Gesù di Nazaret. La Preghiera del Signore (1)

LA PREGHIERA DEL SIGNORE (*) – di Benedetto XVI – J. Ratzinger

Il Discorso della montagna delinea – come abbiamo visto – un quadro completo della giusta umanità. Vuole indicarci come si fa a essere uomini. Le sue concezioni fondamentali si potrebbero riassumere nell’affermazione: solo a partire da Dio si può comprendere l’uomo e solo se egli vive in relazione con Dio, la sua vita diventa giusta. Dio però non è un lontano sconosciuto. Egli ci mostra il suo volto in Gesù; nel suo agire e nella sua volontà riconosciamo i pensieri e la volontà di Dio stesso. Se essere uomo significa essenzialmente relazione con Dio, è chiaro allora che ne fa parte il parlare con Dio e l’ascoltare Dio. Per questo il Discorso della montagna comprende anche un insegnamento sulla preghiera; il Signore ci dice come dobbiamo pregare.

In Matteo la preghiera del Signore è preceduta da una breve catechesi sulla preghiera, che vuole metterci in guardia soprattutto contro le forme errate del pregare. La preghiera non deve essere un’esibizione davanti agli uomini; esige quella discrezione che è essenziale in una relazione di amore. Dio si rivolge a ogni singolo, chiamandolo col suo nome che nessun altro conosce, ci dice la Scrittura (cfr. Ap 2,17). L’amore di Dio per ogni individuo è totalmente personale e ha in sé questo mistero dell’unicità che non può essere divulgata davanti agli uomini.

Questa essenziale discrezione della preghiera non esclude la dimensione comunitaria: lo stesso Padre nostro è una preghiera alla prima persona plurale, e solo entrando a far parte del «noi» dei figli di Dio possiamo superare i confini di questo mondo ed elevarci fino a Dio. Questo «noi» risveglia, tuttavia, la parte più intima della mia persona; nell’atto del pregare, l’aspetto esclusivamente personale e quello comunitario devono sempre compenetrarsi, come vedremo più da vicino nella spiegazione del Padre nostro. Come nella relazione tra uomo e donna esiste la sfera totalmente personale, che necessita dello spazio protettivo della discrezione, e allo stesso tempo il rapporto a due nel matrimonio e nella famiglia per sua essenza include pure una responsabilità pubblica, così è anche nella relazione con Dio: il «noi» della comunità orante e la dimensione personalissima di ciò che si può comunicare solo a Dio si compenetrano a vicenda.

L’altra forma errata di preghiera, da cui il Signore ci mette in guardia, è il chiacchiericcio, il profluvio di parole, in cui lo spirito soffoca. Tutti conosciamo il pericolo di recitare formule abituali, mentre lo spirito è altrove. Raggiungiamo il massimo grado di attenzione quando chiediamo qualcosa a Dio spinti da un’intima pena o quando Lo ringraziamo con il cuore colmo di gioia per un bene ricevuto. La cosa più importante – al di là di tali situazioni momentanee – è però che la relazione con Dio sia presente sul fondo della nostra anima. Perché ciò accada, è necessario tener sempre desta questa relazione e ricondurvi in continuazione gli avvenimenti quotidiani. Pregheremo tanto meglio quanto più nel profondo della nostra anima è presente l’orientamento verso Dio. Quanto più esso diventa la base portante di tutta la nostra esistenza, tanto più saremo uomini di pace. Tanto più saremo in grado di sopportare il dolore, di capire gli altri e di aprirci a loro.

Questo orientamento che segna totalmente la nostra coscienza, la silenziosa presenza di Dio sul fondo del nostro pensare, meditare ed essere, noi lo chiamiamo «preghiera continua». Ed è anche questo, in fondo, che intendiamo quando parliamo di «amore di Dio»; allo stesso tempo è la condizione più intima e la forza trainante dell’amore del prossimo.

Questa autentica preghiera, il silente, interiore stare con Dio ha bisogno di nutrimento, ed è a questo che serve la preghiera concreta con parole, immaginazioni o pensieri. Quanto più Dio è presente in noi, tanto più potremo davvero stare presso di Lui nelle preghiere orali. Ma vale anche il contrario: la preghiera attiva realizza e approfondisce il nostro stare con Dio. Questa preghiera può e deve sgorgare soprattutto dal nostro cuore, dalle nostre pene, speranze, gioie, sofferenze, dalla vergogna per il peccato come dalla gratitudine per il bene ed essere così preghiera del tutto personale. Ma noi abbiamo sempre bisogno anche dell’appoggio di quelle preghiere in cui ha preso forma l’incontro con Dio dell’intera Chiesa, come in essa delle singole persone.

Senza questi sussidi, infatti, la nostra preghiera personale e la nostra immagine di Dio diventano soggettive e finiscono per rispecchiare più noi stessi che il Dio vivente. Nelle formule di preghiera emerse dapprima dalla fede di Israele e poi dalla fede degli oranti della Chiesa, impariamo a conoscere Dio e a conoscere noi stessi. Sono una scuola di preghiera e così stimolo a mutamenti e aperture della nostra vita.

