“Cattolicità e unità vanno insieme. E l’unità ha un contenuto: la fede che gli Apostoli ci hanno trasmesso da parte di Cristo.“
SOLENNITÀ DEI SANTI APOSTOLI PIETRO E PAOLO
OMELIA DI SUA SANTITÀ BENEDETTO XVI
Basilica di San Pietro
Mercoledì, 29 giugno 2005
Cari fratelli e sorelle,
La festa dei santi Apostoli Pietro e Paolo è insieme una grata memoria dei grandi testimoni di Gesù Cristo e una solenne confessione in favore della Chiesa una, santa, cattolica e apostolica. È anzitutto una festa della cattolicità. Il segno della Pentecoste – la nuova comunità che parla in tutte le lingue e unisce tutti i popoli in un unico popolo, in una famiglia di Dio – è diventato realtà. La nostra assemblea liturgica, nella quale sono riuniti Vescovi provenienti da tutte le parti del mondo, persone di molteplici culture e nazioni, è un’immagine della famiglia della Chiesa distribuita su tutta la terra. Stranieri sono diventati amici; al di là di tutti i confini, ci riconosciamo fratelli. Con ciò è portata a compimento la missione di san Paolo, che sapeva di “essere liturgo di Gesù Cristo tra i pagani… oblazione gradita, santificata dallo Spirito Santo” (Rm 15,16). Lo scopo della missione è un’umanità divenuta essa stessa una glorificazione vivente di Dio, il culto vero che Dio s’aspetta: è questo il senso più profondo di cattolicità – una cattolicità che già ci è stata donata e verso la quale tuttavia dobbiamo sempre di nuovo incamminarci. Cattolicità non esprime solo una dimensione orizzontale, il raduno di molte persone nell’unità; esprime anche una dimensione verticale: solo rivolgendo lo sguardo a Dio, solo aprendoci a Lui noi possiamo diventare veramente una cosa sola. Come Paolo, così anche Pietro venne a Roma, nella città che era il luogo di convergenza di tutti i popoli e che proprio per questo poteva diventare prima di ogni altra espressione dell’universalità del Vangelo. Intraprendendo il viaggio da Gerusalemme a Roma, egli sicuramente si sapeva guidato dalle voci dei profeti, dalla fede e dalla preghiera d’Israele. Fa parte infatti anche dell’annuncio dell’Antica Alleanza la missione verso tutto il mondo: il popolo di Israele era destinato ad essere luce per le genti. Il grande salmo della Passione, il salmo 21, il cui primo versetto “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” Gesù ha pronunciato sulla croce, terminava con la visione: “Torneranno al Signore tutti i confini della terra, si prostreranno davanti a Lui tutte le famiglie dei popoli” (Sal 21,28). Quando Pietro e Paolo vennero a Roma il Signore, che aveva iniziato quel salmo sulla croce, era risuscitato; questa vittoria di Dio doveva ora essere annunciata a tutti i popoli, compiendo così la promessa con la quale il salmo si concludeva.
Cattolicità significa universalità – molteplicità che diventa unità; unità che rimane tuttavia molteplicità. Dalla parola di Paolo sulla universalità della Chiesa abbiamo già visto che fa parte di questa unità la capacità dei popoli di superare se stessi, per guardare verso l’unico Dio. Il vero fondatore della teologia cattolica, sant’Ireneo di Lione, ha espresso questo legame tra cattolicità e unità in modo molto bello: “Questa dottrina e questa fede la Chiesa disseminata in tutto il mondo custodisce diligentemente formando quasi un’unica famiglia: la stessa fede con una sola anima e un solo cuore, la stessa predicazione, insegnamento, tradizione come avesse una sola bocca. Diverse sono le lingue secondo le regioni, ma unica e medesima è la forza della tradizione. Le Chiese di Germania non hanno una fede o tradizione diversa, come neppure quelle di Spagna, di Gallia, di Egitto, di Libia, dell’Oriente, del centro della terra; come il sole creatura di Dio è uno solo e identico in tutto il mondo, così la luce della vera predicazione splende dovunque e illumina tutti gli uomini che vogliono venire alla cognizione della verità” (Adv. haer. I 10,2). L’unità degli uomini nella loro molteplicità è diventata possibile perché Dio, questo unico Dio del cielo e della terra, si è mostrato a noi; perché la verità essenziale sulla nostra vita, sul nostro “di dove?” e “verso dove?”, è diventata visibile quando Egli si è mostrato a noi e in Gesù Cristo ci ha fatto vedere il suo volto, se stesso. Questa verità sull’essenza del nostro essere, sul nostro vivere e sul nostro morire, verità che da Dio si è resa visibile, ci unisce e ci fa diventare fratelli. Cattolicità e unità vanno insieme. E l’unità ha un contenuto: la fede che gli Apostoli ci hanno trasmesso da parte di Cristo.
Sono contento che ieri – nella festa di sant’Ireneo e nella vigilia della solennità dei santi Pietro e Paolo – ho potuto consegnare alla Chiesa una nuova guida per la trasmissione della fede, che ci aiuta a meglio conoscere e poi anche a meglio vivere la fede che ci unisce: il Compendio del Catechismo della Chiesa Cattolica. Quello che nel grande Catechismo, mediante le testimonianze dei santi di tutti i secoli e con le riflessioni maturate nella teologia, è presentato in maniera dettagliata, è qui ricapitolato nei suoi contenuti essenziali, che sono poi da tradurre nel linguaggio quotidiano e da concretizzare sempre di nuovo. Il libro è strutturato come colloquio in domande e risposte; quattordici immagini associate ai vari campi della fede invitano alla contemplazione e alla meditazione. Riassumono per così dire in modo visibile ciò che la parola sviluppa nel dettaglio. All’inizio c’è un’icona di Cristo del VI secolo, che si trova sul monte Athos e rappresenta Cristo nella sua dignità di Signore della terra, ma insieme come araldo del Vangelo, che porta in mano. “Io sono colui che sono” – questo misterioso nome di Dio proposto nell’Antica Alleanza – è riportato lì come suo nome proprio: tutto ciò che esiste viene da Lui; Egli è la fonte originaria di ogni essere. E perché è unico, è anche sempre presente, è sempre vicino a noi e allo stesso tempo sempre ci precede: come “indicatore” sulla via della nostra vita, anzi essendo Egli stesso la via. Non si può leggere questo libro come si legge un romanzo. Bisogna meditarlo con calma nelle sue singole parti e permettere che il suo contenuto, mediante le immagini, penetri nell’anima. Spero che sia accolto in questo modo e possa diventare una buona guida nella trasmissione della fede.
Abbiamo detto che cattolicità della Chiesa e unità della Chiesa vanno insieme. Il fatto che entrambe le dimensioni si rendano visibili a noi nelle figure dei santi Apostoli, ci indica già la caratteristica successiva della Chiesa: essa è apostolica. Che cosa significa? Il Signore ha istituito dodici Apostoli, così come dodici erano i figli di Giacobbe, indicandoli con ciò come capostipiti del popolo di Dio che, diventato ormai universale, da allora in poi comprende tutti i popoli. San Marco ci dice che Gesù chiamò gli Apostoli perché “stessero con lui e anche per mandarli” (Mc 3,14). Sembra quasi una contraddizione. Noi diremmo: o stanno con lui o sono mandati e si mettono in cammino. C’è una parola sugli angeli del santo Papa Gregorio Magno che ci aiuta a sciogliere la contraddizione. Egli dice che gli angeli sono sempre mandati e allo stesso tempo sempre davanti a Dio: “Ovunque sono mandati, ovunque vanno, camminano sempre nel seno di Dio” (Omelia 34,13). L’Apocalisse ha qualificato i Vescovi come “angeli” della loro Chiesa, e possiamo quindi fare questa applicazione: gli Apostoli e i loro successori dovrebbero stare sempre con il loro Signore e proprio così – ovunque vadano – essere sempre in comunione con Lui e vivere di questa comunione.
La Chiesa è apostolica, perché confessa la fede degli Apostoli e cerca di viverla. Vi è una unicità che caratterizza i Dodici chiamati dal Signore, ma esiste allo stesso tempo una continuità nella missione apostolica. San Pietro nella sua prima lettera si è qualificato come “co-presbitero” con i presbiteri ai quali scrive (5,1). E con ciò ha espresso il principio della successione apostolica: lo stesso ministero che egli aveva ricevuto dal Signore ora continua nella Chiesa grazie all’ordinazione sacerdotale. La Parola di Dio non è soltanto scritta ma, grazie ai testimoni che il Signore nel sacramento ha inserito nel ministero apostolico, resta parola vivente. Così ora mi rivolgo a Voi, cari confratelli Vescovi. vi saluto con affetto, insieme con i vostri familiari e con i pellegrini delle rispettive Diocesi. Voi state per ricevere il pallio dalle mani del Successore di Pietro. L’abbiamo fatto benedire, come da Pietro stesso, ponendolo accanto alla sua tomba. Ora esso è espressione della nostra comune responsabilità davanti all’”arci-pastore” Gesù Cristo, del quale parla Pietro (1 Pt 5,4). Il pallio è espressione della nostra missione apostolica. È espressione della nostra comunione, che nel ministero petrino ha la sua garanzia visibile. Con l’unità, così come con l’apostolicità, è collegato il servizio petrino, che riunisce visibilmente la Chiesa di tutte le parti e di tutti i tempi, difendendo in tal modo ciascuno di noi dallo scivolare in false autonomie, che troppo facilmente si trasformano in interne particolarizzazioni della Chiesa e possono compromettere così la sua indipendenza interna. Con questo non vogliamo dimenticare che il senso di tutte le funzioni e ministeri è in fondo che “arriviamo tutti all’unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio, allo stato di uomo perfetto, nella misura che conviene alla piena maturità di Cristo”, perché cresca il corpo di Cristo “in modo da edificare se stesso nella carità” (Ef 4,13.16).
In questa prospettiva saluto di cuore e con gratitudine la delegazione della Chiesa ortodossa di Costantinopoli, che è inviata dal Patriarca ecumenico Bartolomeo I, al quale rivolgo un cordiale pensiero. Guidata dal Metropolita Ioannis, è venuta a questa nostra festa e partecipa alla nostra celebrazione. Anche se ancora non concordiamo nella questione dell’interpretazione e della portata del ministero petrino, stiamo però insieme nella successione apostolica, siamo profondamente uniti gli uni con gli altri per il ministero vescovile e per il sacramento del sacerdozio e confessiamo insieme la fede degli Apostoli come ci è donata nella Scrittura e come è interpretata nei grandi Concili. In quest’ora del mondo piena di scetticismo e di dubbi, ma anche ricca di desiderio di Dio, riconosciamo nuovamente la nostra missione comune di testimoniare insieme Cristo Signore e, sulla base di quell’unità che già ci è donata, di aiutare il mondo perché creda. E supplichiamo il Signore con tutto il cuore perché ci guidi all’unità piena in modo che lo splendore della verità, che sola può creare l’unità, diventi di nuovo visibile nel mondo.
Il Vangelo di questo giorno ci parla della confessione di san Pietro da cui ha avuto inizio la Chiesa: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente” (Mt 16,16). Avendo parlato oggi della Chiesa una, cattolica e apostolica, ma non ancora della Chiesa santa, vogliamo ricordare in questo momento un’altra confessione di Pietro pronunciata nel nome dei Dodici nell’ora del grande abbandono: “Noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio” (Gv 6,69). Che cosa significa? Gesù, nella grande preghiera sacerdotale, dice di santificarsi per i discepoli, alludendo al sacrificio della sua morte (Gv 17,19). Con questo Gesù esprime implicitamente la sua funzione di vero Sommo Sacerdote che realizza il mistero del “Giorno della Riconciliazione”, non più soltanto nei riti sostitutivi, ma nella concretezza del proprio corpo e sangue. La parola “il Santo di Dio” nell’Antico Testamento indicava Aronne come Sommo Sacerdote che aveva il compito di compiere la santificazione d’Israele (Sal 105,16; vgl. Sir 45,6). La confessione di Pietro in favore di Cristo, che egli dichiara il Santo di Dio, sta nel contesto del discorso eucaristico, nel quale Gesù annuncia il grande Giorno della Riconciliazione mediante l’offerta di se stesso in sacrificio: “Il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo” (Gv 6,51). Così, sullo sfondo di questa confessione, sta il mistero sacerdotale di Gesù, il suo sacrificio per tutti noi. La Chiesa non è santa da se stessa; consiste infatti di peccatori – lo sappiamo e lo vediamo tutti. Piuttosto, essa viene sempre di nuovo santificata dall’amore purificatore di Cristo. Dio non solo ha parlato: ci ha amato molto realisticamente, amato fino alla morte del proprio Figlio. E’ proprio da qui che ci si mostra tutta la grandezza della rivelazione che ha come iscritto nel cuore di Dio stesso le ferite. Allora ciascuno di noi può dire personalmente con san Paolo: “Io vivo nella fede del Figlio di Dio che mi ha amato e ha dato se stesso per me” (Gal 2,20). Preghiamo il Signore perché la verità di questa parola si imprima profondamente, con la sua gioia e la sua responsabilità, nel nostro cuore; preghiamo perché irradiandosi dalla Celebrazione eucaristica, essa diventi sempre di più la forza che plasma la nostra vita.
