Pio IX e la Questione Romana “Iamdudum cernimus” del 18 marzo 1861

17 marzo 1861 nasce il Regno d’Italia ma…
La posizione di Pio IX sulla “questione romana” è ormai netta. Con le allocuzioni concistoriali Novos et ante del 28 settembre 1860, Iamdudum cernimus del 18 marzo 1861, Maxima quidem del 9 giugno 1862, il Papa reitera la sua condanna delle pretese rivoluzionarie, sostenuto dall’adesione dell’episcopato cattolico, rinnovata al Pontefice nel Concistoro del 9 giugno 1862 da più di trecento arcivescovi o vescovi di tutto il mondo.

Per l’immagine della cover con la Preghiera di Pio IX, la fonte è: Roberto de Mattei in “Pio IX” edito dalla Piemme nel 2000 – che trovate qui in pdf al termine del testo troverete il terzo capitolo sul quale riflettere gli eventi storici di quel periodo.
Ecco ora alcuni passaggi della “Iamdudum cernimus” del 18 marzo 1861, laddove sottolinea:

  • “Ma i patroni della odierna civiltà non acconsentono a questa differenza, giacché si proclamano veri e sinceri amici della Religione. Ad essi Noi per certo vorremmo prestare fede, se i tristissimi fatti, che sono sotto gli occhi di tutti, non mostrassero pienamente il contrario. Per fermo, una sola è in tutta la terra la vera e santa Religione, fondata e istituita dallo stesso Cristo, Signor Nostro; essa, madre feconda e nutrice d’ogni virtù, fugatrice dei vizi, liberatrice degli animi, indicatrice della vera felicità, si chiama Cattolica, Apostolica, Romana.
    Che cosa debba poi pensarsi di coloro che vivono fuori di quest’arca di salute, lo dichiarammo già altra volta nella Nostra Allocuzione concistoriale del 9 dicembre 1854; qui confermiamo la medesima dottrina.
    Pertanto chiediamo a coloro i quali Ci invitano a porgere amica la mano alla civiltà odierna, se i fatti siano tali da potere indurre il Vicario di Cristo in terra, da Cristo stesso supernaturalmente stabilito per difendere la purezza della sua celeste dottrina e pascerne gli agnelli e le pecore, confermando in essa gli uni e le altre; chiediamo se i fatti possano indurlo, senza gravissimo fallo della coscienza e senza massimo scandalo per tutti i buoni, ad associarsi con l’anzidetta odierna civiltà, per la cui opera succedono mali così grandi e non mai deplorati abbastanza, si promulgano tante orribili opinioni e tanti errori e falsi principii completamente opposti alla Religione cattolica e alla sua dottrina.
    (..) Questa moderna civiltà, poi, mentre favorisce qualunque culto acattolico, e ammette gli stessi infedeli ai pubblici impieghi, e dischiude ai loro figli le scuole cattoliche, si adira contro gli Ordini religiosi, contro gli Istituti fondati per educare cattolicamente la gioventù, contro moltissimi ecclesiastici di ogni grado, anche rivestiti di amplissima dignità, non pochi dei quali conducono miseramente la vita o nell’incertezza dell’esilio o in carcere, e anche contro illustri personaggi laici che, legati a Noi e a questa Santa Sede, difendono strenuamente la causa della Religione e della giustizia.
    Questa civiltà, mentre largisce sussidii alle persone ed agli istituti acattolici, spoglia la Chiesa delle giustissime sue possessioni, ed usa ogni consiglio ed ogni arte per diminuire l’efficacia salutare della stessa Chiesa. Inoltre, mentre concede tutta la libertà a qualunque scritto e discorso che si opponga alla Chiesa e a tutti coloro che sono ad essa cordialmente devoti, e mentre anima, nutre e fomenta la licenza, nello stesso tempo si mostra assolutamente cauta e moderata nel riprendere il metodo talvolta violento e disumano che si adopera contro coloro che pubblicano ottime scritture, ed esercita, nel punire, ogni severità, se crede che da questi si ecceda anche leggermente oltre i confini della moderazione.
    A questa cosiffatta civiltà potrebbe mai il Romano Pontefice stendere la destra amica, e con essa stringere di cuore patti e alleanze? Si restituiscano alle cose i loro proprii nomi, e questa Santa Sede sarà sempre consentanea a se medesima. Infatti essa fu sempre patrona e fautrice della vera civiltà: e i monumenti della storia attestano e provano eloquentissimamente che in tutti i tempi questa Santa Sede recò sempre e dappertutto, anche tra le più remote e barbare genti, la vera e sincera umanità di costumi, la sapienza e la disciplina.
    Ma volendosi definire con il nome di civiltà un sistema fabbricato apposta per indebolire e forse anche per distruggere la Chiesa di Cristo, certamente non potranno mai questa Santa Sede e il Romano Pontefice adattarsi a questa civiltà. Infatti, come dice sapientissimamente l’Apostolo, “quale comunicazione può essere tra la giustizia e l’iniquità, o qual socievolezza tra la luce e le tenebre? E perciò, quale accordo tra Cristo e Belial ?” (2Cor 6,14-15).”

—————————————————

ALLOCUZIONE
IAMDUDUM CERNIMUS
DEL SOMMO PONTEFICE
PIO IX

Il Papa Pio IX. Venerabili Fratelli.

Da gran tempo vediamo, Venerabili Fratelli, da quale miserando conflitto sia agitata la società civile, massimamente in questi infelici nostri tempi, per la guerra accesa tra la verità e l’errore, la virtù ed il vizio, la luce e le tenebre. Infatti, taluni dall’una parte sostengono alcune massime della moderna, come la chiamano, civiltà; ed altri dall’altra propugnano i diritti della giustizia e della nostra sacrosanta Religione. I primi chiedono che il Romano Pontefice si riconcilii e si rappacifichi con il Progresso, con il Liberalismo, come dicono, e con l’odierno incivilimento. I secondi giustamente domandano che siano mantenuti inviolati ed integri gl’immobili ed incrollabili principii dell’eterna giustizia; e sia serbata illesa la virtù salutifera della nostra divina Religione, la quale propaga la gloria di Dio, porge opportuno rimedio ai tanti mali che affliggono il genere umano, ed è l’unica e vera norma da cui i figli degli uomini, dopo essere stati educati ad ogni virtù in questa vita mortale, sono condotti al porto della beatitudine eterna.

Ma i patroni della odierna civiltà non acconsentono a questa differenza, giacché si proclamano veri e sinceri amici della Religione. Ad essi Noi per certo vorremmo prestare fede, se i tristissimi fatti, che sono sotto gli occhi di tutti, non mostrassero pienamente il contrario. Per fermo, una sola è in tutta la terra la vera e santa Religione, fondata e istituita dallo stesso Cristo, Signor Nostro; essa, madre feconda e nutrice d’ogni virtù, fugatrice dei vizi, liberatrice degli animi, indicatrice della vera felicità, si chiama Cattolica, Apostolica, Romana. Che cosa debba poi pensarsi di coloro che vivono fuori di quest’arca di salute, lo dichiarammo già altra volta nella Nostra Allocuzione concistoriale del 9 dicembre 1854; qui confermiamo la medesima dottrina. Pertanto chiediamo a coloro i quali Ci invitano a porgere amica la mano alla civiltà odierna, se i fatti siano tali da potere indurre il Vicario di Cristo in terra, da Cristo stesso supernaturalmente stabilito per difendere la purezza della sua celeste dottrina e pascerne gli agnelli e le pecore, confermando in essa gli uni e le altre; chiediamo se i fatti possano indurlo, senza gravissimo fallo della coscienza e senza massimo scandalo per tutti i buoni, ad associarsi con l’anzidetta odierna civiltà, per la cui opera succedono mali così grandi e non mai deplorati abbastanza, si promulgano tante orribili opinioni e tanti errori e falsi principii completamente opposti alla Religione cattolica e alla sua dottrina. Né alcuno ignora come tra questi fatti sia da annoverare la totale distruzione delle stesse solenni convenzioni, formalmente fatte tra questa Apostolica Sede e i regii Sovrani, come ultimamente è accaduto in Napoli. Del che Noi, in questo vostro amplissimo Consesso, con tutta la forza del Nostro spirito Ci lamentiamo, Venerabili Fratelli, e sommamente protestiamo nello stesso modo in cui in altre occasioni abbiamo protestato contro simili attentati e violazioni.

Questa moderna civiltà, poi, mentre favorisce qualunque culto acattolico, e ammette gli stessi infedeli ai pubblici impieghi, e dischiude ai loro figli le scuole cattoliche, si adira contro gli Ordini religiosi, contro gli Istituti fondati per educare cattolicamente la gioventù, contro moltissimi ecclesiastici di ogni grado, anche rivestiti di amplissima dignità, non pochi dei quali conducono miseramente la vita o nell’incertezza dell’esilio o in carcere, e anche contro illustri personaggi laici che, legati a Noi e a questa Santa Sede, difendono strenuamente la causa della Religione e della giustizia. Questa civiltà, mentre largisce sussidii alle persone ed agli istituti acattolici, spoglia la Chiesa delle giustissime sue possessioni, ed usa ogni consiglio ed ogni arte per diminuire l’efficacia salutare della stessa Chiesa. Inoltre, mentre concede tutta la libertà a qualunque scritto e discorso che si opponga alla Chiesa e a tutti coloro che sono ad essa cordialmente devoti, e mentre anima, nutre e fomenta la licenza, nello stesso tempo si mostra assolutamente cauta e moderata nel riprendere il metodo talvolta violento e disumano che si adopera contro coloro che pubblicano ottime scritture, ed esercita, nel punire, ogni severità, se crede che da questi si ecceda anche leggermente oltre i confini della moderazione.

A questa cosiffatta civiltà potrebbe mai il Romano Pontefice stendere la destra amica, e con essa stringere di cuore patti e alleanze? Si restituiscano alle cose i loro proprii nomi, e questa Santa Sede sarà sempre consentanea a se medesima. Infatti essa fu sempre patrona e fautrice della vera civiltà: e i monumenti della storia attestano e provano eloquentissimamente che in tutti i tempi questa Santa Sede recò sempre e dappertutto, anche tra le più remote e barbare genti, la vera e sincera umanità di costumi, la sapienza e la disciplina. Ma volendosi definire con il nome di civiltà un sistema fabbricato apposta per indebolire e forse anche per distruggere la Chiesa di Cristo, certamente non potranno mai questa Santa Sede e il Romano Pontefice adattarsi a questa civiltà. Infatti, come dice sapientissimamente l’Apostolo, “quale comunicazione può essere tra la giustizia e l’iniquità, o qual socievolezza tra la luce e le tenebre? E perciò, quale accordo tra Cristo e Belial ?” (2Cor 6,14-15).