Nella sua Regola san Benedetto ha coniato la formula «mens nostra concordet voci nostrae» – il nostro spirito concordi con la nostra voce (Reg 19,7). Di solito il pensiero precede la parola, cerca e forma la parola. Ma nella preghiera dei Salmi, nella preghiera liturgica in generale, avviene il contrario: la parola, la voce ci precede, e il nostro spirito deve adeguarsi a questa voce. Noi uomini, infatti, non sappiamo da soli «che cosa sia conveniente domandare» (Rm 8,26) – troppo lontani siamo da Dio, troppo misterioso e grande è Lui per noi. E così Dio ci è venuto in aiuto: ci suggerisce Egli stesso le parole di preghiera e ci insegna a pregare, ci dona, nelle parole di preghiera provenienti da Lui, di metterci in cammino verso di Lui e di conoscerlo a poco a poco attraverso la preghiera con i fratelli che ci ha dato, di avvicinarci a Lui.

In Benedetto la frase appena citata si riferisce direttamente ai Salmi, il grande libro di preghiera del popolo di Dio nell’Antica e nella Nuova Alleanza: queste sono parole che lo Spirito Santo ha donato agli uomini, sono Spirito di Dio divenuto parola. Così noi preghiamo «nello Spirito», con lo Spirito Santo. Naturalmente, questo vale ancora di più nel caso del Padre nostro: quando lo recitiamo, preghiamo Dio con parole date da Dio, dice san Cipriano. E aggiunge: quando recitiamo il Padre nostro, in noi si compie la promessa di Gesù riguardo ai veri adoratori, che adorano il Padre «in spirito e verità» (Gv 4,23). Cristo, che è la Verità, ci ha donato queste parole, e in esse ci dona lo Spirito Santo (cfr. De dom. or. 2). Così qui diventa evidente anche un elemento proprio della mistica cristiana. Essa non è anzitutto un immergersi in se stessi, ma incontro con lo Spirito di Dio nella parola che ci precede, incontro con il Figlio e lo Spirito Santo e così un entrare in unione con il Dio vivente, che è sempre sia dentro sia sopra di noi.

Mentre in Matteo il Padre nostro è introdotto da una piccola catechesi sulla preghiera in generale, in Luca 10 troviamo in un altro contesto – sulla strada di Gesù verso Gerusalemme. Luca introduce la preghiera del Signore con la seguente osservazione: «Un giorno Gesù si trovava in un luogo a pregare e quando ebbe finito, uno dei discepoli gli disse: “Signore, insegnaci a pregare…”» (11,1). Il contesto è dunque l’incontro con il pregare di Gesù, che desta nei discepoli il desiderio di apprendere da Lui a pregare. Questo è assai caratteristico in Luca, il quale nel suo Vangelo riserva alla preghiera di Gesù una rilevanza del tutto particolare. L’insieme dell’operare di Gesù scaturisce dalla sua preghiera, è da essa sostenuto.

Così avvenimenti essenziali del suo cammino, nei quali si rivela via via il suo mistero, appaiono come eventi di preghiera. La confessione di Pietro su Gesù come il Santo di Dio è in rapporto all’incontro con il Gesù in preghiera (cfr.Lc.9,19ss); la trasfigurazione di Gesù è un evento di preghiera (cfr.Lc.9,28s).

È quindi significativo che Luca metta in relazione il Padre nostro con la preghiera personale di Gesù stesso. Egli ci rende così partecipi del suo pregare, ci introduce nel dialogo interiore dell’Amore trinitario, solleva per così dire le nostre umane necessità fino al cuore di Dio. Questo però significa anche che le parole del Padre nostro indicano la via verso la preghiera interiore, rappresentano orientamenti fondamentali per la nostra esistenza, vogliono conformarci a immagine del Figlio. Il significato del Padre nostro va oltre la comunicazione di parole di preghiera. Vuole formare il nostro essere, vuole esercitarci nei sentimenti di Gesù (cfr.Fil.2,5).

Per l’interpretazione del Padre nostro questo ha un duplice significato. Da un lato è molto importante ascoltare con la maggior precisione possibile la parola di Gesù, così come ci è stata tramandata nella Scrittura. Dobbiamo cercare di riconoscere davvero, come meglio possiamo, i pensieri di Gesù, che Egli voleva trasmetterci con queste parole. Ma dobbiamo anche tener presente che il Padre nostro proviene dalla sua preghiera personale, dal dialogo del Figlio con il Padre. Ciò vuol dire che esso raggiunge una grande profondità al di là delle parole. Comprende tutta la vastità dell’esistere umano di ogni tempo e perciò non può essere scandagliato con un’interpretazione meramente storica, per quanto importante essa sia.

I grandi oranti di tutti i secoli, per la loro unione intima col Signore, hanno potuto scendere nelle profondità al di là della parola e sono così in grado di dischiudere ulteriormente la ricchezza nascosta della preghiera. E ognuno di noi, con il suo rapporto del tutto personale con Dio, può trovarsi accolto e custodito in questa preghiera. Sempre di nuovo egli deve con la sua mens – con il proprio spirito – andare incontro alla vox – alla parola che viene a noi dal Figlio, deve aprirsi a essa e da essa lasciarsi guidare. Così si aprirà anche il suo stesso cuore e farà conoscere a ciascuno come il Signore voglia pregare proprio con lui.

