Che cosa crede la Chiesa? Una introduzione al Catechismo della Chiesa Cattolica per proporre l’unità e la perenne novità della fede, da una Lectio dell’allora cardinal Joseph Ratzinger (1)
Vi proponiamo l’ultima delle tre già pubblicate (vedere in fondo i collegamenti) lezioni di Ratzinger sull’importanza del Catechismo e i suoi contenuti. A dimostrazione, anche, che noi non abbiamo bisogno di altri “nuovi” commentari sul Catechismo, e che ci va bene così come è stato illustrati e spiegato per noi, da Ratzinger.
Permettetemi di iniziare con un episodio verificatosi nei primi tempi dopo il Concilio. Il Concilio aveva aperto per la Chiesa e la teologia ampie prospettive di dialogo, soprattutto con la sua Costituzione sulla Chiesa nel mondo contemporaneo, ma anche con i Decreti sull’ecumenismo, sulla missione, sulle religioni non cristiane, sulla libertà religiosa. Nuovi temi si aprivano, e nuovi metodi divenivano necessari. Per un teologo, che voleva essere all’altezza dei tempi e aveva un concetto giusto della sua missione, appariva come ovvio, innanzitutto lasciare per un momento da parte i vecchi temi e dedicarsi con tutte le energie ai nuovi problemi, che da ogni parte si ponevano.
In quell’epoca io avevo inviato un piccolo lavoro ad Hans Urs von Balthasar, il quale come sempre mi ringraziò immediatamente con un cartoncino ed al ringraziamento aggiunse una frase pregnante che per me divenne indimenticabile: non presupporre, ma proporre la fede. Fu un imperativo che mi colpì. L’ampio spaziare in nuovi campi era buono e necessario, ma solo a partire dal presupposto che esso stesso traesse origine dalla luce centrale della fede e da questa luce fosse sostenuto. La fede non ha permanenza di per se stessa. Non la si può mai semplicemente presupporre come una cosa già in se conclusa. Deve continuamente essere rivissuta. E poiché è un atto, che abbraccia tutte le dimensioni della nostra esistenza, deve anche essere sempre ripensata e sempre di nuovo testimoniata.
Perciò i grandi temi della fede – Dio, Cristo, Spirito Santo, Grazia e peccato, Sacramenti e Chiesa, morte e vita eterna – non sono mai temi vecchi. Sono sempre i temi, che ci colpiscono più nel profondo. Devono sempre rimanere centro dell’annuncio e quindi anche centro nel pensiero teologico.
I Vescovi del Sinodo del 1985 con la loro richiesta di un catechismo comune di tutta la Chiesa hanno avvertito esattamente ciò che Balthasar aveva allora espresso in parole nei miei confronti. L’esperienza pastorale aveva mostrato loro che tutte le molteplici nuove attività pastorali perdono il loro terreno portante, se non sono irradiamento e applicazione del messaggio della fede. La fede non può essere pre-supposta, essa deve essere pro-posta. Per questo c’è il nuovo Catechismo. Esso vuole pro-porre la fede con la sua pienezza e la sua ricchezza, ma anche nella sua unità e semplicità.
Che cosa crede la Chiesa? Questa domanda include le altre: chi crede? E come credere? Il Catechismo ha trattato entrambe le due domande fondamentali, la domanda del “che cosa” e quella del “chi” della fede, come un’unità interiore. Detto in altre parole: illustra l’atto della fede ed il contenuto della fede nella loro inseparabilità. Ciò suona forse un po’ astratto: cerchiamo di sviluppare un poco che cosa si intende con questo.
Si ritrova nelle confessioni di fede tanto la formula “io credo” come l’altra “noi crediamo”. Parliamo della fede della Chiesa, e parliamo del carattere personale della fede, e infine parliamo della fede come di un dono di Dio, come di un “atto teologale”, secondo un’espressione oggi corrente nella teologia. Che cosa significa tutto questo?
La fede è un orientamento della nostra esistenza nel suo insieme. È una decisione di fondo, che ha effetti in tutti gli ambiti della nostra esistenza. La fede non è un processo solo intellettuale, né solo di volontà, né solo emozionale, è tutto questo insieme. È un atto di tutto l’io, di tutta la persona nella sua unità raccolta insieme. In questo senso viene designato dalla Bibbia come un atto del “cuore” (Rom10,9). È un atto altamente personale. Ma proprio perché è il nostro io, afferma in un passo Sant’Agostino, laddove l’essere umano come un tutto è in gioco, egli supera se stesso; un atto di tutto l’io è nello stesso tempo anche sempre un divenire aperti per gli altri, un atto dell’essere con.
