Perché Clemente XIV decise di sopprimere la Compagnia di Gesù, i Gesuiti?

«La corruzione intellettuale e morale – spiega il prof. Roberto de Mattei – della Compagnia di Gesù degli ultimi cinquant’anni non deve fare dimenticare i suoi straordinari meriti nel passato»

Breve Premessa:
Per quanto la Compagnia sia stata riabilitata da Pio VII, restano aperte molte dispute sulle ragioni che spinsero Clemente XIV, ultimo Papa francescano, a sopprimerla.
Il periodo poco conosciuto tra le “due Compagnie” e il progressivo ritorno dei gesuiti nel corso del XIX secolo, mettono già in luce due volti della medesima medaglia (un volto davvero Santo e l’altro Modernista) della gloriosa Compagnia fondata da sant’Ignazio di Loyola nel 1540 e approvata da Paolo III. I gesuiti sono stati dispersi per 41 anni. L’ordine è stato ristabilito da Pio VII il 7 agosto 1814. I religiosi sono sopravvissuti alla soppressione del loro ordine nascosti in Prussia e in Russia, e gli ultimi anni in Italia, per poi “rinascere”.
Nel 1773 papa Clemente XIV soppresse la Compagnia in tutto il mondo (21 luglio 1773, con il Breve Dominus ac Redemptor), decisione fortemente appoggiata dalle grandi potenze europee. Effettivamente appare ancora oggi come una questione puramente politica, ma non fu solo questa la ragione.
I gesuiti accettarono la decisione del papa senza opporsi. Il Generale dell’ordine dell’epoca, Padre Lorenzo Ricci, venne fatto prigioniero a Castel Sant’Angelo fino alla morte, nel 1775. Allora c’erano circa 23.000 gesuiti, che dirigevano 700 scuole.
Varie, però, sono le cause che portarono alla soppressione, non solo politiche. I gesuiti avevano diversi privilegi. Non pagavano le decime, avevano molti problemi con i vescovi diocesani verso i quali agivano indipendentemente da loro, problemi anche con altri ordini religiosi dell’epoca, difficilmente andavano d’accordo con il resto della Chiesa alla quale imponevano il loro modo di pensare e di agire. Erano vicini al potere, sia religioso quanto politico. Sfruttavano molto l’autonomia che aveva dato loro il papa prima della soppressione e lo straordinario adattamento culturale nelle missioni.
In questo senso, l’aspetto più controverso per i loro avversari furono i cosiddetti riti cinesi e malabar (India), proibiti da Roma. Per citare due personaggi chiave della loro storia, ma completamente diversi ed opposti nell’attività missionaria: san Francesco Saverio, membro fondatore della Compagnia, è stato il primo religioso ad arrivare in Giappone nel 1549, mentre Matteo Ricci ha aperto una finestra per l’evangelizzazione dell’Oriente, in Cina dal 1582, e la sua opera si è diffusa grazie ai laici che hanno portato la fede cattolica in Corea alla fine del XVI secolo.
Tuttavia e paradossalmente va ricordato che i protestanti non li volevano per la loro ferrea difesa della dottrina cattolica.
I gesuiti hanno passato momenti difficili e a volte hanno avuto rapporti conflittuali con il Vaticano. L’ordine mantiene un voto particolare, il “quarto”, quello dell’obbedienza al papato.

Del resto, le derive della Compagnia sono cominciate già poco tempo dopo il riconoscimento ufficiale (1540) di papa Paolo III (1534-1549). Il futuro S. Carlo Borromeo (1538-1584) – come abbiamo riportato nella prima parte – si accorse immediatamente dell’inaffidabilità di un certo gesuitismo dall’indole burrascosa, e non ebbe scrupoli a dirlo pubblicamente, facendo addirittura una, come si suol dire, profezia: «Questa “pia” istituzione ha perso lo spirito che originariamente l’animava e per questo motivo saremo costretti ad abolirla…» – vedi qui – 

Una curiosità:
se al Concilio di Trento, l’appena neonata Compagnia fu di grande supporto contro le eresie del tempo, difensore della Dottrina e, con san Pietro Canisio (Dottore della Chiesa con san Bellarmino) formatori del Catechismo della Chiesa Cattolica, al Concilio Vaticano II furono diversi gesuiti Modernisti a far vincere il concetto di una “nuova chiesa” senza più la difesa dottrinale e senza più la condanna dell’errore e, al contrario, cercare accordi e convivenze pacifiche con esso attraverso l’uso della PASTORALE.
I gesuiti di oggi sono inviati alle frontiere della solitudine e dell’esclusione sociale moderna. Come indica la loro Congregazione generale del 2008, in questo nuovo mondo essi si propongono di “costruirsi un futuro nella solidarietà”.
La loro preoccupazione, però, è stata modificata, non più quanto richiedeva il Santo Fondatore, ma una nuova visione della Chiesa e del mondo per le persone “emarginate ed escluse”. In una parola la “Teologia del popolo”… Di fronte alla globalizzazione e ai mercati internazionali, si impegnano a proteggere le identità delle comunità locali, indipendentemente dalla propria professione di una fede.
Non più, perciò, fedeli alla loro missione iniziale, oggi cercano di servire nella “fede, promuovere la giustizia e dialogare con la cultura e le altre religioni, alla luce del mandato apostolico di stabilire relazioni di giustizia con Dio, tra di noi e con la creazione”.
«Sint ut sunt aut non sint» (siano come sono, o non siano) è una frase che secondo alcuni storici sarebbe stata pronunciata dal preposito generale dei Gesuiti Lorenzo Ricci, per opporsi di fronte alla proposta di “riformare” la Compagnia di Gesù alle richieste dei Pontefici.
Dopo quarant’anni, con la costituzione Sollicitudo omnium ecclesiarum del 7 agosto 1814, Pio VII revocò il Breve del 21 luglio 1773 di Clemente e dispose la completa ricostituzione della Compagnia di Gesù in tutto il mondo, «sembrandogli grave colpa innanzi a Dio se in un tempo così calamitoso avesse sottratto più oltre alla nave della Chiesa quei validi ed esperti rematori»

Per comprendere al meglio si legga anche qui:
Dossier: i Gesuiti
Il “caso gesuiti”. Giovanni Paolo II convoca una riunione segreta in Vaticano
“Bisogna riformare Roma con Roma”: quel Modernismo che governa oggi la Chiesa


BREVE
DEL SOMMO PONTEFICE CLEMENTE XIV
DOMINUS AC REDEMPTOR
Il Papa Clemente XIV.
A perpetua memoria.

1. Gesù Cristo, Signore e Redentore Nostro, annunziato dal Profeta quale Principe della pace, come tale, venendo su questa terra, preconizzato dagli Angeli ai Pastori, egli stesso la raccomandò più e più volte ai suoi Discepoli prima di salire al cielo, dopo che ebbe riconciliato ogni cosa a Dio Padre, pacificando col suo Sangue sulla Croce tutto quello che si trova in terra e in cielo. Agli Apostoli affidò il ministero della riconciliazione, e diede loro il potere della parola per diffonderla, affinché, divenuti ambasciatori di Cristo, il quale non è Dio della discordia, ma d’amore e di pace, l’annunziassero a tutta l’universa terra, e impiegassero tutti i pensieri e le fatiche principalmente in questo: che tutti i generati in Cristo conservassero l’unità dello spirito nel vincolo della pace, considerandosi come un solo corpo ed uno spirito solo, come coloro che sono chiamati ad una stessa speranza di vocazione, alla quale in nessun modo si giunge, come disse San Gregorio Magno, se non si corre incontro ad essa unitamente al nostro prossimo.

2. Questa parola della riconciliazione, ed il relativo ministero che è stato raccomandato a Noi in particolare maniera quando fummo innalzati, senza alcun Nostro merito, a questa sede di Pietro, Ci siamo richiamati alla memoria; dì e notte abbiamo avuto l’una e l’altro davanti agli occhi, e profondamente portandoli impressi nel cuore, procuriamo secondo le Nostre forze di soddisfare ad essi, implorando continuamente l’aiuto di Dio, perché si degni d’infondere in Noi ed in tutto il suo gregge pensieri e consigli di pace, e di aprirci sicura e non fallace strada per conseguirli. Anzi, di più, ben sapendo che Noi per divino decreto siamo stati stabiliti sopra le nazioni e sopra i regni, affinché nella coltivazione della vigna di Sabaoth e nella conservazione dell’edificio della Cristiana Religione, di cui Cristo è la pietra angolare, Noi svelliamo, distruggiamo, disperdiamo, dissipiamo, edifichiamo e piantiamo, come Ci rendemmo conto che nulla da Noi si doveva omettere per la quiete e la tranquillità della Cristiana Repubblica, purché in qualche guisa fosse adatto al piantare e all’edificare, così fummo sempre pronti con l’animo e la volontà e insieme disposti, richiedendolo il vincolo della vicendevole carità, a svellere e a distruggere anche ciò che potesse esistere di più lieto e di più gradevole per Noi, e di cui non potessimo fare a meno senza grandissima molestia e dolore vivissimo dell’animo Nostro.