CAPPELLA PAPALE NELLA SOLENNITÀ DEI SANTI APOSTOLI PIETRO E PAOLO
OMELIA DI SUA SANTITÀ BENEDETTO XVI
Basilica Vaticana
Giovedì, 29 giugno 2006
“Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia chiesa” (Mt 16, 18). Che cosa dice propriamente il Signore a Pietro con queste parole? Quale promessa gli fa con esse e quale incarico gli affida? E che cosa dice a noi – al Vescovo di Roma, che siede sulla cattedra di Pietro, e alla Chiesa di oggi? Se vogliamo comprendere il significato delle parole di Gesù, è utile ricordarsi che i Vangeli ci raccontano di tre situazioni diverse in cui il Signore, ogni volta in un modo particolare, trasmette a Pietro il compito che gli sarà proprio. Si tratta sempre dello stesso compito, ma dalla diversità delle situazioni e delle immagini usate diventa più chiaro per noi che cosa in esso interessava ed interessa al Signore.
Nel Vangelo di san Matteo che abbiamo ascoltato poco fa, Pietro rende la propria confessione a Gesù riconoscendolo come Messia e Figlio di Dio. In base a ciò gli viene conferito il suo particolare compito mediante tre immagini: quella della roccia che diventa pietra di fondamento o pietra angolare, quella delle chiavi e quella del legare e sciogliere. In questo momento non intendo interpretare ancora una volta queste tre immagini che la Chiesa, nel corso dei secoli, ha spiegato sempre di nuovo; vorrei piuttosto richiamare l’attenzione sul luogo geografico e sul contesto cronologico di queste parole. La promessa avviene presso le fonti del Giordano, alla frontiera della terra giudaica, sul confine verso il mondo pagano. Il momento della promessa segna una svolta decisiva nel cammino di Gesù: ora il Signore s’incammina verso Gerusalemme e, per la prima volta, dice ai discepoli che questo cammino verso la Città Santa è il cammino verso la Croce: “Da allora Gesù cominciò a dire apertamente ai suoi discepoli che doveva andare a Gerusalemme e soffrire molto da parte degli anziani, dei sommi sacerdoti e degli scribi, e venire ucciso e risuscitare il terzo giorno” (Mt 16, 21). Ambedue le cose vanno insieme e determinano il luogo interiore del Primato, anzi della Chiesa in genere: continuamente il Signore è in cammino verso la Croce, verso la bassezza del servo di Dio sofferente e ucciso, ma al contempo è sempre anche in cammino verso la vastità del mondo, nella quale Egli ci precede come Risorto, perché nel mondo rifulga la luce della sua parola e la presenza del suo amore; è in cammino perché mediante Lui, il Cristo crocifisso e risorto, arrivi nel mondo Dio stesso. In questo senso Pietro, nella sua Prima Lettera, si qualifica “testimone delle sofferenze di Cristo e partecipe della gloria che deve manifestarsi” (5, 1). Per la Chiesa il Venerdì Santo e la Pasqua esistono sempre insieme; essa è sempre sia il grano di senapa sia l’albero fra i cui rami gli uccelli del cielo si annidano. La Chiesa – ed in essa Cristo – soffre anche oggi. In essa Cristo viene sempre di nuovo schernito e colpito; sempre di nuovo si cerca di spingerlo fuori del mondo. Sempre di nuovo la piccola barca della Chiesa è squassata dal vento delle ideologie, che con le loro acque penetrano in essa e sembrano condannarla all’affondamento. E tuttavia, proprio nella Chiesa sofferente Cristo è vittorioso. Nonostante tutto, la fede in Lui riprende forza sempre di nuovo. Anche oggi il Signore comanda alle acque e si dimostra Signore degli elementi. Egli resta nella sua barca, nella navicella della Chiesa. Così anche nel ministero di Pietro si rivela, da una parte, la debolezza di ciò che è proprio dell’uomo, ma insieme anche la forza di Dio: proprio nella debolezza degli uomini il Signore manifesta la sua forza; dimostra che è Lui stesso a costruire, mediante uomini deboli, la sua Chiesa.
Rivolgiamoci ora al Vangelo di san Luca che ci racconta come il Signore, durante l’Ultima Cena, conferisce nuovamente un compito speciale a Pietro (cfr Lc 22, 31-33). Questa volta le parole di Gesù rivolte a Simone si trovano immediatamente dopo l’istituzione della Santissima Eucaristia. Il Signore si è appena donato ai suoi, sotto le specie del pane e del vino. Possiamo vedere nell’istituzione dell’Eucaristia il vero e proprio atto fondativo della Chiesa. Attraverso l’Eucaristia il Signore dona ai suoi non solo se stesso, ma anche la realtà di una nuova comunione tra di loro che si prolunga nei tempi “finché Egli venga” (cfr 1Cor 11, 26). Mediante l’Eucaristia i discepoli diventano la sua casa vivente che, lungo la storia, cresce come il nuovo e vivente tempio di Dio in questo mondo. E così Gesù, subito dopo l’istituzione del Sacramento, parla di ciò che l’essere discepoli, il “ministero”, significa nella nuova comunità: dice che esso è un impegno di servizio, così come Egli stesso si trova in mezzo a loro come Colui che serve. E allora si rivolge a Pietro. Dice che Satana ha chiesto di poter vagliare i discepoli come il grano. Questo evoca il passo del Libro di Giobbe, in cui Satana chiede a Dio la facoltà di colpire Giobbe. Il diavolo – il calunniatore di Dio e degli uomini – vuole con ciò provare che non esiste una vera religiosità, ma che nell’uomo tutto mira sempre e soltanto all’utilità. Nel caso di Giobbe, Dio concede a Satana la libertà richiesta proprio per poter con ciò difendere la sua creatura, l’uomo, e se stesso. E così avviene anche con i discepoli di Gesù – Dio dà una certa libertà a Satana in tutti i tempi. A noi tante volte sembra che Dio lasci a Satana troppa libertà; che gli conceda la facoltà di scuoterci in modo troppo terribile; e che questo superi le nostre forze e ci opprima troppo. Sempre di nuovo grideremo a Dio: Ahimè, guarda la miseria dei tuoi discepoli, deh, proteggici! Infatti Gesù continua: “Io ho pregato, che non venga meno la tua fede” (Lc 22, 32). La preghiera di Gesù è il limite posto al potere del maligno. Il pregare di Gesù è la protezione della Chiesa. Possiamo rifugiarci sotto questa protezione, aggrapparci ad essa e di essa essere sicuri. Ma – come ci dice il Vangelo – Gesù prega in modo particolare per Pietro: “…perché non venga meno la tua fede”. Questa preghiera di Gesù è insieme promessa e compito. La preghiera di Gesù tutela la fede di Pietro; quella fede che egli ha confessato a Cesarea di Filippo: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente” (Mt 16, 16). Ecco: non lasciare mai che questa fede diventi muta, rinfrancarla sempre di nuovo, proprio anche di fronte alla croce e a tutte le contraddizioni del mondo: questo è il compito di Pietro. Perciò appunto il Signore non prega soltanto per la fede personale di Pietro, ma per la sua fede come servizio agli altri. È proprio questo che Egli intende dire con le parole: “E tu, una volta ravveduto, conferma i tuoi fratelli” (Lc 22, 32).
“Tu, una volta ravveduto” – questa parola è insieme profezia e promessa. Essa profetizza la debolezza di Simone che, di fronte ad una serva ed un servo, negherà di conoscere Gesù. Attraverso questa caduta Pietro – e con lui ogni suo Successore – deve imparare che la propria forza da sola non è sufficiente per edificare e guidare la Chiesa del Signore. Nessuno ci riesce soltanto da sé. Per quanto Pietro sembri capace e bravo – già nel primo momento della prova fallisce. “Tu, una volta ravveduto” – il Signore, che gli predice la caduta, gli promette anche la conversione: “Allora il Signore, voltatosi, guardò Pietro…” (Lc 22, 61). Lo sguardo di Gesù opera la trasformazione e diventa la salvezza di Pietro: Egli, “uscito, pianse amaramente” (22, 62). Vogliamo sempre di nuovo implorare questo sguardo salvatore di Gesù: per tutti coloro che, nella Chiesa, portano una responsabilità; per tutti coloro che soffrono delle confusioni di questo tempo; per i grandi e per i piccoli: Signore, guardaci sempre di nuovo e così tiraci su da tutte le nostre cadute e prendici nelle tue mani buone.
Il Signore affida a Pietro il compito per i fratelli attraverso la promessa della sua preghiera. L’incarico di Pietro è ancorato alla preghiera di Gesù. È questo che gli dà la sicurezza del suo perseverare attraverso tutte le miserie umane. E il Signore gli affida questo incarico nel contesto della Cena, in connessione con il dono della Santissima Eucaristia. La Chiesa, fondata nell’istituzione dell’Eucaristia, nel suo intimo è comunità eucaristica e così comunione nel Corpo del Signore. Il compito di Pietro è di presiedere a questa comunione universale; di mantenerla presente nel mondo come unità anche visibile, incarnata. Egli, insieme con tutta la Chiesa di Roma, deve – come dice sant’Ignazio di Antiochia – presiedere alla carità: presiedere alla comunità di quell’amore che proviene da Cristo e, sempre di nuovo, oltrepassa i limiti del privato per portare l’amore di Cristo fino ai confini della terra.
Il terzo riferimento al Primato si trova nel Vangelo di san Giovanni (21, 15-19). Il Signore è risorto, e come Risorto affida a Pietro il suo gregge. Anche qui si compenetrano a vicenda la Croce e la Risurrezione. Gesù predice a Pietro che il suo cammino andrà verso la croce. In questa Basilica eretta sopra la tomba di Pietro – una tomba di poveri – vediamo che il Signore proprio così, attraverso la Croce, vince sempre. Il suo potere non è un potere secondo le modalità di questo mondo. È il potere del bene – della verità e dell’amore, che è più forte della morte. Sì, è vera la sua promessa: i poteri della morte, le porte degli inferi non prevarranno contro la Chiesa che Egli ha edificato su Pietro (cfr Mt 16, 18) e che Egli, proprio in questo modo, continua ad edificare personalmente.
In questa solennità dei santi Apostoli Pietro e Paolo mi rivolgo in modo speciale a voi, cari Metropoliti, venuti da numerosi Paesi del mondo per ricevere il Pallio dal Successore di Pietro. Vi saluto cordialmente insieme a quanti vi hanno accompagnato. Saluto inoltre con particolare gioia la Delegazione del Patriarcato Ecumenico presieduta da Sua Eminenza Joannis Zizioulas, Metropolita di Pergamo, Presidente della Commissione Mista Internazionale per il dialogo teologico tra cattolici e ortodossi. Sono grato al Patriarca Bartolomeo I e al Santo Sinodo per questo segno di fraternità, che rende manifesto il desiderio e l’impegno di progredire più speditamente sulla via dell’unità piena che Cristo ha invocato per tutti i suoi discepoli. Noi sentiamo di condividere l’ardente desiderio espresso un giorno dal Patriarca Atenagora e dal Papa Paolo VI: di bere insieme allo stesso Calice e di mangiare insieme il Pane che è il Signore stesso. Imploriamo nuovamente, in questa occasione, che tale dono ci sia concesso presto. E ringraziamo il Signore di trovarci uniti nella confessione che Pietro a Cesarea di Filippo fece per tutti i discepoli: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente”. Questa confessione vogliamo insieme portare nel mondo di oggi. Ci aiuti il Signore ad essere, proprio in quest’ora della nostra storia, veri testimoni delle sue sofferenze e partecipi della gloria che deve manifestarsi (1Pt 5, 1). Amen!
CAPPELLA PAPALE NELLA SOLENNITÀ DEI SANTI APOSTOLI PIETRO E PAOLO
OMELIA DI SUA SANTITÀ BENEDETTO XVI
Basilica Vaticana
Venerdì, 29 giugno 2007
Parole introduttive del Santo Padre alla Celebrazione e all’Atto penitenziale:
Fratelli e Sorelle amati dal Signore e amati in Cristo anche da me, Servo dei servi di Dio; noi oggi siamo nella gioia perché celebriamo il martirio dei santi Apostoli Pietro e Paolo, che hanno edificato la Chiesa di Roma, la nostra Chiesa: Pietro è stato la roccia posta come fondamento alla Chiesa, Paolo la voce data al Vangelo nella sua corsa tra le genti. Sono qui con noi, quale segno di amore fraterno e di attesa della comunione visibile, gli inviati dell’amato Patriarca di Costantinopoli: rinnoviamo ancora una volta la nostra volontà di predisporre tutto affinché si possa compiere la preghiera di Gesù per l’unità dei credenti in lui. Siamo lieti di accogliere qui presso il soglio di Pietro i Metropoliti che riceveranno il Pallio, segno del dolce giogo di Cristo, che li ha voluti quali pastori del suo gregge, e segno del vincolo di comunione con questa Sede Apostolica. Tutti insieme con fede e amore celebriamo la nostra comunione con i Santi del cielo e con i credenti sulla terra, e rinnoviamo la nostra volontà di conversione all’unico Signore.