II Padre nostro ci è stato tramandato da Luca in una forma più breve, da Matteo nella forma accolta dalla Chiesa e utilizzata nella sua preghiera. Il dibattito su quale testo sia più vicino all’origine non è superfluo, ma nemmeno decisivo. Nell’una come nell’altra redazione noi preghiamo insieme con Gesù e siamo grati che nella forma matteana delle sette domande si presenti chiaramente sviluppato ciò che in Luca sembra in parte solo accennato.

Prima di addentrarci nell’interpretazione delle singole parti, vediamo ora brevemente la struttura del Padre nostro, così come ci è stata tramandata da Matteo. Consiste di un’invocazione iniziale e sette domande.

Tre di queste sono alla seconda persona singolare, quattro alla prima persona plurale. Le prime tre domande riguardano la causa stessa di Dio in questo mondo; le quattro che seguono riguardano le nostre speranze, i nostri bisogni e le nostre difficoltà. Si potrebbe paragonare la relazione tra i due tipi di domande del Padre nostro con quella tra le due tavole del Decalogo che, in fondo, sono spiegazioni delle due parti del comandamento principale – l’amore verso Dio e l’amore verso il prossimo -, parole guida nella via dell’amore.

Così anche nel Padre nostro viene affermato dapprima il primato di Dio, dal quale deriva da sé la preoccupazione per il retto modo di essere uomo. Anche qui si tratta innanzitutto della via dell’amore, che è allo stesso tempo una via di conversione. Perché l’uomo possa chiedere nel modo giusto, deve essere nella verità. E la verità è: «prima Dio, il regno di Dio» (cfr.Mt.6,33).

Dobbiamo innanzitutto uscire da noi stessi e aprirci a Dio. Niente può diventare retto, se noi non stiamo nel retto ordine con Dio. Perciò il Padre nostro comincia con Dio e, a partire da Lui, ci conduce sulle vie dell’essere uomini. Alla fine scendiamo sino all’ultima minaccia per l’uomo, dietro cui si apposta il Maligno – può affiorare in noi l’immagine del drago apocalittico che fa guerra agli uomini «che osservano i comandamenti di Dio e sono in possesso della testimonianza di Gesù» (Ap 12,17). Ma sempre resta presente l’inizio: «Padre nostro» – sappiamo che Egli è con noi, ci tiene nella sua mano, ci salva.

Padre Hans-Peter Kolvenbach, nel suo libro di Esercizi spirituali, racconta di uno staretz ortodosso a cui premeva «di far intonare il Padre nostro sempre con l’ultima parola, per diventare degni di terminare la preghiera con le parole iniziali: “nostro Padre”». In questo modo, spiegava lo staretz, si percorre il cammino pasquale: «Si inizia nel deserto con la tentazione, si ritorna in Egitto, si ripercorre poi la via dell’esodo con le stazioni del perdono e della manna di Dio e si giunge grazie alla volontà di Dio nella terra promessa, il regno di Dio, dove Egli ci comunica il mistero del suo Nome: “nostro Padre”» (p. 65s).

Possano entrambi i cammini, quello ascendente e quello discendente, ricordarci che il Padre nostro è sempre una preghiera di Gesù e che essa si dischiude a partire dalla comunione con Lui. Noi preghiamo il Padre celeste, che conosciamo attraverso il Figlio; e così sullo sfondo delle domande c’è sempre Gesù, come vedremo nelle singole spiegazioni.

Infine, poiché il Padre nostro è una preghiera di Gesù, è una preghiera trinitaria: con Cristo mediante lo Spirito Santo preghiamo il Padre.

_010 Preghiera Jesus Ratzinger parte 2– Padre nostro nei cieli

Iniziamo con l’invocazione «Padre». Nella sua interpretazione del Padre nostro Reinhold Schneider scrive a questo proposito: «Il Padre nostro inizia con una grande consolazione; noi possiamo dire Padre. In questa sola parola è racchiusa l’intera storia della redenzione. Possiamo dire Padre, perché il Figlio era nostro fratello e ci ha rivelato il Padre; perché per opera di Cristo siamo tornati ad essere figli di Dio» (p. 10).

L’uomo di oggi, però, non avverte immediatamente la grande consolazione della parola «padre», poiché l’esperienza del padre è spesso o del tutto assente o offuscata dall’insufficienza dei padri.

Così dobbiamo imparare, a partire da Gesù, innanzitutto che cosa «padre» propriamente significhi. Nei discorsi di Gesù il Padre appare come la fonte di ogni bene, come il criterio di misura dell’uomo divenuto retto («perfetto»): «Ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori, perché siate figli del Padre vostro celeste, che fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni…» (Mt.5,44s). «L’amore sino alla fine» (cfr. Gv 13,1), che il Signore ha portato a compimento sulla croce pregando per i suoi nemici, ci mostra la natura del Padre: Egli è questo Amore. Poiché Gesù lo pratica, Egli è totalmente «Figlio» e ci invita a diventare a nostra volta «figli» – a partire da questo criterio.