Con che buona fede dunque i perturbatori e i patroni delle sedizioni alzano la voce esagerando gli sforzi da loro usati invano per riconciliarsi con il Romano Pontefice? Dal momento che questi trae ogni sua forza dai principii dell’eterna giustizia, come potrebbe mai abbandonarli, perché così s’indebolisca la santissima fede, e l’Italia si trovi in pericolo di perdere il suo massimo splendore e la gloria di cui rifulge da diciannove secoli, per il possesso che ha del centro e della sede della verità cattolica? Né si può opporre che questa Apostolica Sede, nelle cose relative al Principato civile, chiuse le orecchie alle richieste di coloro che mostrarono di desiderare una più libera amministrazione. Per tacere di vecchi esempi, parleremo di questi tempi infelici. Quando l’Italia ebbe più libere istituzioni dai suoi legittimi Principi, Noi con animo paterno chiamammo una parte dei Nostri figli alla civile amministrazione dello Stato Pontificio, e largimmo opportune concessioni, ordinate però con acconce misure di prudenza affinché il dono concesso con animo paterno non fosse avvelenato dall’opera dei tristi. Ma che accadde? Una sfrenata licenza si impadronì delle innocenti Nostre concessioni, e la soglia stessa dell’Aula, dove si erano radunati i pubblici Ministri e i Deputati, fu cosparsa di sangue, e l’empia mano fu rivolta sacrilegamente contro colui che aveva concesso il beneficio. Che se in questi tempi più recenti Ci furono dati consigli intorno all’amministrazione civile, Voi non ignorate, Venerabili Fratelli, che essi furono da Noi ammessi, eccettuato però e rigettato quello che non riguardava l’amministrazione civile, ma aveva per iscopo di farci acconsentire alla parte già consumata della Nostra spoliazione. Ma non è necessario che discorriamo dei consigli ben ricevuti, né delle Nostre sincere promesse di adempierli, giacché gli stessi eroi della usurpazione affermarono altamente che essi non volevano riforme, ma piena ribellione e intera rottura col Principe legittimo. Questi erano gli autori e i capi di questo gravissimo attentato, i quali riempirono ogni cosa dei loro clamori, non il popolo; così che di loro si può dire quello che il Venerabile Beda diceva dei farisei e degli scribi: “Queste cose falsamente sostenevano non alcuni del popolo, ma i Farisei e gli Scribi, come attestano gli Evangelisti” .

Ma la battaglia che si fa contro il Pontificato Romano non tende solamente a privare questa Santa Sede e il Romano Pontefice di ogni suo civile Principato, ma cerca anche di indebolire e, se fosse possibile, di togliere totalmente di mezzo ogni salutare efficacia della Religione Cattolica: e perciò anche l’opera stessa di Dio, il frutto della redenzione, e quella santissima fede che è la preziosissima eredità a noi pervenuta dall’ineffabile sacrificio consumato sul Golgota. E che la cosa sia così, si scorge più che chiaramente dai fatti già accennati, e da quanto vediamo ogni giorno. Infatti quante diocesi in Italia sono, per frapposti impedimenti, orbate dei loro Vescovi, con il plauso dei patroni della moderna civiltà che lasciano tanti popoli cristiani senza pastori e che s’impadroniscono dei loro beni per convertirli anche a mali usi! Quanti Vescovi in esilio! Quanti (lo diciamo con incredibile dolore dell’animo Nostro), quanti apostati che parlando a nome non di Dio, ma di Satana, e fidandosi dell’impunità loro concessa da un fatale sistema di governo, turbano le coscienze, spingono alla prevaricazione i deboli, confermano coloro che sono miseramente caduti in ogni più turpe dottrina, e cercano di lacerare la veste di Cristo, non temendo di proporre fondazioni di Chiese nazionali, come dicono, e altre simili empietà! Ora, dopo avere così insultato la Religione, che ipocritamente invitano ad accordarsi con l’odierna civiltà, non dubitano di convincere anche Noi, con uguale ipocrisia, a riconciliarci con l’Italia. Cioè: mentre, quasi spogliati d’ogni Nostro civile Principato, Noi sosteniamo i gravissimi pesi del Pontificato e del Principato con l’aiuto delle pie largizioni dei figli della Chiesa cattolica, mandate a Noi quotidianamente con grandissimo amore; mentre siamo gratuitamente fatti segno all’invidia e all’odio per opera di quegli stessi che chiedono la Nostra conciliazione, essi vorrebbero anche che dichiarassimo formalmente di cedere in libera proprietà degli usurpatori le Province del Nostro Stato Pontificio. Con tale audacissima e inaudita richiesta vorrebbero che questa Apostolica Sede, la quale fu sempre e sarà il baluardo della verità e della giustizia, sancisca che la cosa ingiustamente e violentemente rubata può tranquillamente ed onestamente possedersi dall’iniquo aggressore; e così si stabilisca il falso principio che la fortunata ingiustizia del fatto non reca alcun danno alla santità del diritto. Siffatta domanda contrasta anche con quelle solenni parole, con le quali in un grande ed illustre Senato fu testé dichiarato che “il Romano Pontefice è il rappresentante della precipua forza morale nell’umana società”. Dal che segue che Egli non può in alcun modo consentire ad una tale vandalica spoliazione, senza violare il fondamento di quella morale disciplina di cui Egli è riconosciuto essere come la prima forma, e l’esemplare.

Dunque chi ora, o ingannato da errore o trepido per paura, vuol dare consigli consentanei agl’ingiusti desiderii dei perturbatori della società civile, è bene che, specialmente in questi tempi, si persuada che costoro non saranno mai contenti, se non quando vedranno tolto di mezzo ogni principio d’autorità, ogni freno di Religione, ogni regola di diritto e di giustizia. Questi sovvertitori hanno già ottenuto, a gran danno della società civile, con i loro discorsi e con i loro scritti, di pervertire le umane menti, d’indebolire il senso morale e di togliere l’orrore dell’ingiustizia; ora si sforzano di persuadere tutti che il diritto invocato dagli onesti non è altro che un ingiusto desiderio degno di disprezzo. Ohimè! Veramente “la terra è in lacrime e si consuma e vien meno; si consuma il mondo, si consumano gli eccelsi del popolo della terra; la terra è infettata dai suoi abitatori, i quali hanno trasgredito le leggi, hanno cambiato il diritto, hanno sciolto l’alleanza sempiterna” (Is 24,4-5).

Ma in mezzo a tanta oscurità di tenebre, in cui Dio, per imperscrutabile suo giudizio, permette che i popoli siano immersi, Noi portiamo ogni Nostra speranza e fiducia nello stesso clementissimo Padre delle misericordie e Dio di ogni consolazione, il quale Ci consola in ogni Nostra tribolazione. Infatti Egli, che in Voi, Venerabili Fratelli, pone lo spirito di concordia e d’unanimità, e ogni giorno più lo porrà, affinché a Noi strettissimamente e concordissimamente congiunti siate pronti con Noi a sottostare a quella sorte che per arcano consiglio di sua provvidenza, è riservata a ciascuno di noi, Egli che con il vincolo di carità congiunge tra loro e con questo centro di verità cattolica i Vescovi del mondo, i quali ammaestrano nella dottrina delle verità evangeliche i fedeli, e mostrano loro in mezzo a tante tenebre la via sicura, annunziando ai popoli, con la virtù della prudenza, santissime parole; Egli sopra tutti i popoli cattolici diffonde lo spirito della preghiera, ed agli acattolici ispira un senso di equità, con il quale recano sopra i moderni avvenimenti un retto giudizio. Ora, questo così mirabile consenso di preghiere in tutto il mondo cattolico e queste così unanimi testimonianze di amore verso di Noi, espresse in tanti e così vari modi (il che non si riscontra tanto facilmente nei tempi passati) chiarissimamente dimostrano come agli uomini bene animati sia ad ogni modo necessario volgersi a questa Cattedra del beatissimo Principe degli Apostoli, luce del mondo, la quale, come maestra di verità e nunzia di salute, sempre insegnò e fino alla fine dei secoli non cesserà mai d’insegnare le leggi dell’eterna giustizia.

È poi così lontano dal vero che i popoli d’Italia si siano astenuti da siffatte luminosissime testimonianze del loro filiale amore e della loro osservanza a questa Sede Apostolica, che anzi tra essi moltissime centinaia di migliaia di persone Ci diressero amantissime lettere, non con l’intendimento di chiederci la riconciliazione proclamata dagli astuti, di cui sopra dicemmo, ma bensì per condolersi altamente delle Nostre molestie, delle Nostre pene, delle Nostre afflizioni, e per confermare verso di Noi il loro affetto, e per detestare in tutti i modi la nefanda e sacrilega spoliazione del civile Principato Nostro e di questa Sede Apostolica.

Pertanto, essendo così le cose, prima di porre fine al Nostro discorso, dichiariamo innanzi a Dio ed agli uomini, in modo chiaro e solenne, non esservi affatto ragione alcuna, per cui Noi dobbiamo riconciliarci con chicchessia. E poiché Noi, quantunque immeritevoli, teniamo in terra il luogo di Colui che pregò per i suoi crocifissori e chiese venia per essi, ben sentiamo di dovere perdonare a quelli che Ci offesero, e pregare per loro, affinché con l’aiuto della grazia divina si convertano, e si meritino la benedizione di Colui che quaggiù fa le veci di Cristo stesso. Volentieri dunque preghiamo per essi e, appena si siano ravveduti, siamo pronti a perdonare loro e a benedirli. Frattanto però non possiamo restare inerti, come se non Ci preoccupassimo delle umane calamità; né possiamo non commuoverci veementemente ed addolorarci e stimare come Nostri i grandissimi danni e i mali iniquamente fatti a coloro che soffrono persecuzioni per la giustizia. Quindi, mentre siamo macerati da intimo dolore e volgiamo calde preghiere a Dio, non omettiamo d’adempiere il gravissimo dovere del supremo Nostro Apostolato, di parlare, d’insegnare, di condannare tutto ciò che Dio e la sua Chiesa insegnano e condannano, acciocché in tal modo consumiamo il corso Nostro e il ministero della parola, che ricevemmo da Gesù Signore, per testimoniare il Vangelo della grazia di Dio.

