizio a Cristo e alla Chiesa universale. Desideravo prima di tutto incontrare gli uomini vivi, i suoi connazionali, sperimentare la vostra fede dalla quale egli trasse la linfa vitale, ed assicurarmi che siete saldi in essa. Qui voglio anche pregare Dio di conservare in voi il retaggio della fede, della speranza e della carità lasciato al mondo, e in modo particolare a voi, da Giovanni Paolo II.

Cari fratelli e sorelle, il motto del mio pellegrinaggio in terra polacca, sulle orme di Giovanni Paolo II, è costituito dalle parole: “Rimanete saldi nella fede!”. L’esortazione racchiusa in queste parole è rivolta a tutti noi che formiamo la comunità dei discepoli di Cristo, è rivolta a ciascuno di noi. La fede è un atto umano molto personale, che si realizza in due dimensioni. Credere vuol dire prima di tutto accettare come verità ciò che la nostra mente non comprende fino in fondo. Bisogna accettare ciò che Dio ci rivela su se stesso, su noi stessi e sulla realtà che ci circonda, anche quella invisibile, ineffabile, inimmaginabile. Questo atto di accettazione della verità rivelata, allarga l’orizzonte della nostra conoscenza e ci permette di giungere al mistero in cui è immersa la nostra esistenza. Un consenso a tale limitazione della ragione non si concede facilmente. Ed è proprio qui che la fede si manifesta nella sua seconda dimensione: quella di affidarsi ad una persona – non ad una persona ordinaria, ma a Cristo. È importante ciò in cui crediamo, ma ancor più importante è colui a cui crediamo.

San Paolo ci parla di questo nel passo della Lettera agli Efesini che è stato letto oggi. Dio ci ha dato uno spirito di sapienza e “gli occhi della nostra mente per farci comprendere a quale speranza ci ha chiamati, quale tesoro di gloria racchiude la sua eredità fra i santi e quale è la straordinaria grandezza della sua potenza verso di noi credenti secondo l’efficacia della sua forza che egli manifestò in Cristo” (cfr Ef 1, 17-20). Credere vuol dire abbandonarsi a Dio, affidare la nostra sorte a Lui. Credere vuol dire stabilire un personalissimo legame con il nostro Creatore e Redentore in virtù dello Spirito Santo, e far sì che questo legame sia il fondamento di tutta la vita.

Oggi abbiamo sentito le parole di Gesù: “Avrete forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi e mi sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino agli estremi confini della terra” (At 1, 8). Secoli fa queste parole giunsero anche in terra polacca. Esse costituirono e continuano costantemente a costituire una sfida per tutti coloro che ammettono di appartenere a Cristo, per i quali la sua causa è la più importante. Dobbiamo essere testimoni di Gesù che vive nella Chiesa e nei cuori degli uomini. È Lui ad assegnarci una missione. Il giorno della sua ascensione in cielo disse agli Apostoli: “Andate in tutto il mondo e predicate il vangelo ad ogni creatura… Allora essi partirono e predicarono dappertutto, mentre il Signore operava insieme con loro e confermava la parola con i prodigi che l’accompagnavano” (Mc 16, 15). Cari fratelli e sorelle! Insieme all’elezione di Karol Wojtyła alla Sede di Pietro a servizio di tutta la Chiesa, la vostra terra è divenuta luogo di una particolare testimonianza di fede in Gesù Cristo. Voi stessi siete stati chiamati a rendere questa testimonianza dinanzi al mondo intero. Questa vostra vocazione è sempre attuale, e forse ancora più attuale dal momento della beata morte del Servo di Dio. Non manchi al mondo la vostra testimonianza!

Prima di tornare a Roma, per continuare il mio ministero, esorto tutti voi, ricollegandomi alle parole che Giovanni Paolo II pronunciò qui nell’anno 1979: “Dovete essere forti, carissimi fratelli e sorelle! Dovete essere forti di quella forza che scaturisce dalla fede! Dovete essere forti della forza della fede! Dovete essere fedeli! Oggi più che in qualsiasi altra epoca avete bisogno di questa forza. Dovete essere forti della forza della speranza, che porta la perfetta gioia di vivere e non permette di rattristare lo Spirito Santo! Dovete essere forti dell’amore, che è più forte della morte… Dovete essere forti della forza della fede, della speranza e della carità, consapevole, matura, responsabile, che ci aiuta a stabilire … il grande dialogo con l’uomo e con il mondo in questa tappa della nostra storia: dialogo con l’uomo e con il mondo, radicato nel dialogo con Dio stesso – col Padre per mezzo del Figlio nello Spirito Santo – dialogo della salvezza” (10 giugno 1979, Omelia, n. 4).