Prendiamo ancora un altro testo. Il Signore ricorda che i padri non danno una pietra ai loro figli che chiedono un pane e continua: «Se voi dunque che siete cattivi sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro che è nei cieli darà cose buone a quelli che gliele domandano!» (Mt 7,9ss). Luca specifica le «cose buone» che dà il Padre, dicendo: «Quanto più il Padre vostro celeste darà lo Spirito Santo a coloro che glielo chiedono!» (Lc 11,13). Ciò vuol dire: il dono di Dio è Dio stesso. La «cosa buona» che Egli ci dona è Lui stesso.

A questo punto diviene sorprendentemente palese che cosa è in gioco quando si prega: non si tratta di questo o di quello, ma di Dio che vuole donarsi a noi – questo è il dono dei doni, la «sola cosa di cui c’è bisogno» (cfr. Lc 10,42). La preghiera è una via per purificare a poco a poco i nostri desideri, correggerli e conoscere pian piano di che cosa abbiamo veramente bisogno: di Dio e del suo Spirito.

Quando il Signore insegna a conoscere la natura di Dio Padre a partire dall’amore per i nemici e a trovare in ciò la propria «perfezione» così da diventare noi stessi «figli», allora la relazione tra Padre e Figlio è perfettamente manifesta. Allora diventa evidente che nello specchio della figura di Gesù noi conosciamo chi è e come è Dio: attraverso il Figlio troviamo il Padre. «Chi ha visto me ha visto il Padre», dice Gesù nel Cenacolo a Filippo in risposta alla sua richiesta: «Mostraci il Padre» (Gv 14,8s).

«Signore, mostraci il Padre», ripetiamo in continuazione a Gesù e la risposta, sempre di nuovo, è il Figlio: attraverso di Lui, solo attraverso di Lui impariamo a conoscere il Padre. E così diventa poi evidente il criterio della vera paternità.

Il Padre nostro non proietta un’immagine umana nel cielo, ma a partire dal cielo – da Gesù – ci mostra come dovremmo e come possiamo diventare uomini.

Ora, però, dobbiamo guardare ancora meglio, per renderci conto che, secondo il messaggio di Gesù, in Dio l’essere Padre presenta per noi due dimensioni. Dio è innanzitutto nostro Padre in quanto è nostro Creatore. Poiché Egli ci ha creato, noi apparteniamo a Lui: l’essere come tale viene da Lui e perciò è buono, è partecipazione di Dio. Ciò vale per l’uomo in modo tutto particolare. Il Salmo 33,15, secondo la traduzione latina, dice: «Egli che ha plasmato i cuori di tutti […] fa attenzione a tutte le loro opere». Il pensiero che Dio ha creato ogni singolo essere umano fa parte dell’immagine biblica dell’uomo. Ogni uomo, individualmente e come tale, è voluto da Dio. Egli conosce ciascuno singolarmente. In questo senso, già in virtù della creazione l’essere umano è in modo speciale «figlio» di Dio, Dio è il suo vero Padre: che l’uomo sia immagine di Dio è un altro modo di esprimere questo pensiero.

Questo ci conduce alla seconda dimensione della paternità di Dio. Cristo è in modo unico «immagine di Dio» (cfr.2Cor.4,4; Col.1,15). In base a ciò i Padri della Chiesa dicono che Dio, quando creò l’uomo «a sua immagine», guardò in anticipo a Cristo e creò l’uomo a immagine del «nuovo Adamo», dell’Uomo che è il canone dell’umanità. Soprattutto, però, Gesù è «il Figlio» in senso proprio – è della stessa sostanza del Padre. Egli vuole accoglierci tutti nel suo essere uomo e così nel suo essere Figlio, nella piena appartenenza a Dio. Così la filiazione è divenuta un concetto dinamico: noi non siamo già in modo compiuto figli di Dio, ma dobbiamo diventarlo ed esserlo sempre di più mediante una nostra sempre più profonda comunione con Gesù.

Essere figli diventa l’equivalente di seguire Cristo. La parola che qualifica Dio come Padre diviene così un appello per noi: a vivere come «figlio» e «figlia». «Tutte le cose mie sono tue», dice Gesù al Padre nella preghiera sacerdotale (Gv 17,10), e la stessa cosa ha detto il padre al fratello maggiore del figlio prodigo (cfr.Lc.15,31). La parola «Padre» ci invita a vivere sulla base di questa consapevolezza. Così viene superata anche la smania della falsa emancipazione che stava all’inizio della storia del peccato dell’umanità. Adamo, infatti, sulla parola del serpente, vuole essere lui stesso dio e non aver più bisogno di Dio. Diviene evidente che «essere figli» non significa dipendenza, ma quel rimanere nella relazione di amore che sostiene l’esistenza umana, le dà senso e grandezza.

Rimane infine ancora la domanda: Dio non è anche madre? Il paragone dell’amore di Dio con l’amore di una madre esiste: «Come una madre consola un figlio, così io vi consolerò» (Is 66,13). «Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se ci fosse una donna che si dimenticasse, io invece non ti dimenticherò mai» (Is 49,15). In modo particolarmente toccante appare il mistero dell’amore materno di Dio nella parola ebraica rahamim, che originariamente significa «grembo materno», ma poi diventa il termine per il con-patire di Dio con l’uomo, per la misericordia di Dio.