Dunque, se si chiedono da Noi cose ingiuste, non possiamo farle; se poi si chiede perdono, volentieri e spontaneamente, come abbiamo detto più sopra, lo concediamo. Ma affinché la parola di un tal perdono sia da Noi proferita in quel modo che compete alla santità della Nostra dignità pontificia, pieghiamo le ginocchia dinanzi a Dio, ed abbracciando il segno trionfale della nostra redenzione, umilissimamente supplichiamo Gesù Cristo che Ci riempia della stessa sua carità, affinché Noi perdoniamo in modo del tutto consimile a quello con il quale Egli perdonò ai suoi nemici, prima di rendere il suo santissimo spirito nelle mani dell’eterno Padre suo. E da lui intensamente chiediamo che, come dopo il perdono da Lui dato, tra le dense tenebre che coprivano la terra, si fece luce nelle menti dei suoi nemici i quali, pentiti dell’orrendo misfatto, tornavano battendosi il petto, così Egli in questa grande caligine della età nostra si degni di effondere dai tesori inesausti della sua infinita misericordia i doni della celeste e trionfatrice sua grazia, in modo che tutti gli erranti tornino al suo unico ovile.

Quali che siano poi i futuri investigabili disegni della divina provvidenza, preghiamo Gesù Cristo in nome della sua Chiesa, che giudichi Egli stesso la causa del suo Vicario, che è causa della sua Chiesa, e voglia difendere questa causa dagli assalti dei suoi nemici e coronarla ed accrescerla di gloriosa vittoria. Lo preghiamo altresì che voglia restituire alla società perturbata l’ordine e la tranquillità, e concedere la desideratissima pace, con quel trionfo della giustizia che da Lui solo aspettiamo. Poiché in tanta trepidazione dell’Europa e di tutta la terra, e anche di coloro che esercitano l’arduo compito di reggere le sorti dei popoli, solo Dio è con Noi, e per Noi può combattere “Giudica noi, o Iddio, e distingui la nostra causa dalla gente non santa; concedi, o Signore, pace ai nostri giorni, giacché non vi è nessun altro che combatta per noi, se non tu solo, Dio nostro”.

18 marzo 1861


Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è con-i-pontefici-10.jpg

RICORDA CHE:

  • Il discorso sul Papa-Re non deve dare adito a pericolose confusioni. Premessa la necessaria distinzione tra il “potere temporale” del Papa e il suo potere “in materia temporale”, va osservato che le radici del principato civile non possono e non devono essere ricercate in un ipotetico diritto divino che fondi la “regalità sacra” del Pontefice allo stesso modo di quella dei sovrani temporali.
    Il potere temporale non può essere per il vicario di Cristo un fine, in sé, ma solo un mezzo per assicurare la suprema giurisdizione spirituale.
    Così insegnano gli stessi pontefici, anche successivi a Pio IX. Leone XIII, dal 1878 al 1889, protestò ufficialmente sessantadue volte contro la privazione del suo “principato civile”. Basti qui ricordare la lettera del 15 giugno 1887 al cardinale Rampolla, in cui il Pontefice rinnovò con ampiezza dottrinale la rivendicazione di una “sovranità effettiva”.
    Alla vigilia della morte, il Papa rimise infine a monsignor Angeli un plico contenente un documento, da leggere in conclave, in cui si denunciavano tutti i tentativi fatti per spingerlo ad accettare un accomodamento…
    La “conciliazione” fra la Chiesa Cattolica e lo Stato italiano fu sancita, dopo circa ottant’anni di dissidio, dai Patti Lateranensi dell’11 febbraio 1929.

(Roberto de Mattei in “Pio IX” edito dalla Piemme nel 2000 – che trovate qui in pdf)

1861-1878: SCONFITTO O VINCITORE?
(un estratto del capitolo terzo del libro di de Mattei sopra citato)
 