Anch’io, Benedetto XVI, Successore di Papa Giovanni Paolo II, vi prego di guardare dalla terra il cielo – di fissare Colui che – da duemila anni – è seguito dalle generazioni che vivono e si succedono su questa nostra terra, ritrovando in Lui il senso definitivo dell’esistenza. Rafforzati dalla fede in Dio, impegnatevi con ardore nel consolidare il suo Regno sulla terra: il Regno del bene, della giustizia, della solidarietà e della misericordia. Vi prego di testimoniare con coraggio il Vangelo dinanzi al mondo di oggi, portando la speranza ai poveri, ai sofferenti, agli abbandonati, ai disperati, a coloro che hanno sete di libertà, di verità e di pace. Facendo del bene al prossimo e mostrandovi solleciti per il bene comune, testimoniate che Dio è amore.

Vi prego, infine, di condividere con gli altri popoli dell’Europa e del mondo il tesoro della fede, anche in considerazione della memoria del vostro Connazionale che, come Successore di San Pietro, questo ha fatto con straordinaria forza ed efficacia. E ricordatevi anche di me nelle vostre preghiere e nei vostri sacrifici, come ricordavate il mio grande Predecessore, affinché io possa compiere la missione affidatami da Cristo. Vi prego, rimanete saldi nella fede! Rimanete saldi nella speranza! Rimanete saldi nella carità! Amen!

PRIMA DEL REGINA CAELI

Kraków-Błonie, 28 maggio 2006

Prima di concludere questa solenne liturgia con il canto del Regina Caeli e con la benedizione, voglio ancora una volta salutare i cracoviani e tutti gli ospiti da tutta la Polonia che hanno voluto partecipare a questa Santa Messa. Alla Madre del Redentore affido tutti voi e Le chiedo di guidarvi nella fede. Vi ringrazio per la presenza e per la testimonianza della vostra fede. In modo particolare mi rivolgo alla gioventù, che ieri ha espresso il suo legame a Cristo e alla Chiesa. Ieri mi avete portato come dono il libro delle dichiarazioni: “Non la prendo, sono libero dalla droga”. Vi chiedo come padre: siate fedeli a questa parola. Qui si tratta della vostra vita e della vostra libertà. Non lasciatevi soggiogare dalle illusioni di questo mondo. Voglio anche salutare i borsisti della Fondazione Opera del Nuovo Millennio. Vi auguro successi nell’apprendimento della scienza e nella preparazione del vostro futuro. Saluto tutti i rappresentanti delle più alte autorità della Repubblica Polacca. Sono grato all’Episcopato Polacco e ai rappresentanti degli Episcopati dei numerosi Paesi dell’Europa, che hanno voluto partecipare a questo mio pellegrinaggio in terra polacca. Saluto i professori e gli studenti degli Atenei di tutta la Polonia, rappresentati da così numerosi Rettori. Ringrazio tutti, coloro che in vari modi, anche mediante lo sforzo di organizzare gli incontri con i fedeli, mi hanno dimostrato benevolenza. Maria interceda per voi e vi ottenga tutte le grazie necessarie.


L'arcobaleno durante il Discorso di Benedetto XVI ad Auschwitz

L’arcobaleno durante il Discorso di Benedetto XVI ad Auschwitz

DISCORSO DEL SANTO PADRE – VISITA AL CAMPO DI AUSCHWITZ

Auschwitz-Birkenau, 28 maggio 2006

[FranceseInglese, PolaccoPortogheseTedescoSpagnolo]

Prendere la parola in questo luogo di orrore, di accumulo di crimini contro Dio e contro l’uomo che non ha confronti nella storia, è quasi impossibile – ed è particolarmente difficile e opprimente per un cristiano, per un Papa che proviene dalla Germania. In un luogo come questo vengono meno le parole, in fondo può restare soltanto uno sbigottito silenzio – un silenzio che è un interiore grido verso Dio: Perché, Signore, hai taciuto? Perché hai potuto tollerare tutto questo? È in questo atteggiamento di silenzio che ci inchiniamo profondamente nel nostro intimo davanti alla innumerevole schiera di coloro che qui hanno sofferto e sono stati messi a morte; questo silenzio, tuttavia, diventa poi domanda ad alta voce di perdono e di riconciliazione, un grido al Dio vivente di non permettere mai più una simile cosa.