Cari fratelli e sorelle!
Ieri pomeriggio mi sono recato nella Basilica di San Paolo fuori le Mura, dove ho celebrato i Primi Vespri dell’odierna Solennità dei Santi Apostoli Pietro e Paolo. Accanto al sepolcro dell’Apostolo delle genti ho reso omaggio alla sua memoria e ho annunciato l’Anno Paolino che, in occasione del bimillenario della sua nascita, si svolgerà dal 28 giugno 2008 al 29 giugno 2009. Stamani, secondo la tradizione, ci ritroviamo invece presso il sepolcro di San Pietro. Sono presenti, per ricevere il Pallio, gli Arcivescovi Metropoliti nominati durante l’ultimo anno, ai quali va il mio speciale saluto. E’ presente anche, inviata dal Patriarca ecumenico di Costantinopoli Bartolomeo I, un’eminente Delegazione, che accolgo con cordiale riconoscenza ripensando allo scorso 30 novembre, quando mi trovavo a Istanbul – Costantinopoli per la festa di Sant’Andrea. Saluto il Metropolita greco ortodosso di Francia, Emmanuel, il Metropolita di Sassima, Gennadios, e il Diacono Andreas. Siate i benvenuti, cari fratelli. Ogni anno la visita che reciprocamente ci rendiamo è segno che la ricerca della piena comunione è sempre presente nella volontà del Patriarca ecumenico e del Vescovo di Roma.
La festa di oggi mi offre l’opportunità di tornare ancora una volta a meditare sulla confessione di Pietro, momento decisivo del cammino dei discepoli con Gesù. I Vangeli sinottici lo collocano nei pressi di Cesarea di Filippo (cfr Mt 16,13-20; Mc 8,27-30; Lc 9,18-22). Giovanni, per parte sua, ci conserva un’altra significativa confessione di Pietro, dopo il miracolo dei pani e il discorso di Gesù nella sinagoga di Cafarnao (cfr Gv 6,66-70). Matteo, nel testo appena proclamato, ricorda l’attribuzione a Simone da parte di Gesù del soprannome di Cefa, “Pietra”. Gesù afferma di voler edificare “su questa pietra” la sua Chiesa e, in questa prospettiva, conferisce a Pietro il potere delle chiavi (cfr Mt 16,17-19). Da questi racconti emerge chiaramente che la confessione di Pietro è inseparabile dall’incarico pastorale a lui affidato nei confronti del gregge di Cristo.
Secondo tutti gli Evangelisti, la confessione di Simone avviene in un momento decisivo della vita di Gesù, quando, dopo la predicazione in Galilea, Egli si dirige risolutamente verso Gerusalemme per portare a compimento, con la morte in croce e la risurrezione, la sua missione salvifica. I discepoli sono coinvolti in questa decisione: Gesù li invita a fare una scelta che li porterà a distinguersi dalla folla per diventare la comunità dei credenti in Lui, la sua “famiglia”, l’inizio della Chiesa. In effetti, ci sono due modi di “vedere” e di “conoscere” Gesù: uno – quello della folla – più superficiale, l’altro – quello dei discepoli – più penetrante e autentico. Con la duplice domanda: “Che cosa dice la gente – Che cosa dite voi di me?”, Gesù invita i discepoli a prendere coscienza di questa diversa prospettiva. La gente pensa che Gesù sia un profeta. Questo non è falso, ma non basta; è inadeguato. Si tratta, in effetti, di andare in profondità, di riconoscere la singolarità della persona di Gesù di Nazaret, la sua novità. Anche oggi è così: molti accostano Gesù, per così dire, dall’esterno. Grandi studiosi ne riconoscono la statura spirituale e morale e l’influsso sulla storia dell’umanità, paragonandolo a Buddha, Confucio, Socrate e ad altri sapienti e grandi personaggi della storia. Non giungono però a riconoscerlo nella sua unicità. Viene in mente ciò che disse Gesù a Filippo durante l’Ultima Cena: “Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo?” (Gv 14,9). Spesso Gesù è considerato anche come uno dei grandi fondatori di religioni, da cui ognuno può prendere qualcosa per formarsi una propria convinzione. Come allora, dunque, anche oggi la “gente” ha opinioni diverse su Gesù. E come allora, anche a noi, discepoli di oggi, Gesù ripete la sua domanda: “E voi, chi dite che io sia?”. Vogliamo fare nostra la risposta di Pietro. Secondo il Vangelo di Marco Egli disse: “Tu sei il Cristo” (8,29); in Luca l’affermazione è: “Il Cristo di Dio” (9,20); in Matteo suona: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente” (16,16); infine in Giovanni: “Tu sei il Santo di Dio” (6,69). Sono tutte risposte giuste, valide anche per noi.
Soffermiamoci in particolare sul testo di Matteo, riportato dalla liturgia odierna. Secondo alcuni studiosi, la formula che vi compare presuppone il contesto post-pasquale, e addirittura sarebbe legata ad un’apparizione personale di Gesù risorto a Pietro; un’apparizione analoga a quella che ebbe Paolo sulla via di Damasco. In realtà, l’incarico conferito dal Signore a Pietro è radicato nel rapporto personale che il Gesù storico ebbe con il pescatore Simone, a partire dal primo incontro con lui, quando gli disse: “Tu sei Simone… ti chiamerai Cefa (che vuol dire Pietro)” (Gv 1,42). Lo sottolinea l’evangelista Giovanni, pescatore anche lui e socio, col fratello Giacomo, dei due fratelli Simone e Andrea. Il Gesù che, dopo la risurrezione chiamò Saulo, è lo stesso che – ancora immerso nella storia – avvicinò, dopo il battesimo nel Giordano, i quattro fratelli pescatori, allora discepoli del Battista (cfr Gv 1, 35-42). Egli andò a cercarli sulla riva del lago di Galilea, e li chiamò a seguirlo per essere “pescatori di uomini” (cfr Mc 1,16-20). A Pietro poi affidò un compito particolare, riconoscendo così in lui uno speciale dono di fede da parte del Padre celeste. Tutto questo, evidentemente, fu poi illuminato dall’esperienza pasquale, ma rimanendo sempre fermamente ancorato nelle vicende storiche precedenti la Pasqua. Il parallelismo tra Pietro e Paolo è suggestivo, ma non può sminuire la portata del cammino storico di Simone con il suo Maestro e Signore, che fin dall’inizio gli attribuì la caratteristica di “roccia” su cui avrebbe edificato la sua nuova comunità, la Chiesa.
Nei Vangeli sinottici la confessione di Pietro è sempre seguita dall’annuncio da parte di Gesù della sua prossima passione. Un annuncio di fronte al quale Pietro reagisce, perché non riesce ancora a capire. Eppure si tratta di un elemento fondamentale, su cui perciò Gesù insiste con forza. Infatti, i titoli attribuiti a Lui da Pietro – tu sei “il Cristo”, “il Cristo di Dio”, “il Figlio del Dio vivente” – si comprendono autenticamente solo alla luce del mistero della sua morte e risurrezione. Ed è vero anche l’inverso: l’avvenimento della Croce rivela il suo senso pieno soltanto se “quest’uomo”, che ha patito ed è morto in croce, “era veramente Figlio di Dio”, per usare le parole pronunciate dal centurione dinanzi al Crocifisso (cfr Mc 15,39). Questi testi dicono chiaramente che l’integrità della fede cristiana è data dalla confessione di Pietro, illuminata dall’insegnamento di Gesù sulla sua “via” verso la gloria, cioè sul suo modo assolutamente singolare di essere il Messia e il Figlio di Dio. Una “via” stretta, un “modo” scandaloso per i discepoli di ogni tempo, che inevitabilmente sono portati a pensare secondo gli uomini e non secondo Dio (cfr Mt 16,23). Anche oggi, come ai tempi di Gesù, non basta possedere la giusta confessione di fede: è necessario sempre di nuovo imparare dal Signore il modo proprio in cui egli è il Salvatore e la via sulla quale dobbiamo seguirlo. Dobbiamo infatti riconoscere che, anche per il credente, la Croce è sempre dura da accettare. L’istinto spinge ad evitarla, e il tentatore induce a pensare che sia più saggio preoccuparsi di salvare se stessi piuttosto che perdere la propria vita per fedeltà all’amore.
Che cosa era difficile da accettare per la gente a cui Gesù parlava? Che cosa continua ad esserlo anche per molta gente di oggi? Difficile da accettare è il fatto che Egli pretenda di essere non solo uno dei profeti, ma il Figlio di Dio, e rivendichi per sé la stessa autorità di Dio. Ascoltandolo predicare, vedendolo guarire i malati, evangelizzare i piccoli e i poveri, riconciliare i peccatori, i discepoli giunsero poco a poco a capire che Egli era il Messia nel senso più alto del termine, vale a dire non solo un uomo inviato da Dio, ma Dio stesso fattosi uomo. Chiaramente, tutto questo era più grande di loro, superava la loro capacità di comprendere. Potevano esprimere la loro fede con i titoli della tradizione giudaica: “Cristo”, “Figlio di Dio”, “Signore”. Ma per aderire veramente alla realtà, quei titoli dovevano in qualche modo essere riscoperti nella loro verità più profonda: Gesù stesso con la sua vita ne ha rivelato il senso pieno, sempre sorprendente, addirittura paradossale rispetto alle concezioni correnti. E la fede dei discepoli ha dovuto adeguarsi progressivamente. Essa ci si presenta come un pellegrinaggio che ha il suo momento sorgivo nell’esperienza del Gesù storico, trova il suo fondamento nel mistero pasquale, ma deve poi avanzare ancora grazie all’azione dello Spirito Santo. Tale è stata anche la fede della Chiesa nel corso della storia, tale è pure la fede di noi, cristiani di oggi. Saldamente appoggiata sulla “roccia” di Pietro, è un pellegrinaggio verso la pienezza di quella verità che il Pescatore di Galilea professò con appassionata convinzione: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente” (Mt 16,16).
Nella professione di fede di Pietro, cari fratelli e sorelle, possiamo sentirci ed essere tutti una cosa sola, malgrado le divisioni che nel corso dei secoli hanno lacerato l’unità della Chiesa con conseguenze che perdurano tuttora. Nel nome dei Santi Pietro e Paolo, rinnoviamo oggi, insieme con i nostri Fratelli venuti da Costantinopoli – che ancora ringrazio per la presenza a questa nostra celebrazione –, l’impegno ad accogliere fino in fondo il desiderio di Cristo, che ci vuole pienamente uniti. Con gli Arcivescovi concelebranti accogliamo il dono e la responsabilità della comunione tra la Sede di Pietro e le Chiese Metropolitane affidate alle loro cure pastorali. Ci guidi e ci accompagni sempre con la sua intercessione la santa Madre di Dio: la sua fede indefettibile, che sostenne la fede di Pietro e degli altri Apostoli, continui a sostenere quella delle generazioni cristiane: Regina degli Apostoli, prega per noi!
CAPPELLA PAPALE NELLA SOLENNITÀ DEI SANTI APOSTOLI PIETRO E PAOLO
OMELIE DEL PATRIARCA ECUMENICO BARTOLOMEO I
E DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI
Basilica Vaticana
Domenica, 29 giugno 2008
INTRODUZIONE DEL SANTO PADRE ALL’OMELIA DEL PATRIARCA
Fratelli e Sorelle,
la grande festa dei Santi Pietro e Paolo, Patroni di questa Chiesa di Roma e posti a fondamento, insieme agli altri Apostoli, della Chiesa una, santa, cattolica ed apostolica, ci porta ogni anno la gradita presenza di una Delegazione fraterna della Chiesa di Costantinopoli, che quest’anno, per la coincidenza con l’apertura dell’”Anno Paolino”, è guidata dallo stesso Patriarca, Sua Santità Bartolomeo I. A lui rivolgo il mio cordiale saluto, mentre esprimo la gioia di avere ancora una volta la felice opportunità di scambiare con lui il bacio della pace, nella comune speranza di vedere avvicinarsi il giorno dell’”unitatis redintegratio“, il giorno della piena comunione tra noi.
Saluto pure i membri della Delegazione patriarcale, come anche i Rappresentanti di altre Chiese e Comunità ecclesiali, che ci onorano della loro presenza, offrendo con ciò un segno della volontà di intensificare il cammino verso la piena unità tra i discepoli di Cristo. Ci disponiamo ora ad ascoltare le riflessioni di Sua Santità il Patriarca Ecumenico, parole che vogliamo accogliere con il cuore aperto, perché ci vengono dal nostro Fratello amato nel Signore.