Nell’Antico Testamento, organi del corpo umano vengono spesso impiegati per indicare atteggiamenti fondamentali dell’uomo o anche i sentimenti di Dio, così come «cuore» o «cervello» sono ancora oggi impiegati per esprimere qualche aspetto della nostra esistenza. In questo modo l’Antico Testamento illustra gli atteggiamenti fondamentali dell’esistenza non con termini astratti, ma con il linguaggio di immagini tratte dal corpo. Il grembo materno è l’espressione più concreta dell’intimo intreccio di due esistenze e delle attenzioni verso la creatura debole e dipendente che, in corpo e anima, è totalmente custodita nel grembo della madre. Il linguaggio figurato del corpo ci offre così una comprensione dei sentimenti di Dio per l’uomo più profonda di quanto permetterebbe un qualsiasi linguaggio concettuale.

Se nel linguaggio plasmato a partire dalla corporeità dell’uomo l’amore della madre appare inscritto nell’immagine di Dio, è tuttavia anche vero che Dio non viene mai qualificato né invocato come madre, sia nell’Antico che nel Nuovo Testamento. «Madre» nella Bibbia è un’immagine ma non un titolo di Dio. Perché? Solo a tastoni possiamo cercare di comprenderlo. Naturalmente Dio non è né uomo né donna, ma appunto Dio, il Creatore dell’uomo e della donna. Le divinità-madri, che circondavano il popolo d’Israele come anche la Chiesa del Nuovo Testamento, mostravano un’immagine del rapporto tra Dio e mondo decisamente antitetica rispetto all’immagine biblica di Dio. Esse includevano sempre e forse inevitabilmente concezioni panteistiche, nelle quali la differenza tra Creatore e creatura scompariva.

Partendo da questo presupposto, l’essere delle cose e degli uomini appare necessariamente come un’emanazione dal grembo materno dell’Essere che, entrando nella dimensione del tempo, si concretizza nella molteplicità delle realtà esistenti.

Al contrario, l’immagine del padre era ed è adatta a esprimere l’alterità tra Creatore e creatura, la sovranità del suo atto creativo. Solo mediante l’esclusione delle divinità-madri l’Antico Testamento poteva portare a maturità la sua immagine di Dio, la pura trascendenza di Dio. Ma anche se non possiamo dare delle ragioni assolutamente cogenti, resta per noi normativo il linguaggio della preghiera di tutta la Bibbia, nella quale, come detto or ora, nonostante le grandi metafore dell’amore materno, «madre» non è un titolo di Dio, non è un appellativo con cui rivolgersi a Dio. Noi preghiamo così come Gesù, sullo sfondo della Sacra Scrittura, ci ha insegnato a pregare, non come ci viene in mente o come ci piace. Solo così preghiamo nel modo giusto.

Da ultimo dobbiamo ancora riflettere sulla parola «nostro». Solo Gesù poteva dire «Padre mio» a pieno diritto, perché solo Lui è davvero il Figlio unigenito di Dio, della stessa sostanza del Padre. Noi tutti dobbiamo invece dire: «Padre nostro». Solo nel «noi» dei discepoli possiamo dire «Padre» a Dio, perché solo mediante la comunione con Gesù Cristo diventiamo veramente «figli di Dio». Così questa parola «nostro» è decisamente impegnativa: ci chiede di uscire dal recinto chiuso del nostro «io». Ci chiede di entrare nella comunità degli altri figli di Dio. Ci chiede di abbandonare ciò che è soltanto nostro, ciò che separa. Ci chiede di accogliere l’altro, gli altri – di aprire a loro il nostro orecchio, il nostro cuore. Con questa parola «nostro» diciamo «sì» alla Chiesa vivente, nella quale il Signore ha voluto raccogliere la sua nuova famiglia. Così il Padre nostro è una preghiera molto personale e insieme pienamente ecclesiale. Nel recitare il Padre nostro noi preghiamo totalmente col nostro cuore, ma preghiamo allo stesso tempo in comunione con l’intera famiglia di Dio, con i vivi e con i defunti, con gli uomini di ogni estrazione sociale, di ogni cultura, di ogni razza. Il Padre nostro fa di noi una famiglia al di là di ogni confine.

A partire da questo «nostro» comprendiamo ora anche l’ulteriore aggiunta: «che sei nei cieli». Con queste parole noi non collochiamo Dio, il Padre, su un qualche astro lontano, ma affermiamo che noi, pur avendo padri terreni diversi, proveniamo tutti da un unico Padre, che è misura e origine di ogni paternità. «Io piego le ginocchia davanti al Padre, dal quale ogni paternità nei cieli e sulla terra prende nome», dice san Paolo (Ef 3,14s). Sullo sfondo udiamo la parola del Signore: «Non chiamate nessuno “padre” sulla terra, perché uno solo è il Padre vostro, quello del cielo» (Mt 23,9).

La paternità di Dio è più reale della paternità umana, perché ultimamente il nostro essere lo abbiamo da Lui; perché Egli ci ha pensati e voluti fin dall’eternità; perché è Lui che ci dona l’autentica casa del Padre, quella eterna. E se la paternità terrena separa, quella celeste unisce: cielo significa dunque quell’altra altezza di Dio, dalla quale tutti noi veniamo e verso la quale tutti noi dobbiamo essere in cammino. La paternità «nei cieli» ci rimanda a quel «noi» più grande che oltrepassa ogni frontiera, abbatte tutti i muri e crea la pace.