Ancor più: non può realizzarsi senza che noi tocchiamo il nostro fondamento più profondo, il Dio vivente, che è presente nella profondità della nostra esistenza e la sostiene. Laddove è in gioco l’essere umano come un tutto, insieme con l’io è in gioco il noi ed il tu del totalmente altro, il tu di Dio. Ciò significa però anche che in un tale atto viene superato l’ambito dell’agire puramente personale. L’essere umano come essere creato è nel suo più profondo non solo azione, ma sempre anche passione, non solo essere donante, ma essere accogliente.
Il Catechismo esprime questo così: Nessuno può credere da solo, così come nessuno può vivere da solo. Nessuno si è dato la fede da se stesso, così come nessuno da se stesso si è dato l’esistenza (166). San Paolo ha espresso questo carattere radicale della fede nella descrizione della sua esperienza di conversione e di battesimo con la formula: io vivo, ma non più io… (Gal2,20). La fede è uno scomparire del semplice io e così un risorgere del vero io, un divenire se stessi attraverso il liberarsi del semplice io nella comunione con Dio, che è mediata attraverso la comunione con Cristo.
Abbiamo cercato finora di analizzare con il Catechismo “chi” crede, quindi di individuare la struttura dell’atto di fede. Ma in tal modo si è già venuto delineando il contenuto essenziale della fede. La fede cristiana è nella sua essenza incontro con il Dio vivente. Dio è il vero ed ultimo contenuto della nostra fede. In questo senso il contenuto della fede è molto semplice: io credo in Dio. Ma la realtà più semplice è sempre anche la realtà più profonda e che tutto abbraccia.
Possiamo credere in Dio, perché Dio ci tocca, perché egli é in noi e perché egli anche dall’esterno si avvicina a noi. Possiamo credere in lui, perché esiste colui che egli ha mandato: “Egli ha visto il Padre (Gv6,46)”, dice il Catechismo; egli “è il solo a conoscerlo e a poterlo rivelare” (151). Potremmo dire che la fede è partecipazione allo sguardo di Gesù. Nella fede Egli ci permette di vedere insieme con lui, ciò che egli ha visto. In questa affermazione la divinità di Gesù Cristo è inclusa, così come la sua umanità. A motivo del fatto che egli è il Figlio, egli vede continuamente il Padre. A motivo del fatto che egli è uomo, noi possiamo guardare insieme con lui. A motivo del fatto che egli è entrambe le cose allo stesso tempo, Dio e uomo, egli non è mai una persona del passato e non è mai soltanto nell’eternità, sottratto ad ogni tempo, ma è sempre al centro del tempo, sempre vivo, sempre presente.
In tal modo però si tocca anche allo stesso tempo il mistero trinitario. Il Signore diviene presente per noi attraverso lo Spirito Santo. Ascoltiamo di nuovo il Catechismo: “Non si può credere in Gesù Cristo se non si ha parte del suo Spirito … Dio solo conosce pienamente Dio. Noi crediamo nello Spirito Santo, perché è Dio” (152).
Se si considera bene l’atto di fede, si sviluppano in conformità con esso come da se stessi i singoli contenuti. Dio diviene per noi concreto in Cristo. Così da una parte diviene riconoscibile il mistero trinitario, dall’altra diviene visibile che egli stesso si è inserito nella storia fino al punto che il Figlio è divenuto uomo e dal Padre ci manda lo Spirito. Nell’incarnazione tuttavia è contenuto anche il mistero della Chiesa, poiché Cristo in realtà è venuto per “radunare in unità i dispersi figli di Dio” (Gv11,52). Il noi della Chiesa è la nuova, ampia comunità, nella quale ci attira (cfr. Gv12,32). Così la Chiesa è contenuta nell’inizio stesso dell’atto di fede. La Chiesa non è un’istituzione, che sopraggiunge alla fede dall’esterno e crea una cornice organizzativa per attività comuni dei fedeli; essa appartiene allo stesso atto di fede. L’ “io credo” è sempre anche un “noi crediamo”. Dice il Catechismo a questo proposito: “Io credo: è anche la Chiesa, nostra Madre, che risponde a Dio con la sua fede e che ci insegna a dire: ‘Io credo’, ‘Noi crediamo’ ” (167).