OMELIA DEL PATRIARCA ECUMENICO BARTOLOMEO I
Santità,
avendo ancora viva la gioia e l’emozione della personale e benedetta partecipazione di Vostra Santità alla Festa Patronale di Costantinopoli, nella memoria di San Andrea Apostolo, il Primo Chiamato, nel novembre del 2006, ci siamo mossi “con passo esultante”, dal Fanar della Nuova Roma, per venire presso di Voi, per partecipare alla Vostra gioia nella Festa Patronale della Antica Roma. E siamo giunti presso di Voi “con la pienezza della Benedizione del Vangelo di Cristo” (Rom. 15,29), restituendo l’onore e l’amore, festeggiando insieme col nostro prediletto Fratello nella terra d’Occidente, “i sicuri e ispirati araldi, i Corifei dei Discepoli del Signore”, i Santi Apostoli Pietro, fratello di Andrea, e Paolo – queste due immense, centrali colonne elevate verso il cielo, di tutta quanta la Chiesa, le quali – in questa storica città, – hanno dato anche l’ultima lampante confessione di Cristo e qui hanno reso la loro anima al Signore con il martirio, uno attraverso la croce e l’altro per mezzo della spada, santificandola.
Salutiamo quindi, con profondissimo e devoto amore, da parte della Santissima Chiesa di Costantinopoli e dei suoi figli sparsi nel mondo, la Vostra Santità, desiderato Fratello, augurando dal cuore “a quanti sono in Roma amati da Dio” (Rom. 1,7), di godere buona salute, pace, prosperità, e di progredire giorno e notte verso la salvezza “ferventi nello spirito, servendo il Signore, lieti nella speranza, forti nella tribolazione, perseveranti nella preghiera” (Rom. 12, 11-12).
In entrambe le Chiese, Santità, onoriamo debitamente e veneriamo tanto colui che ha dato una confessione salvifica della Divinità di Cristo, Pietro, quanto il vaso di elezione, Paolo, il quale ha proclamato questa confessione e fede fino ai confini dell’universo, in mezzo alle più inimmaginabili difficoltà e pericoli. Festeggiamo la loro memoria, dall’anno di salvezza 258 in avanti, il 29 giugno, in Occidente e in Oriente, dove nei giorni che precedono, secondo la tradizione della Chiesa antica, in Oriente ci siamo preparati anche per mezzo del digiuno, osservato in loro onore. Per sottolineare maggiormente l’uguale loro valore, ma anche per il loro peso nella Chiesa e nella sua opera rigeneratrice e salvifica durante i secoli, l’Oriente li onora abitualmente anche attraverso un’icona comune, nella quale o tengono nelle loro sante mani un piccolo veliero, che simboleggia la Chiesa, o si abbracciano l’un l’altro e si scambiano il bacio in Cristo.
Proprio questo bacio siamo venuti a scambiare con Voi, Santità, sottolineando l’ardente desiderio in Cristo e l’amore, cose queste che ci toccano da vicino gli uni gli altri.
Il Dialogo teologico tra le nostre Chiese “in fede, verità e amore”, grazie all’aiuto divino, va avanti, al di là delle notevoli difficoltà che sussistono ed alle note problematiche. Desideriamo veramente e preghiamo assai per questo; che queste difficoltà siano superate e che i problemi vengano meno, il più velocemente possibile, per raggiungere l’oggetto del desiderio finale, a gloria di Dio.
Tale desiderio sappiamo bene essere anche il Vostro, come siamo anche certi che Vostra Santità non tralascerà nulla lavorando di persona, assieme ai suoi illustri collaboratori attraverso un perfetto appianamento della via, verso un positivo completamento a Dio piacente, dei lavori del Dialogo.
Santità, abbiamo proclamato l’anno 2008, “Anno dell’Apostolo Paolo”, così come anche Voi fate del giorno odierno fino all’anno prossimo, nel compimento dei duemila anni dalla nascita del Grande Apostolo. Nell’ambito delle relative manifestazioni per l’anniversario, in cui abbiamo pure venerato il preciso luogo del Suo Martirio, programmiamo tra le altre cose un sacro pellegrinaggio ad alcuni monumenti della attività evangelica dell’Apostolo in Oriente, come Efeso, Perge, ed altre città dell’Asia Minore, ma anche Rodi e Creta, alla località chiamata “Buoni Porti”. Siate sicuro, Santità, che in questo sacro tragitto, sarete presente anche Voi, camminando con noi in spirito, e che ciascun luogo eleveremo un’ardente preghiera per Voi e per i nostri fratelli della venerabile Chiesa Romano-Cattolica, rivolgendo una forte supplica e intercessione del divino Paolo al Signore per Voi.
E ora, venerando i patimenti e la croce di Pietro e abbracciando la catena e le stigmate di Paolo, onorando la confessione e il martirio e la venerata morte di entrambi per il Nome del Signore, che porta veramente alla Vita, glorifichiamo il Dio Tre volte Santo e lo supplichiamo, affinché per l’intercessione dei suoi Protocorifei Apostoli, doni a noi e a tutti i figli ovunque nel mondo della Chiesa Ortodossa e Romano-Cattolica, quaggiù “l’unione della fede e la comunione dello Spirito Santo” nel “legame della pace” e lassù, invece, la vita eterna e la grande misericordia. Amen.
OMELIA DEL SANTO PADRE Benedetto XVI
Signori Cardinali,
Venerati Fratelli nell’Episcopato e nel Sacerdozio,
Cari fratelli e sorelle!
Fin dai tempi più antichi la Chiesa di Roma celebra la solennità dei grandi Apostoli Pietro e Paolo come unica festa nello stesso giorno, il 29 giugno. Attraverso il loro martirio, essi sono diventati fratelli; insieme sono i fondatori della nuova Roma cristiana. Come tali li canta l’inno dei secondi Vespri che risale a Paolino di Aquileia (+ 806): «O Roma felix – Roma felice, adornata di porpora dal sangue prezioso di Principi tanto grandi. Tu superi ogni bellezza del mondo, non per merito tuo, ma per il merito dei santi che hai ucciso con la spada sanguinante». Il sangue dei martiri non invoca vendetta, ma riconcilia. Non si presenta come accusa, ma come «luce aurea», secondo le parole dell’inno dei primi Vespri: si presenta come forza dell’amore che supera l’odio e la violenza, fondando così una nuova città, una nuova comunità. Per il loro martirio, essi – Pietro e Paolo – fanno adesso parte di Roma: mediante il martirio anche Pietro è diventato cittadino romano per sempre. Mediante il martirio, mediante la loro fede e il loro amore, i due Apostoli indicano dove sta la vera speranza, e sono fondatori di un nuovo genere di città, che deve formarsi sempre di nuovo in mezzo alla vecchia città umana, la quale resta minacciata dalle forze contrarie del peccato e dell’egoismo degli uomini.
In virtù del loro martirio, Pietro e Paolo sono in reciproco rapporto per sempre. Un’immagine preferita dell’iconografia cristiana è l’abbraccio dei due Apostoli in cammino verso il martirio. Possiamo dire: il loro stesso martirio, nel più profondo, è la realizzazione di un abbraccio fraterno. Essi muoiono per l’unico Cristo e, nella testimonianza per la quale danno la vita, sono una cosa sola. Negli scritti del Nuovo Testamento possiamo, per così dire, seguire lo sviluppo del loro abbraccio, questo fare unità nella testimonianza e nella missione. Tutto inizia quando Paolo, tre anni dopo la sua conversione, va a Gerusalemme, «per consultare Cefa» (Gal 1,18). Quattordici anni dopo, egli sale di nuovo a Gerusalemme, per esporre «alle persone più ragguardevoli» il Vangelo che egli predica, per non trovarsi nel rischio «di correre o di aver corso invano» (Gal 2,1s). Alla fine di questo incontro, Giacomo, Cefa e Giovanni gli danno la destra, confermando così la comunione che li congiunge nell’unico Vangelo di Gesù Cristo (Gal 2,9). Un bel segno di questo interiore abbraccio in crescita, che si sviluppa nonostante la diversità dei temperamenti e dei compiti, lo trovo nel fatto che i collaboratori menzionati alla fine della Prima Lettera di san Pietro – Silvano e Marco – sono collaboratori altrettanto stretti di san Paolo. Nella comunanza dei collaboratori si rende visibile in modo molto concreto la comunione dell’unica Chiesa, l’abbraccio dei grandi Apostoli.
Almeno due volte Pietro e Paolo si sono incontrati a Gerusalemme; alla fine il percorso di ambedue sbocca a Roma. Perché? È questo forse qualcosa di più di un puro caso? Vi è contenuto forse un messaggio duraturo? Paolo arrivò a Roma come prigioniero, ma allo stesso tempo come cittadino romano che, dopo l’arresto in Gerusalemme, proprio in quanto tale aveva fatto ricorso all’imperatore, al cui tribunale fu portato. Ma in un senso ancora più profondo, Paolo è venuto volontariamente a Roma. Mediante la più importante delle sue Lettere si era già avvicinato interiormente a questa città: alla Chiesa in Roma aveva indirizzato lo scritto che più di ogni altro è la sintesi dell’intero suo annuncio e della sua fede. Nel saluto iniziale della Lettera dice che della fede dei cristiani di Roma parla tutto il mondo e che questa fede, quindi, è nota ovunque come esemplare (Rm 1,8). E scrive poi: «Non voglio pertanto che ignoriate, fratelli, che più volte mi sono proposto di venire fino a voi, ma finora ne sono stato impedito» (1,13). Alla fine della Lettera riprende questo tema parlando ora del suo progetto di andare fino in Spagna. «Quando andrò in Spagna spero, passando, di vedervi, e di esser da voi aiutato per recarmi in quella regione, dopo avere goduto un poco della vostra presenza» (15,24). «E so che, giungendo presso di voi, verrò con la pienezza della benedizione di Cristo» (15,29). Sono due cose che qui si rendono evidenti: Roma è per Paolo una tappa sulla via verso la Spagna, cioè – secondo il suo concetto del mondo – verso il lembo estremo della terra. Considera sua missione la realizzazione del compito ricevuto da Cristo di portare il Vangelo sino agli estremi confini del mondo. In questo percorso ci sta Roma. Mentre di solito Paolo va soltanto nei luoghi in cui il Vangelo non è ancora annunciato, Roma costituisce un’eccezione. Lì egli trova una Chiesa della cui fede parla il mondo. L’andare a Roma fa parte dell’universalità della sua missione come inviato a tutti i popoli. La via verso Roma, che già prima del suo viaggio esterno egli ha percorso interiormente con la sua Lettera, è parte integrante del suo compito di portare il Vangelo a tutte le genti – di fondare la Chiesa cattolica, universale. L’andare a Roma è per lui espressione della cattolicità della sua missione. Roma deve rendere visibile la fede a tutto il mondo, deve essere il luogo dell’incontro nell’unica fede.
Ma perché Pietro è andato a Roma? Su ciò il Nuovo Testamento non si pronuncia in modo diretto. Ci dà tuttavia qualche indicazione. Il Vangelo di san Marco, che possiamo considerare un riflesso della predicazione di san Pietro, è intimamente orientato verso il momento in cui il centurione romano, di fronte alla morte in croce di Gesù Cristo, dice: «Veramente quest’uomo era Figlio di Dio!» (15,39). Presso la Croce si svela il mistero di Gesù Cristo. Sotto la Croce nasce la Chiesa delle genti: il centurione del plotone romano di esecuzione riconosce in Cristo il Figlio di Dio. Gli Atti degli Apostoli descrivono come tappa decisiva per l’ingresso del Vangelo nel mondo dei pagani l’episodio di Cornelio, il centurione della coorte italica. Dietro un comando di Dio, egli manda qualcuno a prendere Pietro e questi, seguendo pure lui un ordine divino, va nella casa del centurione e predica. Mentre sta parlando, lo Spirito Santo scende sulla comunità domestica radunata e Pietro dice: «Forse che si può proibire che siano battezzati con l’acqua questi che hanno ricevuto lo Spirito Santo al pari di noi?» (At 10,47). Così, nel Concilio degli Apostoli, Pietro diventa l’intercessore per la Chiesa dei pagani i quali non hanno bisogno della Legge, perché Dio ha «purificato i loro cuori con la fede» (At 15,9). Certo, nella Lettera ai Galati Paolo dice che Dio ha dato a Pietro la forza per il ministero apostolico tra i circoncisi, a lui, Paolo, invece per il ministero tra i pagani (2,8). Ma questa assegnazione poteva essere in vigore soltanto finché Pietro rimaneva con i Dodici a Gerusalemme nella speranza che tutto Israele aderisse a Cristo. Di fronte all’ulteriore sviluppo, i Dodici riconobbero l’ora in cui anch’essi dovevano incamminarsi verso il mondo intero, per annunciargli il Vangelo. Pietro che, secondo l’ordine di Dio, per primo aveva aperto la porta ai pagani lascia ora la presidenza della Chiesa cristiano-giudaica a Giacomo il minore, per dedicarsi alla sua vera missione: al ministero per l’unità dell’unica Chiesa di Dio formata da giudei e pagani. Il desiderio di san Paolo di andare a Roma sottolinea – come abbiamo visto – tra le caratteristiche della Chiesa soprattutto la parola «catholica». Il cammino di san Pietro verso Roma, come rappresentante dei popoli del mondo, sta soprattutto sotto la parola «una»: il suo compito è di creare l’unità della catholica, della Chiesa formata da giudei e pagani, della Chiesa di tutti i popoli. Ed è questa la missione permanente di Pietro: far sì che la Chiesa non si identifichi mai con una sola nazione, con una sola cultura o con un solo Stato. Che sia sempre la Chiesa di tutti. Che riunisca l’umanità al di là di ogni frontiera e, in mezzo alle divisioni di questo mondo, renda presente la pace di Dio, la forza riconciliatrice del suo amore. Grazie alla tecnica dappertutto uguale, grazie alla rete mondiale di informazioni, come anche grazie al collegamento di interessi comuni, esistono oggi nel mondo modi nuovi di unità, che però fanno esplodere anche nuovi contrasti e danno nuovo impeto a quelli vecchi. In mezzo a questa unità esterna, basata sulle cose materiali, abbiamo tanto più bisogno dell’unità interiore, che proviene dalla pace di Dio – unità di tutti coloro che mediante Gesù Cristo sono diventati fratelli e sorelle. È questa la missione permanente di Pietro e anche il compito particolare affidato alla Chiesa di Roma.