3. Non è da porsi in dubbio che, tra le cose che maggiormente conferiscono bene e felicità alla Chiesa cattolica, tengono quasi il primo posto gli Ordini religiosi, dai quali in tutti i tempi derivarono ad essa singolarissimo ornamento, presidio e vantaggio. Quindi questa Apostolica Sede non solo li approvò e ricoverò sotto le ali della propria protezione, ma anche li arricchì di molti benefici, esenzioni, privilegi e facoltà perché fossero sempre più mossi ed accesi a coltivare la pietà e la Religione, a ben formare i costumi dei popoli con l’istruzione e con l’esempio, e a conservare e a consolidare tra i fedeli l’unità della Fede. Ma quando sia accaduto che da qualcuno di questi Ordini il popolo cristiano non raccogliesse più quell’abbondanza di frutti e di beni che promettevano al loro inizio, o quando siano apparsi più pronti a fare il danno e la discordia dei popoli, che non la pace e la felicità: questa stessa Apostolica Sede, la quale per la loro costituzione aveva operato ed interposto l’autorità propria, non dubitò di governarli con nuove leggi, o di richiamarli infine all’antica disciplina, o di svellerli e dissiparli completamente.

4. Per questo motivo Innocenzo III, Nostro predecessore, considerato che l’eccessiva varietà degli Ordini regolari induceva a molta confusione nella Chiesa di Dio, nel Concilio generale Lateranense IV solennemente proibì che nessuno, da allora in poi, potesse dar vita a qualche nuovo Ordine, ma chiunque si sentisse chiamato allo stato religioso chiedesse di essere assunto in uno di quelli già approvati. Decretò inoltre che chi volesse fondare nuove case religiose scegliesse la regola e l’istituzione fra quelle già approvate.
Quindi non fu più permesso di istituire un Ordine nuovo senza la speciale licenza del Romano Pontefice; e ciò a buon diritto, perché, istituendosi nuove Congregazioni per zelo di perfezione maggiore, è conveniente che questa Santa Sede Apostolica esamini prima diligentemente e ponderi la maniera di vita che qualcuno si prefigge, affinché sotto l’apparenza di maggior bene e di vita più santa, non s’introducano nella Chiesa di Dio maggiori scandali e vergogne, e fors’anche danni.

5. Però, malgrado il savio decreto d’Innocenzo III, Nostro predecessore, nei tempi successivi non solo l’importunità dei postulanti strappò alla Sede Apostolica l’approvazione di qualche Ordine regolare, ma l’arrogante temerità di taluno andò altresì inventando una quasi sfrenata moltitudine d’Ordini diversi, particolarmente mendicanti, non ancora approvati. Intesa tale cosa, intervenne con pronto rimedio Gregorio X, anch’egli Nostro predecessore: rinnovò la Costituzione del suddetto Innocenzo III nel Concilio generale di Lione, vietando con più rigorose pene, che in avvenire s’inventassero nuove regole e nuovi abiti religiosi. Soppresse gli Ordini mendicanti che erano sorti dopo il Concilio Lateranense IV e che non avevano meritato l’approvazione dell’Apostolica Sede; permise gli approvati, a condizione che i professi vi potessero, volendolo, rimanere, purché da allora in poi non ne ammettessero altri alla professione, né acquistassero nuove case o luoghi di qualsiasi sorte, né quelle o quelli che avevano potessero alienare senza speciale licenza della santa Sede. E valga il vero: egli riservò tutti quei beni a disposizione della Sede Apostolica per soccorrere i luoghi della Terra santa o i poveri, o per impiegarli ad altri usi pii per mezzo degli Ordinari dei luoghi, o di coloro ai quali la stessa Sede ne avesse dato la commissione. Vietò assolutamente agl’individui dei medesimi Ordini l’esercizio della predicazione e della confessione nei confronti degli estranei dello stesso Ordine, e anche di tumularli. Ma in questa Costituzione non volle compresi gli Ordini dei Predicatori e dei Minori, ai quali l’evidente vantaggio che la Chiesa universale ne trae dava il merito dell’approvazione. Volle ancora che continuassero a vivere gli Ordini degli Eremiti di Sant’Agostino e dei Carmelitani, dato che la loro istituzione precedeva il generale Concilio Lateranense. Infine, alle singole persone di quegli Ordini ai quali quella Costituzione era indirizzata, concedette generale licenza di passare ad altri Ordini già approvati; con questo, però, che nessun Ordine o convento trasferisse sé ed i propri beni interamente in un altro, senza particolare permesso della Sede Apostolica.

6. Lo stesso indirizzo, secondo le circostanze dei tempi, seguirono altri Romani Pontefici, Nostri predecessori, i cui decreti sarebbe troppo lungo qui riportare. Tra gli altri Clemente V, Nostro predecessore, con sua Lettera sub plumbo, del 3 maggio dell’anno dell’Incarnazione del Signore 1312, soppresse ed estinse, a seguito della universale disistima nella quale era caduto, l’Ordine militare dei Templari, quantunque legittimamente approvato, e già così benemerito della Repubblica Cristiana, che la Sede Apostolica aveva colmato d’insigni benefici, privilegi, facoltà, esenzioni e licenze. E ciò, nonostante il Concilio generale Viennese, a cui ne era stato commesso l’esame, avesse stimato opportuno di non pronunziare in proposito formale e definitiva sentenza.

7. San Pio V, Nostro predecessore, la cui insigne santità devotamente onora e venera la Chiesa cattolica, estinse e abolì l’Ordine regolare dei frati Umiliati (anteriore al Concilio Lateranense ed approvato da Innocenzo III, Onorio III, Gregorio IX, e Niccolò V, Romani Pontefici di felice memoria, e Nostri predecessori) perché esso mostrava, con la disobbedienza ai decreti apostolici, e con le domestiche ed esterne discordie, che per l’avvenire non si poteva più sperarne esempi di virtù, e perché alcuni membri di tale Ordine avevano scelleratamente attentato alla vita di San Carlo Borromeo, Cardinale della Santa Romana Chiesa e protettore e visitatore apostolico del loro Ordine.

8. Urbano VIII, di felice memoria, Nostro predecessore, con sua Lettera in forma di Breve il 6 febbraio 1626 soppresse in perpetuo ed estinse la Congregazione dei frati Conventuali Riformati, solennemente approvata da Sisto V, Nostro predecessore, e dotata di molti benefici e favori, perché appunto dai predetti frati la Chiesa di Dio non aveva ricevuto buoni frutti spirituali, ma, per contro, fra loro e i non Riformati erano sorte moltissime dispute. Le case, i conventi, i luoghi, la suppellettile, i beni, le cose, le azioni e i diritti appartenenti alla predetta Congregazione volle che passassero in assegnazione all’Ordine dei frati Minori di San Francesco, Conventuali, eccettuate la Casa di Napoli e la Casa di Sant’Antonio da Padova in Roma, che incorporò nella Camera Apostolica, e riservò a disposizione propria e dei suoi successori: infine permise ai frati della detta Congregazione soppressa di passare a quella dei frati di San Francesco Cappuccini, o a quella degli Osservanti.

9. Lo stesso Urbano VIII, con altra sua Lettera in forma di Breve, il 2 dicembre 1643 soppresse in perpetuo, estinse ed abolì l’Ordine regolare dei Santi Ambrogio e Barnaba al Bosco, sottoponendo i Regolari di quest’Ordine alla giurisdizione e al governo degli Ordinari dei luoghi, e concedendo loro di far passaggio ad altri Ordini regolari, approvati dall’Apostolica Sede. Innocenzo X confermò poi solennemente tale soppressione con Lettera sub plumbo il primo aprile dell’anno 1645; anzi ridusse e dichiarò secolari i benefici, le case e i monasteri del predetto Ordine, che in precedenza erano regolari.

10. Innocenzo X, Nostro predecessore, con Lettera in forma di Breve del 16 marzo 1645, tenuto conto delle gravi turbolenze verificatesi tra i regolari dell’Ordine dei Poveri della Madre di Dio delle Scuole Pie, nonostante tale Ordine fosse stato solennemente approvato dopo maturo esame dal Nostro predecessore Gregorio XV, ridusse quell’Ordine regolare a semplice Congregazione senza l’emissione di alcun voto, a norma dell’Istituto della Congregazione dei Preti secolari dell’Oratorio di San Filippo Neri, stabiliti in Roma nella Chiesa di Santa Maria in Vallicella: ai regolari di tale Ordine, così ridotto, concedette il passaggio a qualunque altra Religione approvata; interdisse l’introduzione di novizi e la professione dei già ammessi; infine trasferì agli Ordinari dei luoghi il potere e la giurisdizione che risiedevano presso il ministro generale, i visitatori e i superiori di qualunque rango. Tutti questi provvedimenti restarono in vigore per alcuni anni, fino a quando questa Sede Apostolica, riconosciuta l’utilità del predetto Istituto, lo richiamò alla precedente forma dei voti solenni, e lo dichiarò Ordine regolare perfetto.

11. Con altra Lettera in forma di breve del 29 ottobre 1650, il medesimo Innocenzo X, parimenti per discordie e dissensioni che erano sorte, soppresse totalmente l’Ordine di San Basilio degli Armeni, e ne sottopose i regolari, obbligati a vestire l’abito dei chierici secolari, alla giurisdizione e all’obbedienza degli Ordinari dei luoghi, assegnando loro un congruo sostentamento sulle rendite dei conventi soppressi, e dando loro facoltà di passare a qualunque Congregazione tra le approvate.

12. In simil guisa Innocenzo X, con altra sua in forma di Breve del 22 giugno 1651, considerando che dalla Congregazione regolare dei Preti del Buon Gesù la Chiesa non poteva sperare alcun frutto spirituale, estinse in perpetuo la predetta Congregazione, ne sottopose i regolari alla giurisdizione degli Ordinari dei luoghi, dando loro congruo sostentamento sulle entrate della soppressa Congregazione, e facoltà di passare a qualunque altro Ordine regolare approvato, e riservando a sé la decisione di destinare i beni della suddetta Congregazione ad altri usi pii.