Avevamo precedentemente constatato che l’analisi dell’atto di fede ci rivela anche immediatamente il suo contenuto essenziale: la fede risponde al Dio trinitario, Padre, Figlio e Spirito Santo. Possiamo ora aggiungere che nello stesso atto di fede è contenuta anche l’incarnazione di Dio in Gesù Cristo, il suo mistero umano-divino e quindi tutta la storia della salvezza; si rende ora evidente che il Popolo di Dio, la Chiesa, come portatrice umana della storia della salvezza è presente nell’atto di fede stesso. Non sarebbe difficile dimostrare similmente come siano sviluppi dell’unico atto fondamentale dell’incontro con il Dio vivente anche gli altri contenuti della fede. Infatti la relazione con Dio proprio per la sua natura ha a che fare con la vita eterna. E supera necessariamente l’ambito puramente antropologico. Dio è veramente Dio solo se è il Signore di tutte le cose. Così creazione, storia della salvezza, vita eterna sono temi che fluiscono immediatamente dal problema di Dio. Se parliamo della storia di Dio con l’umanità, si tocca con questo anche il problema del peccato e della grazia. È toccato il problema di come noi incontriamo Dio, quindi il problema della liturgia, dei sacramenti, della preghiera, della morale.
Ma non vorrei ora sviluppare tutto questo nei particolari; ciò che mi stava a cuore era propriamente la considerazione dell’interiore unità della fede, che non è un cumulo di proposizioni, ma un semplice intenso atto, nella cui semplicità è contenuta tutta la profondità ed ampiezza dell’essere. Chi parla di Dio, parla del tutto; impara a distinguere l’essenziale da ciò che non è essenziale, e scopre qualcosa della logica interiore e dell’unità di tutto il reale, anche se sempre solo in frammenti e per enigma (1Cor13,12), finché la fede sarà fede e non diverrà visione.
Per concludere vorrei ancora soltanto toccare l’altra questione, che abbiamo incontrato all’inizio delle nostre riflessioni: quella che riguarda il come della fede. In Paolo si trova in proposito una parola singolare, che ci potrà aiutare. Egli dice che la fede è un’obbedienza di cuore a quella forma di insegnamento, alla quale siamo stati consegnati (Rom6,17). Si esprime qui in fondo il carattere sacramentale dell’atto di fede, l’intimo legame fra confessione di fede e sacramento. È propria della fede una “forma di insegnamento”, dice l’apostolo. Non la inventiamo noi. A nessuno è lecito modificarne i contenuti dottrinali. Non ci viene come un’idea dal di dentro di noi, ma come una parola dal di fuori di noi. Tutto è contenuto nel Deposito della Fede che ci è stato consegnato e, in quanto apostoli e discepoli, abbiamo il dovere di trasmetterlo, fedelmente, di generazione in generazione: «O Timoteo, custodisci il deposito; evita le chiacchiere profane e le obiezioni della cosiddetta gnosi, professando la quale taluni hanno deviato dalla fede» (1 Tm 6, 20).
È in certo qual modo parola dalla parola, noi veniamo “consegnati” a questa parola, che indica nuove vie al nostro pensiero e dà forma alla nostra vita. Questo “essere consegnati” ad una parola che ci precede si realizza attraverso la simbologia di morte dell’immersione nell’acqua, comincia con il Battesimo. Ciò ricorda la frase precedentemente citata, “Io vivo, ma non più io”; ricorda che nell’atto della fede si compiono morte e rinnovamento dell’io. La simbologia di morte del battesimo unisce questo nostro rinnovamento alla morte ed alla resurrezione di Gesù Cristo.
Questo essere consegnati alla parola che ci ammaestra è un essere consegnati a Cristo. Non possiamo accogliere la sua parola come una teoria, come si apprendono ad esempio formule matematiche e opinioni filosofiche. La possiamo apprendere solo nella misura in cui accettiamo la comunione di destino con lui, e questa la possiamo attingere solo laddove egli stesso si è legato permanentemente con gli uomini in una comunione di destino: nella Chiesa. Usando il suo linguaggio chiamiamo questo processo dell’essere consegnati “sacramento”.
L’atto di fede non è pensabile senza il sacramento.
A partire di qui possiamo però capire la costruzione letteraria concreta del Catechismo. Fede, così abbiamo udito, è essere consegnati ad una forma di insegnamento. In un altro passo Paolo chiama questa forma di insegnamento professione di fede (cfr. Rom10,9). Qui emerge un altro aspetto dell’evento della fede: la fede, che come parola viene a noi, deve diventare di nuovo parola anche presso di noi stessi, in quanto nello stesso tempo si esprime la nostra vita. Credere significa sempre anche confessare. La fede non è privata, ma è pubblica e comunitaria. Da parola diviene innanzitutto concezione, ma deve anche continuamente da concezione diventare parola ed azione.