I. La questione romana: da Cavour a Porta Pia

Tutto l’ampio ventaglio di forze rivoluzionarie che confluisce nel “fascio” risorgimentale, dal neoguelfismo al liberalismo “cattolico”, fino alle punte più accese del radicalismo democratico, trova il suo momento catalizzatore e aggregante nel mito della Roma “rigenerata” e “riformata”, perché liberata dal principato civile del Pontefice. «La capitale del mondo pagano e del mondo cattolico – scrive De Sanctis, uno degli autori più rappresentativi dell’Italia risorgimentale – è ben degna di essere la capitale dello spirito moderno. Roma è dunque per noi non il passato, ma l’avvenire. Noi andremo là per distruggervi il potere temporale e per trasformare il papato» 3.
La “questione romana” è dunque realmente la “questione” del Risorgimento, di cui costituisce non un’appendice politico-diplomatica, ma il filo conduttore e il compimento. «La Rivoluzione attuale – scriveva Giuseppe Montanelli – mosse da Roma e prima o poi a Roma dovrà compirsi» 4. Il 1870, «l’Ottantanove d’Italia» 5, rappresenterà l’epilogo e il simbolico compimento del Risorgimento, o addirittura, per le società segrete, come affermerà il Gran Maestro della Massoneria italiana Adriano Lemmi, «il più memorabile avvenimento della storia del mondo» 6. «Siate tranquilli sul conto nostro – confiderà Cavour a Henry d’Ideville – noi impiegheremo cinquant’anni per compiere il nostro Ottantanove, evitando le scosse e gli eccessi attraverso i quali siete passati voi» 7.
La posizione di Pio IX sulla “questione romana” è ormai netta.
Con le allocuzioni concistoriali Novos et ante 8 del 28 settembre 1860, Iamdudum cernimus 9 del 18 marzo 1861, Maxima quidem 10 del 9 giugno 1862, il Papa reitera la sua condanna delle pretese rivoluzionarie, sostenuto dall’adesione dell’episcopato cattolico, rinnovata al Pontefice nel Concistoro del 9 giugno 1862 da più di trecento arcivescovi o vescovi di tutto il mondo. Nelle sole province meridionali intanto il governo in pochi mesi processa e confina sessantasei vescovi (più della metà), tra i quali i cardinali arcivescovi di Napoli Sisto Riario Sforza, e di Fermo Filippo De Angelis 11, mentre le popolazioni del meridione resistono sotto forma di “brigantaggio” all’invasione piemontese 12.
«La battaglia che si fa contro il Pontificato Romano – ribadisce Pio IX – non tende solamente a privare questa Santa Sede e il Romano Pontefice di ogni suo civile Principato ma cerca anche di indebolire e, se fosse possibile di togliere, totalmente di mezzo ogni salutare efficacia della Religione cattolica: e perciò anche l’opera stessa di Dio, il frutto della redenzione, e quella santissima fede che è la preziosissima eredità a noi pervenuta dall’ineffabile sacrificio consumato sul Golgota» 13. Due anni dopo, nel Sillabo dell’8 dicembre 1864, vengono esplicitamente condannate due proposizioni che si riferiscono al principato civile del Pontefice romano. Sono la 75: «Sulla compatibilità del regno temporale con lo spirituale disputano fra di loro i figli della cristiana e cattolica Chiesa» e la 76: «L’abolizione del civile imperio che possiede la Sede Apostolica gioverebbe moltissimo alla libertà e felicità della Chiesa».
Nel 1865 nella allocuzione Multiplices inter 14, Pio IX, sulla scia dei suoi predecessori, rinnova la condanna e la scomunica delle società segrete, in particolare la Carboneria e la Massoneria, «che con le diversità delle sole apparenze si costituiscono di giorno in giorno e congiurano contro la Chiesa e la legittima potestà, sia in pubblico come in privato» 15.
Poche settimane dopo la proclamazione del Regno d’Italia, il conte di Cavour fu colpito da un’apoplessia che lo portò improvvisamente alla morte, la mattina del 6 giugno 1861. Durante il delirio che precede la morte, la vita è ancora così potente in lui che attraverso il vestibolo e due saloni si sentono risuonare le sue ultime parole, prive di senso: «Imperatore! Italia! Niente stato d’assedio!» 16. Un francescano amministra i Sacramenti al conte, scomunicato, senza esigere la ritrattazione degli errori 17.
L’opera di Cavour venne continuata da Bettino Ricasoli 18, il “barone di ferro” toscano, che ispirava la sua azione politica a un profetismo riformatore giustamente paragonato da Spadolini a quello mazziniano 19. Cavour stesso, sul letto di morte, aveva molte volte pronunciato il nome di Ricasoli indicandolo al Re come suo successore.
Egli fu il primo della lunga serie di ex collaboratori di Cavour – Rattazzi, Farini, Minghetti, Lamarmora e Lanza – che si succedettero l’uno dopo l’altro alla Presidenza del Consiglio senza avere nessuno l’esperienza e l’abilità dell’artefice dell’unità d’Italia.
Il 24 giugno 1861 Napoleone III riconobbe ufficialmente come “Re d’Italia” Vittorio Emanuele II, con il quale il sovrano francese aveva rotto le relazioni diplomatiche a seguito dell’occupazione delle Marche e dell’Umbria. A partire da questo momento tra il re d’Italia e l’Imperatore dei Francesi, si sviluppò un rapporto ambiguo e contraddittorio sulla “questione romana” destinato ad avere un primo sbocco nella “Convenzione di settembre”, stipulata a Parigi il 15 settembre del 1864 tra l’Italia e la Francia 20.
Con tale accordo l’Italia si impegnava a non attaccare lo Stato Pontificio e a trasferire la capitale del Regno da Torino a Firenze; la Francia si obbligava a ritirare gradualmente, ma entro lo spazio di due anni, le sue truppe da Roma. La diplomazia pontificia, tenuta all’oscuro delle trattative, era persuasa, come tutti, che Firenze costituisse solo una tappa verso la conquista di Roma. «Chi volesse definire quella Convenzione – scrive la “Civiltà Cattolica” ­ non potrebbe dirla meglio, che Negotium perambulans in tenebris. Nelle tenebre fu concepito e nelle tenebre che proceda» 21.
Il 22 ottobre 1865 si votò per la prima volta in Italia dopo la morte di Cavour. Su venti milioni di abitanti che comprendeva il Regno da poco unito, senza Roma e Venezia, solo 504.263 erano i cittadini aventi diritto al voto, in base ai requisiti richiesti di istruzione e di censo, e solo 271.923 gli italiani che concretamente lo espressero recandosi alle urne. Firenze è da pochi mesi la nuova capitale del Regno unitario.
Nel 1866 il Regno d’Italia, raggiunse frattanto la sua altra meta: l’annessione di Venezia e del Veneto in seguito alla guerra austro-prussiana. Il governo austriaco si disse disposto a cedere Venezia e il Veneto a Vittorio Emanuele attraverso Napoleone III, purché l’Italia rimanesse neutrale. Il governo italiano, mosso dall’avversione antiaustriaca e dal desiderio di mostrare sul campo le proprie qualità belliche, rifiutò però l’offerta e il 20 giugno 1866, sotto la guida di Ricasoli, dichiarò guerra all’Austria.
Mentre l’esercito prussiano passava di vittoria in vittoria, quello italiano, guidato dai generali Lamarmora e Cialdini, venne disfatto per terra a Custoza, il 24 giugno, e sul mare, a Lissa, il 20 luglio. Sconfitta sul campo, l’Italia ottenne una vittoria umiliante, accettando di ricevere il Veneto dall’Austria per le mani di Napoleone.
La prima guerra nazionale del nuovo Regno d’Italia, da tutti invocata, lasciò uno strascico profondo di amarezze e di delusione.
Immediatamente dopo la proclamazione del Regno, il 25 marzo 1861, il conte di Cavour annunciò alla Camera dei deputati che «Roma sola deve essere capitale d’Italia».
L’obiettivo cavouriano, due giorni dopo, venne sancito di fronte a tutta l’Europa dal voto del primo Parlamento nazionale.
La caduta del potere temporale del Papa non è più, a partire da questo momento, il programma occulto delle società segrete, ma quello pubblico ed ufficiale del Regno d’Italia appena costituito.
Nasce così, come problema internazionale, la «questione romana».
In quella stessa estate del 1866, nei mesi di luglio e agosto viene approvata dalla Camera e dal Senato la legge per la soppressione degli enti ecclesiastici e la liquidazione dell’asse ecclesiastico, che sopprime venticinquemila enti devolvendone i beni al pubblico demanio e successivamente li mette all’asta in tutta Italia, avvantaggiando la nuova borghesia che se li accaparra a un prezzo inferiore al loro reale valore. Tale legge non solo attenta gravemente alla libertà della Chiesa italiana, ma ha drammatiche ripercussioni sociali, perché i cittadini perdono i diritti fino allora goduti nelle terre di proprietà ecclesiastica, a tutto vantaggio della nuova borghesia liberale 22.
Nel giugno del 1867, la Costituente massonica riunita a Napoli riacclama Garibaldi Primo Massone d’Italia e Gran Maestro Onorario. Il Gran Maestro effettivo è per la seconda volta Filippo Cordova 23 che, nel nuovo governo, guidato da Urbano Rattazzi, ricopre la carica di ministro di Grazia e Giustizia e Culto.
Alla fine di settembre del 1867, scoppiano nello Stato Pontificio una serie di moti che si propongono di fare cadere il governo dall’interno di Roma, mentre Garibaldi avrebbe dovuto invaderla dall’esterno.
Pio IX prevedendo gli avvenimenti non è rimasto inattivo. Nel 1865, egli ha nominato Pro-Ministro delle Armi, in sostituzione di mons. de Mérode, il generale Ermanno Kanzler 24 ufficiale con un brillante passato militare, stimato e benvoluto dai suoi soldati 25.
In breve tempo viene riorganizzato un piccolo esercito sovranazionale di circa 13000 uomini che non ha niente da invidiare a qualsiasi esercito dell’epoca per armamento e spirito bellico 26. Tutto l’esercito viene diviso in due brigate: una sotto il comando del generale Raffaello de Courten, l’altra del generale marchese Zappi.
Gli episodi più drammatici avvengono il 22 ottobre nella Caserma Serristori degli zuavi a Borgo Santo Spirito, dove due terroristi, Gaetano Tognetti e Giuseppe Monti, fanno saltare un’intera ala dell’edificio, provocando la morte di ventisette zuavi e di quattro civili 27; due giorni dopo a Villa Glori, alle porte di Roma, dove una colonna di circa ottanta uomini guidata dai fratelli Giovanni ed Enrico Cairoli viene sgominata dalle truppe pontificie dopo una violenta mischia; il 25 ottobre a Trastevere, dove la Casa Aiani, trasformata in fortezza, viene espugnata nonostante l’accanita resistenza dei difensori incitati dalla popolana Giuditta Taiani-Arquati, che muore, assieme a un figlioletto, con la rivoltella in pugno.
Se la sollevazione romana fallisce, ciò è dovuto anche alla grande popolarità di Pio IX.
«Verso sera – ricorda uno dei congiurati, Vittorio Ferrari – proprio nell’ora in cui il corso di Roma è più animato, lo spettacolo che si offriva al passaggio della berlina papale era quello di un’onda marina procedente e maestosa. Tutta la gente sostava e si sistemava a terra di mano in mano che la carrozza procedeva. E così via fino a Porta del Popolo. Noi ci fissammo in viso l’un l’altro come estatici a quello spettacolo: quando rinvenimmo dallo stupore, ci domandammo: “Che siamo venuti a fare noi?”» 28.
Negli stessi giorni Garibaldi invade lo Stato Pontificio per rovesciare «il più schifoso dei governi» 29, «il governo di Satana» 30, e alla testa di circa undicimila uomini riesce ad entrare a Monterotondo, dove i suoi soldati si danno ad azioni vandaliche. All’alba del 3 novembre il generale Kanzler lo affronta a Mentana 31.
Il combattimento, durissimo, si conclude nel pomeriggio, con un decisivo attacco alla baionetta dei pontifici che vincono lasciando trenta morti e centotré feriti sul campo, contro circa un migliaio, tra morti, feriti e prigionieri dei seguaci di Garibaldi. Le accoglienze ai soldati pontifici furono trionfali, ma nei solenni funerali per i caduti celebrati alla Sistina, Pio IX pianse a lungo e non riuscì a terminare le preghiere 32. «Ben diversamente dal 16 novembre 1848 – osserva Martina – la rivoluzione era fermata: fermata, non vinta» 33.
Henry d’Ideville, il diplomatico francese che a Torino era stato affascinato da Cavour, traccia in questi giorni un amaro quadro dei primi frutti dell’unificazione italiana: «L’unità italiana ha generato il garibaldinismo, la guerra contro la religione, il prestito forzoso, l’imposta sul reddito accompagnata dalle più pesanti tasse dirette e indirette: questa unità condannò fatalmente il paese alla bancarotta, all’irreligione e al disordine sotto l’una o l’altra forma» 34.
Una confederazione che restituisca ai Borboni il trono di Napoli, la Toscana al Granduca, Parma e Modena ai loro duchi e rimandi Vittorio Emanuele a Torino «con la Lombardia e il Veneto come premio di consolazione» 35, è per il conte d’Ideville e per molti conservatori la soluzione più saggia. «La confederazione – egli scrive – sarebbe la soluzione conservatrice della questione italiana e credo non vi sia un italiano amante del paese e della religione che non desideri questa soluzione» 36.

II. La conquista militare di Roma

La guerra franco-prussiana del 1870 dissolse il sogno imperiale di Napoleone III e realizzò quello, altrettanto fugace di Bismarck. Grazie alla sua rapida e schiacciante vittoria sull’esercito francese, il “cancelliere di ferro” non solo portò a termine l’unificazione tedesca, creando il Secondo Reich, ma contribuì a compiere, con la Conquista piemontese di Roma, la “Rivoluzione italiana”, lasciata incompiuta dal conte di Cavour.
Gli avvenimenti precipitano nell’estate del 1870 37. Il 27 luglio l’ambasciatore francese a Roma Bonneville comunica al cardinale Antonelli la notizia della prossima partenza delle truppe francesi. «Fra noi – commenta il giorno stesso d’Ideville – temo che questo vile abbandono del Papa porti disgrazia alle nostre armi» 38.
Il 2 settembre 1870, con la notizia della disfatta di Sédan risuonano per le strade di Parigi le grida di «Vive la République!» 39.
«Se nel 1859 l’imperatore si fosse occupato della Francia invece di occuparsi dei suoi amici d’Italia – commenta desolato d’Ideville concludendo le sue memorie – non saremmo al punto che siamo, né voi, né loro; ma, ahimè, avevamo abbandonato i nostri destini nelle mani di un carbonaro che ha regnato per la maggior gloria dell’Italia e della Prussia» 40. Una settimana dopo la sconfitta francese il ministro degli Esteri Emilio Visconti Venosta, smentendo quanto il 22 luglio aveva assicurato a Napoleone III, notifica alle potenze estere la imminente occupazione dello Stato della Chiesa da parte delle truppe italiane 41.
Il giorno 8 settembre, Vittorio Emanuele II invia presso Pio IX il conte Gustavo Ponza di San Martino per offrire al Pontefice la “protezione” delle sue truppe. In una lettera che rappresenta un capolavoro di ipocrisia, il sovrano italiano scrive al Papa che, al fine di impedire le violenze che potrebbero essere promosse dal «partito della rivoluzione cosmopolita», egli vede «da indeclinabile necessità per la sicurezza dell’Italia e della Santa Sede che le mie truppe già poste ai confini s’inoltrino ad occupare quelle posizioni che saranno indispensabili per la sicurezza della Vostra Santità e pel mantenimento dell’ordine».

Leggendo la lettera, Pio IX reagisce con energia e, rivolgendosi al conte Ponza, esclama: «Razza di vipere, sepolcri imbiancati! (…) Ecco dove la rivoluzione ha fatto scendere un re di Casa Savoia! (…) Senz’essere né profeta, né figlio di profeta, vi dico che a Roma non vi resterete» 42.