Ventisette anni fa, il 7 giugno 1979, era qui Papa Giovanni Paolo II; egli disse allora: “Vengo qui oggi come pellegrino. Si sa che molte volte mi sono trovato qui… Quante volte! E molte volte sono sceso nella cella della morte di Massimiliano Kolbe e mi sono fermato davanti al muro della morte e sono passato tra le macerie dei forni crematori di Birkenau. Non potevo non venire qui come Papa”. Papa Giovanni Paolo II stava qui come figlio di quel popolo che, accanto al popolo ebraico, dovette soffrire di più in questo luogo e, in genere, nel corso della guerra: “Sono sei milioni di Polacchi, che hanno perso la vita durante la seconda guerra mondiale: la quinta parte della nazione”, ricordò allora il Papa. Qui egli elevò poi il solenne monito al rispetto dei diritti dell’uomo e delle nazioni, che prima di lui avevano elevato davanti al mondo i suoi Predecessori Giovanni XXIII e Paolo VI, e aggiunse: “Pronuncia queste parole […] il figlio della nazione che nella sua storia remota e più recente ha subito dagli altri un molteplice travaglio. E non lo dice per accusare, ma per ricordare. Parla a nome di tutte le nazioni, i cui diritti vengono violati e dimenticati…”.

Papa Giovanni Paolo II era qui come figlio del popolo polacco.  Io sono oggi qui come figlio del popolo tedesco, e proprio per questo devo e posso dire come lui: Non potevo non venire qui. Dovevo venire. Era ed è un dovere di fronte alla verità e al diritto di quanti hanno sofferto, un dovere davanti a Dio, di essere qui come successore di Giovanni Paolo II e come figlio del popolo tedesco – figlio di quel popolo sul quale un gruppo di criminali raggiunse il potere mediante promesse bugiarde, in nome di prospettive di grandezza, di ricupero dell’onore della nazione e della sua rilevanza, con previsioni di benessere e anche con la forza del terrore e dell’intimidazione, cosicché il nostro popolo poté essere usato ed abusato come strumento della loro smania di distruzione e di dominio. Sì, non potevo non venire qui. Il 7 giugno 1979 ero qui come Arcivescovo di Monaco-Frisinga tra i tanti Vescovi che accompagnavano il Papa, che lo ascoltavano e pregavano con lui. Nel 1980 sono poi tornato ancora una volta in questo luogo di orrore con una delegazione di Vescovi tedeschi, sconvolto a causa del male e grato per il fatto che sopra queste tenebre era sorta la stella della riconciliazione. È ancora questo lo scopo per cui mi trovo oggi qui: per implorare la grazia della riconciliazione – da Dio innanzitutto che, solo, può aprire e purificare i nostri cuori; dagli uomini poi che qui hanno sofferto, e infine la grazia della riconciliazione per tutti coloro che, in quest’ora della nostra storia, soffrono in modo nuovo sotto il potere dell’odio e sotto la violenza fomentata dall’odio.

Quante domande ci si impongono in questo luogo! Sempre di nuovo emerge la domanda: Dove era Dio in quei giorni? Perché Egli ha taciuto? Come poté tollerare questo eccesso di distruzione, questo trionfo del male? Ci vengono in mente le parole del Salmo 44, il lamento dell’Israele sofferente: “…Tu ci hai abbattuti in un luogo di sciacalli e ci hai avvolti di ombre tenebrose… Per te siamo messi a morte, stimati come pecore da macello. Svégliati, perché dormi, Signore? Déstati, non ci respingere per sempre! Perché nascondi il tuo volto, dimentichi la nostra miseria e oppressione? Poiché siamo prostrati nella polvere, il nostro corpo è steso a terra. Sorgi, vieni in nostro aiuto; salvaci per la tua misericordia!” (Sal 44,20.23-27). Questo grido d’angoscia che l’Israele sofferente eleva a Dio in periodi di estrema angustia, è al contempo il grido d’aiuto di tutti coloro che nel corso della storia – ieri, oggi e domani – soffrono per amor di Dio, per amor della verità e del bene; e ce ne sono molti, anche oggi.