Il Catechismo indica le diverse forme di confessione della fede, che ci sono nella Chiesa: professioni di fede battesimali, professioni di fede formulate da Concili, professioni di fede formulate da Papi (192). Ciascuna di queste professioni di fede ha il suo significato specifico. Ma l’archetipo della professione di fede, sul quale tutti gli altri si fondano è la professione di fede battesimale. Laddove si tratta della catechesi, cioè dell’introduzione alla fede e alla vita nella comunione di fede della Chiesa, si deve partire dalla professione di fede battesimale. Ciò avviene fin dai tempi apostolici e doveva pertanto essere anche la strada del Catechismo. Esso svolge la fede a partire dalla professione di fede battesimale. Appare così chiaramente in quale maniera vuole insegnare la fede: catechesi è catecumenato. Non è una semplice lezione di religione, ma il processo del donarsi e del lasciarsi donare alla parola della fede, nella comunione di destino con Gesù Cristo.
È proprio della catechesi l’itinerario interiore a Dio. Sant’Ireneo dice in un passo, a questo proposito, che noi dobbiamo abituarci a Dio, come Dio si è abituato a noi, agli uomini nell’incarnazione. Dobbiamo familiarizzarci con lo stile di Dio, così da imparare a portare in noi la sua presenza. Con un’espressione teologica: deve essere liberata in noi l’immagine di Dio, ciò che ci fa capaci di comunione di vita con lui. La tradizione paragona questo con l’azione dello scultore, che stacca dalla pietra con lo scalpello pezzo dopo pezzo, in modo che divenga visibile la forma da lui intuita. La catechesi dovrebbe anche essere sempre un processo del genere di assimilazione a Dio, poiché in realtà noi possiamo riconoscere solo ciò per cui si dà in noi una corrispondenza.
“Se l’occhio non fosse solare, non potrebbe riconoscere il sole”, ha scritto Goethe a commento di un detto di Plotino. Il processo della conoscenza è un processo di assimilazione, un processo vitale. Il noi, il che cosa ed il come della fede sono strettamente legati. In tal modo diventa ora visibile anche la dimensione morale dell’atto di fede: esso implica uno stile di esistenza umana, che non produciamo da noi stessi, ma che apprendiamo lentamente attraverso l’immersione del nostro essere immersi nel battesimo, nel quale continuamente Dio agisce in noi e nuovamente ci attira a sé. La morale fa parte del Cristianesimo, ma questa morale è sempre parte del processo sacramentale del divenire cristiano, nel quale noi non siamo degli attori, ma sempre, anzi, addirittura in primo luogo ricettori, in una ricezione, che significa trasformazione.
Non è quindi per mania di archeologismo che il Catechismo sviluppa il contenuto della fede a partire dalla professione di fede battesimale della Chiesa di Roma, dal cosiddetto Simbolo apostolico. In esso si manifesta piuttosto la vera natura dell’atto di fede e così la vera natura della catechesi come un esercitarsi ad esistere con Dio.
Così, appare anche che il Catechismo è totalmente determinato dal principio della gerarchia delle verità, come la ha intesa il Vaticano secondo. Infatti il Simbolo è innanzitutto, come abbiamo visto, professione di fede nel Dio trino, che si sviluppa dalla formula battesimale ed è ad essa legata.
Tutte le “verità della fede” sono sviluppi dell’unica verità, che noi scopriamo in esse come la perla preziosa, per la quale merita dare tutta la vita. Si tratta di Dio. Solo egli può essere la perla, per la quale noi vendiamo tutto il resto. Dio solo basta. Chi trova Dio, ha trovato tutto. Ma noi lo possiamo trovare solo perché egli prima ci ha cercato e ci ha trovato. Egli è in primo luogo colui che agisce e, per questo la fede in Dio è inseparabile dal mistero dell’incarnazione, dalla Chiesa, dal sacramento.
Tutto ciò che viene detto nella catechesi è sviluppo dell’unica verità, che è Dio stesso – l’amore che muove il sole e l’altre stelle (Dante, Paradiso XXXIII,145).
– della serie si legga anche:
Ratzinger spiega il Catechismo la Fede (1)
Ratzinger spiega il Catechismo la Fede (2)
Ratzinger spiega la nuova evangelizzazione ai Catechisti (3)
Ratzinger: abbiamo bisogno di una Chiesa divina non umana
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Note
1) Quanto è stato riportato, a conclusione di queste riflessioni sul Catechismo, è la trascrizione della Lectio tenuta dall’allora cardinal Joseph Ratzinger, durante il Sinodo Romano del 18 gennaio 1993, per presentare il Catechismo della Chiesa Cattolica. Il testo è trascritto sui Quaderni-Nuova Serie del Sinodo Romano, n.2, dal titolo La fede della Chiesa di Roma, Vicariato di Roma, 1993, pagg.67-73.