Il Papa scrive quindi immediatamente a Vittorio Emanuele:
«Dal conte Ponza di San Martino mi fu consegnata una lettera che V.M. ha voluto dirigermi, ma che non è degna di un Figlio affettuoso, che si gloria professare la fede cattolica e si pregia di lealtà regia. Non entro nei dettagli della lettera stessa per non rinnovare il dolore che la prima lettura mi ha cagionato. Benedico Dio che ha permesso a V.M. di ricolmare di amarezza l’ultimo periodo della mia vita. Del resto lo non posso ammettere certe richieste, né conformarmi a certi principi contenuti nella sua lettera. Nuovamente invoco Dio e rimetto nelle Sue mani la mia causa, che è tutta sua. Lo prego a concedere molte grazie alla M.V., liberarla dai pericoli e dispensarle le misericordie di cui abbisogna. Dal Vaticano, 11 settembre 1870. Pius PP. IX» 43.

Nel pomeriggio di quel giorno Pio IX si reca sulla piazza di Termini per inaugurare davanti a una folla calorosa il nuovo Acquedotto dell’Acqua Marcia. I presenti lo descrivono calmo e sorridente, senza traccia sul viso del subbuglio che doveva agitargli il cuore 44.
Senza attendere la risposta del Papa, il Consiglio dei Ministri, il 10 settembre, delibera che il giorno successivo le truppe italiane, sotto il comando del generale Raffaele Cadorna, inizino l’occupazione dello Stato Pontificio. Le forze italiane, contano circa 60.000 uomini contro un totale di 13.000 effettivi dell’esercito pontificio.
L’8 settembre il Lanza aveva spedito al prefetto di Caserta e al prefetto di Cagliari due telegrammi per raccomandare massima sorveglianza per Mazzini incarcerato a Gaeta e per Garibaldi quasi esule a Caprera.
Il 18 settembre, domenica, la giornata è bellissima.
Le porte di Roma sono chiuse e il popolo, non potendo andare nelle osterie di campagna, passeggia sulle alture del Gianicolo, per vedere i sessantamila italiani accampati attorno alle mura della città. È evidente la difficoltà per il piccolo esercito pontificio di difendere il vasto perimetro delle mura di Roma.
Ufficiali e soldati del Papa fregiano la divisa di una piccola croce capovolta in lana rossa, la Croce di San Pietro, a somiglianza delle medaglie commemorative fatte coniare da Pio IX per la battaglia di Castelfidardo.
Il 19 settembre Pio IX manifesta al generale Kanzler le sue decisioni con una lettera in cui scrive:
«Signor Generale, ora che si va a consumare un gran sacrilegio, e la più enorme ingiustizia, e la truppa di un Re Cattolico, senza provocazione, anzi senza nemmeno l’apparenza di qualunque motivo, cinge di assedio la capitale dell’Orbe Cattolico, sento in primo luogo il bisogno di ringraziare Lei, sig. Generale, e tutte le nostre truppe della generosa condotta finora tenuta, dell’affezione mostrata alla Santa Sede e della volontà di consacrarsi interamente alla difesa di questa Metropoli. Siano queste parole un documento solenne che certifica la disciplina, la lealtà ed il valore della truppa al servizio di questa Santa Sede. In quanto poi alla durata della difesa sono in dovere di ordinare che questa debba unicamente consistere in una protesta atta a constatare la violenza, e nulla più: cioè di aprire trattative per la resa appena aperta la breccia. In un momento in cui l’Europa intera deplora le vittime numerosissime, conseguenza di una guerra fra due grandi Nazioni, non si dica mai che il Vicario di Gesù Cristo quantunque ingiustamente assalito, abbia ad acconsentire ad un grande spargimento di sangue. La Causa Nostra è di Dio, e Noi mettiamo tutta nelle Sue mani la nostra difesa» 45.

La sera stessa, mentre giunge la notizia che il giorno seguente sarebbe avvenuto l’attacco, Pio IX, percorrendo per l’ultima volta le vie di Roma, si reca a San Giovanni in Laterano, sale in ginocchio la Scala Santa e, giunto in cima, con voce rotta dal pianto implora: «A te, mio Dio, mio Salvatore, a te mi rivolgo, servo dei servi, e indegnissimo tuo Vicario: ti supplico per il sangue sparso per questo luogo, di cui lo sono il dispensatore supremo, e ti prego per i tuoi tormenti e per il sacrificio che hai fatto montando volontariamente questa scala di obbrobrio per offrirti in olocausto per un popolo che t’insultava, per il quale andavi a morire sopra un tronco infame: abbi pietà del tuo popolo, della Chiesa, tua amatissima sposa. Sospendi lo sdegno, la tua giusta collera. Non permettere ai tuoi nemici di venire a profanare la tua dimora. Perdona al mio popolo, che è pure tuo! E se un olocausto è necessario, se è necessaria una vittima, eccomi o Signore: non ho vissuto abbastanza? Pietà, mio Dio, pietà ti prego; ma qualunque cosa avvenga, sia sempre fatta la tua volontà» 46.

Alle 5,15 del 20 settembre 1870, l’osservatorio di Santa Maria Maggiore avverte il ministero della Guerra che le batterie nemiche hanno aperto il fuoco contro Porta Pia che, per la sua posizione, costituisce il punto più vulnerabile della città 47. Il Papa, in previsione degli avvenimenti, ha da qualche giorno invitato gli ambasciatori e i ministri delle Corti straniere a volersi recare da lui ai primi colpi di cannone. Fin dalle sei e mezza del mattino, tutti i diplomatici sono riuniti in Vaticano dove assistono alla Messa privata del Pontefice, celebrata tra il rombo delle cannonate e gli scoppi delle granate. Dopo la Messa vengono serviti cioccolata e gelati; Pio IX rimasto a pregare nel suo oratorio, rientra nella Sala del Trono verso le nove. Mentre si intrattiene con il Corpo Diplomatico, riunito attorno a lui come nei lontani giorni del novembre 1848, giunge il cardinale Antonelli con un dispaccio in mano: è la notizia che una breccia è aperta nelle mura della Villa Bonaparte a sinistra di Porta Pia 48. «Il Rubicone è passato: Fiat voluntas tua in coelo et in terra» mormora Pio IX.
Poi rivolgendosi ai diplomatici: «Signori io do l’ordine di capitolare: a che difendersi più oltre! Abbandonato da tutti, dovrei tosto o tardi soccombere, ed io non debbo far versare sangue inutilmente. Voi mi siete testimoni, Signori, che lo straniero non entra qui che con la forza» 49. L’ordine agli zuavi, che chiedono di combattere a oltranza, è quello di limitare la resistenza a quel tanto che è necessario per dimostrare al mondo che il Papa non rinuncia ai suoi diritti ma cede alla violenza.
Lungo le mura che cingono la Città Eterna, nell’interminabile pausa di silenzio che precede l’attacco, si leva in quel momento l’ultimo cantico di fedeltà degli zuavi:
«Flottez au vent, triomphantes bannières
Gloire à vous tous, chevaliers de Saint Pierre!» 50.
Mentre il fumo si dirada, il capitano Berger ne intona una strofa in piedi sulle macerie della breccia di Porta Pia, tenendo la spada per la lama, con l’impugnatura rivolta al Cielo, come ad offrire a Dio l’estremo sacrificio: quello di una resistenza ad oltranza mancata. Già la bandiera bianca sventola sulla cupola di San Pietro.
La Rivoluzione risorgimentale è compiuta. «In questo momento che scrivo – annota Francesco De Sanctis, interrompendo la stesura della sua Storia della letteratura italiana – le campane suonano a distesa e annunziano l’entrata degli italiani a Roma. Il potere temporale crolla. E si grida il viva all’unità d’Italia. Sia gloria a Machiavelli» 51.
Al mattino del 21 settembre 1870, le milizie pontificie, dopo aver passato l’intera notte sotto il porticato di San Pietro, si raccolgono sotto le finestre del Vaticano. Il colonnello canadese Allet, fatto formare il quadrato, fa presentare per l’ultima volta le armi al grido di «Viva Pio IX, Papa-Re!». Il 9 ottobre Roma e il suo territorio vengono annessi al Regno d’Italia per decreto reale 52.

III. Prigioniero in Vaticano

Se nel 1848 la Rivoluzione italiana si era presentata a Roma con il volto della violenza e dell’anarchia, nel 1870, dopo l’atto di forza, si presentò sotto l’aspetto della moderazione e della legalità. Garibaldi e Mazzini, i due protagonisti più violenti della Rivoluzione italiana, non avevano partecipato a questo evento.
L’8 settembre Pio IX non fu costretto ad abbandonare la città di Roma, come al tempo della Repubblica Romana. Tuttavia egli, che nel 1860 aveva dichiarato che «il Papa a Roma non può essere che sovrano o prigioniero», decise di considerarsi prigioniero in Vaticano fino al giorno della restituzione del suo dominio temporale 53.
Il 1° novembre, il Papa pubblicò l’enciclica Respicientes 54 contenente le censure canoniche inflitte a tutti i responsabili dell’occupazione dello Stato Pontificio. Dopo aver considerato gli atti che il governo subalpino, «seguendo i consigli di perdizione delle sètte, aveva compiuti contro ogni diritto, con la violenza e con le armi», Pio IX tocca il cuore della “questione romana”. Egli ricorda come già altre volte avesse esposto, in varie allocuzioni, «la storia della guerra nefanda», fatta dal governo piemontese alla Sede apostolica, le antiche ingiurie fino dal 1850, le offese continuate, «sia coll’infrangere la fede da solenni convenzioni obbligata alla Sede apostolica, sia col negare impudentissimamente l’inviolabile diritto di quelle nel tempo medesimo che dicevasi voler trattare nuovi patti» e fare nuove convenzioni.
«Da quei documenti i posteri verranno a conoscere con quali arti e con quanto scaltre e indegne macchinazioni quel governo sia arrivato ad opprimere la giustizia e la santità della Sede apostolica, e quali fossero da parte del Papa le cure nel reprimere l’audacia ogni giorno crescente e nel rivendicare la causa della Chiesa».
Il Papa ripercorre quindi le fasi delle «annessioni» dei suoi Stati, dal 1859 in poi; la ribellione provocata nelle Romagne, l’esercito pontificio distrutto a Castelfidardo, l’occupazione delle Marche e dell’Umbria, dove si disse «voler restituire i principi di ordine morale, mentre invece di fatto si promosse dovunque la diffusione ed il culto d’ogni falsa dottrina, dovunque si sciolsero le redini alle passioni ed all’empietà».
Accenna quindi alle proposte di inique conciliazioni con gli usurpatori, «per le quali si tentava di indurlo a tradire turpemente il suo dovere»; ricorda gli assalti del 1867, quando «orde di uomini perdutissimi sostenuti da aiuti del medesimo governo irruppero nei confini pontifici e contro Roma»; rievoca i pericoli, i timori, la prodigiosa salvezza, la fedeltà e devozione sempre dai fedeli «mostrata con insigni significazioni e con opere di cristiana carità»; finalmente l’occasione presa dal governo di Firenze d’invadere lo Stato della Chiesa e i fatti seguiti.