Cari Confratelli nell’Episcopato! Vorrei ora rivolgermi a voi che siete venuti a Roma per ricevere il pallio come simbolo della vostra dignità e della vostra responsabilità di Arcivescovi nella Chiesa di Gesù Cristo. Il pallio è stato tessuto con la lana di pecore, che il Vescovo di Roma benedice ogni anno nella festa della Cattedra di Pietro, mettendole con ciò, per così dire, da parte affinché diventino un simbolo per il gregge di Cristo, che voi presiedete. Quando prendiamo il pallio sulle spalle, quel gesto ci ricorda il Pastore che prende sulle spalle la pecorella smarrita, che da sola non trova più la via verso casa, e la riporta all’ovile. I Padri della Chiesa hanno visto in questa pecorella l’immagine di tutta l’umanità, dell’intera natura umana, che si è persa e non trova più la via verso casa. Il Pastore che la riporta a casa può essere soltanto il Logos, la Parola eterna di Dio stesso. Nell’incarnazione Egli ha preso tutti noi – la pecorella «uomo» – sulle sue spalle. Egli, la Parola eterna, il vero Pastore dell’umanità, ci porta; nella sua umanità porta ciascuno di noi sulle sue spalle. Sulla via della Croce ci ha portato a casa, ci porta a casa. Ma Egli vuole avere anche degli uomini che «portino» insieme con Lui. Essere Pastore nella Chiesa di Cristo significa partecipare a questo compito, del quale il pallio fa memoria. Quando lo indossiamo, Egli ci chiede: «Porti, insieme con me, anche tu coloro che mi appartengono? Li porti verso di me, verso Gesù Cristo?» E allora ci viene in mente il racconto dell’invio di Pietro da parte del Risorto. Il Cristo risorto collega l’ordine: «Pasci le mie pecorelle» inscindibilmente con la domanda: «Mi ami, mi ami tu più di costoro?». Ogni volta che indossiamo il pallio del Pastore del gregge di Cristo dovremmo sentire questa domanda: «Mi ami tu?» e dovremmo lasciarci interrogare circa il di più d’amore che Egli si aspetta dal Pastore.
Così il pallio diventa simbolo del nostro amore per il Pastore Cristo e del nostro amare insieme con Lui – diventa simbolo della chiamata ad amare gli uomini come Lui, insieme con Lui: quelli che sono in ricerca, che hanno delle domande, quelli che sono sicuri di sé e gli umili, i semplici e i grandi; diventa simbolo della chiamata ad amare tutti loro con la forza di Cristo e in vista di Cristo, affinché possano trovare Lui e in Lui se stessi. Ma il pallio, che ricevete «dalla» tomba di san Pietro, ha ancora un secondo significato, inscindibilmente connesso col primo. Per comprenderlo può esserci di aiuto una parola della Prima Lettera di san Pietro. Nella sua esortazione ai presbiteri di pascere il gregge in modo giusto, egli – san Pietro – qualifica se stesso synpresbýteros – con-presbitero (5,1). Questa formula contiene implicitamente un’affermazione del principio della successione apostolica: i Pastori che si succedono sono Pastori come lui, lo sono insieme con lui, appartengono al comune ministero dei Pastori della Chiesa di Gesù Cristo, un ministero che continua in loro. Ma questo “con” ha ancora due altri significati. Esprime anche la realtà che indichiamo oggi con la parola «collegialità» dei Vescovi. Tutti noi siamo con-presbiteri. Nessuno è Pastore da solo. Stiamo nella successione degli Apostoli solo grazie all’essere nella comunione del collegio, nel quale trova la sua continuazione il collegio degli Apostoli. La comunione, il “noi” dei Pastori fa parte dell’essere Pastori, perché il gregge è uno solo, l’unica Chiesa di Gesù Cristo. E infine, questo “con” rimanda anche alla comunione con Pietro e col suo successore come garanzia dell’unità. Così il pallio ci parla della cattolicità della Chiesa, della comunione universale di Pastore e gregge. E ci rimanda all’apostolicità: alla comunione con la fede degli Apostoli, sulla quale è fondata la Chiesa. Ci parla della ecclesia una, catholica, apostolica e naturalmente, legandoci a Cristo, ci parla proprio anche del fatto che la Chiesa è sancta e che il nostro operare è un servizio alla sua santità.
Ciò mi fa ritornare, infine, ancora a san Paolo e alla sua missione. Egli ha espresso l’essenziale della sua missione, come pure la ragione più profonda del suo desiderio di andare a Roma, nel capitolo 15 della Lettera ai Romani in una frase straordinariamente bella. Egli si sa chiamato «a servire come liturgo di Gesù Cristo per le genti, amministrando da sacerdote il Vangelo di Dio, perché i pagani divengano una oblazione gradita, santificata dallo Spirito Santo» (15,6). Solo in questo versetto Paolo usa la parola «hierourgein» – amministrare da sacerdote – insieme con «leitourgós» – liturgo: egli parla della liturgia cosmica, in cui il mondo stesso degli uomini deve diventare adorazione di Dio, oblazione nello Spirito Santo. Quando il mondo nel suo insieme sarà diventato liturgia di Dio, quando nella sua realtà sarà diventato adorazione, allora avrà raggiunto la sua meta, allora sarà sano e salvo. È questo l’obiettivo ultimo della missione apostolica di san Paolo e della nostra missione. A tale ministero il Signore ci chiama. Preghiamo in questa ora, affinché Egli ci aiuti a svolgerlo in modo giusto, a diventare veri liturghi di Gesù Cristo. Amen.
SOLENNITÀ DEI SANTI APOSTOLI PIETRO E PAOLO
SANTA MESSA E IMPOSIZIONE DEL PALLIO AI NUOVI METROPOLITI
OMELIA DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI
Basilica Vaticana
Lunedì, 29 giugno 2009
Signori Cardinali,
Venerati Fratelli nell’Episcopato e nel Sacerdozio,
Cari fratelli e sorelle!
A tutti rivolgo il mio saluto cordiale con le parole dell’Apostolo accanto alla cui tomba ci troviamo: “A voi grazia e pace in abbondanza” (1Pt 1, 2). Saluto, in particolare, i Membri della Delegazione del Patriarcato ecumenico di Costantinopoli e i numerosi Metropoliti che oggi ricevono il Pallio. Nella colletta di questa giornata solenne chiediamo al Signore “che la Chiesa segua sempre l’insegnamento degli Apostoli dai quali ha ricevuto il primo annunzio della fede”. La richiesta che rivolgiamo a Dio interpella al contempo noi stessi: seguiamo noi l’insegnamenti dei grandi Apostoli fondatori? Li conosciamo veramente? Nell’Anno Paolino che si è ieri concluso abbiamo cercato di ascoltare in modo nuovo lui, il “maestro delle genti”, e di apprendere così nuovamente l’alfabeto della fede. Abbiamo cercato di riconoscere con Paolo e mediante Paolo il Cristo e di trovare così la via per la retta vita cristiana. Nel Canone del Nuovo Testamento, oltre alle Lettere di san Paolo, ci sono anche due Lettere sotto il nome di san Pietro. La prima di esse si conclude esplicitamente con un saluto da Roma, che però appare sotto l’apocalittico nome di copertura di Babilonia: “Vi saluta la co-eletta che vive in Babilonia…” (5, 13). Chiamando la Chiesa di Roma la “co-eletta”, la colloca nella grande comunità di tutte le Chiese locali – nella comunità di tutti coloro che Dio ha adunato, affinché nella “Babilonia” del tempo di questo mondo costruiscano il suo Popolo e facciano entrare Dio nella storia. La Prima Lettera di san Pietro è un saluto rivolto da Roma all’intera cristianità di tutti i tempi. Essa ci invita ad ascoltare “l’insegnamento degli Apostoli”, che ci indica la via verso la vita.
Questa Lettera è un testo ricchissimo, che proviene dal cuore e tocca il cuore. Il suo centro è – come potrebbe essere diversamente? – la figura di Cristo, che viene illustrato come Colui che soffre e che ama, come Crocifisso e Risorto: “Insultato, non rispondeva con insulti, maltrattato, non minacciava vendetta … Dalle sue piaghe siete stati guariti” (1Pt 2, 23s). Partendo dal centro che è Cristo, la Lettera costituisce poi anche un’introduzione ai fondamentali Sacramenti cristiani del Battesimo e dell’Eucaristia e un discorso rivolto ai sacerdoti, nel quale Pietro si qualifica come co-presbitero con loro. Egli parla ai Pastori di tutte le generazioni come colui che personalmente è stato incaricato dal Signore di pascere le sue pecorelle e così ha ricevuto in modo particolare un mandato sacerdotale. Che cosa, dunque, ci dice san Pietro – proprio nell’Anno sacerdotale – circa il compito del sacerdote? Innanzitutto, egli comprende il ministero sacerdotale totalmente a partire da Cristo. Chiama Cristo il “pastore e custode delle … anime” (2, 25). Dove la traduzione italiana parla di “custode”, il testo greco ha la parola epíscopos (vescovo). Un po’ più avanti, Cristo viene qualificato come il Pastore supremo: archipoimen (5, 4). Sorprende che Pietro chiami Cristo stesso vescovo – vescovo delle anime. Che cosa intende dire con ciò? Nella parola greca “episcopos” è contenuto il verbo “vedere”; per questo è stata tradotta con “custode” ossia “sorvegliante”. Ma certamente non s’intende una sorveglianza esterna, come s’addice forse ad una guardia carceraria. S’intende piuttosto un vedere dall’alto – un vedere a partire dall’elevatezza di Dio. Un vedere nella prospettiva di Dio è un vedere dell’amore che vuole servire l’altro, vuole aiutarlo a diventare veramente se stesso. Cristo è il “vescovo delle anime”, ci dice Pietro. Ciò significa: Egli ci vede nella prospettiva di Dio. Guardando a partire da Dio, si ha una visione d’insieme, si vedono i pericoli come anche le speranze e le possibilità. Nella prospettiva di Dio si vede l’essenza, si vede l’uomo interiore. Se Cristo è il vescovo delle anime, l’obiettivo è quello di evitare che l’anima nell’uomo s’immiserisca, è di far sì che l’uomo non perda la sua essenza, la capacità per la verità e per l’amore. Far sì che egli venga a conoscere Dio; che non si smarrisca in vicoli ciechi; che non si perda nell’isolamento, ma rimanga aperto per l’insieme. Gesù, il “vescovo delle anime”, è il prototipo di ogni ministero episcopale e sacerdotale. Essere vescovo, essere sacerdote significa in questa prospettiva: assumere la posizione di Cristo. Pensare, vedere ed agire a partire dalla sua posizione elevata. A partire da Lui essere a disposizione degli uomini, affinché trovino la vita.
Così la parola “vescovo” s’avvicina molto al termine “pastore”, anzi, i due concetti diventano interscambiabili. È compito del pastore pascolare e custodire il gregge e condurlo ai pascoli giusti. Pascolare il gregge vuol dire aver cura che le pecore trovino il nutrimento giusto, sia saziata la loro fame e spenta la loro sete. Fuori di metafora, questo significa: la parola di Dio è il nutrimento di cui l’uomo ha bisogno. Rendere sempre di nuovo presente la parola di Dio e dare così nutrimento agli uomini è il compito del retto Pastore. Ed egli deve anche saper resistere ai nemici, ai lupi. Deve precedere, indicare la via, conservare l’unità del gregge. Pietro, nel suo discorso ai presbiteri, evidenzia ancora una cosa molto importante. Non basta parlare. I Pastori devono farsi “modelli del gregge” (5, 3). La parola di Dio viene portata dal passato nel presente, quando è vissuta. È meraviglioso vedere come nei santi la parola di Dio diventi una parola rivolta al nostro tempo. In figure come Francesco e poi di nuovo come Padre Pio e molti altri, Cristo è diventato veramente contemporaneo della loro generazione, è uscito dal passato ed entrato nel presente. Questo significa essere Pastore – modello del gregge: vivere la Parola ora, nella grande comunità della santa Chiesa.