RICORDA CHE:
«O Timoteo, custodisci il deposito»
Le Lettere pastorali di san Paolo mostrano che la custodia del depositum fidei è garantita dall’azione dello Spirito Santo, attraverso la grazia dell’imposizione delle mani e la grazia che risplende nelle opere buone. Eppure proprio queste Lettere, che costituiscono il fondamento della Chiesa-istituzione, «non isolano più la Chiesa dal mondo profano, al contrario ve la impiantano con un ottimismo e una sicurezza rimarchevoli». Riproponiamo alcune pagine del commentario di Ceslas Spicq alle Lettere pastorali
di Lorenzo Cappelletti (da 30Giorni di gennaio 1998)
Forse non è appena un caso che le cosiddette Lettere pastorali (denominazione che insieme alle due lettere a Timoteo ricomprende anche quella a Tito) siano venute di recente alla ribalta. Ad esse è stato dedicato il convegno dell’Associazione biblica italiana tenutosi lo scorso settembre a Termoli, la cittadina molisana che custodisce le reliquie di Timoteo nel suo duomo incantevole. In attesa che vengano pubblicati gli atti di quel convegno ci facciamo accompagnare nella lettura di qualche brano di quelle lettere dal grande esegeta domenicano Ceslas Spicq. È suo infatti il commento, apparso in terza edizione giusto cinquant’anni fa (Saint Paul. Les Épîtres pastorales, Paris, Éd. Gabalda, 1947), che anche gli eminenti studiosi che si sono succeduti dopo di lui non possono fare a meno di tenere a modello.
Il deposito
«O Timoteo, custodisci il deposito; evita le chiacchiere profane e le obiezioni della cosiddetta gnosi, professando la quale taluni hanno deviato dalla fede» (1 Tm 6, 20).
Può essere di aiuto anzitutto capire cosa sia l’istituto giuridico del deposito, al quale si ispira san Paolo. «A Roma “c’è deposito quando si mette una cosa al sicuro presso una persona che si impegna a custodirla e a renderla quando gliela si richiederà”. A differenza della cessione in modo fiduciario, dove c’è un vero trasferimento di proprietà, non c’è nel deposito che una cessione provvisoria di detenzione. Il depositario non possiede per se stesso ma per il depositante; non è che un custode e conserva i beni a disposizione del tradens, che conserva i diritti legati alla proprietà. Peraltro, come il contratto di fiducia, il deposito si fa volentieri presso un amico che lo conserva gratuitamente. A lungo il deposito effettuato attraverso la semplice consegna (traditio), fu sprovvisto d’efficacia giuridica, essendo un atto senza forma» (pag. 331).
Colpito evidentemente dalle caratteristiche di questo istituto, che come contratto «era una novità [datava infatti solo dall’epoca del triumvirato di Ottaviano] e una novità assai sorprendente perché è uno dei primi contratti non solenni» (pag. 329), san Paolo lo adotta proprio nel momento del massimo pericolo per la fede. «Fino a quel momento l’Apostolo aveva insistito soprattutto sulla fedeltà al suo ministero, sulla lealtà verso i suoi discepoli; ora è condotto dal pericolo delle nascenti eresie a considerare l’integrità della dottrina per se stessa, della quale è stato stabilito “araldo, apostolo e maestro”. L’ha ricevuta con incarico di trasmetterla, non gli appartiene. Presentendo la sua prossima fine, Paolo percepisce più vivamente ancora la responsabilità che gli incombe di custodire intatto questo tesoro; fino al termine fissato egli deve preservare la parola di Dio – lógow tÜw pístevw (1 Tm 4, 6) – da ogni errore e corruzione. È, infatti, un deposito che Dio gli ha confidato ed è prossimo il giorno in cui il divino creditore gliene chiederà conto. Questo deposito Paolo l’ha ricevuto da Dio, e più precisamente da Cristo, sulla strada per Damasco. Visto che questo contratto reale non presupponeva, in origine, per il suo modo di formazione che una semplice rimessa del possesso dei beni, è dunque al momento di questo incontro iniziale che è nato fra il Signore e il suo apostolo questo accordo – l’accordo delle loro due volontà – generatore d’obbligazione fin dal momento della trasmissione dell’oggetto affidato. Il contenuto di questo deposito è il Vangelo. La legge non autorizzava, salvo stipulazioni contrarie, alcun uso dei beni affidati. Ora, l’Apostolo non si è mai considerato che come un amministratore, ˜phréthw, un dispensatore, oÉkónomow, dei misteri divini (1 Cor 4, 1). A differenza dei maestri che insegnano una dottrina originale, frutto di loro speculazioni, egli non è che un delegato. Quel che predica non lo inventa, non lo trasforma, l’ha appreso e ricevuto e deve trasmettere intatto – come un deposito – questo tesoro che è la parola divina ovvero l’oggetto della fede […]. Ha terminato la corsa, il momento della sua dipartita è arrivato (2 Tm 4, 6-8); esorta Timoteo a vegliare sul deposito che gli trasmette; è suonata l’ora in cui sta per comparire davanti a Dio che giudicherà il suo fedele depositario» (pagg. 332-333).