Dopo avere ricordato quanto accadde il 20 settembre e nei giorni che seguirono, Pio IX, confermando tutte le encicliche, allocuzioni, brevi e proteste solenni del suo pontificato, dichiara «essere sua mente, proposito e volontà di ritenere e trasmettere ai suoi successori tutti i dominii e diritti della Santa Sede interi, intatti e inviolati; e qualunque usurpazione, tanto fatta allora quanto per lo addietro essere ingiusta, violenta, nulla ed irrita; e tutti gli atti dei ribelli e degli invasori sia quelli fatti fino allora, sia quelli che si faranno in seguito per assodare in qualsiasi modo la predetta usurpazione, essere da lui rescissi, cassati, abrogati, dichiarando inoltre dinanzi a Dio ed a tutto il mondo cattolico versare egli in tale cattività, che non poteva esercitare speditamente e liberamente e con sicurezza la sua pastorale autorità».
Aggiunge che, «memore dell’ufficio suo e del solenne giuramento dal quale era obbligato non assentirebbe mai, né mai presterebbe assenso a qualunque conciliazione, la quale in qualsivoglia maniera distrugga o diminuisca i suoi diritti, che sono diritti di Dio e della Santa Sede: e professava essere veramente pronto coll’aiuto della grazia divina e nella sua grave età a bere fino all’ultima goccia per la Chiesa di Cristo quel calice che Cristo stesso per primo erasi degnato bere per la Chiesa; né commetterebbe giammai la debolezza di aderire alle inique domande che gli si porgevano, o di secondarle».
Ammonisce infine che, «siccome ammonimenti, domande e proteste erano state vane, così per l’autorità dell’onnipotente Iddio, de’ santi apostoli Pietro e Paolo, e sua, dichiarava ai vescovi e per mezzo loro a tutta la Chiesa, che tutti, anche posti in qualunque dignità, fosse pur degna di specialissima menzione, coloro che aveano commesso la invasione di qualunque provincia dello Stato della Chiesa e di Roma; e la occupazione, usurpazione, od altri atti di simil genere, e i loro mandanti, fautori, aiutanti, consiglieri aderenti, od altri qualunque procuranti o per se medesimi operanti le predette, cose, sotto qualsiasi pretesto e in qualunque modo, erano incorsi nella scomunica maggiore e nelle altre censure e pene inflitte dai sacri canoni, dalle apostoliche costituzioni, dai decreti dei concili generali e specialmente di quello di Trento (sess. 22 c., II de Reform.) giusta la forma e tenore espresso nella lettera del 26 marzo 1860».

IV. Le ultime denunce della Rivoluzione

L’8 novembre 1870 la polizia italiana procedette all’occupazione del Quirinale con l’aiuto di un fabbro ferraio. Fu necessario un grimaldello per scardinare i battenti della grande porta della sala degli Svizzeri chiusi e sigillati. Vittorio Emanuele arrivò il penultimo giorno dell’anno accolto dalla fanfara reale. Il 23 gennaio 1871 si insediò al Quirinale l’erede al trono Umberto, principe di Piemonte, con la moglie Margherita e con il bambino, il futuro Vittorio Emanuele III 55. L’occupazione della grande reggia del Quirinale non fu foriera di lieti eventi per i Savoia.
Vittorio Emanuele lasciò per l’ultima volta la residenza dove aveva passato la sua infanzia dopo la sconfitta della seconda guerra mondiale. Il padre Umberto I fu vittima, il 29 luglio 1900, di una mano omicida; il figlio Umberto II subì nel giugno 1946, dopo un discusso referendum, l’esilio.
Il 13 maggio 1871 uscì sulla «Gazzetta Ufficiale» del Regno la legge delle Guarentigie, in diciannove articoli, che regolavano unilateralmente le relazioni tra Stato e Chiesa nella nuova Italia, «per garantire anche con franchigie territoriali, l’indipendenza del Sommo Pontefice ed il libero esercizio dell’autorità spirituale della Santa Sede».
Lo Stato Pontificio era soppresso.
Al Papa venivano riconosciuti il rango e i privilegi di un sovrano in Italia, una dotazione annua di 3.225.000 lire e il “godimento”, non la proprietà, dei Palazzi Vaticani.
Lo Stato manteneva il diritto per la nomina dei vescovi, lasciando insoluto il problema della proprietà ecclesiastica.
Pio IX, con l’enciclica Ubi nos 56 del 15 maggio, rifiutò la legge respingendo la dotazione annua assegnatagli e continuando ad affidarsi per le proprie necessità all’obolo di san Pietro, costituito dalle offerte volontarie dei cattolici di tutto il mondo: «Noi dichiariamo – proclama solennemente il Papa – che mai potremo in alcun modo ammettere o accettare quelle garanzie, ossia guarentigie, escogitate dal Governo Subalpino, qualunque sia il loro dispositivo, né altri patti, qualunque sia il loro contenuto e comunque siano stati ratificati.(…) Infatti ad ognuno deve risultare chiaro che necessariamente, qualora il Romano Pontefice fosse soggetto al potere di un altro Principe, né fosse dotato di più ampio e supremo potere nell’ordine politico, non potrebbe per ciò che riguarda la sua persona e gli atti del ministero apostolico, sottrarsi all’arbitrio del Principe dominante, il quale potrebbe anche diventare eretico o persecutore della Chiesa, o trovarsi in guerra o in stato di guerra contro altri Principi».
«Certamente – continua il Pontefice – questa stessa concessione di garanzie di cui parliamo non è forse, di per sé, evidentissima prova che a Noi fu data una divina autorità di promulgare leggi concernenti l’ordine morale e religioso; che a Noi, designati in tutto il mondo come interpreti del diritto naturale e divino, verrebbero imposte delle leggi, e per di più leggi che si riferiscono al governo della Chiesa universale, il cui diritto di conservazione e di esecuzione non sarebbe altro che la volontà prescritta e stabilita dal potere laico?».
«Nel riflettere e considerare tali questioni – conclude il Pontefice – Noi siamo costretti a confermare nuovamente e dichiarare con insistenza (…) che il potere temporale della Santa Sede è stato concesso al Romano Pontefice per singolare volontà della Divina Provvidenza e che esso è necessario affinché lo stesso Pontefice Romano, mai soggetto a nessun Principe o a un potere civile, possa esercitare la suprema potestà di pascere e governare in piena libertà tutto il gregge del Signore con l’autorità conferitagli dallo stesso Cristo Signore su tutta la Chiesa» 57.

La tensione tra Chiesa e Stato non diminuì negli anni successivi.
Nel 1872 Vittorio Emanuele firmò una legge che prevedeva l’espulsione di tutti i religiosi e le religiose dai loro conventi: vennero confiscate 476 case e disperse 12.669 persone. Messo a conoscenza del provvedimento, in un’epistola del 16 giugno 1872 (58), il Pontefice respinse l’ipocrisia delle richieste di “conciliazione” con il governo usurpatore con queste parole: «A nulla giova proclamare la libertà del Nostro Pastorale Ministero, quando tutta la legislazione, anche in punti importantissimi, come sono i Sacramenti, si trova in aperta opposizione con in principi fondamentali e le leggi universali della Chiesa. A nulla giova riconoscere per legge l’autorità del Supremo Gerarca quando non si riconosce l’effetto degli atti da Lui emanati: quando gli stessi vescovi da Lui eletti non sono legalmente riconosciuti e loro si proibisce con ingiustizia senza pari di usufruire del legittimo patrimonio delle loro chiese e finanche di entrare nelle loro case episcopali» 59.
Nel 1873 furono soppresse, in tutte le università, le facoltà di teologia, e i seminari furono sottoposti al controllo governativo.
L’anno successivo la legislazione esistente sulla soppressione degli ordini religiosi e la confisca delle loro proprietà fu estesa anche a Roma; il Colosseo fu sconsacrato a simboleggiare la sovranità laica su Roma, i preti furono costretti a prestare servizio militare.
Pio IX, secondo l’attenta ricostruzione di Fiorella Bartoccini, non era isolato dal suo popolo, ma informatissimo di quanto avveniva in quella che chiamava «la capitale del disordine»60. «Non era vero quindi quanto scriveva nel suo Diario Gregorovius, che il Papa viveva quasi dimenticato nella sua stessa Roma, che stava come un mito in Vaticano: gran parte della popolazione, superato un primo momento d’incerto timore, rispose per alcuni anni con una significativa e massiccia adesione, sollecitata e spontanea al tempo stesso»61.
A Roma, nelle chiese, si pregava contro le leggi ecclesiastiche del nuovo Stato e al 20 settembre si contrapponeva come festa annuale il 12 aprile, che commemorava il ritorno a Roma di Pio IX dopo la tempesta repubblicana del ’49. Fu solo una minoranza la parte dell’aristocrazia che aderì al nuovo regime e alla nuova corte.
La maggior parte delle famiglie nobili romane accolse gli appelli di Pio IX e mantenne la vita semplice e austera che l’aveva sempre contraddistinta 62. Fu solo sotto Leone XIII che l’atmosfera cambiò e la vita dell’aristocrazia, tratteggiata dalle cronache di D’Annunzio, divenne mondana e lussuosa.
La classe sociale che anche sotto il pontificato successivo serbò maggior fedeltà allo spirito e alla memoria di Pio IX fu la borghesia romana, colpita dall’unificazione nell’identità della propria funzione e, spesso, nelle sue stesse risorse economiche.
Anche quando il Vaticano si adattò, osserva Fiorella Bartoccini, essa «continuò a mantenere in alcuni clan familiari e sociali, isole di chiusura e di resistenza» al nuovo regime 63.
Nell’udienza concessa il 29 maggio 1876 ai rappresentanti delle 24 città della Lega Lombarda, Pio IX rivolse un discorso di capitale importanza che potrebbe essere definito, come ha sottolineato Antonio Monti 64, Il Risorgimento italiano giudicato da Pio IX.
Pio IX ricorda in quel discorso le origini dei moti che sconvolsero l’ordine politico e sociale della Restaurazione: «Sorge allora una setta, nera di nome e più nera di fatti, e si sparse nel bel paese, penetrando adagio in molti luoghi (la Carboneria). Più tardi un’altra ne compare che volle chiamarsi giovane: ma per verità era vecchia nella malizia e nelle iniquità. A queste due altre ancora ne vennero dietro, ma tutte alla fine portarono le loro acque torbide e dannose alla vostra palude massonica».
Questi agitatori e gli illusi da essi guadagnati, riuscirono al «trionfo del disordine e alla vittoria della più perfida rivoluzione».