Molto brevemente vorrei ancora richiamare l’attenzione su due altre affermazioni della Prima Lettera di san Pietro, che riguardano in modo speciale noi, in questo nostro tempo. C’è innanzitutto la frase oggi nuovamente scoperta, in base alla quale i teologi medievali compresero il loro compito, il compito del teologo: “Adorate il Signore, Cristo, nei vostri cuori, pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi” (3, 15). La fede cristiana è speranza. Apre la via verso il futuro. Ed è una speranza che possiede ragionevolezza; una speranza la cui ragione possiamo e dobbiamo esporre. La fede proviene dalla Ragione eterna che è entrata nel nostro mondo e ci ha mostrato il vero Dio. Va al di là della capacità propria della nostra ragione, così come l’amore vede più della semplice intelligenza. Ma la fede parla alla ragione e nel confronto dialettico può tener testa alla ragione. Non la contraddice, ma va di pari passo con essa e, al contempo, conduce al di là di essa – introduce nella Ragione più grande di Dio. Come Pastori del nostro tempo abbiamo il compito di comprendere noi per primi la ragione della fede. Il compito di non lasciarla rimanere semplicemente una tradizione, ma di riconoscerla come risposta alle nostre domande. La fede esige la nostra partecipazione razionale, che si approfondisce e si purifica in una condivisione d’amore. Fa parte dei nostri doveri come Pastori di penetrare la fede col pensiero per essere in grado di mostrare la ragione della nostra speranza nella disputa del nostro tempo. Tuttavia, il pensare – pur così necessario – da solo non basta. Così come parlare, da solo, non basta. Nella sua catechesi battesimale ed eucaristica nel secondo capitolo della sua Lettera, Pietro allude al Salmo usato nella Chiesa antica nel contesto della comunione, e cioè al versetto che dice: “Gustate e vedete com’è buono il Signore” (Ps 34 [33], 9; 1 Pt 2, 3). Solo il gustare conduce al vedere. Pensiamo ai discepoli di Emmaus: solo nella comunione conviviale con Gesù, solo nella frazione del pane si aprono i loro occhi. Solo nella comunione col Signore veramente sperimentata essi diventano vedenti. Ciò vale per tutti noi: al di là del pensare e del parlare, abbiamo bisogno dell’esperienza della fede; del rapporto vitale con Gesù Cristo. La fede non deve rimanere teoria: deve essere vita. Se nel Sacramento incontriamo il Signore; se nella preghiera parliamo con Lui; se nelle decisioni del quotidiano aderiamo a Cristo – allora “vediamo” sempre di più quanto Egli è buono. Allora sperimentiamo che è cosa buona stare con Lui. Da una tale certezza vissuta deriva poi la capacità di comunicare la fede agli altri in modo credibile. Il Curato d’Ars non era un grande pensatore. Ma egli “gustava” il Signore. Viveva con Lui fin nelle minuzie del quotidiano oltre che nelle grandi esigenze del ministero pastorale. In questo modo divenne “uno che vede”. Aveva gustato, e per questo sapeva che il Signore è buono. Preghiamo il Signore, affinché ci doni questo gustare e possiamo così diventare testimoni credibili della speranza che è in noi.
Alla fine vorrei far notare ancora una piccola, ma importante parola di san Pietro. Subito all’inizio della Lettera egli ci dice che la mèta della nostra fede è la salvezza delle anime (cfr 1, 9). Nel mondo del linguaggio e del pensiero dell’attuale cristianità questa è un’affermazione strana, per alcuni forse addirittura scandalosa. La parola “anima” è caduta in discredito. Si dice che questo porterebbe ad una divisione dell’uomo in spirito e fisico, in anima e corpo, mentre in realtà egli sarebbe un’unità indivisibile. Inoltre “la salvezza delle anime” come mèta della fede sembra indicare un cristianesimo individualistico, una perdita di responsabilità per il mondo nel suo insieme, nella sua corporeità e nella sua materialità. Ma di tutto questo non si trova nulla nella Lettera di san Pietro. Lo zelo per la testimonianza in favore della speranza, la responsabilità per gli altri caratterizzano l’intero testo. Per comprendere la parola sulla salvezza delle anime come mèta della fede dobbiamo partire da un altro lato. Resta vero che l’incuria per le anime, l’immiserirsi dell’uomo interiore non distrugge soltanto il singolo, ma minaccia il destino dell’umanità nel suo insieme. Senza risanamento delle anime, senza risanamento dell’uomo dal di dentro, non può esserci una salvezza per l’umanità. La vera malattia delle anime san Pietro, alla nostra sorpresa, la qualifica come ignoranza – cioè come non conoscenza di Dio. Chi non conosce Dio, chi almeno non lo cerca sinceramente, resta fuori della vera vita (cfr 1 Pt 1, 14). Ancora un’altra parola della Lettera può esserci utile per capire meglio la formula “salvezza delle anime”: “Purificate le vostre anime con l’obbedienza alla verità” (cfr 1, 22). È l’obbedienza alla verità che rende pura l’anima. Ed è il convivere con la menzogna che la inquina. L’obbedienza alla verità comincia con le piccole verità del quotidiano, che spesso possono essere faticose e dolorose. Questa obbedienza si estende poi fino all’obbedienza senza riserve di fronte alla Verità stessa che è Cristo. Tale obbedienza ci rende non solo puri, ma soprattutto anche liberi per il servizio a Cristo e così alla salvezza del mondo, che pur sempre prende inizio dalla purificazione obbediente della propria anima mediante la verità. Possiamo indicare la via verso la verità solo se noi stessi – in obbedienza e pazienza – ci lasciamo purificare dalla verità.
E ora mi rivolgo a voi, cari Confratelli nell’episcopato, che in quest’ora riceverete dalla mia mano il Pallio. È stato intessuto con la lana di agnelli che il Papa benedice nella festa di sant’Agnese. In questo modo esso ricorda gli agnelli e le pecore di Cristo, che il Signore risorto ha affidato a Pietro con il compito di pascerli (cfr Gv 21, 15-18). Ricorda il gregge di Gesù Cristo, che voi, cari Fratelli, dovete pascere in comunione con Pietro. Ci ricorda Cristo stesso, che come Buon Pastore ha preso sulle sue spalle la pecorella smarrita, l’umanità, per riportarla a casa. Ci ricorda il fatto che Egli, il Pastore supremo, ha voluto farsi Lui stesso Agnello, per farsi carico dal di dentro del destino di tutti noi; per portarci e risanarci dall’interno. Vogliamo pregare il Signore, affinché ci doni di essere sulle sue orme Pastori giusti, “non perché costretti, ma volentieri, come piace a Dio … con animo generoso … modelli del gregge” (1 Pt 5, 2s). Amen.
SOLENNITÀ DEI SANTI APOSTOLI PIETRO E PAOLO
SANTA MESSA E IMPOSIZIONE DEL PALLIO
AI NUOVI METROPOLITIOMELIA DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI
Basilica Vaticana
Martedì, 29 giugno 2010
Cari fratelli e sorelle!
I testi biblici di questa Liturgia eucaristica della solennità dei santi Apostoli Pietro e Paolo, nella loro grande ricchezza, mettono in risalto un tema che si potrebbe riassumere così: Dio è vicino ai suoi fedeli servitori e li libera da ogni male, e libera la Chiesa dalle potenze negative. E’ il tema della libertà della Chiesa, che presenta un aspetto storico e un altro più profondamente spirituale.
Questa tematica attraversa tutta l’odierna Liturgia della Parola. La prima e la seconda Lettura parlano, rispettivamente, di san Pietro e di san Paolo sottolineando proprio l’azione liberatrice di Dio nei loro confronti. Specialmente il testo degli Atti degli Apostoli descrive con abbondanza di particolari l’intervento dell’angelo del Signore, che scioglie Pietro dalle catene e lo conduce fuori dal carcere di Gerusalemme, dove lo aveva fatto rinchiudere, sotto stretta sorveglianza, il re Erode (cfr At 12,1-11). Paolo, invece, scrivendo a Timoteo quando ormai sente vicina la fine della vita terrena, ne fa un bilancio consuntivo da cui emerge che il Signore gli è stato sempre vicino, lo ha liberato da tanti pericoli e ancora lo libererà introducendolo nel suo Regno eterno (cfr 2 Tm 4, 6-8.17-18). Il tema è rafforzato dal Salmo responsoriale (Sal 33), e trova un particolare sviluppo anche nel brano evangelico della confessione di Pietro, là dove Cristo promette che le potenze degli inferi non prevarranno sulla sua Chiesa (cfr Mt 16,18).
Osservando bene si nota, riguardo a questa tematica, una certa progressione. Nella prima Lettura viene narrato un episodio specifico che mostra l’intervento del Signore per liberare Pietro dalla prigione; nella seconda Paolo, sulla base della sua straordinaria esperienza apostolica, si dice convinto che il Signore, che già lo ha liberato “dalla bocca del leone”, lo libererà “da ogni male” aprendogli le porte del Cielo; nel Vangelo invece non si parla più dei singoli Apostoli, ma della Chiesa nel suo insieme e della sua sicurezza rispetto alle forze del male, intese in senso ampio e profondo. In tal modo vediamo che la promessa di Gesù – “le potenze degli inferi non prevarranno” sulla Chiesa – comprende sì le esperienze storiche di persecuzione subite da Pietro e da Paolo e dagli altri testimoni del Vangelo, ma va oltre, volendo assicurare la protezione soprattutto contro le minacce di ordine spirituale; secondo quanto Paolo stesso scrive nella Lettera agli Efesini: “La nostra battaglia infatti non è contro la carne e il sangue, ma contro i Principati e le Potenze, contro i dominatori di questo mondo tenebroso, contro gli spiriti del male che abitano nelle regioni celesti” (Ef 6,12).
In effetti, se pensiamo ai due millenni di storia della Chiesa, possiamo osservare che – come aveva preannunciato il Signore Gesù (cfr Mt 10,16-33) – non sono mai mancate per i cristiani le prove, che in alcuni periodi e luoghi hanno assunto il carattere di vere e proprie persecuzioni. Queste, però, malgrado le sofferenze che provocano, non costituiscono il pericolo più grave per la Chiesa. Il danno maggiore, infatti, essa lo subisce da ciò che inquina la fede e la vita cristiana dei suoi membri e delle sue comunità, intaccando l’integrità del Corpo mistico, indebolendo la sua capacità di profezia e di testimonianza, appannando la bellezza del suo volto. Questa realtà è attestata già dall’epistolario paolino. La Prima Lettera ai Corinzi, ad esempio, risponde proprio ad alcuni problemi di divisioni, di incoerenze, di infedeltà al Vangelo che minacciano seriamente la Chiesa. Ma anche la Seconda Lettera a Timoteo – di cui abbiamo ascoltato un brano – parla dei pericoli degli “ultimi tempi”, identificandoli con atteggiamenti negativi che appartengono al mondo e che possono contagiare la comunità cristiana: egoismo, vanità, orgoglio, attaccamento al denaro, eccetera (cfr 3,1-5). La conclusione dell’Apostolo è rassicurante: gli uomini che operano il male – scrive – “non andranno molto lontano, perché la loro stoltezza sarà manifesta a tutti” (3,9). Vi è dunque una garanzia di libertà assicurata da Dio alla Chiesa, libertà sia dai lacci materiali che cercano di impedirne o coartarne la missione, sia dai mali spirituali e morali, che possono intaccarne l’autenticità e la credibilità.
Il tema della libertà della Chiesa, garantita da Cristo a Pietro, ha anche una specifica attinenza con il rito dell’imposizione del Pallio, che oggi rinnoviamo per trentotto Arcivescovi Metropoliti, ai quali rivolgo il mio più cordiale saluto, estendendolo con affetto a quanti hanno voluto accompagnarli in questo pellegrinaggio. La comunione con Pietro e i suoi successori, infatti, è garanzia di libertà per i Pastori della Chiesa e per le stesse Comunità loro affidate. Lo è su entrambi i piani messi in luce nelle riflessioni precedenti. Sul piano storico, l’unione con la Sede Apostolica assicura alle Chiese particolari e alle Conferenze Episcopali la libertà rispetto a poteri locali, nazionali o sovranazionali, che possono in certi casi ostacolare la missione della Chiesa. Inoltre, e più essenzialmente, il ministero petrino è garanzia di libertà nel senso della piena adesione alla verità, all’autentica tradizione, così che il Popolo di Dio sia preservato da errori concernenti la fede e la morale. Il fatto dunque che, ogni anno, i nuovi Metropoliti vengano a Roma a ricevere il Pallio dalle mani del Papa va compreso nel suo significato proprio, come gesto di comunione, e il tema della libertà della Chiesa ce ne offre una chiave di lettura particolarmente importante. Questo appare evidente nel caso di Chiese segnate da persecuzioni, oppure sottoposte a ingerenze politiche o ad altre dure prove. Ma ciò non è meno rilevante nel caso di Comunità che patiscono l’influenza di dottrine fuorvianti, o di tendenze ideologiche e pratiche contrarie al Vangelo. Il Pallio dunque diventa, in questo senso, un pegno di libertà, analogamente al “giogo” di Gesù, che Egli invita a prendere, ciascuno sulle proprie spalle (cfr Mt 11,29-30). Come il comandamento di Cristo – pur esigente – è “dolce e leggero” e, invece di pesare su chi lo porta, lo solleva, così il vincolo con la Sede Apostolica – pur impegnativo – sostiene il Pastore e la porzione di Chiesa affidata alle sue cure, rendendoli più liberi e più forti.