13. Da ultimo, papa Clemente IX, di felice memoria e Nostro predecessore, considerato che tre Ordini regolari, cioè dei Canonici regolari di San Gregorio in Alga, dei Gerolamini di Fiesole, e dei Gesuati istituiti da San Giovanni Colombino, non portavano nessun utile o vantaggio al popolo cristiano, né si poteva sperare che li avrebbero portati in futuro, pensò di sopprimerli e di estinguerli, come fece con Lettera in forma di Breve il 6 dicembre 1668. Quanto ai loro beni e alle loro rendite, assai ragguardevoli, volle, su richiesta della Repubblica di Venezia, che s’impiegassero nelle spese necessarie a sostenere la guerra di Candia contro i Turchi.

14. E valga il vero. I Nostri predecessori, nel risolvere e condurre a termine tali cose, sapientemente scelsero la via che reputarono idonea a superare le agitazioni degli animi, e a soffocare qualunque disputa o spirito di fazione. Quindi, tralasciando quel molesto metodo che di solito si usa nei processi forensi; seguendo solamente le leggi della prudenza, con quella pienezza di potestà, la quale come Vicari di Cristo in Terra, e supremi moderatori della Cristiana Repubblica ampiamente possedevano, cercarono di risolvere ogni caso vietando agli Ordini regolari, destinati alla soppressione, qualunque facoltà di provare le loro ragioni, e di rimuovere le accuse gravissime o di dissipare i motivi per cui erano state indotte tali risoluzioni.

15. Postici dunque davanti agli occhi questi ed altri esempi di grandissimo peso ed autorità, e ardendo Noi del desiderio di procedere con sicurezza e costanza d’animo a quella deliberazione che in appresso diremo, non abbiamo omesso alcunché di diligenza e di esame per chiaramente conoscere ciò che appartiene all’origine, al progresso, ed allo stato attuale di quell’Ordine regolare, che comunemente si chiama della Compagnia di Gesù, ed abbiamo veduto che esso fu istituito dal suo Santo Fondatore per la salute delle anime, per la conversione degli eretici, e specialmente degli infedeli, e, infine, per il maggior progresso della pietà e della Religione. Al fine di giungere più facilmente e vantaggiosamente a così ambito scopo, si dedicò a Dio con rigorosissimo voto di evangelica povertà sia in comune sia in particolare, eccettuati soltanto i collegi per gli studi e per le lettere, ai quali fu concessa facoltà di possedere, a patto però che nessuna porzione delle loro rendite si potesse mai impiegare e ridurre in comodo vantaggio ed uso della medesima Società.

16. Con tali ed altre santissime leggi fu approvata nel suo inizio la stessa Compagnia di Gesù dal Pontefice Paolo III di felice memoria, Nostro predecessore, con Lettera sub plumbo, il 27 ottobre 1540; e dal medesimo le fu concessa facoltà di formare leggi e statuti, coi quali stabilmente si procurasse il vantaggio, la salvezza ed il buongoverno della Compagnia. E quantunque il medesimo Pontefice Paolo III avesse sulle prime limitato la medesima Società al numero di soli sessanta individui, pure con altra sua Lettera del 27 marzo 1543 diede facoltà ai Superiori della medesima di accettare quanti membri avessero giudicato opportuni e necessari. Poi nell’anno 1549, con Breve del 15 novembre, lo stesso Pontefice Paolo III favorì la Società medesima di molti ed amplissimi privilegi; e tra questi volle e ordinò che rimanesse esteso, senza alcun limite di numero, a qualunque soggetto che il preposto generale avesse giudicato idoneo, quell’indulto che già altra volta il medesimo Pontefice aveva concesso ai preposti generali della detta Società, ristretto però alla facoltà di ammettere solo venti Preti coadiutori spirituali, cui aveva accordato le stesse facoltà, grazie ed autorità che avevano i professi; inoltre esentò da ogni superiorità, giurisdizione e governo di qualsiasi Ordinario la Società stessa e tutti i Soci di essa, persone e beni loro di qualunque sorta, richiamandoli sotto la protezione sua e della Sede Apostolica.

17. Né furono minori la liberalità e la munificenza degli altri Nostri predecessori verso questa Società. Infatti è noto che Giulio III, Paolo IV, Pio IV e V, Gregorio XIII, Sisto V, Gregorio XIV, Clemente VIII, Paolo V, Leone XI, Gregorio XV, Urbano VIII ed altri Romani Pontefici di felice memoria, non solo confermarono i privilegi alla predetta, ma con le più autentiche dichiarazioni le certificarono e le ampliarono. Ciò nonostante, dal tenore e dalle parole delle stesse apostoliche Costituzioni, evidentemente risulta che, fin quasi dal nascere della Compagnia, pullularono nel suo seno germi funesti di gelosia e di discordia non solo tra i Soci medesimi, ma anche con gli altri Ordini regolari, col Clero secolare, con le Accademie, Università, Scuole pubbliche di Lettere, e perfino con gli stessi Principi, negli Stati dei quali era stata accolta. Queste discordie erano determinate ora intorno all’essenza e alla natura dei voti, intorno al tempo di emetterli, alla facoltà di espellere i Soci dall’Ordine, di promuoverli agli ordini sacri senza titolo adeguato e senza i voti solenni, contro i decreti del Concilio di Trento e di Pio V; ora intorno all’assoluta potestà che il preposto generale si arrogava, e ad altre cose riguardanti il buon governo della Compagnia; ora intorno ai vari capi di dottrina, alle scuole, alle esenzioni e ai privilegi che gli Ordinari dei luoghi e le altre persone costituite in ecclesiastica e secolare dignità affermavano essere pregiudizievoli alla giurisdizione e ai loro diritti. E quante altre accuse gravissime contro i Soci, nocive alla pace e alla tranquillità della Cristiana Repubblica!

18. Da qui ebbero origine contro questa Società molti ricorsi che, muniti dell’autorità e dei rapporti di alcuni Principi, furono presentati ai Nostri predecessori Paolo IV, Pio V e Sisto V. Fra gli altri, il cattolico Re delle Spagne Filippo II, di chiara memoria, fece presenti a Sisto V non solo quelle gravissime ragioni da cui era mosso l’animo suo, ma anche le doglianze che gl’Inquisitori del Regno avevano fatto a lui contro gli smodati privilegi della Società e la forma del suo governo; confermò i capi delle accuse anche con le contestazioni di alcuni della Compagnia, specchiatissimi per dottrina e pietà; tanto si adoperò presso quel Pontefice, affinché fosse ordinata e commessa una visita apostolica della Società.

19. Alle domande e alle sollecitazioni del Re Filippo accondiscese il Pontefice Sisto V, come se le vedesse fondate su salde ragioni; pertanto scelse per l’incarico di visitatore apostolico un Vescovo illustre per prudenza, virtù e dottrina, e designò una Congregazione di alcuni Cardinali della Santa Romana Chiesa che diligentemente si adoperasse per l’esecuzione di tale compito. Ma Sisto V fu rapito da morte immatura, e con lui morì anche il validissimo proposito da lui assunto; l’iniziativa rimase senza seguito.

Quindi Gregorio XIV di felice memoria, assunto al supremo grado dell’apostolato, approvò di nuovo e nella più ampia maniera l’Istituto della Società con sua Lettera sub plumbo del 28 giugno 1591, e ratificò e confermò i privilegi di qualunque sorta conferiti a quella Società dai suoi predecessori, e in particolare quello che assicurava alla Società il diritto di espellere e di ammettere i Soci senza riguardo a forma giudiziaria, cioè senza processo, senza atti, senza alcun ordine di giudizio, né termine, ancorché necessario, avuto solamente riguardo alla verità del fatto, alla colpa, o alla sufficienza del motivo, alle persone e ad altre circostanze. Su ciò intimò un silenzio assoluto e, sotto pena di scomunica maggiore da incorrersi immediatamente, proibì che nessuno direttamente o indirettamente ardisse impugnare l’Istituto, le costituzioni o i decreti della Società, o tentasse mutarlo in qualunque modo. Però lasciò a tutti il diritto di poter significare o proporre, sia per legati, sia per nunzi dell’Apostolica Sede, a lui solamente, ed ai Romani Pontefici dopo lui regnanti, tutto ciò che si giudicasse dovervi essere aggiunto, moderato, o cambiato.