L’imposizione delle mani
Ma sarà sufficiente l’esortazione di Paolo perché Timoteo, giovane e timido per natura, possa conservare il deposito?
«Con l’ordine di conservare il deposito, Paolo indica il mezzo di esservi fedele. Il compito non è facile. Molti hanno abbandonato la fede e l’Apostolo stesso sta per andarsene, ma lo Spirito Santo dimora nella Chiesa e illuminerà e fortificherà i suoi ministri (cfr. 2 Tm 1, 7). San Paolo non ne dubita (cfr. 2 Tm 1, 12). Questi due ultimi versetti fondano l’insegnamento cattolico relativo alla tradizione. Gli apostoli hanno ricevuto dal Signore la verità cristiana; loro stessi l’hanno trasmessa oralmente, specialmente ai loro collaboratori e ai loro successori nel ministero; ma questi ultimi hanno il dovere di conservarla in tutta la sua purezza e di non comunicarla a loro volta che a degli uomini provati e capaci di assicurare una nuova trasmissione (cfr. 2 Tm 2, 2). Ora, questa conservazione e questa trasmissione non possono essere garantite a sufficienza dalle forze umane. È lo Spirito Santo che le preserva da ogni alterazione e da ogni deviazione e, secondo il versetto 7, si può precisare che questa azione dello Spirito Santo si esercita con una efficacia particolare nei membri della gerarchia ecclesiastica» (pag. 320). In altre parole, Timoteo dovrà e potrà fare appello alla grazia dell’ordinazione ricevuta da Paolo stesso, che gli scrive:
grazia; grazia che ci è stata data in Cristo Gesù fin dall’eternità, 10ma è stata rivelata solo ora con l’apparizione del salvatore nostro Cristo Gesù, che ha vinto la morte e ha fatto risplendere la vita e l’immortalità per mezzo del vangelo, 11del quale io sono stato costituito araldo, apostolo e maestro.
12È questa la causa dei mali che soffro, ma non me ne vergogno: so infatti a chi ho creduto e son convinto che egli è capace di conservare il mio deposito fino a quel giorno. 13Prendi come modello le sane parole che hai udito da me, con la fede e la carità che sono in Cristo Gesù. 14Custodisci il buon deposito con l’aiuto dello Spirito Santo che abita in noi» (2 Tm 1, 6-14).
In questo come nell’altro passaggio (1 Tm 4, 14) in cui rammenta a Timoteo l’imposizione delle mani, «san Paolo designa il dono divino così comunicato con la medesima parola: xárisma. Questa non è impiegata nelle Lettere pastorali che in questi due testi sull’ordinazione. Come nelle lettere precedenti, essa designa una specie particolare di xáriw [grazia], che mette in rilievo un aspetto della sua gratuità; è donata meno per il beneficio del soggetto che per il bene della comunità cristiana, “l’utilità comune” (1 Cor 12, 7), per edificare la Chiesa (1 Cor 14, 12)» (pag. 325). Spicq cita in nota, a questo proposito, il padre Lemonnyer, autore della voce Carismi nel Supplément au Dictionnaire de la Bible: «Questo carisma, la cui ricezione ha fatto di Timoteo il personaggio ufficiale che è, è il carattere sacramentale dell’Ordine. Il sacramento dell’Ordine, generatore della gerarchia ecclesiastica, e il sacramento della Confermazione, con cui sono costituiti i milites Christi, sono essenzialmente dei sacramenti carismatici. La gerarchia sacra è fatta di autorità e di capacità ugualmente soprannaturali. Questa capacità è stata sempre identificata in primo luogo col carattere impresso dall’Ordine a tutti quelli che lo ricevono, in qualunque grado, e che a dire di san Tommaso è una potentia, quasi una facoltà soprannaturale, un carisma di rango più elevato che abilita i membri della gerarchia a tutte le funzioni del loro ufficio. Al quale eventualmente s’aggiunge la concessione extra-sacramentale di carismi complementari: apostoli, dottori, predicatori, pastori etc. Ben lungi dall’essere fondata sulla scomparsa dei carismi, la gerarchia da sempre è fondata su dei carismi» (pag. 325 nota 1).