Noi non possiamo scrutare il segreto di Dio – vediamo soltanto frammenti e ci sbagliamo se vogliamo farci giudici di Dio e della storia. Non difenderemmo, in tal caso, l’uomo, ma contribuiremmo solo alla sua distruzione. No – in definitiva, dobbiamo rimanere con l’umile ma insistente grido verso Dio: Svégliati! Non dimenticare la tua creatura, l’uomo! E il nostro grido verso Dio deve al contempo essere un grido che penetra il nostro stesso cuore, affinché si svegli in noi la nascosta presenza di Dio – affinché quel suo potere che Egli ha depositato nei nostri cuori non venga coperto e soffocato in noi dal fango dell’egoismo, della paura degli uomini, dell’indifferenza e dell’opportunismo. Emettiamo questo grido davanti a Dio, rivolgiamolo allo stesso nostro cuore, proprio in questa nostra ora presente, nella quale incombono nuove sventure, nella quale sembrano emergere nuovamente dai cuori degli uomini tutte le forze oscure: da una parte, l’abuso del nome di Dio per la giustificazione di una violenza cieca contro persone innocenti; dall’altra, il cinismo che non conosce Dio e che schernisce la fede in Lui. Noi gridiamo verso Dio, affinché spinga gli uomini a ravvedersi, così che  riconoscano che la violenza non crea la pace, ma solo suscita altra violenza – una spirale di distruzioni, in cui tutti in fin dei conti possono essere soltanto perdenti. Il Dio, nel quale noi crediamo, è un Dio della ragione – di una ragione, però, che certamente non è una neutrale matematica dell’universo, ma che è una cosa sola con l’amore, col bene. Noi preghiamo Dio e gridiamo verso gli uomini, affinché questa ragione, la ragione dell’amore e del riconoscimento della forza della riconciliazione e della pace prevalga sulle minacce circostanti dell’irrazionalità o di una ragione falsa, staccata da Dio.

Il luogo in cui ci troviamo è un luogo della memoria, è il luogo della Shoa. Il passato non è mai soltanto passato. Esso riguarda noi e ci indica le vie da non prendere e quelle da prendere. Come Giovanni Paolo II ho percorso il cammino lungo le lapidi che, nelle varie lingue, ricordano le vittime di questo luogo: sono lapidi in bielorusso, ceco, tedesco, francese, greco, ebraico, croato, italiano, yiddish, ungherese, neerlandese, norvegese, polacco, russo, rom, rumeno, slovacco, serbo, ucraino, giudeo-ispanico, inglese. Tutte queste lapidi commemorative parlano di dolore umano, ci lasciano intuire il cinismo di quel potere che trattava gli uomini come materiale non riconoscendoli come persone, nelle quali rifulge l’immagine di Dio. Alcune lapidi invitano ad una commemorazione particolare. C’è quella in lingua ebraica. I potentati del Terzo Reich volevano schiacciare il popolo ebraico nella sua totalità; eliminarlo dall’elenco dei popoli della terra. Allora le parole del Salmo: “Siamo messi a morte, stimati come pecore da macello” si verificarono in modo terribile. In fondo, quei criminali violenti, con l’annientamento di questo popolo, intendevano uccidere quel Dio che chiamò Abramo, che parlando sul Sinai stabilì i criteri orientativi dell’umanità che restano validi in eterno. Se questo popolo, semplicemente con la sua esistenza, costituisce una testimonianza di quel Dio che ha parlato all’uomo e lo prende in carico, allora quel Dio doveva finalmente essere morto e il dominio appartenere soltanto all’uomo – a loro stessi che si ritenevano i forti che avevano saputo impadronirsi del mondo. Con la distruzione di Israele, con la Shoa, volevano, in fin dei conti, strappare anche la radice, su cui si basa la fede cristiana, sostituendola definitivamente con la fede fatta da sé, la fede nel dominio dell’uomo, del forte. C’è poi la lapide in lingua polacca: In una prima fase e innanzitutto si voleva eliminare l’élite culturale e cancellare così il popolo come soggetto storico autonomo per abbassarlo, nella misura in cui continuava ad esistere, a un popolo di schiavi. Un’altra lapide, che invita particolarmente a riflettere, è quella scritta nella lingua dei Sinti e dei Rom. Anche qui si voleva far scomparire un intero popolo che vive migrando in mezzo agli altri popoli. Esso veniva annoverato tra gli elementi inutili della storia universale, in una ideologia nella quale doveva contare ormai solo l’utile misurabile; tutto il resto, secondo i loro concetti, veniva classificato come lebensunwertes Leben – una vita indegna di essere vissuta.