20. Ma queste cose non furono sufficienti ad acquetare i clamori e le lamentele, perché, anzi, si levarono dappertutto controversie vivissime sulla dottrina stessa della Società, imputata da molti di essere contraria alla Fede ortodossa e ai buoni costumi. Le discordie interne ed esterne si accesero sempre più, e più frequenti si fecero le accuse contro l’ingorda cupidigia delle ricchezze terrene. Da ciò trassero origine non solo le turbolenze a tutti note, che tanto afflissero e molestarono la Sede Apostolica, ma anche le determinazioni diverse dai Principi contro la Compagnia, onde fu che, nell’atto d’impetrare dal Pontefice Paolo V, di felice memoria, Nostro predecessore, una nuova conferma dell’Istituto e dei suoi privilegi, la Società si trovò costretta a domandargli che si degnasse ratificare e confermare con la sua autorità certi decreti formati nella quinta Congregazione generale, trascritti verbalmente nel suo Breve del 4 settembre 1606, nei quali chiaramente si legge che sia le interne gare e inimicizie dei Soci, sia anche le contestazioni e i ricorsi degli estranei contro la Società, avevano obbligato i Soci, radunati in Congregazione, a redigere il seguente Statuto: «Poiché la nostra Società, che dal Signore Iddio fu chiamata alla propagazione della Fede e alla conquista delle anime; poiché per mezzo degli uffici propri dell’Istituto, che sono le armi spirituali, può sotto il vessillo della Croce conseguire felicemente quel fine che si è prefissato con vantaggio per la Chiesa e per l’edificazione del prossimo; così impedirebbe questi beni, e li esporrebbe ai più gravi pericoli, se essa si interessasse di quelle cose che sono secolari e che appartengono agli affari politici e all’amministrazione degli Stati; per questo, sapientissimamente è stato dai nostri maggiori determinato che, militando alla gloria di Dio, noi non ci frammischiamo più delle altre cose lontane dalla nostra professione. Ma poiché in questi tempi, particolarmente molto pericolosi in parecchi luoghi e presso diversi Principi (l’affetto e la carità dei quali il padre Ignazio di santa memoria ci raccomandò di conservare a vantaggio del divino servizio) forse per la colpa o per l’ambizione o per lo zelo indiscreto di alcuni il nostro Ordine è criticato negativamente, e d’altra parte il profumo buono di Cristo è necessario per fruttificare; la nostra Congregazione determina doversi astenere da ogni apparenza di male, e, per quanto potrà, dover porre rimedio alle lagnanze, sebbene derivanti da falsi sospetti. Pertanto, in forza del presente Decreto, proibisce a tutti i nostri, gravemente e severamente, che in nessun conto, anche se chiamati e attirati, s’intrighino in pubblici negozi, né per qualsiasi supplica o persuasione si allontanino dall’Istituto. Raccomanda ai Padri definitori che con ogni diligenza determinino e definiscano quali sarebbero i rimedi più efficaci a risanare questo male, seppure ve n’è bisogno».

21. Noi, con grandissimo dolore dell’animo Nostro, osservammo che tanto i predetti rimedi, quanto moltissimi altri successivamente adoperati, avevano recato quasi nessun vantaggio né erano stati sufficienti per rimuovere e dissipare tante e sì gravi turbolenze, accuse e lamentele contro questa Società; e inutilmente avevano travagliato i Nostri antecessori Urbano VIII, Clemente IX, X, XI e XII, Alessandro VII e VIII, Innocenzo X, XI, XII e XIII, e Benedetto XIV, i quali con molte salutari Costituzioni si erano adoperati per restituire alla Chiesa la desiderata tranquillità, sia circa i secolari negozi, proibiti per sempre e anche in occasione delle sacre missioni, sia circa le gravissime dispute e gare acremente suscitate dalla Compagnia contro gli Ordinari dei luoghi, gli Ordini regolari, i luoghi pii, e le comunità di qualunque genere in Europa, in Asia ed in America, non senza grave pregiudizio delle anime e meraviglia dei popoli; sia anche intorno all’interpretazione pratica di alcuni riti pagani comunemente esercitati in alcuni luoghi, tralasciati quelli dalla Chiesa universale legalmente approvati; o intorno all’uso e spiegazione di certe dottrine manifestamente immorali e di scandalo, con buona ragione proscritte dalla Sede Apostolica; e da ultimo intorno ad altre cose di grande momento, opportunissime per conservare intatta la purità dei dogmi cristiani, per le quali in questa nostra, non meno che nella passata età, frequentissimi danni e svantaggi derivarono; cioè sollevazioni e tumulti in alcuni Stati cattolici, ed acerbe persecuzioni contro la Chiesa in parecchie province d’Asia e d’Europa.

– Grandissima poi fu l’afflizione recata da questa società ai Nostri predecessori, e tra questi ad Innocenzo XI, di santa memoria, il quale, stretto da necessità, giunse a proibire alla Compagnia la vestizione dei novizi; al Papa Innocenzo XIII, che fu obbligato a minacciare nuovamente la stessa pena; e al Papa Benedetto XIV, di cui è recente la memoria, il quale decretò la visita di tutte le case e collegi esistenti nel Regno del carissimo in Cristo Nostro figlio, il fedelissimo Re del Portogallo e dell’Algarvia; senza che in appresso siano derivati consolazione alla Sede Apostolica, soccorso alla umana società, e vantaggio alla Cristiana Repubblica dalla recente apostolica Lettera del Papa Clemente XIII di felice memoria, immediato Nostro predecessore, piuttosto estorta, per servirci di un vocabolo usato da Gregorio X nel Concilio ecumenico di Lione, anziché impetrata, con cui l’Istituto della Compagnia di Gesù grandemente si commenda e nuovamente si approva.

22. Dopo tante tempeste ed acerbissime confusioni, ogni uomo dabbene desiderava che dovesse finalmente splendere una buona volta quel beato giorno, che riportasse la tranquillità e la pace. Ma allorché sulla cattedra di Pietro sedeva il medesimo predecessore Clemente XIII, vennero tempi assai più difficili e turbolenti. Ogni giorno risuonarono più alti i clamori e le lagnanze, e insorsero pericolosissime sedizioni, tumulti, discordie e scandali che, rilassando il vincolo della cristiana carità, e quasi rompendolo, fortemente infiammarono gli animi dei fedeli alle passioni dei partiti, agli odi, alle inimicizie. Il danno e il pericolo giunsero a tal punto, che quegli stessi, la cui pietà liberalità verso la Compagnia universalmente si esalta quale benemerenza ereditaria ricevuta dagli antenati, cioè i Nostri carissimi figliuoli in Cristo i Re di Francia, di Spagna, di Portogallo, e delle Due Sicilie, sono stati costretti a licenziare ed espellere i Soci dai loro Regni, Stati e Province; ritenendo che questo fosse l’estremo rimedio contro tanti mali, assolutamente necessario ad impedire che i popoli cristiani, nel seno stesso di Santa Madre Chiesa, si insidiassero, provocassero e lacerassero a vicenda.

23. Quei carissimi in Cristo figliuoli Nostri, persuasi che tale rimedio non poteva essere durevole e sufficiente a riconciliare tutto il mondo cristiano se la medesima Compagnia non fosse soppressa ed abolita, esposero al Papa Clemente XIII, Nostro predecessore, i loro desideri e le loro volontà; poi, con quanta autorità poterono, e con preci e voti concordi, domandarono tutti che con un efficacissimo rimedio sapientemente si provvedesse alla costante sicurezza dei loro sudditi e al bene universale della Chiesa di Cristo. Ma la morte di quel Pontefice, inaspettata da tutto il mondo, troncò il corso e il compimento di tale progetto. Collocati Noi, per divina disposizione e clemenza, sulla cattedra di Pietro, Ci furono immediatamente rivolte le medesime preci, domande e voti, a cui s’aggiunsero le opinioni e le sollecitazioni di molti Vescovi e personaggi illustri per dignità, per dottrina e per religione.

24. E perché in un’impresa così grave e di tanto rilievo fosse da Noi adottato il partito migliore, giudicammo opportuno procrastinare lungamente, non solo per recare nelle indagini, nell’esame e nella deliberazione la maggiore esattezza e prudenza possibili, ma anche per chiedere con gemiti ed incessanti orazioni dei fedeli tutti, e con pie opere, i soccorsi e l’assistenza speciale del Padre dei lumi. E Noi volemmo, fra le altre, esaminare su quale fondamento si appoggi quella opinione, diffusa fra molti, che la Religione dei chierici della Compagnia di Gesù sia stata in modo solenne approvata e confermata dal Concilio di Trento. A proposito di questa Società, null’altro abbiamo trovato essere stato disposto in quel Concilio se non che essa fosse eccettuata dal generale decreto che stabiliva, per gli altri Ordini regolari, che consumato il tempo del noviziato i novizi trovati idonei fossero ammessi alla professione, o altrimenti allontanati dal monastero. Per tale motivo il medesimo sacrosanto Concilio (Sess. 25, rub. 16 De regular.) dichiarò di non volere rinnovare alcunché, né di impedire che la Religione dei chierici della Compagnia di Gesù servisse al Signore e alla sua Chiesa, secondo il proprio devoto Istituto, approvato dalla santa Sede Apostolica.

25. Dopo tanti e così necessari mezzi adoperati da Noi; soccorsi, come speriamo, dalla presenza del Divino Spirito; stretti ancora dalla necessità del ministero Nostro, in forza del quale siamo in ogni maniera obbligati, per quanto valgano le Nostre forze, a conciliare, mantenere e rassodare la quiete e la tranquillità della Cristiana Repubblica, e a rimuovere gli ostacoli che potessero recarle detrimento, anche minimo; considerando che la predetta Compagnia di Gesù non poteva produrre più quei salutari, ubertosi frutti e vantaggi per i quali fu istituita, e da tanti Nostri predecessori approvata e onorata di infiniti privilegi; ma che anzi è ormai divenuto impossibile che la Chiesa abbia pace vera e durevole finché quest’Ordine sussiste; indotti da tali specialissime ragioni e da altre che Ci dettano le leggi della prudenza e dell’ottimo governo della Chiesa, riposte nel segreto dell’anima Nostra; seguendo le orme dei Nostri predecessori, e soprattutto di Gregorio X nel generale Concilio di Lione; tanto più che, anche nel caso presente, si tratta di una Società che per ragione del suo Istituto e dei suoi privilegi è iscritta nel numero degli Ordini mendicanti; con ben maturo consiglio, di certa scienza, e con la pienezza dell’Apostolica Potestà, estinguiamo e sopprimiamo la più volte citata Società, e annulliamo ed aboliamo tutti e singoli gli uffici di essa, i ministeri e le amministrazioni, le case, le scuole, i collegi, gli ospizi, e qualunque altro luogo esistente in qualsivoglia provincia, regno, e signoria, e in qualunque modo appartenente alla medesima; i suoi statuti, costumi, consuetudini, decreti, costituzioni, quantunque corroborate da giuramento, da apostolica approvazione, o in altra guisa, e tutti e singoli i privilegi e gl’indulti generali o speciali, il tenore dei quali Noi vogliamo che s’intenda come pienamente e sufficientemente espresso in questa presente Lettera, come se verbalmente vi fossero trascritti, e sebbene concepiti sotto qualsiasi forma, o clausola irrita, e con qualsivoglia vincolo e decreto. Quindi Noi dichiariamo che rimanga annullata in perpetuo ed assolutamente estinta tutta e qualunque autorità del preposto generale, dei provinciali, dei visitatori e degli altri superiori di detta Società, tanto nelle cose spirituali che nelle temporali; vogliamo che la stessa giurisdizione ed autorità siano trasferite totalmente, e in qualsiasi modo, agli Ordinari dei luoghi secondo la maniera, le circostanze, le persone e le condizioni che accenneremo più sotto; proibendo, come con la presente proibiamo, che nessuno in avvenire sia ricevuto nella suddetta Società, ed ammesso alla vestizione e al noviziato. Coloro poi che fino a questo giorno furono accettati, non si possano ammettere alla professione dei voti semplici o dei solenni, sotto pena della nullità dell’ammissione e della professione, e di altre pene riservate al nostro arbitrio. Anzi, di più, vogliamo, comandiamo, ordiniamo che coloro che attualmente sono nel noviziato, subito, prontamente, immediatamente e di fatto siano licenziati; e in egual modo proibiamo che coloro che fecero la professione dei voti semplici, e che fin qui non sono stati promossi ad alcun ordine sacro, possano essere promossi agli stessi ordini maggiori, sotto pretesto o titolo tanto della professione già fatta nella Società, quanto dei privilegi ottenuti contro i decreti del Concilio di Trento.