Nel marzo 1876 Minghetti fu sconfitto in Parlamento e il re affidò l’incarico ad Agostino Depretis, che avrebbe presieduto otto governi nei dieci anni successivi, all’insegna del “trasformismo”. Pio IX paragonò la Destra e la Sinistra rispettivamente al colera e al terremoto 65. «Né eletti, né elettori»: la formula che don Margotti aveva coniato fin dal 1857 si tradusse nel dovere dell’astensione e nell’invito ad un’opera di organizzazione metodica e capillare della società 66. Il movimento cattolico in Italia, a partire dal 1874, si raccolse attorno all’Opera dei Congressi, impiegando tutte le sue forze nella costruzione di una fitta rete di opere sociali ed economiche fiorenti attorno alle parrocchie 67.
Da allora fino alla morte, Pio IX rinnoverà continuamente le sue proteste contro la violenza subita, ribadendo che il principato temporale del Pontefice costituisce la condizione necessaria per il libero esercizio della sua autorità spirituale e che la “questione romana” non è una questione politica, legata al problema della indipendenza e della unità italiana, ma una questione eminentemente religiosa, perché riguarda la libertà del capo della Chiesa universale, nell’esercizio del suo sacro ministero 68.
Scopo della «sacrilega invasione», ripete ancora Pio IX nell’allocuzione concistoriale del 12 marzo 1877, non è infatti «tanto la conquista del nostro Stato, quanto il pravo disegno di distruggere più facilmente, mediante la soppressione del nostro dominio temporale, tutte le istituzioni della Chiesa, annientare l’autorità della Santa Sede, abbattere il supremo potere del vicario di Gesù Cristo, a noi, benché immeritevoli, confidato» 69.