_010 Preghiera Jesus Ratzinger parte 3– Sia santificato il tuo nome

La prima domanda del Padre nostro ci ricorda il secondo comandamento del Decalogo: «Non pronuncerai invano il nome del Signore tuo Dio» (Es.20,7; cfr.Dt.5,11).

Ma che cos’è «il nome di Dio»? Quando ne parliamo, ci torna in mente l’immagine di Mosè, che nel deserto vede un roveto che arde, ma non si consuma. In un primo momento, spinto dalla curiosità, si avvicina per vedere questo avvenimento misterioso quand’ecco che dal roveto una voce lo chiama, e questa voce gli dice: «Io sono il Dio di tuo padre, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe» (Es 3,6). Questo Dio lo rimanda in Egitto con l’incarico di condurre fuori dall’Egitto il popolo d’Israele e guidarlo nella terra promessa. Nel nome di Dio, Mosè dovrà chiedere al faraone la liberazione di Israele.

Ma nel mondo di allora c’erano molti dèi; così Mo- sè chiede a Dio il suo nome, il nome con il quale questo Dio dimostra la sua particolare autorità di fronte agli altri dèi. L’idea del nome di Dio appartiene quindi inizialmente al mondo politeistico; in esso anche questo Dio deve darsi un nome. Ma il Dio che chiama Mosè è veramente Dio. Dio nel senso vero e proprio non esiste nella pluralità. Dio è per sua natura uno solo. Per questo non può entrare nel mondo degli dèi come uno dei tanti, non può avere un nome in mezzo agli altri nomi.

Così la risposta di Dio è insieme rifiuto e assenso. Egli dice di sé semplicemente: «Io sono colui che sono» – Egli è, e basta. Questa affermazione è insieme nome e non-nome. Perciò era assolutamente corretto che in Israele non si pronunciasse questa autodefinizione di Dio percepita nella parola YHWH, che non la si degradasse a una specie di nome idolatrico. E pertanto non è corretto che nelle nuove traduzioni della Bibbia si scriva come un qualsiasi nome questo nome per Israele sempre misterioso e impronunciabile, riducendo così il mistero di Dio, del quale non esistono né immagini né nomi pronunciabili, all’ordinarietà di una comune storia delle religioni.

Resta però vero che Dio non ha semplicemente rifiutato la richiesta di Mosè, e per comprendere questo strano intreccio di nome e non-nome dobbiamo renderci conto di che cos’è veramente un nome. Potremmo dire in modo molto semplice: il nome crea la possibilità dell’invocazione, della chiamata. Stabilisce una relazione. Se Adamo dà un nome agli animali, ciò non significa che egli esprima la loro natura, ma che li integra nel suo mondo umano, li mette nella condizione di poter essere chiamati da lui. Da lì capiamo ora che cosa, positivamente, sia inteso col nome di Dio: Dio stabilisce una relazione tra sé e noi. Si rende invocabile. Egli entra in rapporto con noi e ci dà la possibilità di stare in rapporto con Lui.

Ma ciò significa: Egli si consegna in qualche modo al nostro mondo umano. È divenuto accessibile e perciò anche vulnerabile. Affronta il rischio della relazione, dell’essere con noi.

Ciò che giunge a compimento nell’incarnazione ha avuto inizio con la consegna del nome. Di fatto vedremo nella riflessione sulla preghiera sacerdotale di Gesù che Egli lì si presenta come il nuovo Mosè: «Ho fatto conoscere il tuo nome agli uomini…» (Gv.17,6). Ciò che ebbe inizio presso il roveto ardente nel deserto del Sinai si compie presso il roveto ardente della croce. Dio ora è davvero divenuto accessibile nel suo Figlio fatto uomo. Egli fa parte del nostro mondo, si è consegnato, per così dire, nelle nostre mani.

Da qui comprendiamo che cosa significhi la richiesta della santificazione del nome di Dio. Ora del nome di Dio si può abusare e così macchiare Dio stesso. Possiamo impadronirci del nome di Dio per i nostri scopi e deturpare così l’immagine di Dio. Quanto più Egli si consegna nelle nostre mani, tanto più noi possiamo oscurare la sua luce; quanto più Egli è vicino, tanto più il nostro abuso può renderlo irriconoscibile. Martin Buber ha detto una volta che con tutto l’infame abuso fatto del nome di Dio potremmo perdere il coraggio di pronunciarlo. Ma tacerlo sarebbe ancor più un rifiuto del suo amore che ci viene incontro. Buber dice che potremmo quindi solo con profondo rispetto raccogliere di nuovo i frammenti del nome imbrattato e cercare di purificarli. Ma da soli non ne siamo affatto capaci. Possiamo soltanto implorare Lui stesso che non lasci annientare la luce del suo nome in questo mondo.