26. E poiché tutte le Nostre cure hanno per scopo principale di provvedere ai vantaggi della Chiesa e alla tranquillità dei popoli, e nel tempo stesso di porgere qualche conforto e provvedimento a tutti gl’individui o Soci della medesima Religione (persone che in particolare Noi amiamo nel Signore con affetto di padre), affinché, liberati da tutte quelle vessazioni, dissensioni ed angustie da cui fino ad ora furono travagliati, possano con maggior frutto coltivare la vigna del Signore, e giovare alla salute delle anime, decretiamo e determiniamo che i Soci che hanno fatto la sola professione dei voti semplici, né sono ancora promossi agli ordini sacri, entro lo spazio di tempo che dagli Ordinari dei luoghi verrà prescritto, e che sia sufficiente a procacciarsi qualche impiego od uffizio o qualche benevolo ospite (purché non si oltrepassi il termine di un anno dalla data della presente Lettera, rimanendo prosciolti da qualunque vincolo di voti semplici) debbano assolutamente partire dalle case e dai collegi della medesima Società, liberi di scegliere quella maniera di vita che giudicheranno più adatta, secondo il Signore, alla propria vocazione, alle proprie forze e alla propria coscienza; tanto più che anche secondo i privilegi della Compagnia potevano essere rimossi da essa non per altro motivo che per quello che i Superiori giudicassero più conforme alla prudenza ed alle circostanze, senza processo, né ordine giudiziario.

27. Ai soci già promossi agli ordini sacri concediamo licenza e facoltà di allontanarsi dalle case e dai collegi della Compagnia, sia per passare ad altro Ordine regolare approvato dalla Sede Apostolica, dove, nel caso in cui abbiano fatto nella Società professione dei voti semplici, dovranno compiere il tempo del noviziato prescritto dal Concilio di Trento, e nel caso in cui abbiano fatto anche professione dei voti solenni, staranno in noviziato per soli sei mesi intieri, dispensati benignamente dal resto del tempo del noviziato; sia per rimanere nel secolo come preti e chierici secolari sotto una perfetta e totale obbedienza e soggezione agli Ordinari di quelle diocesi ove fisseranno il loro domicilio. Decretiamo inoltre per coloro che rimarranno al secolo, finché non siano in altro modo provvisti, una congrua pensione da prelevarsi dalle rendite della casa, o collegio, dove dimoravano, avendo però riguardo non alle intiere rendite, ma anche ai pesi che vi fossero annessi.

28. I professi, poi, già promossi ai sacri ordini, i quali non vorranno lasciare le case o i collegi della Compagnia o per timore di un’insufficiente sussistenza dovuta alla mancanza o alla scarsità di una consistente pensione, o perché privi di un luogo dove assicurarsi una dimora, o per la loro avanzata età, per debole salute e per altra giusta e grave causa, potranno rimanervi; con la riserva, però, che non abbiano alcuna amministrazione della predetta casa o collegio, e vestano il semplice abito dei chierici secolari, e vivano totalmente sottoposti all’Ordinario del luogo. Inoltre proibiamo che in nessun modo possano sostituire altri in luogo di quelli che mancheranno; acquistare nuove case o altro luogo, secondo i Decreti del Concilio di Lione; alienare le case, i beni ed i fondi che ora posseggono. Anzi, potranno essere riuniti in una sola casa o in più, secondo il loro maggiore o minor numero, in maniera che le case che resteranno vuote possano essere convertite in usi pii, secondo quanto sembrerà più opportuno alle circostanze dei luoghi e dei tempi, e più confacente ai sacri canoni, all’intenzione dei fondatori, all’accrescimento del culto Divino, alla salute delle anime ed alla pubblica utilità. Nel frattempo sarà destinato qualche soggetto del Clero secolare, specchiato per prudenza e per costumi, il quale dovrà presiedere al governo di quelle case, in modo che muoia e sia soppresso il nome della Compagnia.

29. Dichiariamo parimenti che restino compresi in questa generale soppressione della Società anche gl’individui della medesima di tutte le province, dalle quali già sono stati espulsi; e per questo vogliamo che i suddetti espulsi, quantunque siano stati e siano promossi agli ordini maggiori, se non passeranno ad altro Ordine regolare, si riducano ipso facto allo stato di chierici e di preti secolari, e siano totalmente sottoposti agli Ordinari dei luoghi.

30. Se gli Ordinari dei luoghi troveranno virtù, dottrina e integrità di costumi in coloro che, in forza di questa Nostra Lettera, sono passati dall’Istituto regolare della Compagnia di Gesù allo stato secolare, potranno, a loro arbitrio, concedere o negare loro la facoltà di ricevere le confessioni sacramentali dei fedeli, o di fare al popolo le sacre prediche; senza questa licenza scritta nessuno di loro potrà esercitare tali uffizi. I medesimi Vescovi, però, e gli Ordinari dei luoghi non potranno mai concedere la suddetta facoltà, in quanto estranei, a coloro i quali vivranno nei collegi o nelle case già appartenenti alla Società; a questi proibiamo in perpetuo di amministrare il sacramento della Penitenza, o predicare agli estranei, come lo stesso Gregorio X parimenti proibì nel citato Concilio generale. La qual cosa rimettiamo alla coscienza degli stessi Vescovi, i quali desideriamo che ricordino sia che dovranno rendere conto a Dio per il gregge loro affidato, sia il severissimo giudizio che il supremo Giudice dei vivi e dei morti riserva a coloro che comandano.

31. Vogliamo inoltre che se qualcuno di coloro che professavano l’Istituto della Compagnia esercita l’ufficio d’insegnare le lettere alla gioventù, o fa da maestro in qualche collegio, o scuola, sia rimosso dal governo, dall’amministrazione e dalla direzione dell’insegnamento. Si dia facoltà e possibilità di insegnare soltanto a chi di loro offra solida speranza di buoni studi, e si dichiari avverso a quelle dispute e dottrine che, o per la rilassatezza o per la frivolezza loro, sogliono cagionare e risvegliare gravissime persecuzioni e cattivi effetti. In nessun tempo si ammettano mai all’ufficio d’insegnare, né se ne permetta la continuazione, a chiunque di loro, se non si dichiara disposto a conservare la quiete e la pubblica tranquillità delle scuole.

32. Per quanto poi si riferisce alle sacre Missioni (riguardo alle quali vogliamo pure che s’intenda tutto quello che abbiamo disposto circa la soppressione della Compagnia) riserviamo a Noi il determinare i mezzi coi quali più agevolmente e più sicuramente si possa procacciare ed ottenere la conversione degl’infedeli, e l’acquietamento delle discordie.

33. Restando, come si è detto, annullati ed abrogati tutti i privilegi e statuti della suddetta Compagnia, dichiariamo che i Soci della medesima, dopo che ne avranno abbandonate le case e i collegi e saranno portati allo stato di chierici secolari, rimangano abilitati ed idonei ad ottenere, secondo i Decreti dei sacri canoni e delle apostoliche costituzioni, qualunque beneficio, sia curato che semplice, qualunque ufficio e dignità il cui godimento, rimanendo nella Società, era stato loro negato da Papa Gregorio XIII di felice memoria con sua Lettera in forma di Breve, che comincia «Satis superque» del 10 settembre 1584. Parimenti diamo loro la facoltà (che pure era loro vietata) di poter ricevere l’elemosina per la celebrazione della Messa, e godere di tutte quelle grazie e di quei favori di cui sarebbero rimasti privi come chierici regolari della Compagnia di Gesù. Deroghiamo ancora a tutte e singole le facoltà che, in vigore dei privilegi impetrati dai Sommi Pontefici, accordavano loro il preposto generale e gli altri superiori, quella cioè di leggere i libri degli eretici e altri proscritti e condannati dalla Sede Apostolica; quella di non osservare i giorni di digiuno, o di non usare cibi magri in quei giorni; quella di anticipare o posporre la recita delle ore canoniche, e altre di simil genere, delle quali in avvenire severissimamente proibiamo possano usare, essendo Nostra volontà ed intenzione che i medesimi si adattino a vivere, come preti secolari, secondo la norma delle leggi comuni.