____________________________________


Note

1 Cfr. I discorsi di Cavour per Roma capitale, a cura di Pietro Scoppola, Istituto di Studi Romani, Roma 1971.
2 Sulla questione romana, oltre all’opera fondamentale di PIETRO PIRRI (in particolare III, I, pp. 1-336), cfr. gli studi di RENATO MORI, La questione romana 1861-1865, Felice Le Monnier, Firenze 1963 e Il tramonto del potere temporale 1866-1870, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1967; CARLO MARIA FIORENTINO, La questione romana intorno al 1870. Studi e documenti, Archivio Guido Izzi, Roma 1997.
3 E DE SANCTIS, Il Mezzogiorno e lo Stato unitario, cit. in ALBERTO AQUARONE, Le forze politiche italiane e il problema di Roma, in Alla ricerca dell’Italia liberale, Guida, Napoli 1972, p. 155.
4 Cit. in G. SPADOLINI, Un dissidente del Risorgimento (Giuseppe Montanelli) con documenti inediti. Aggiunta la ristampa del saggio montanelliano L’Impero, il Papato e la Democrazia (1859), Le Monnier, Firenze 1962, p. 166.
5 Cfr. G. CANTONI, L’Italia tra Rivoluzione e Contro-Rivoluzione, saggio introduttivo a P. CORREA DE OLIVEIRA, Rivoluzione e Contro-Rivoluzione, tr. it. Cristianità, Piacenza 1977, p. 15.
6 Cit. in R. F. ESPOSITO, La Massoneria e l’Italia, cit., p. 108. «Forse» scrive un altro esponente massonico, G. Francocci, «il più piccolo fatto d’armi del Risorgimento; certamente il più grande avvenimento della civiltà umana. Risorgimento: opera della Massoneria! XX settembre: gloria della Massoneria!» (cit. in R.F. ESPOSITO, op. cit., p. 93).
7 HENRY D’IDEVILLE, Il Re, il Conte e la Rosina, TEA, Milano 1996, p. 283.
8 BELLOCCHI, IV, pp. 204-208.
9 Ibid., pp. 214-219.
10 Ibid., pp. 227-232.
11 Sia i cardinali Sisto Riario Sforza (1810-1877), arcivescovo di Napoli (1845), che Filippo De Angelis (1792-1877) arcivescovo di Fermo (1842), avevano partecipato al conclave che aveva eletto Pio IX e si erano distinti nelle fila degli intransigenti. Il cardinale De Angelis, durante la Repubblica Romana del 1849 era stato imprigionato ad Ancona per ordine di Mazzini. Entrambi furono allontanati dalle loro diocesi dai piemontesi nel 1860 e vi poterono rientrare solo nel 1866. Del cardinale Riario Sforza, detto “il san Carlo Borromeo di Napoli”, è stata introdotta la causa di beatificazione nel 1947.
12 In questo stesso periodo, altri legittimisti europei si affiancarono al “brigantaggio” lealista che continuava a resistere contro l’esercito piemontese. Tra i capi degli insorgenti in questo periodo furono il conte Henri de Cathelineau (1813­1891), già volontario pontificio e discendente del celebre capo vandeano; il barone prussiano Teodoro Klitsche de la Grange (1799-1868); il conte sassone Edwin von Kalckreuth, fucilato nel 1862; il marchese belga Alfred de Namur, fucilato nel 1861; il conte Emile de Christen (1835-1870); i catalani José Borges (1813-1861) e Rafael Tristany (1814-1899). Per un approfondimento, cfr. ALDO ALBONICO, La mobilitazione legittimista contro il Regno d’Italia: la Spagna e il brigantaggio meridionale postunitario, Giuffrè, Milano 1979; FRANCO MOLFESE, Storia del brigantaggio dopo l’Unità, Feltrinelli, Milano 1979.
13 BELLOCCHI, IV, p. 216.
14 Ibid., pp. 284-286.
15 Ibid., p. 286.
16 H. D’IDEVILLE, Il re, il conte e la Rosina, cit., p. 187.
17 Sulla morte di Cavour cfr. l’ampia documentazione in PIRRl, II, I, pp. 391­405; II, II, pp. 263-280.
18 Bettino Ricasoli (1809-1880) fu ministro dell’Interno nel governo di Toscana creato dopo l’abdicazione del Granduca (1859) e quindi capo della maggioranza parlamentare del nuovo Regno d’Italia. Succeduto a Cavour dopo la sua morte (1861), si dimise nel 1862 per contrasto con il re e con il Rattazzi, per poi tornare ancora al potere dal 1866 al 1867. Sulla sua politica verso la Chiesa, cfr. R. MORI, Il tramonto del potere temporale, cit., pp. 11-122.
19 G. SPADOLINI, Autunno del Risorgimento, Le Monnier, Firenze 1974, pp. 98-99.
20 Cfr. R. MORI, La questione romana, cit., pp. 162-268.
21 Cit. in POLVERARI, III, p. 55.
22
23 Filippo Cordova (1811-1868), deputato al Parlamento siciliano e ministro delle Finanze nel 1848-1849 fu ministro dell’Agricoltura (1861-62, 1866-67) e della Giustizia (1862, 1867) del Regno d’Italia. Cfr. la voce di GIUSEPPE MONSAGRATI in DBI, 29 (1983), pp. 30-35.
24 Il generale Ermanno Kanzler (1827-1888) originario del Baden, aveva già combattuto a Castelfidardo e ad Ancona nel 1860, prima di assumere la carica di comandante dell’esercito pontificio. Su di lui cfr. MARTINA III, p. 16 con bibl.; P. DALLA TORRE, La difesa di Roma, cit.
25 P. RAGGI, op. cit., p. 11.
26 Ibid., p. 12.
27 Monti e Tognetti, subito arrestati, vennero processati e condannati a morte il 24 novembre 1868. Cfr. lo scambio di corrispondenza tra Pio IX e Vittorio Emanuele II del novembre-dicembre 1868 in PIRRI, III, II, pp. 194-200.
28 PIO VITTORIO FERRARI, Villa Glori. Ricordi e aneddoti dell’autunno 1867, Istituto di Studi Romani, Roma 1964, pp. 22-23.
29 G. GARIBALDI, Scritti e discorsi politici e militari, Cappelli, Bologna 1937, II, pp. 433-434.
30 Ibid., III, p. 19.
31 Su Mentana cfr. P. DALLA TORRE, L’anno di Mentana. Contributo ad una storia dello Stato Pontificio nel 1867, Aldo Martello Editore, Milano 1967; R. MORI, Il tramonto del potere temporale, cit., pp. 209-307; PIRRI III, I, pp. 167-207.
32 MARTINA, III, p. 45. Con il breve Ex quo infensissimi del 14 novembre 1867, il Papa concesse ai soldati pontifici un fregio d’argento da portare sul lato sinistro del petto, sospeso ad un nastro di seta bianca distinto con cinque righe celesti (BELLOCCHI, IV, pp. 292-293).
33 MARTINA, III, p. 43.
34 H. D’IDEVILLE, I piemontesi a Roma (1867-1870), a cura di Guido Artom, Longanesi, Milano 1982, p. 55.
35 Ibid., pp. 58-59.
36 Ibid., p. 59.
37 Sulla situazione politica generale nei mesi di luglio-agosto 1870 e sulla caduta dello Stato Pontificio cfr. NORBERT MIKO, Das Ende des Kirchenstaates, 4 voll., Herold Verlag, Wien-Munchen 1964-1970; MARTINA, III, 233-301; FEDERICO CHABOD, Storia della politica estera italiana dal 1870 al 1896, G. Laterza, Bari 1951, pp. 3-323; R. MORI, Il tramonto del potere temporale, cit., pp. 454-546.
38 H. D’IDEVILLE, I piemontesi a Roma, cit., p. 150.
39 «La situation est changée avec la République. Je crois qu’il est maintenant le temps d’oser» telegrafava il 5 settembre Visconti Venosta al Minghetti (R. MORI, Il tramonto del potere temporale, cit., p. 522). Sul Visconti Venosta cfr. F. CHABOD, op. cit., pp. 563-599 che lo definisce, tra tutti i ministri, alla vigilia del 20 settembre, «il più restio all’azione” (p. 568).
40 H. D’IDEVILLE, I piemontesi a Roma, cit., p. 265.
41 Il 29 luglio 1870, il ministro degli Esteri francese Gramont faceva comunicare al governo italiano che era stato dato l’ordine alle truppe francesi di iniziare il rimpatrio da Civitavecchia il 5 agosto se si impegnava anch’esso a dichiarare il rispetto della Convenzione. Il 4 agosto il ministro degli Esteri italiano Visconti Venosta confermava che «il Governo del Re, per ciò che lo concerne, si atterrà esattamente agli obblighi che risultano per lui dagli accordi stipulati nel 1864» (cit. in R. MORI, Il tramonto del potere temporale, cit., p. 491).
42 PELCZAR, II, p. 149; POLVERARI, III, p. 202.
43 PELCZAR, II, pp. 552-553; POLVERARI, III, p. 203.
44 H. D’IDEVILLE, I piemontesi a Roma, cit., pp. 168-169.
45 POLVERARI, III, p. 206.
46 PELCZAR, II, p. 553.
47 Per la ricostruzione degli eventi militari della presa di Roma, cfr. P. DALLA TORRE, La difesa di Roma nel 1870, in «Pio IX» 1-2-3 (gennaio-dicembre 1978), pp. 485-642; GIORGIO GALLINI, Martedì 20 settembre 1870. La breccia nella Civiltà, Tip. Gregoriana, Roma 1991; RAFFAELE CADORNA, La liberazione di Roma nell’anno 1870 e il plebiscito, Milano 1970. Il generale Kanzler aveva diviso il teatro delle operazioni della difesa in quattro zone, affidate rispettivamente al colonnello Azzanesi della Fanteria di Linea (sulla destra del Tevere), al colonnello Allet degli Zuavi, al colonello Jeannerat dei Carabinieri esteri, al colonnello Perrault della Legione Romana (alla sinistra del Tevere). I cittadini di Roma si arruolarono nel corpo Volontari Pontifici delle Riserve in un battaglione di quattro compagnie ai comandi del duca Salviati, del principe Aldobrandini, del marchese Patrizi, del principe Lancellotti.
48 «Questo nome di Bonaparte» osserva d’Ideville «sembra fatale alla Roma cattolica; la breccia morale è stata praticata da Napoleone nel 1859, e proprio nella villa della sua famiglia, gli italiani hanno aperto la breccia del 20 settembre» (I piemontesi a Roma, cit., p. 188).
49 PELCZAR, II, p. 556. Cfr. anche G. MARTINA, Il discorso di Pio IX al Corpo Diplomatico la mattina del 20 settembre, in «Rivista della Storia della Chiesa in Italia» 25 (1971), pp. 533-545.
50 P. RAGGI, op. cit., p. 34.
Rivolgendosi il 10 aprile 1865 al nuovo Parlamento italiano nel suo Discorso sulla soppressione delle comunità religiose e l’incameramento dei beni ecclesiastici, Cesare Cantù così protestò contro la violazione dello Statuto del Regno attuata da questa legge: «Distruggere, sempre distruggete! Volgetevi all’onda perigliosa che da alcuni anni solcate, e presi voi stessi di sgomento, guatando di quanti rottami l’avete sparsa. Distruggete i Comuni, distruggete la famiglia, distruggete i codici, distruggete le autonomie, distruggete le barriere d’Italia; or distruggete la Chiesa, distruggete lo Statuto e prima avrete distrutto la libertà».
51 F. DE SANCTIS, op. cit., II, p. 407. «Il 20 settembre del 1870 (e la data della breccia fu scelta appositamente perché in quella notte in Loggia si dà inizio all’anno di lavori massonici) un colporteur di cui la storia ci ha tramandato il nome – Luigi Ciari – fu il primo civile ad entrare dietro i bersaglieri nella Roma non più papale, con un carretto di Bibbie protestanti trascinato da un cane che rispondeva al nome di “Pio nono”. Quel Ciari era valdese e non a caso, poiché sia i “risorgimentali” laicisti italiani che i protestanti stranieri puntavano su questo solo gruppo di evangelisti “indigeni” per dare avvio alla Grande Riforma Italiana» (VITTORIO MESSORI, Un italiano serio. Il Beato Francesco Faa di Bruno, Paoline, Cinisello Balsamo 1990, p. 207).
52 «Quasi a voler imprimere un definitivo suggello al modo in cui si era costituito, attraverso decenni di lotta, di speranze, di contrasti e di delusioni, lo Stato unitario italiano, l’operazione politico-diplomatica culminata, con scarso fasto militare, a Porta Pia fu in un certo senso la ricapitolazione delle linee di sviluppo dell’intero Risorgimento (…). Può essere anche considerato significativo che malgrado le speranze di moderati e democratici, di uomini di governo e di oppositori, l’ultimo capitolo del Risorgimento si chiuse al di fuori di qualsiasi movimento popolare senza la partecipazione attiva dei più direttamente interessati: le tanto attese e sperate dimostrazioni delle popolazioni del territorio romano contro il dominio papale non si concretarono» (A. AQUARONE, op. cit., pp. 151-152).
53 Cfr. MASSIMILIANO VALENTE, Pio IX, il Sacro Collegio e il Corpo diplomatico di fronte alla questione della partenza da Roma dopo la caduta del potere temporale, in «Il Diritto Ecclesiastico» 3 (1999), pp. 784-833.
54 Acta, V, pp. 263-277; BALAN, II, pp. 1032-1035; BELLOCCHI, IV, pp. 341-348.
55 Cfr. EMILIA MORELLI, Il Palazzo del Quirinale da Pio IX a Vittorio Emanuele II, in «Archivum Historiae Pontificiae», VII (1970), pp. 239-300.
56 BELLOCCHI, IV, pp. 355-360.
57 Ibidem pp. 357-359
58 Ibid., pp. 371-377.
59 Ibid., p. 376.
60 F. BARTOCCINI, op. cit., p. 447.
61 Ibid., p. 454.
62 Cfr. G. DE GIOVANNI, I discorsi di Pio IX al Patriziato e alla nobiltà romana, in «Rivista Araldica» LXXVI (1978), p. 33; F. BARTOCCINI, op. cit., pp. 557-561. Tra le famiglie rimaste fedeli al Papa: Ruspoli, Chigi, Massimo, Altieri, Barberini, Aldobrandini, Lancellotti, Orsini, Patrizi, Salviati, Rospigliosi, Borghese, Theodoli.
63 F. BARTOCCINI, op. cit., p. 566.
64 ANTONIO MONTI, Pio IX nel Risorgimento italiano, G. Laterza, Bari 1928, pp. 162-225.
65 G. SPADOLINI, L’opposizione cattolica, Vallecchi, Firenze 1961, p. 125.
66 Ibid., pp. 150-151. Sul non-expedit cfr. G. DE ROSA, Storia del movimento cattolico in Italia, I, Laterza, Bari 1966, pp. 95-120; CESARE MARONGIU­BUONAIUTI, Non expedit. Storia di una politica (1866-1919), Giuffré, Milano 1971.
67 Cfr. F. FONZI, I cattolici e la società italiana dopo l’Unità, Studium, Roma 1960; G. SPADOLINI, L’opposizione cattolica, cit.
68 Il discorso sul Papa-Re non deve dare adito a pericolose confusioni. Premessa la necessaria distinzione tra il “potere temporale” del Papa e il suo potere “in materia temporale”, va osservato che le radici del principato civile non possono e non devono essere ricercate in un ipotetico diritto divino che fondi la “regalità sacra” del Pontefice allo stesso modo di quella dei sovrani temporali. Il potere temporale non può essere per il vicario di Cristo un fine, in sé, ma solo un mezzo per assicurare la suprema giurisdizione spirituale. Così insegnano gli autori contro-rivoluzionari (cfr., tra gli altri, J. DONOSO CORTÉS, in Obras completas, Biblioteca de Autores Cristianos, Madrid 1970, II, pp. 321-348; più esaurientemente D.P. BENOIT, La Cité antichrétienne au XIX siècle, Société générale de Librairie catholique, Paris 1885, I, pp. 274-283 e II, pp. 536-563), e gli stessi pontefici, anche successivi a Pio IX. Leone XIII, dal 1878 al 1889, protestò ufficialmente sessantadue volte contro la privazione del suo “principato civile”. Basti qui ricordare la lettera del 15 giugno 1887 al cardinale Rampolla, in cui il Pontefice rinnovò con ampiezza dottrinale la rivendicazione di una “sovranità effettiva”. Alla vigilia della morte, il Papa rimise infine a monsignor Angeli un plico contenente un documento, da leggere in conclave, in cui si denunciavano tutti i tentativi fatti per spingerlo ad accettare un accomodamento (cfr. C. GLEZ, in DTC, 12, coll. 2693-94). La “conciliazione” fra la Chiesa Cattolica e lo Stato italiano fu sancita, dopo circa ottant’anni di dissidio, dai Patti Lateranensi dell’11 febbraio 1929.
69 BALAN, III, p. 868. Il fine della Rivoluzione, ribadiscono i gesuiti su «La Civiltà Cattolica», è quello dell’annientamento non di una, ma entrambe le potestà, la papale e la regia ossia la repubblicanizzazione totale dell’Italia. D’altra parte, la rivista, che riflette sempre fedelmente il pensiero del Pontefice, avverte che «il ciclo della rivoluzione italiana non è terminato con l’acquisto di Roma» (Della questione monarchica in Italia, in «La Civiltà Cattolica», serie IX, vol. XIII, fase. 633 [23 ottobre 1876] p. 257).

———-

I commenti sono chiusi.

Crea un sito web o un blog su WordPress.com

Su ↑