«Bisogna sottolineare che tò xárisma toû yeoû… •n soí…; ¥dvken ämîn ¿ yeòw pneûma [il dono di Dio… in te…; Dio ci ha dato uno Spirito… ] (2 Tm 1, 6. 7) non è senza legame con la parayÄkh [deposito] la cui conservazione si fa dià Pneúmatow ‡gíou toû •noikoûntow •n ämîn [attraverso lo Spirito Santo che abita in noi] (2 Tm 1, 14). […] Vuol dire che l’ordinazione assicura la perpetuità della dottrina ortodossa; questa è un legato santo, un “deposito”. La sua integrità in parte dipende senza dubbio dalla docilità e dalla fedeltà dei predicatori, mÎ ÷terodidaskaleîn [non insegnare dottrine diverse](1 Tm 1, 3); ma alla fin fine lo Spirito Santo ne è il primo custode e solo può preservare i ministri cristiani dall’errore. Si è dunque in diritto di identificare in qualche modo la grazia trasmessa con l’imposizione delle mani con l’azione immanente dello Spirito Santo che garantisce il deposito della fede da ogni pericolo d’alterazione. I pastori e i predicatori, avendo ricevuto il carisma dell’ordinazione, godono dell’assistenza dello Spirito Santo nella diffusione e nella conservazione della verità evengelica: ¸Ekkhlsía yeoû zÓntow, stûlow kaì ÷draívma tÜw Òlhyeíaw [Chiesa del Dio vivente, colonna e fondamento della verità] (1 Tm 3, 15). Questo è il fondamento della dottrina cattolica sulla tradizione orale come norma della fede. Avendo ricevuto l’imposizione delle mani Timoteo ha la sicurezza di avere sempre la forza e l’attitudine soprannaturali per compiere degnamente il suo ufficio evangelico» (pagg. 325-326). Spicq esplicita ulteriormente: «Non si tratta tanto di sforzi ascetici per acquisire un’energia umana, una forza di carattere, quanto della fedeltà alla grazia dell’ordinazione (2 Tm 1, 6.7.8.12). Timoteo dovrà mettere in opera i poteri e la forza soprannaturali che ha ricevuto, esercitarli al meglio, a dispetto delle sofferenze e delle fatiche penose che comporta il suo ministero; ma per l’Apostolo con la grazia si può tutto!» (pag. 340).
Ecumenismo
Le Lettere pastorali mostrano dunque che la custodia del deposito è garantita dal carattere sacramentale dell’istituzione ecclesiastica. Eppure proprio queste lettere che costituiscono il fondamento della Chiesa-istituzione (pare un paradosso) «non isolano più la Chiesa dal mondo profano, al contrario ve la impiantano con un ottimismo e una sicurezza rimarchevoli. L’esperienza ha provato che ogni cristiano è chiamato a vivere in mezzo ai suoi vecchi compagni d’errore e di peccato. Lungi dal disprezzarli e dal combatterli, si mostrerà loro come un uomo trasformato dalla grazia» (pag. CXCVIII). Nelle Lettere pastorali si esprime al massimo grado l’ecumenismo di Paolo. Come si mostra in particolare in 1 Tm 2, 1-5:
«1Ti raccomando dunque, prima di tutto, che si facciano domande, suppliche, preghiere e ringraziamenti per tutti gli uomini, 2per i re e per tutti quelli che stanno al potere, perché possiamo trascorrere una vita calma e tranquilla con tutta pietà e dignità. 3Questa è una cosa bella e gradita al cospetto di Dio, nostro salvatore, 4il quale vuole che tutti gli uomini siano salvati e arrivino alla conoscenza della verità. 5Uno solo, infatti, è Dio e uno solo il mediatore fra Dio e gli uomini, l’uomo Cristo Gesù, 6che ha dato se stesso in riscatto per tutti».
Commenta Spicq, citando san Giovanni Crisostomo: «Bisogna rendere grazie a Dio anche dei beni che egli accorda agli altri, per esempio che faccia risplendere il suo sole sui cattivi e sui buoni, che faccia piovere sui giusti e sugli ingiusti. Vedi come l’Apostolo non solo con le suppliche ma con l’azione di grazie ci unisce e ci lega insieme» (pag. 53). E prosegue: «Tutte queste preghiere non sono limitate a interessi personali, né a una cerchia ristretta di fedeli; hanno di mira il prossimo e avranno un’applicazione universale “per tutti gli uomini”. Questo universalismo è una caratteristica del culto “cattolico”. La preghiera ha la stessa estensione della carità; l’una e l’altra lo stesso universalismo della salvezza (1 Tm 1, 15; Tt 2, 11). Non c’è nessuno, di qualsivoglia nazione o religione, per il quale la Chiesa non debba pregare, nessuno, nemmeno uno scomunicato di cui almeno l’esistenza non sia un motivo di rendere grazie a Dio» (pag. 53). Commentando poi il versetto 3 («Questa è una cosa bella e gradita al cospetto di Dio»), Spicq aggiunge: «Questa intercessione che il popolo cristiano compie come un sacerdozio regale in favore di tutti gli uomini è una cosa a un tempo moralmente buona, eccellente in se stessa (kalów), come un’opera eminente di carità, e bella e gradita al cospetto di Dio (Òpódektow – hapax nel NT – può essere considerato come esplicativo di kalów, cioè “bello a vedersi”), perché è la migliore cooperazione che ci sia al piano divino di salvare gli uomini» (pag. 57).