34. Vietiamo ancora che, promulgata e pubblicata questa Nostra, chicchessia ardisca di sospendere l’esecuzione sotto forma, titolo o pretesto di qualsivoglia istanza, appello, ricorso, dichiarazione, o chiarimento di dubbi che potessero insorgere, o sotto qualunque altro pretesto previsto o non previsto. Noi intendiamo e vogliamo che da qui in avanti, ed immediatamente, la soppressione e l’annullamento di tutta la predetta Società e di tutti i suoi compiti sortiscano il loro effetto, secondo la forma e il modo sopra espressi, sotto pena di scomunica maggiore, da incorrersi immediatamente e riservata a Noi ed ai Nostri successori Romani Pontefici, contro chiunque osasse porre impedimento, ostacolo o indugio all’esecuzione di questa Nostra.

35. Ordiniamo e comandiamo, in virtù di santa obbedienza, a tutte e singole le persone ecclesiastiche, regolari e secolari, di qualunque grado, dignità e condizione, e segnatamente a coloro che sino ad ora sono stati iscritti alla Compagnia e considerati soci, che non osino difendere, impugnare, scrivere, o anche parlare di tale soppressione, né della causa, né dei motivi, né dell’Istituto della Compagnia, né delle regole, costituzioni, forma di governo, o altra qualunque cosa che appartenga a questo argomento senza espressa licenza del Romano Pontefice. In pari modo, sotto pena di scomunica riservata a Noi ed ai Nostri successori pro tempore, proibiamo a tutti e ai singoli, in occasione di questa soppressione, di azzardarsi, sia occultamente, sia palesemente, ad offendere e a provocare chicchessia, tanto meno i soci, con ingiurie, maldicenze, contumelie ed altra maniera di disprezzo, a voce o per iscritto.

36. Esortiamo tutti i Principi cristiani a volere con la maggior forza, autorità e potenza che Dio concedette loro per difesa e patrocinio della Santa Romana Chiesa, per quell’ossequio e culto che professano nei confronti di questa Sede Apostolica, a dare a questa Nostra Lettera il suo pienissimo effetto; a statuire anzi e a promulgare decreti conformi perché, durante l’esecuzione di questo Nostro volere, tra i fedeli non insorgano lamentele, contese e discordie.

37. Infine, esortiamo e preghiamo, per le viscere del Signor nostro Gesù Cristo, tutti i cristiani a ricordare che tutti abbiamo il medesimo Maestro che è nei cieli; tutti lo stesso Salvatore che a caro prezzo di sangue ci redense; tutti siamo stati rigenerati nel medesimo lavacro di acqua per mezzo delle parole di vita eterna, e siamo stati costituiti figliuoli di Dio, e coeredi di Gesù Cristo, tutti nutriti con lo stesso pascolo della dottrina cattolica e della Divina parola; infine tutti formiamo un solo corpo in Cristo, e l’uno dell’altro siamo membri; quindi è assolutamente necessario che tutti, insieme riuniti dal comune vincolo della carità, abbiano pace con tutti gli uomini, e non professino alcun altro maggior dovere se non di amarsi scambievolmente. Chi ama il suo prossimo adempie la legge, aborrendo offese, inimicizie, discordie, insidie ed altri mali, inventati e promossi dall’antico avversario del genere umano a perturbare la Chiesa di Dio e ad impedire l’eterna felicità dei fedeli, sotto il fallacissimo titolo e pretesto di scuole, opinioni e perfezione, anche cristiana. Tutti si adoperino vigorosamente all’acquisto della vera e sincera sapienza, della quale si trova scritto da San Giacomo: «Vi è tra voi qualcuno che sia savio e sapiente? Scopra egli le opere sue nella buona conversazione e nella mansuetudine della sapienza. Se avete uno zelo amaro e dissensioni nei vostri cuori, non vogliate gloriarvi né mentire contro la verità. Infatti questa non è una sapienza che scenda dal cielo, ma terrena, animalesca, diabolica. Dov’è odio e discordia, ivi sono scompiglio e scelleratezza; la sapienza celeste, innanzi tutto è pura, poi pacifica, modesta, arrendevole; segue i buoni, è piena di misericordia e di buoni frutti, non presuntuosa, non bugiarda. Ora il frutto della giustizia si semina qui nella pace, per raccogliere altra pace più splendida nell’altra vita» (Gc 3,13-18).

38. Vogliamo ancora che la presente Lettera (ancorché i superiori e altri religiosi della detta Società, e altri che hanno interesse nelle sopraddette cose, o pretendano in qualche modo di averlo, non abbiano consentito, né siano stati citati, né interpellati sopra di esse) in nessun tempo possa mai essere impugnata, invalidata, ritrattata, richiamata in giudizio o in controversia, o ridotta a termini di diritto, o che si chieda contro essa il rimedio della restituzione in integrum della facoltà di parlare, della riduzione ad viam et terminos juris, o di qualunque altro capitolo di gius, di fatto, di grazia, o di giustizia. Vogliamo ancora che detti rimedi, in qualunque maniera concessi ed ottenuti, non possano essere usati o fatti valere in giudizio, o fuori di esso, né per titolo di vizio di surrezione, orrezione, nullità e invalidità, né per titolo di difetto di Nostra intenzione, né per qualunque altro difetto si voglia, quantunque grande, imprevisto e sostanziale, e neanche, infine, perché nelle premesse cose, o in alcuna di esse, non siano state osservate le solennità, ed altra qualunque cosa da osservarsi ed adempiersi; né per qualunque altro capo risultante da qualche diritto, o consuetudine compresa nel corpo delle leggi, né per causa di enorme, enormissima e totale lesione, né per qualunque altro pretesto, occasione, o causa quanto si voglia giusta, ragionevole e privilegiata, ed anche tale che fosse necessario esprimersi a proposito della validità delle cose premesse; ma intendiamo e vogliamo che questa Nostra sia e debba essere sempre valida, ferma ed efficace in perpetuo, e che sortisca ed ottenga il suo pieno ed intero effetto, e sia da tutti, e da ciascuno, ai quali spetta e in qualunque modo spetterà in futuro, inviolabilmente osservata.

39. Così, e non altrimenti, determiniamo che in tutte le cose premesse e in ciascuna di esse, quando si giudichi e si definisca per mezzo di qualsiasi giudice ordinario e delegato, ed anche uditore delle cause del Palazzo Apostolico, e Cardinale della Santa Romana Chiesa, come anche per qualunque legato a latere, e Nunzio della Sede Apostolica, e qualunque altra persona che abbia l’esercizio o sia per averlo, di qualunque autorità o potestà in qualsivoglia causa ed istanza, si tolga loro e a chiunque di loro qualsiasi facoltà ed autorità di giudicare e d’interpretare diversamente; e se avverrà che qualcuno, per qualunque autorità, scientemente o ignorantemente, abbia ardire di procedere altrimenti sopra tali cose, vogliamo che tutto rimanga inutile e di nessun valore.

40. Ciò, nonostante le Costituzioni e le Ordinanze Apostoliche, ancorché pubblicate nei Concili generali, e (se pur sia necessario) nonostante la Nostra regola de non tollendo jure quaesito; e malgrado gli Statuti della Compagnia, delle case, dei collegi e delle chiese della medesima, sebbene confermati da giuramento, approvazione apostolica, o qualsivoglia altra validità; malgrado le consuetudini, i privilegi, gl’indulti, e le lettere apostoliche alla medesima Compagnia e ai superiori religiosi ed individui suoi, di qualunque sorta, sotto qualsivoglia tenore e forma, e con qualunque derogatoria di derogatorie, ed altri decreti anche irriti, concessi, confermati e rinnovati anche per un motuproprio simile a questo, o concistorialmente, o in qualunque altra guisa. Alle quali cose tutte, e a ciascuna di esse, quantunque per la loro legittima derogazione si dovesse fare speciale menzione di esse e dell’intero tenore delle medesime, o adoperare qualunque altra espressione o formula espressamente, individualmente e verbalmente, non già per clausole generali, che significhino lo stesso, avendo Noi pienamente e sufficientemente espresso ed incluso nella presente il tenore di tutte quelle medesime e di ciascuna di esse, come se fossero espresse ed incluse parola per parola, niuna omessa, ed osservata la forma ad esse data, intendo che rimangano nel loro vigore quanto agli altri articoli; specialmente ed espressamente deroghiamo per gli effetti suddetti, come anche a qualunque altra cosa contraria di simile genere.

41. Vogliamo che alle copie della presente Lettera, ancorché stampate, sottoscritte di pugno di qualche notaio pubblico e munite del sigillo di qualche persona costituita in dignità ecclesiastica, si presti, in giudizio e fuori, la stessa fede, come se fosse esibita o mostrata.

Dato a Roma, presso Santa Maria Maggiore, sotto l’anello del Pescatore, il 21 luglio 1773, anno quinto del Nostro Pontificato. 


 

LA RIABILITAZIONE DELLA COMPAGNIA

BOLLA
SOLLICITUDO OMNIUM
DEL SOMMO PONTEFICE  PIO VII

Il Vescovo Pio, servo dei servi di Dio. A futura memoria.

1. Il governo di tutte le Chiese affidato da Dio alla Nostra umiltà, benché insufficiente per meriti e per forze, Ci obbliga a mettere in opera tutti i mezzi che sono in Nostro potere e che Ci vengono forniti dalla Divina Provvidenza onde sovvenire opportunamente alle necessità spirituali del mondo cristiano, per quanto lo comportano le diverse e molteplici vicende dei tempi e dei luoghi, senza differenza di popoli e di nazioni.