Un’ultima indicazione vorrei trarre dalla Parola di Dio, in particolare dalla promessa di Cristo che le potenze degli inferi non prevarranno sulla sua Chiesa. Queste parole possono avere anche una significativa valenza ecumenica, dal momento che, come accennavo poc’anzi, uno degli effetti tipici dell’azione del Maligno è proprio la divisione all’interno della Comunità ecclesiale. Le divisioni, infatti, sono sintomi della forza del peccato, che continua ad agire nei membri della Chiesa anche dopo la redenzione. Ma la parola di Cristo è chiara: “Non praevalebunt – non prevarranno” (Mt 16,18). L’unità della Chiesa è radicata nella sua unione con Cristo, e la causa della piena unità dei cristiani – sempre da ricercare e da rinnovare, di generazione in generazione – è pure sostenuta dalla sua preghiera e dalla sua promessa. Nella lotta contro lo spirito del male, Dio ci ha donato in Gesù l’“Avvocato” difensore, e, dopo la sua Pasqua, “un altro Paraclito” (cfr Gv 14,16), lo Spirito Santo, che rimane con noi per sempre e conduce la Chiesa verso la pienezza della verità (cfr Gv 14,16; 16,13), che è anche la pienezza della carità e dell’unità. Con questi sentimenti di fiduciosa speranza, sono lieto di salutare la Delegazione del Patriarcato di Costantinopoli, che, secondo la bella consuetudine delle visite reciproche, partecipa alle celebrazioni dei Santi Patroni di Roma. Insieme rendiamo grazie a Dio per i progressi nelle relazioni ecumeniche tra cattolici ed ortodossi, e rinnoviamo l’impegno di corrispondere generosamente alla grazia di Dio, che ci conduce alla piena comunione.
Cari amici, saluto cordialmente ciascuno di voi: Signori Cardinali, Fratelli nell’Episcopato, Signori Ambasciatori e Autorità civili, in particolare il Sindaco di Roma, sacerdoti, religiosi e fedeli laici. Vi ringrazio per la vostra presenza. I santi Apostoli Pietro e Paolo vi ottengano di amare sempre più la santa Chiesa, corpo mistico di Cristo Signore e messaggera di unità e di pace per tutti gli uomini. Vi ottengano anche di offrire con letizia per la sua santità e la sua missione le fatiche e le sofferenze sopportate per la fedeltà al Vangelo. La Vergine Maria, Regina degli Apostoli e Madre della Chiesa, vegli sempre su di voi, in particolare sul ministero degli Arcivescovi Metropoliti. Col suo celeste aiuto possiate vivere e agire sempre in quella libertà, che Cristo ci ha guadagnato. Amen.
CAPPELLA PAPALE
NELLA SOLENNITÀ DEI SANTI APOSTOLI PIETRO E PAOLO
SANTA MESSA E IMPOSIZIONE DEL PALLIO AI NUOVI METROPOLITI
OMELIA DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI
Basilica Vaticana – Mercoledì, 29 giugno 2011
Cari fratelli e sorelle,
“Non iam dicam servos, sed amicos” – “Non vi chiamo più servi ma amici” (cfr Gv 15,15). A sessant’anni dal giorno della mia Ordinazione sacerdotale sento ancora risuonare nel mio intimo queste parole di Gesù, che il nostro grande Arcivescovo, il Cardinale Faulhaber, con la voce ormai un po’ debole e tuttavia ferma, rivolse a noi sacerdoti novelli al termine della cerimonia di Ordinazione. Secondo l’ordinamento liturgico di quel tempo, quest’acclamazione significava allora l’esplicito conferimento ai sacerdoti novelli del mandato di rimettere i peccati. “Non più servi ma amici”: io sapevo e avvertivo che, in quel momento, questa non era solo una parola “cerimoniale”, ed era anche più di una citazione della Sacra Scrittura. Ne ero consapevole: in questo momento, Egli stesso, il Signore, la dice a me in modo del tutto personale. Nel Battesimo e nella Cresima, Egli ci aveva già attirati verso di sé, ci aveva accolti nella famiglia di Dio. Tuttavia, ciò che avveniva in quel momento, era ancora qualcosa di più. Egli mi chiama amico. Mi accoglie nella cerchia di coloro ai quali si era rivolto nel Cenacolo. Nella cerchia di coloro che Egli conosce in modo del tutto particolare e che così Lo vengono a conoscere in modo particolare. Mi conferisce la facoltà, che quasi mette paura, di fare ciò che solo Egli, il Figlio di Dio, può dire e fare legittimamente: Io ti perdono i tuoi peccati. Egli vuole che io – per suo mandato – possa pronunciare con il suo “Io” una parola che non è soltanto parola bensì azione che produce un cambiamento nel più profondo dell’essere. So che dietro tale parola c’è la sua Passione per causa nostra e per noi. So che il perdono ha il suo prezzo: nella sua Passione, Egli è disceso nel fondo buio e sporco del nostro peccato. È disceso nella notte della nostra colpa, e solo così essa può essere trasformata. E mediante il mandato di perdonare Egli mi permette di gettare uno sguardo nell’abisso dell’uomo e nella grandezza del suo patire per noi uomini, che mi lascia intuire la grandezza del suo amore. Egli si confida con me: “Non più servi ma amici”. Egli mi affida le parole della Consacrazione nell’Eucaristia. Egli mi ritiene capace di annunciare la sua Parola, di spiegarla in modo retto e di portarla agli uomini di oggi. Egli si affida a me. “Non siete più servi ma amici”: questa è un’affermazione che reca una grande gioia interiore e che, al contempo, nella sua grandezza, può far venire i brividi lungo i decenni, con tutte le esperienze della propria debolezza e della sua inesauribile bontà.
“Non più servi ma amici”: in questa parola è racchiuso l’intero programma di una vita sacerdotale. Che cosa è veramente l’amicizia? Idem velle, idem nolle – volere le stesse cose e non volere le stesse cose, dicevano gli antichi. L’amicizia è una comunione del pensare e del volere. Il Signore ci dice la stessa cosa con grande insistenza: “Conosco i miei e i miei conoscono me” (cfr Gv 10,14). Il Pastore chiama i suoi per nome (cfr Gv 10,3). Egli mi conosce per nome. Non sono un qualsiasi essere anonimo nell’infinità dell’universo. Mi conosce in modo del tutto personale. Ed io, conosco Lui? L’amicizia che Egli mi dona può solo significare che anch’io cerchi di conoscere sempre meglio Lui; che io, nella Scrittura, nei Sacramenti, nell’incontro della preghiera, nella comunione dei Santi, nelle persone che si avvicinano a me e che Egli mi manda, cerchi di conoscere sempre di più Lui stesso. L’amicizia non è soltanto conoscenza, è soprattutto comunione del volere. Significa che la mia volontà cresce verso il “sì” dell’adesione alla sua. La sua volontà, infatti, non è per me una volontà esterna ed estranea, alla quale mi piego più o meno volentieri oppure non mi piego. No, nell’amicizia la mia volontà crescendo si unisce alla sua, la sua volontà diventa la mia, e proprio così divento veramente me stesso. Oltre alla comunione di pensiero e di volontà, il Signore menziona un terzo, nuovo elemento: Egli dà la sua vita per noi (cfr Gv 15,13; 10,15). Signore, aiutami a conoscerti sempre meglio! Aiutami ad essere sempre più una cosa sola con la tua volontà! Aiutami a vivere la mia vita non per me stesso, ma a viverla insieme con Te per gli altri! Aiutami a diventare sempre di più Tuo amico!
La parola di Gesù sull’amicizia sta nel contesto del discorso sulla vite. Il Signore collega l’immagine della vite con un compito dato ai discepoli: “Vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga” (Gv 15,16). Il primo compito dato ai discepoli, agli amici, è quello di mettersi in cammino – costituiti perché andiate -, di uscire da se stessi e di andare verso gli altri. Possiamo qui sentire insieme anche la parola del Risorto rivolta ai suoi, con la quale san Matteo conclude il suo Vangelo: “Andate ed insegnate a tutti i popoli…” (cfr Mt 28,19s). Il Signore ci esorta a superare i confini dell’ambiente in cui viviamo, a portare il Vangelo nel mondo degli altri, affinché pervada il tutto e così il mondo si apra per il Regno di Dio. Ciò può ricordarci che Dio stesso è uscito da sé, ha abbandonato la sua gloria, per cercare noi, per portarci la sua luce e il suo amore. Vogliamo seguire il Dio che si mette in cammino, superando la pigrizia di rimanere adagiati su noi stessi, affinché Egli stesso possa entrare nel mondo.
Dopo la parola sull’incamminarsi, Gesù continua: portate frutto, un frutto che rimanga! Quale frutto Egli attende da noi? Qual è il frutto che rimane? Ebbene, il frutto della vite è l’uva, dalla quale si prepara poi il vino. Fermiamoci per il momento su questa immagine. Perché possa maturare uva buona, occorre il sole ma anche la pioggia, il giorno e la notte. Perché maturi un vino pregiato, c’è bisogno della pigiatura, ci vuole la pazienza della fermentazione, la cura attenta che serve ai processi di maturazione. Del vino pregiato è caratteristica non soltanto la dolcezza, ma anche la ricchezza delle sfumature, l’aroma variegato che si è sviluppato nei processi della maturazione e della fermentazione. Non è forse questa già un’immagine della vita umana, e in modo del tutto particolare della nostra vita da sacerdoti? Abbiamo bisogno del sole e della pioggia, della serenità e della difficoltà, delle fasi di purificazione e di prova come anche dei tempi di cammino gioioso con il Vangelo. Volgendo indietro lo sguardo possiamo ringraziare Dio per entrambe le cose: per le difficoltà e per le gioie, per le ore buie e per quelle felici. In entrambe riconosciamo la continua presenza del suo amore, che sempre di nuovo ci porta e ci sopporta.
Ora, tuttavia, dobbiamo domandarci: di che genere è il frutto che il Signore attende da noi? Il vino è immagine dell’amore: questo è il vero frutto che rimane, quello che Dio vuole da noi. Non dimentichiamo, però, che nell’Antico Testamento il vino che si attende dall’uva pregiata è soprattutto immagine della giustizia, che si sviluppa in una vita vissuta secondo la legge di Dio! E non diciamo che questa è una visione veterotestamentaria e ormai superata: no, ciò rimane vero sempre. L’autentico contenuto della Legge, la sua summa, è l’amore per Dio e per il prossimo. Questo duplice amore, tuttavia, non è semplicemente qualcosa di dolce. Esso porta in sé il carico della pazienza, dell’umiltà, della maturazione nella formazione ed assimilazione della nostra volontà alla volontà di Dio, alla volontà di Gesù Cristo, l’Amico. Solo così, nel diventare l’intero nostro essere vero e retto, anche l’amore è vero, solo così esso è un frutto maturo. La sua esigenza intrinseca, la fedeltà a Cristo e alla sua Chiesa, richiede sempre di essere realizzata anche nella sofferenza. Proprio così cresce la vera gioia. Nel fondo, l’essenza dell’amore, del vero frutto, corrisponde con la parola sul mettersi in cammino, sull’andare: amore significa abbandonarsi, donarsi; reca in sé il segno della croce. In tale contesto Gregorio Magno ha detto una volta: Se tendete verso Dio, badate di non raggiungerlo da soli (cfr H Ev 1,6,6: PL 76, 1097s) – una parola che a noi, come sacerdoti, deve essere intimamente presente ogni giorno.
Cari amici, forse mi sono trattenuto troppo a lungo con la memoria interiore sui sessant’anni del mio ministero sacerdotale. Adesso è tempo di pensare a ciò che è proprio di questo momento.
Nella Solennità dei Santi Apostoli Pietro e Paolo rivolgo anzitutto il mio più cordiale saluto al Patriarca Ecumenico Bartolomeo I e alla Delegazione che ha inviato, e che ringrazio vivamente per la gradita visita nella lieta circostanza dei Santi Apostoli Patroni di Roma. Saluto anche i Signori Cardinali, i Fratelli nell’Episcopato, i Signori Ambasciatori e le Autorità civili, come pure i sacerdoti, i compagni della mia prima Messa, i religiosi e i fedeli laici. Tutti ringrazio per la presenza e per la preghiera.