E questa supplica affinché Egli stesso si prenda cura della santificazione del suo nome, protegga il meraviglioso mistero della sua accessibilità da parte nostra e, sempre di nuovo, esca nella sua vera identità dalla deformazione causata da noi – questa supplica, tuttavia, costituisce sempre per noi anche un grande esame di coscienza:

come tratto io il santo nome di Dio? Sto con timor riverenziale davanti al mistero del roveto ardente, davanti all’incomprensibile modalità della sua vicinanza fino alla presenza nell’Eucaristia, nella quale Egli si consegna davvero totalmente nelle nostre mani? Mi preoccupo che la santa coabitazione di Dio con noi non trascini Lui nel sudiciume, ma elevi noi alla sua purezza e santità?

Venga il tuo regno

Riflettendo sulla domanda relativa al regno di Dio ci torneranno in mente tutte le considerazioni che abbiamo fatto in precedenza sull’espressione «regno di Dio». Con questa domanda riconosciamo anzitutto il primato di Dio: dove Lui non c’è, niente può essere buono. Dove non si vede Dio, decade l’uomo e decade il mondo. È in questo senso che il Signore ci dice: «Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta» (Mt 6,33). Con questa parola viene stabilito un ordine di priorità per l’agire umano, per il nostro atteggiamento nella vita di tutti i giorni.

Non ci viene affatto promesso un paese della cuccagna per il caso che si sia pii o in qualche modo desiderosi del regno di Dio. Non viene prospettato alcun automatismo di un mondo funzionante come quello proposto nell’utopia della società senza classi, nella quale tutto dovrebbe andar bene da sé, solo perché non esiste la proprietà privata.

Gesù non ci offre ricette così facili. Stabilisce piuttosto – come detto – una priorità decisiva per tutto: «regno di Dio» vuol dire «signoria di Dio» e ciò significa che la sua volontà è assunta come criterio. Questa volontà crea giustizia, nella quale è insito che noi riconosciamo a Dio il suo diritto e in ciò troviamo il criterio su cui misurare il diritto tra gli uomini. L’ordine delle priorità che Gesù qui ci indica può ricordarci la narrazione veterotestamentaria circa la prima preghiera di Salomone dopo la sua intronizzazione. Lì si racconta che il Signore di notte apparve in sogno al giovane re e gli concesse di porgli una richiesta per la quale gli assicurava l’esaudimento. Un classico tema dei sogni dell’umanità! Che cosa chiede Salomone? «Concedi al tuo servo un cuore docile perché sappia rendere giustizia al tuo popolo e sappia distinguere il bene dal male» (1Re 3,9). Dio lo loda perché non ha chiesto – come sarebbe stato spontaneo – né ricchezza, né beni, né gloria, né la morte dei suoi nemici e neppure una lunga vita (cfr.2Cr.1,11), ma la cosa veramente essenziale: il cuore docile, la capacità di distinguere il bene dal male. E perciò Salomone ottiene poi anche il resto in aggiunta.

Con la domanda: «venga il tuo regno» (non il nostro!) il Signore vuole condurci proprio a questo modo di pregare e di stabilire le priorità del nostro agire. La prima cosa, quella essenziale, è il cuore docile, perché sia Dio a regnare e non noi. Il regno di Dio viene attraverso il cuore docile. Questa è la sua via. E per questo noi dobbiamo pregare sempre.

A partire dall’incontro con Cristo questa domanda assume una valenza ancora più profonda, diventa ancora più concreta. Abbiamo visto che Gesù è il regno di Dio in persona; dove è Lui, là è «regno di Dio». Così la domanda per avere il cuore docile è divenuta la domanda per la comunione con Gesù Cristo, la domanda di poter diventare sempre di più «uno» con Lui (cfr.Gal.3,28). È la domanda per la vera sequela, che diventa comunione e ci rende un solo corpo con Lui. Reinhold Schneider lo ha espresso in modo penetrante: «La vita di questo regno è la prosecuzione della vita di Cristo nei suoi; nel cuore che non viene più alimentato dalla forza vitale di Cristo, il regno finisce; nel cuore che da essa viene toccato e trasformato, comincia […] Le radici dell’albero inestirpabile cercano di penetrare in ogni cuore. Il regno è uno; sussiste soltanto mediante il Signore che è la sua vita, la sua forza, il suo centro…» (p. 31s).

Pregare per il regno di Dio significa dire a Gesù: Facci essere tuoi, Signore! Pervadici, vivi in noi; raccogli nel tuo Corpo l’umanità dispersa, affinché in te tutto venga sottomesso a Dio e tu poi possa consegnare l’universo al Padre, cosicché «Dio sia tutto in tutti» (1Cor.15,26-28).

_010 Preghiera Jesus Ratzinger parte 4– Sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra

Dalle parole di questa domanda si rendono immediatamente evidenti due cose: c’è una volontà di Dio con noi e per noi che deve diventare il criterio del nostro volere e del nostro essere. E ancora: la caratteristica del «cielo» è che lì immancabilmente vien fatta la volontà di Dio, o con altre parole: dove si fa la volontà di Dio, è cielo. L’essenza del cielo è l’essere una cosa sola con la volontà di Dio, l’unione tra volontà e verità. La terra diventa «cielo», se e in quanto in essa vien fatta la volontà di Dio, mentre è solo «terra», polo opposto del cielo, se e in quanto essa si sottrae alla volontà di Dio. Perciò noi chiediamo che le cose in terra vadano come in cielo, che la terra diventi «cielo».