2. Desiderosi di soddisfare al dovere del Nostro ufficio pastorale, tostoché l’allora vivente Francesco Kareu, ed altri preti secolari viventi da molti anni nel vastissimo Impero Russo, e un tempo aggregati alla Compagnia di Gesù, soppressa dal Nostro Predecessore Clemente XIV di felice memoria, Ci presentarono le loro preghiere con cui supplicavano con la Nostra autorizzazione di restare uniti in un solo corpo, onde, secondo il loro Istituto, adoperarsi più agevolmente nell’istruire la gioventù nelle cose della Fede, e nell’educarla ai buoni costumi, esercitare l’ufficio della predicazione, ascoltare le confessioni e amministrare gli altri Sacramenti, Noi giudicammo opportuno aderire alle loro istanze, tanto più volentieri in quanto l’imperatore Paolo Primo, allora regnante, Ci aveva caldamente raccomandato tali sacerdoti con una sua umanissima lettera dell’11 agosto 1800, a Noi indirizzata, nella quale, significando la singolare sua benevolenza verso di loro, dichiarava che gli sarebbe stata cosa gradita se, per il bene dei cattolici del suo Impero, la Società di Gesù fosse ivi stabilita per Nostra disposizione.

3. Per la qual cosa, considerando Noi con animo attento quanto grandi utilità sarebbero derivate a quelle vastissime regioni quasi prive di operai evangelici, e quanto accrescimento avrebbero recato alla Religione Cattolica Ecclesiastici di tal fatta, i probi costumi dei quali venivano elogiati con tante lodi per il continuo impegno, per il fervido zelo dedicato alla salute delle anime e per l’indefessa predicazione della parola di Dio, Noi abbiamo reputato ragionevole assecondare i voti di un Principe così grande e benefico. Pertanto, con Nostra lettera in forma di Breve, il 7 marzo 1801 abbiamo concesso al predetto Francesco Kareu ed ai suoi soci dimoranti nell’Impero Russo, o a coloro che colà fossero giunti da altre parti, la facoltà di unirsi in corpo, o Congregazione di Società di Gesù, ed accordato la libertà di raccogliersi uniti in una o più case, ad arbitrio del Superiore, ma soltanto entro i confini dell’Impero Russo, e abbiamo deputato, a beneplacito Nostro e della Sede Apostolica, quale Preposito generale di tale Congregazione lo stesso prete Francesco Kareu, con le facoltà necessarie e opportune per mantenere e seguire la Regola di Sant’Ignazio di Loyola, approvata e confermata con le sue Costituzioni dal Nostro Predecessore Paolo III di felice memoria. Ciò, affinché in tal modo i soci riuniti in un gruppo religioso si occupassero ad educare la gioventù nella Religione e nelle buone arti, a reggere seminari e collegi e, con l’approvazione e il consenso degli Ordinari dei luoghi, ascoltare le confessioni, annunziare la Parola di Dio, e liberamente amministrare i Sacramenti. Accogliemmo la Congregazione della Compagnia di Gesù sotto la diretta tutela e soggezione Nostra e della Sede Apostolica, e riservammo a Noi ed ai Nostri Successori di prescrivere e stabilire quelle cose che Ci fossero sembrate nel Signore efficaci a rafforzarla, a presidiarla, e a purgarla da quegli abusi e da quelle corruttele che per avventura avessero potuto introdurvisi. A tale effetto Noi abbiamo espressamente derogato alle Costituzioni Apostoliche, statuti, consuetudini, privilegi ed indulti in qualunque modo concessi e confermati in opposizione alla premessa Nostra lettera, specialmente alla lettera Apostolica del citato Clemente XIV, che comincia «Dominus ac Redemptor Noster» in quelle parti, solamente, che fossero contrarie alla detta Nostra lettera in forma di Breve, il cui principio è «Catholicae» e rilasciata per il solo Impero della Russia.

4. Le decisioni che abbiamo stabilito di prendere per l’Impero Russo, abbiamo giudicato opportuno estenderle non molto tempo dopo al Regno delle Due Sicilie, su richiesta del carissimo figlio Nostro in Cristo, il Re Ferdinando, il quale domandò che la Società di Gesù fosse stabilita nella sua giurisdizione e nei suoi Stati nello stesso modo in cui era stata da Noi stabilita nel predetto Impero, dato che in quei tempi luttuosissimi egli pensava di servirsi dell’opera specialmente dei chierici regolari della Società di Gesù per ammaestrare nella cristiana pietà e nel timore di Dio – che è il principio della Sapienza – e per istruire nelle lettere e nelle scienze la gioventù nei collegi e nelle pubbliche scuole. Noi, desiderosi di aderire ai pii desideri di così illustre Principe, che miravano unicamente alla maggior gloria di Dio e alla salute delle anime, per dovere del pastorale Nostro ufficio abbiamo esteso la Nostra lettera, redatta per l’Impero Russo, al Regno delle Due Sicilie, con nuova lettera in simile forma di Breve, che comincia «Per alias», spedita il 30 luglio 1804.

5. Calde e pressanti istanze per la restaurazione della stessa Società di Gesù, con unanime consenso di quasi tutto il mondo cristiano Ci pervengono ogni giorno dai Venerabili Nostri Fratelli Arcivescovi e Vescovi, e dall’ordine e dal ceto di tutti i personaggi insigni, specialmente da quando si diffuse ovunque la fama dei frutti ubertosi che questa Società aveva prodotti nelle menzionate regioni; poiché essa era feconda di giorno in giorno di prole in aumento, si riteneva opportuno adornare e dilatare ampiamente il campo del Signore.

6. La stessa dispersione delle pietre del Santuario dovuta alle recenti calamità e vicende (le quali giova più deplorare che richiamare alla memoria), la disciplina fatiscente degli Ordini Regolari (splendore e salvezza della Religione e della Chiesa Cattolica) a riparare i quali tutti i Nostri pensieri e tutte le Nostre cure sono ora dirette, esigono che diamo il Nostro assenso a voti così giusti e così diffusi. Pertanto, Noi Ci crederemmo rei di gravissimo delitto al cospetto del Signore se in necessità così gravi della cosa pubblica trascurassimo di mettere in opera quegli aiuti salutari che Iddio, con singolare Provvidenza, Ci fornisce e se Noi, collocati nella navicella di Pietro agitata e scossa da continui turbini, rigettassimo i remiganti esperti e valorosi, i quali si offrono a rompere i flutti del pelago, che ad ogni momento Ci minaccia naufragio e rovina.

7. Indotti dal peso di tante e così forti ragioni e da motivi cosi gravi che scuotevano l’animo Nostro, Noi abbiamo deliberato di mandare finalmente ad effetto ciò che grandemente desideravamo di fare nel principio stesso del Nostro Pontificato. Dunque, dopo aver implorato con fervide preci l’aiuto Divino, uditi i pareri e i consigli di molti Venerabili Fratelli Nostri, Cardinali della Santa Romana Chiesa, di certa scienza e con la piena potestà Apostolica abbiamo deliberato di ordinare e stabilire, come di fatto con questa Nostra Costituzione, che dovrà valere perpetuamente, ordiniamo e stabiliamo che tutte le concessioni e tutte le facoltà da Noi accordate unicamente per l’Impero Russo e per il Regno delle Due Sicilie, ora s’intendano estese, e per estese si abbiano, così come veramente le estendiamo, a tutto il Nostro Stato Ecclesiastico e a tutti gli altri Stati e Governi.

8. Pertanto concediamo e accordiamo al diletto figlio prete Taddeo Borzozowski, attuale Preposito generale della Compagnia di Gesù, e agli altri da lui legittimamente deputati, tutte le necessarie ed opportune facoltà, a beneplacito Nostro e della Sede Apostolica, di poter ammettere ed aggregare liberamente e lecitamente in tutti i predetti Stati e Governi tutti coloro i quali chiederanno di essere ammessi ed aggregati all’Ordine Regolare della Compagnia di Gesù i quali, uniti in una o più case, in uno o più collegi, in una o più province, e distribuiti secondo l’esigenza delle circostanze sotto l’obbedienza del Preposito generale pro tempore, conformino la loro maniera di vivere alle prescrizioni della Regola di Sant’Ignazio di Loyola approvata e confermata dalle Costituzioni Apostoliche di Paolo III. Concediamo ancora e dichiariamo che per attendere ad istruire la gioventù nei rudimenti della Religione Cattolica e per addestrarla nei buoni costumi, sia loro lecito di liberamente e lecitamente reggere seminari e collegi, e col consenso e l’approvazione degli Ordinari dei luoghi in cui avvenisse loro di soggiornare, ascoltare confessioni, predicare la parola di Dio e amministrare Sacramenti. Tutti poi i collegi, le case, le province e i Soci in tal modo uniti, e che in avvenire si uniranno e aggregheranno, Noi li riceviamo sin da questo momento sotto l’immediata tutela, presidio ed obbedienza Nostra, e di questa Apostolica Sede, riservando a Noi, ed ai Romani Pontefici Successori Nostri lo stabilire e prescrivere quelle cose, che si troverà conveniente stabilire e prescrivere per maggiormente consolidare, munire e purgare la Società stessa da quegli abusi, che per avventura si fossero intrusi, il che tolga Iddio.

9. Per quanto possiamo nel Signore, esortiamo tutti e ciascuno, superiori, prepositi, rettori, soci ed alunni di questa ristabilita Società a mostrarsi in ogni luogo e tempo fedeli seguaci e imitatori di un così grande loro padre e fondatore, ad osservare accuratamente la Regola da lui redatta e prescritta, ed a procurare di eseguire con sommo fervore gli avvisi e i consigli da lui lasciati ai suoi figliuoli.