Le opere belle cioè buone
L’aggettivo “bello” (kalów) è il vocabolo che più caratterizza le Pastorali. Delle 44 ricorrenze di esso nel corpus paolinum, ben 24 (più della metà) appartengono alle Pastorali. Tanto che Spicq si meraviglia che proprio in età ormai avanzata «questa bellezza sembri essere diventata agli occhi di san Paolo una nota distintiva della vita cristiana, un’espressione della nuova fede; tutte le età, tutte le condizioni, ogni sesso, sono come rivestiti di bellezza» (pag. 290). Ciò è tanto più notevole dal momento che «Aristotele ritiene che i vecchi non vivono più per il bello (cfr. Retorica II, 13, 1389b, 36); è un segno della forza di rinnovamento e di ringiovanimento della grazia nell’anima dell’Apostolo» (pag. 290 nota 1). È «la prova estetica della speranza», scriveva Massimo Borghesi nel numero scorso di 30Giorni (n. 12, dicembre 1997, pag. 84). Che si rivela, come abbiamo visto sopra, nella preghiera, come prima opera di carità, e nella carità in senso stretto, cioè in quelle buone opere (kalà ¥rga) cui proprio «le Lettere pastorali hanno donato il senso tecnico che la tradizione cristiana ha conservato […], identificandole giustamente con le opere di misericordia» (pagg. 294 e 282), scrive Spicq commentando la lettera a Tito 3, 3-8:
«3Anche noi un tempo eravamo insensati, disobbedienti, traviati, schiavi di ogni sorta di passioni e di piaceri, vivendo nella malvagità e nell’invidia, degni di odio e odiandoci a vicenda. 4Quando però si sono manifestati la bontà (xrhstóthw) di Dio, salvatore nostro, e il suo amore per gli uomini (filanyrvpía), 5egli ci ha salvati non in virtù di opere di giustizia da noi compiute, ma per sua misericordia mediante un lavacro di rigenerazione e di rinnovamento nello Spirito Santo, 6effuso da lui su di noi abbondantemente per mezzo di Gesù Cristo, salvatore nostro, 7perché giustificati dalla sua grazia diventassimo eredi, secondo la speranza, della vita eterna. 8Questa parola è degna di fede e perciò voglio che tu insista in queste cose, perché coloro che credono in Dio si sforzino di essere i primi nelle opere buone. Ciò è bello e utile per gli uomini».
Tito, che era di origine pagana, conosceva per esperienza il valore di queste parole. «Com’è possibile» si chiede Spicq nel commento a questo brano «fare da un pagano un cristiano? È l’opera della sola grazia, gratis et gratiose. Il versetto Tt 3, 4 è parallelo a Tt 2, 11. Come i doveri reciproci dei cristiani erano fondati sull’iniziativa e la forza educatrice [Spicq più avanti parlerà, in contrasto con la pretesa pelagiana, di una «paideia della grazia» (pag. 282)] della grazia di Dio in Cristo, così i doveri dei cristiani di fronte al mondo sono fondati sulla bontà e l’amore di Dio per gli uomini […]. È l’amore di Dio per gli uomini la causa della conversione di pagani ciechi e peccatori a una vita santa. Questo amore s’è manifestato concretamente in un momento storico e sotto una duplice forma che contrasta con l’odio e la gelosia degli uomini gli uni per gli altri; mentre essi si detestavano, Dio li amava tutti teneramente e voleva loro bene. Anzitutto la benignità. Secondo l’etimologia, xrhstów significa “quello di cui ci si può servire” e si impiega specialmente per gli alimenti di buona qualità […]. La xrhstóthw è dunque una delicata amabilità, ma implica anche liberalità» (pag. 275). E poi la filanyrvpía, cioè «una simpatia efficace; equivale al latino humanitas, che significa rispetto per l’uomo in quanto uomo […]. Dunque un sinonimo di xrhstóthw ma accentuando l’universalità di questo favore» (pag. 276).
Preghiera, benignità, rispetto per l’uomo in quanto uomo: cose belle, cioè buone, gradite al cospetto di Dio.