Poi c’è la lapide in russo che evoca l’immenso numero delle vite sacrificate tra i soldati russi nello scontro con il regime del terrore nazionalsocialista; al contempo, però, ci fa riflettere sul tragico duplice significato della loro missione: hanno liberato i popoli da una dittatura, ma sottomettendo anche gli stessi popoli ad una nuova dittatura, quella di Stalin e dell’ideologia comunista. Anche tutte le altre lapidi nelle molte lingue dell’Europa ci parlano della sofferenza di uomini dell’intero continente; toccherebbero profondamente il nostro cuore, se non facessimo soltanto memoria delle vittime in modo globale, ma se invece vedessimo i volti delle singole persone che sono finite qui nel buio del terrore.

Ho sentito come intimo dovere fermarmi in modo particolare anche davanti alla lapide in lingua tedesca. Da lì emerge davanti a noi il volto di Edith Stein, Theresia Benedicta a Cruce: ebrea e tedesca scomparsa, insieme con la sorella, nell’orrore della notte del campo di concentramento tedesco-nazista; come cristiana ed ebrea, ella accettò di morire insieme con il suo popolo e per esso. I tedeschi, che allora vennero portati ad Auschwitz-Birkenau e qui sono morti, erano visti come Abschaum der Nation – come il rifiuto della nazione. Ora però noi li riconosciamo con gratitudine come i testimoni della verità e del bene, che anche nel nostro popolo non era tramontato. Ringraziamo queste persone, perché non si sono sottomesse al potere del male e ora ci stanno davanti come luci in una notte buia. Con profondo rispetto e gratitudine ci inchiniamo davanti a tutti coloro che, come i tre giovani di fronte alla minaccia della fornace babilonese, hanno saputo rispondere: “Solo il nostro Dio  può salvarci. Ma anche se non ci liberasse, sappi, o re, che noi non serviremo mai i tuoi dèi e non adoreremo la statua d’oro che tu hai eretto” (cfr Dan 3,17s.).

Sì, dietro queste lapidi si cela il destino di innumerevoli esseri umani. Essi scuotono la nostra memoria, scuotono il nostro cuore. Non vogliono provocare in noi l’odio: ci dimostrano anzi quanto sia terribile l’opera dell’odio. Vogliono portare la ragione a riconoscere il male come male e a rifiutarlo; vogliono suscitare in noi il coraggio del bene, della resistenza contro il male. Vogliono portarci a quei sentimenti che si esprimono nelle parole che Sofocle mette sulle labbra di Antigone di fronte all’orrore che la circonda: “Sono qui non per odiare insieme, ma per insieme amare”.

Grazie a Dio, con la purificazione della memoria, alla quale ci spinge questo luogo di orrore, crescono intorno ad esso molteplici iniziative che vogliono porre un limite al male e dar forza al bene. Poco fa ho potuto benedire il Centro per il Dialogo e la Preghiera. Nelle immediate vicinanze si svolge la vita nascosta delle suore carmelitane, che si sanno particolarmente unite al mistero della croce di Cristo e ricordano a noi la fede dei cristiani, che afferma che Dio stesso e sceso nell’inferno della sofferenza e soffre insieme con noi. A Oświęcim esiste il Centro di san Massimiliano e il Centro Internazionale di Formazione su Auschwitz e l’Olocausto. C’è poi la Casa Internazionale per gli Incontri della Gioventù. Presso una delle vecchie Case di Preghiera esiste il Centro Ebraico. Infine si sta costituendo l’Accademia per i Diritti dell’Uomo. Così possiamo sperare che dal luogo dell’orrore spunti e cresca una riflessione costruttiva e che il ricordare aiuti a resistere al male e a far trionfare l’amore.

L’umanità ha attraversato a Auschwitz-Birkenau una “valle oscura”. Perciò vorrei, proprio in questo luogo, concludere con una preghiera di fiducia – con un Salmo d’Israele che, insieme, è una preghiera della cristianità: “Il Signore è il mio pastore: non manco di nulla; su pascoli erbosi mi fa riposare, ad acque tranquille mi conduce. Mi rinfranca, mi guida per il giusto cammino, per amore del suo nome. Se dovessi camminare in una valle oscura, non temerei alcun male, perché tu sei con me. Il tuo bastone e il tuo vincastro mi danno sicurezza … Abiterò nella casa del Signore per lunghissimi anni” (Sal 23, 1-4. 6).