Ma che cosa significa «volontà di Dio»? Come la riconosciamo? Come possiamo adempierla?

Le Sacre Scritture partono dal presupposto che l’uomo nel suo intimo sappia della volontà di Dio, che esista una comunione di sapere con Dio, profondamente inscritta in noi, che chiamiamo coscienza (cfr., per es., Rm.2,15). Ma esse sanno anche che questa comunione di sapere con il Creatore, che Egli stesso ci ha dato creandoci «a sua somiglianza», è stata sepolta nel corso della storia – mai estinguibile totalmente, essa tuttavia è stata ricoperta in molti modi; una fiamma debolmente guizzante, che troppo spesso rischia di essere soffocata sotto la cenere di tutti i pregiudizi immessi in noi. E per questo Dio ci ha parlato nuovamente, con parole nella storia che si rivolgono a noi dall’esterno e danno un aiuto al nostro sapere interiore ormai troppo velato.

Il nucleo di queste «lezioni sussidiarie» della storia, nella rivelazione biblica, è il Decalogo del monte Sinai che – come abbiamo visto – dal Discorso della montagna non viene per nulla abolito o reso una «legge vecchia» ma, sviluppato ulteriormente, risplende ancora più chiaramente in tutta la sua profondità e grandezza. Questa Parola – l’abbiamo visto – non è una cosa che all’uomo viene imposta dall’esterno. Essa è – nella misura in cui siamo capaci di riceverla – rivelazione della natura di Dio stesso e con ciò spiegazione della verità del nostro essere: ci viene svelato lo spartito della nostra esistenza, di modo che possiamo leggerlo e tradurlo nella vita. La volontà di Dio deriva dall’essere di Dio e ci introduce quindi nella verità del nostro essere, ci libera dall’autodistruzione mediante la menzogna. Poiché il nostro essere proviene da Dio, possiamo, nonostante tutte le sozzure che ci ostacolano, metterci in cammino verso la volontà di Dio.

Il concetto veterotestamentario di «giusto» significava proprio questo:

vivere della parola di Dio e così della volontà di Dio ed entrare progressivamente in sintonia con questa volontà. Ma quando Gesù ci parla della volontà di Dio e del cielo, in cui si compie la volontà di Dio, questo ha di nuovo a che fare in modo centrale con la sua missione personale. Presso il pozzo di Giacobbe Egli dice ai discepoli che gli portano da mangiare: «Mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato» (Gv.4,34).

Ciò significa: essere una cosa sola con la volontà del Padre è la fonte della vita di Gesù. L’unità di volontà col Padre è il nocciolo del suo essere in assoluto. Nella domanda del Padre nostro avvertiamo, però, sullo sfondo soprattutto l’appassionata lotta interiore di Gesù durante il suo dialogo nell’Orto degli ulivi: «Padre mio, se è possibile, passi da me questo calice! Però non come voglio io, ma come vuoi tu!» – «Padre mio, se questo calice non può passare da me senza che io lo beva, sia fatta la tua volontà» (Mt.26,39.42).

Di questa preghiera di Gesù, nella quale Egli ci permette di guardare nella sua anima umana e nel suo diventare «una» con la volontà di Dio, dovremo occuparci ancora in modo particolare quando rifletteremo sulla passione di Gesù.

L’autore della Lettera agli Ebrei ha individuato nella lotta interiore dell’Orto degli ulivi lo svelamento del centro del mistero di Gesù (cfr. 5,7) e – partendo da questo sguardo nell’anima di Gesù – ha interpretato questo mistero con il Salmo 40. Egli legge il Salmo così: «Tu non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato. […] Allora ho detto: ecco io vengo – poiché di me sta scritto nel rotolo del libro – per fare, o Dio, la tua volontà» (Eb 10,5ss; cfr. Sal 40,7-9). L’intera esistenza di Gesù è riassunta nella parola: «Ecco io vengo, per fare la tua volontà». Solo così comprendiamo pienamente la parola: «Mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato».

E a partire di là comprendiamo ora che Gesù stesso è «il cielo» nel senso più profondo e più autentico – Egli, nel quale e mediante il quale la volontà di Dio vien fatta pienamente. Guardando a Lui impariamo che, di nostro, noi non possiamo mai essere pienamente «giusti»: la forza di gravità della nostra volontà ci trascina sempre di nuovo lontano dalla volontà di Dio, ci fa diventare semplice «terra». Egli invece ci accoglie, ci attrae in alto verso di sé, dentro di sé, e nella comunione con Lui apprendiamo anche la volontà di Dio. Così, in questa terza domanda del Padre nostro, chiediamo ultimamente di avvicinarci sempre di più a Lui affinché la volontà di Dio vinca la forza di gravità del nostro egoismo e ci faccia capaci dell’altezza alla quale siamo chiamati.

continua – seconda parte della Preghiera del Signore

__________________

Note

(*) J. Ratzinger-Benedetto XVI – Gesù di Nazaret – Tomo 1  – Dal Battesimo alla Trasfigurazione – Rizzoli, 2007

I commenti sono chiusi.

Crea un sito web o un blog su WordPress.com

Su ↑