Agli Arcivescovi Metropoliti nominati dopo l’ultima Festa dei grandi Apostoli viene ora imposto il pallio. Che cosa significa? Questo può ricordarci innanzitutto il giogo dolce di Cristo che ci viene posto sulle spalle (cfr Mt 11,29s). Il giogo di Cristo è identico alla sua amicizia. È un giogo di amicizia e perciò un “giogo dolce”, ma proprio per questo anche un giogo che esige e che plasma. È il giogo della sua volontà, che è una volontà di verità e di amore. Così è per noi soprattutto anche il giogo di introdurre altri nell’amicizia con Cristo e di essere a disposizione degli altri, di prenderci come Pastori cura di loro. Con ciò siamo giunti ad un ulteriore significato del pallio: esso viene intessuto con la lana di agnelli, che vengono benedetti nella festa di sant’Agnese. Ci ricorda così il Pastore diventato Egli stesso Agnello, per amore nostro. Ci ricorda Cristo che si è incamminato per le montagne e i deserti, in cui il suo agnello, l’umanità, si era smarrito. Ci ricorda Lui, che ha preso l’agnello, l’umanità – me – sulle sue spalle, per riportarmi a casa. Ci ricorda in questo modo che, come Pastori al suo servizio, dobbiamo anche noi portare gli altri, prendendoli, per così dire, sulle nostre spalle e portarli a Cristo. Ci ricorda che possiamo essere Pastori del suo gregge che rimane sempre suo e non diventa nostro. Infine, il pallio significa molto concretamente anche la comunione dei Pastori della Chiesa con Pietro e con i suoi successori – significa che noi dobbiamo essere Pastori per l’unità e nell’unità e che solo nell’unità di cui Pietro è simbolo guidiamo veramente verso Cristo.
Sessant’anni di ministero sacerdotale – cari amici, forse ho indugiato troppo nei particolari. Ma in quest’ora mi sono sentito spinto a guardare a ciò che ha caratterizzato i decenni. Mi sono sentito spinto a dire a voi – a tutti i sacerdoti e Vescovi come anche ai fedeli della Chiesa – una parola di speranza e di incoraggiamento; una parola, maturata nell’esperienza, sul fatto che il Signore è buono. Soprattutto, però, questa è un’ora di gratitudine: gratitudine al Signore per l’amicizia che mi ha donato e che vuole donare a tutti noi. Gratitudine alle persone che mi hanno formato ed accompagnato. E in tutto ciò si cela la preghiera che un giorno il Signore nella sua bontà ci accolga e ci faccia contemplare la sua gioia. Amen.
CAPPELLA PAPALE
NELLA SOLENNITÀ DEI SANTI APOSTOLI PIETRO E PAOLO
SANTA MESSA E IMPOSIZIONE DEL PALLIO AI NUOVI METROPOLITI
OMELIA DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI
Basilica Vaticana – Venerdì, 29 giugno 2012
Signori Cardinali,
venerati Fratelli nell’Episcopato e nel Sacerdozio,
cari fratelli e sorelle!
Siamo riuniti attorno all’altare per celebrare solennemente i santi Apostoli Pietro e Paolo, principali Patroni della Chiesa di Roma. Sono presenti, ed hanno appena ricevuto il Pallio, gli Arcivescovi Metropoliti nominati durante l’ultimo anno, ai quali va il mio speciale e affettuoso saluto. E’ presente anche, inviata da Sua Santità Bartolomeo I, una eminente Delegazione del Patriarcato Ecumenico di Costantinopoli, che accolgo con fraterna e cordiale riconoscenza. In spirito ecumenico sono lieto di salutare e ringraziare “The Choir of Westminster Abbey”, che anima la Liturgia assieme alla Cappella Sistina. Saluto anche i Signori Ambasciatori e le Autorità civili: tutti ringrazio per la presenza e per la preghiera.
Davanti alla Basilica di San Pietro, come tutti sanno bene, sono collocate due imponenti statue degli Apostoli Pietro e Paolo, facilmente riconoscibili dalle loro prerogative: le chiavi nella mano di Pietro e la spada tra le mani di Paolo. Anche sul portale maggiore della Basilica di San Paolo fuori le mura sono raffigurate insieme scene della vita e del martirio di queste due colonne della Chiesa. La tradizione cristiana da sempre considera san Pietro e san Paolo inseparabili: in effetti, insieme, essi rappresentano tutto il Vangelo di Cristo. A Roma, poi, il loro legame come fratelli nella fede ha acquistato un significato particolare. Infatti, la comunità cristiana di questa Città li considerò come una specie di contraltare dei mitici Romolo e Remo, la coppia di fratelli a cui si faceva risalire la fondazione di Roma. Si potrebbe pensare anche a un altro parallelismo oppositivo, sempre sul tema della fratellanza: mentre, cioè, la prima coppia biblica di fratelli ci mostra l’effetto del peccato, per cui Caino uccide Abele, Pietro e Paolo, benché assai differenti umanamente l’uno dall’altro e malgrado nel loro rapporto non siano mancati conflitti, hanno realizzato un modo nuovo di essere fratelli, vissuto secondo il Vangelo, un modo autentico reso possibile proprio dalla grazia del Vangelo di Cristo operante in loro. Solo la sequela di Gesù conduce alla nuova fraternità: ecco il primo fondamentale messaggio che la solennità odierna consegna a ciascuno di noi, e la cui importanza si riflette anche sulla ricerca di quella piena comunione, cui anelano il Patriarca Ecumenico e il Vescovo di Roma, come pure tutti i cristiani.
Nel brano del Vangelo di san Matteo che abbiamo ascoltato poco fa, Pietro rende la propria confessione di fede a Gesù riconoscendolo come Messia e Figlio di Dio; lo fa anche a nome degli altri Apostoli. In risposta, il Signore gli rivela la missione che intende affidargli, quella cioè di essere la «pietra», la «roccia», il fondamento visibile su cui è costruito l’intero edificio spirituale della Chiesa (cfr Mt 16,16-19). Ma in che modo Pietro è la roccia? Come egli deve attuare questa prerogativa, che naturalmente non ha ricevuto per se stesso? Il racconto dell’evangelista Matteo ci dice anzitutto che il riconoscimento dell’identità di Gesù pronunciato da Simone a nome dei Dodici non proviene «dalla carne e dal sangue», cioè dalle sue capacità umane, ma da una particolare rivelazione di Dio Padre. Invece subito dopo, quando Gesù preannuncia la sua passione, morte e risurrezione, Simon Pietro reagisce proprio a partire da «carne e sangue»: egli «si mise a rimproverare il Signore: … questo non ti accadrà mai» (16,22). E Gesù a sua volta replicò: «Va’ dietro a me, Satana! Tu mi sei di scandalo…» (v. 23). Il discepolo che, per dono di Dio, può diventare solida roccia, si manifesta anche per quello che è, nella sua debolezza umana: una pietra sulla strada, una pietra in cui si può inciampare – in greco skandalon. Appare qui evidente la tensione che esiste tra il dono che proviene dal Signore e le capacità umane; e in questa scena tra Gesù e Simon Pietro vediamo in qualche modo anticipato il dramma della storia dello stesso papato, caratterizzata proprio dalla compresenza di questi due elementi: da una parte, grazie alla luce e alla forza che vengono dall’alto, il papato costituisce il fondamento della Chiesa pellegrina nel tempo; dall’altra, lungo i secoli emerge anche la debolezza degli uomini, che solo l’apertura all’azione di Dio può trasformare.
E nel Vangelo di oggi emerge con forza la chiara promessa di Gesù: «le porte degli inferi», cioè le forze del male, non potranno avere il sopravvento, «non praevalebunt». Viene alla mente il racconto della vocazione del profeta Geremia, al quale il Signore, affidando la missione, disse: «Ecco, oggi io faccio di te come una città fortificata, una colonna di ferro e un muro di bronzo contro tutto il paese, contro i re di Giuda e i suoi capi, contro i suoi sacerdoti e il popolo del paese. Ti faranno guerra, ma non ti vinceranno – non praevalebunt -, perché io sono con te per salvarti» (Ger 1,18-19). In realtà, la promessa che Gesù fa a Pietro è ancora più grande di quelle fatte agli antichi profeti: questi, infatti, erano minacciati solo dai nemici umani, mentre Pietro dovrà essere difeso dalle «porte degli inferi», dal potere distruttivo del male. Geremia riceve una promessa che riguarda lui come persona e il suo ministero profetico; Pietro viene rassicurato riguardo al futuro della Chiesa, della nuova comunità fondata da Gesù Cristo e che si estende a tutti i tempi, al di là dell’esistenza personale di Pietro stesso.
Passiamo ora al simbolo delle chiavi, che abbiamo ascoltato nel Vangelo. Esso rimanda all’oracolo del profeta Isaia sul funzionario Eliakìm, del quale è detto: «Gli porrò sulla spalla la chiave della casa di Davide: se egli apre, nessuno chiuderà; se egli chiude, nessuno potrà aprire» (Is 22,22). La chiave rappresenta l’autorità sulla casa di Davide. E nel Vangelo c’è un’altra parola di Gesù rivolta agli scribi e ai farisei, ai quali il Signore rimprovera di chiudere il regno dei cieli davanti agli uomini (cfr Mt 23,13). Anche questo detto ci aiuta a comprendere la promessa fatta a Pietro: a lui, in quanto fedele amministratore del messaggio di Cristo, spetta di aprire la porta del Regno dei Cieli, e di giudicare se accogliere o respingere (cfr Ap 3,7). Le due immagini – quella delle chiavi e quella del legare e sciogliere – esprimono pertanto significati simili e si rafforzano a vicenda. L’espressione «legare e sciogliere» fa parte del linguaggio rabbinico e allude da un lato alle decisioni dottrinali, dall’altro al potere disciplinare, cioè alla facoltà di infliggere e di togliere la scomunica. Il parallelismo «sulla terra … nei cieli» garantisce che le decisioni di Pietro nell’esercizio di questa sua funzione ecclesiale hanno valore anche davanti a Dio.
Nel capitolo 18 del Vangelo secondo Matteo, dedicato alla vita della comunità ecclesiale, troviamo un altro detto di Gesù rivolto ai discepoli: «In verità vi dico: tutto quello che legherete sulla terra sarà legato in cielo, e tutto quello che scioglierete sulla terra sarà sciolto in cielo» (Mt 18,18). E san Giovanni, nel racconto dell’apparizione di Cristo risorto in mezzo agli Apostoli alla sera di Pasqua, riporta questa parola del Signore: «Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati» (Gv 20,22-23). Alla luce di questi parallelismi, appare chiaramente che l’autorità di sciogliere e di legare consiste nel potere di rimettere i peccati. E questa grazia, che toglie energia alle forze del caos e del male, è nel cuore del mistero e del ministero della Chiesa. La Chiesa non è una comunità di perfetti, ma di peccatori che si debbono riconoscere bisognosi dell’amore di Dio, bisognosi di essere purificati attraverso la Croce di Gesù Cristo. I detti di Gesù sull’autorità di Pietro e degli Apostoli lasciano trasparire proprio che il potere di Dio è l’amore, l’amore che irradia la sua luce dal Calvario. Così possiamo anche comprendere perché, nel racconto evangelico, alla confessione di fede di Pietro fa seguito immediatamente il primo annuncio della passione: in effetti, Gesù con la sua morte ha vinto le potenze degli inferi, nel suo sangue ha riversato sul mondo un fiume immenso di misericordia, che irriga con le sue acque risanatrici l’umanità intera.
Cari fratelli, come ricordavo all’inizio, la tradizione iconografica raffigura san Paolo con la spada, e noi sappiamo che questa rappresenta lo strumento con cui egli fu ucciso. Leggendo, però, gli scritti dell’Apostolo delle genti, scopriamo che l’immagine della spada si riferisce a tutta la sua missione di evangelizzatore. Egli, ad esempio, sentendo avvicinarsi la morte, scrive a Timoteo: «Ho combattuto la buona battaglia» (2 Tm 4,7). Non certo la battaglia di un condottiero, ma quella di un annunciatore della Parola di Dio, fedele a Cristo e alla sua Chiesa, a cui ha dato tutto se stesso. E proprio per questo il Signore gli ha donato la corona di gloria e lo ha posto, insieme con Pietro, quale colonna nell’edificio spirituale della Chiesa.
Cari Metropoliti: il Pallio che vi ho conferito vi ricorderà sempre che siete stati costituiti nel e per il grande mistero di comunione che è la Chiesa, edificio spirituale costruito su Cristo pietra angolare e, nella sua dimensione terrena e storica, sulla roccia di Pietro. Animati da questa certezza, sentiamoci tutti insieme cooperatori della verità, la quale – sappiamo – è una e «sinfonica», e richiede da ciascuno di noi e dalle nostre comunità l’impegno costante della conversione all’unico Signore nella grazia dell’unico Spirito. Ci guidi e ci accompagni sempre nel cammino della fede e della carità la Santa Madre di Dio. Regina degli Apostoli, prega per noi!
Amen.
