10. Infine raccomandiamo grandemente nel Signore la predetta Società, e ciascuno dei suoi figliuoli, ai diletti figli in Cristo, gl’illustri e nobili Principi e Signori temporali, come pure ai Venerabili Fratelli Arcivescovi e Vescovi, e agli altri costituiti in qualunque dignità, e li esortiamo e preghiamo non solo a non permettere e tollerare che siano da chicchessia molestati, ma a riceverli benignamente e con quella carità che si conviene. 

11. Decretiamo che la presente lettera e ogni cosa in essa contenuta siano e debbano essere sempre ed in perpetuo valide, ferme ed efficaci, e che sortiscano ed ottengano i loro pieni ed interi effetti, e siano da tutti, e da ciascuno, ai quali compete e in qualunque modo competerà, inviolabilmente osservate. In pari guisa, e non altrimenti, determiniamo che in tutte le cose premesse ed in ciascuna di esse si giudichi e si definisca per mezzo di qualsiasi giudice, di qualunque autorità investito, e se qualcuno per qualunque autorità, scientemente o ignorantemente, ardisse di procedere differentemente sopra tali cose, vogliamo che tutto resti inutile e di nessun valore.

12. Nonostante le Costituzioni e le Ordinazioni Apostoliche, e specialmente la menzionata lettera in forma di Breve di Clemente XIV di felice memoria, la quale incomincia «Dominus ac Redemptor Noster», sotto l’anello del Pescatore del 21 luglio 1773, ad essa per gli effetti suddetti espressamente e specialmente intendiamo derogare, ed a qualunque altra cosa contraria analoga.

13. Vogliamo poi che ai transunti o agli esemplari della presente lettera, ancorché stampati, sottoscritti per mano di qualche pubblico notaio, e muniti del sigillo di qualche persona costituita in dignità ecclesiastica, si presti la medesima fede, tanto in giudizio che fuori di quello, che si avrebbe per lo stesso presente originale, se fosse esibito o mostrato. 

14. Non sia dunque lecito ad alcuno rompere od opporsi con temerità a questa carta di Nostra ordinazione, statuto, estensione, concessione, indulto, facoltà, dichiarazione, riserva, avviso, decreto e deroga; se alcuno presumesse tentare ciò, sappia che incorrerà nell’indignazione di Dio e dei Santi Apostoli Pietro e Paolo.

Dato a Roma, presso Santa Maria Maggiore, nell’anno dell’Incarnazione del Signore 1814, il 7 agosto, nell’anno quindicesimo del Nostro Pontificato.


 

Perché non bisogna discreditare la Compagnia di Gesù

(di Roberto de Mattei) Tra le conseguenze più disastrose del pontificato di papa Francesco ce ne sono due, strettamente connesse tra loro: la prima è il travisamento della virtù tipicamente cristiana dell’obbedienza; la seconda è il discredito gettato sulla Compagnia di Gesù e sul suo fondatore sant’Ignazio di Loyola.

L’obbedienza è una virtù eminente riconosciuta da tutti i teologi e praticata da tutti i santi. Essa ha il suo perfetto modello in Gesù Cristo, di cui san Paolo dice che fu «obbediente fino alla morte, alla morte di Croce!» (Fil. 2, 8). Essere nell’obbedienza significa essere in Cristo (2 Cor 2, 9) e vivere pienamente il Vangelo (Rom 10, 16; 2 Tess. 1, 8). Perciò i Padri e i Dottori hanno definito l’obbedienza come la custode e la madre di tutte le virtù (S. Agostino, De Civ. Dei, Liber XIV, c. 12). Il fondamento dell’obbedienza è la subordinazione ai superiori perché rappresentano l’autorità stessa di Dio. Ma essi rappresentano l’autorità in quanto custodiscono e applicano la legge divina.

Questa legge divina è a sua volta superiore al potere umano degli uomini che hanno il compito di farla rispettare. L’obbedienza costituisce per un religioso la virtù morale più eccelsa (Summa theologica 2-2ae, q. 186, aa. 5, 8). Tuttavia si pecca contro questa virtù non solo per disobbedienza, ma anche per servilismo, uniformandosi a decisioni dei superiori palesemente ingiuste.

Il travisamento dell’obbedienza avviene, sotto il pontificato di papa Francesco, quando i vescovi, o il Papa stesso, abusano della loro autorità, esigendo dai fedeli una sottomissione servile a documenti che inducono all’eresia o all’immoralità. Queste indicazioni pastorali non possono essere accettate. Però la tentazione di chi, in questa confusa situazione, vuole rimanere fermo nella fede è quella di mettere in discussione non l’esercizio abusivo dell’autorità, ma il principio stesso di autorità. Ciò è favorito da una certa tendenza psicologica all’anarchismo che caratterizza le generazioni nate dopo il 1988. Sminuendo il principio di autorità, si smarrisce il significato della virtù dell’obbedienza, con gravi danni alla vita spirituale.

In questa prospettiva si addebitano talora ai Gesuiti colpe che non sono loro, come quella di avere introdotto nella Chiesa una concezione ipertrofica e volontaristica dell’obbedienza religiosa. Si cita a questo proposito l’invito di sant’Ignazio di Loyola alla “cieca obbedienza”, travisando il significato che il fondatore della Compagnia di Gesù dà a questa virtù. La parola “cieca” evoca infatti l’irrazionalità, ma se tra i santi vi è un campione della razionalità questi è proprio sant’Ignazio, i cui Esercizi Spirituali sono un capolavoro di logica, basato sull’applicazione del principio di non contraddizione al campo spirituale e morale dell’esercitando.

L’affermazione di Guglielmo da Ockam, secondo cui è giusto tutto ciò che Dio comanda, ma Dio può comandare anche l’ingiusto (iustum quia iussum), pone le basi del volontarismo di Lutero di cui la concezione ignaziana rappresenta l’antitesi. L’obbedienza cieca a cui sant’Ignazio fa riferimento sarebbe irrazionale se prescindesse dalla ragione che costituisce invece, come egli spiega, il suo presupposto, perché è il risultato di un’attenta e ponderata riflessione (Monumenta Ignatiana (MI), G. Lopez del Horno, Madrid 1903, I, 4, pp. 677-679).

L’obbedienza ignaziana non ha nulla a che vedere con il volontarismo, proprio perché si fonda sulla logica e sul rispetto di una oggettiva legge divina e naturale, alla quale il superiore deve subordinarsi. Sant’Ignazio tratta dell’obbedienza, nelle Costituzioni della Compagnia, nella Lettera sull’ubbidienza indirizzata ai gesuiti del Portogallo il 26 marzo 1553 e in molte altre lettere, come quelle agli scolastici di Coimbra, alla Comunità di Gandia, ai Gesuiti di Roma, ad Andrés Oviedo, al padre Urbano Fernandez.

In questi documenti egli chiarisce bene come l’obbedienza ha dei limiti precisi: il peccato e l’evidenza contraria. Nelle Costituzioni, ad esempio, sant’Ignazio afferma che i Gesuiti devono obbedire al Superiore «in tutte le cose in cui non vi sia peccato» (n. 284); «in tutte le cose che il superiore ordina e nelle quali non si può individuare alcuna sorta di peccato» (n. 547); in tutte quelle «in cui non sia manifesto alcun peccato» (n. 549). Dunque quando l’ordine del superiore induce al peccato, deve essere rifiutato.

Naturalmente si tratta di peccato sia mortale che veniale, ed anche di occasione di peccato, purché chi è posto davanti all’ordine ingiusto ne sia soggettivamente certo. Oltre alla limitazione che proviene dalla volontà, che è il peccato, c’è quella che dipende dal giudizio, come emerge dalla lettera ai gesuiti di Coimbra del 14 gennaio 1548, in cui il fondatore della Compagnia specifica che l’obbedienza vale fino a che «non si entri in cosa che sia peccato o che sia conosciuta come falsa in maniera tale da imporsi necessariamente al giudizio» (MI, I, 1, p. 690).

Questo limite è espresso anche nella Carta dell’Obbedienza in cui il gesuita è invitato a ubbidire «in molte cose in cui non lo forzi l’evidenza della verità conosciuta» (MI, I, 4, p. 674). Il padre Carlos Palmés de Genover s.j., che ha studiato questo tema, commenta: «È chiaro che l’evidenza contraria è un limite naturale dell’obbedienza, per l’impossibilità psicologica di dare il proprio assenso a ciò che si presenta come evidentemente falso» (La obediencia religiosa ignaciana, Eugenio Subirana, Barcelona 1963, p. 239). Se nel peccato il limite è di ordine morale, nel caso dell’evidenza, è di ordine psicologico. L’obbedienza dunque è “cieca” a determinate condizioni e mai irrazionale.

Quando l’evidenza dimostra che un documento pontificio come la Amoris laetitia favorisce il peccato, un vero figlio di sant’Ignazio non può che rifiutarlo e il fatto che sia proprio un figlio di sant’Ignazio ad averlo promulgato, non significa che papa Bergoglio sia un frutto della spiritualità ignaziana, ma dimostra quanto sia vero il detto corruptio optimi pexima. La corruzione intellettuale e morale della Compagnia di Gesù degli ultimi cinquant’anni non deve fare dimenticare i suoi straordinari meriti nel passato.

Tra la Rivoluzione protestante e la Rivoluzione francese i Gesuiti hanno rappresentato l’inespugnabile barriera che la Provvidenza ha levato contro i nemici della Chiesa. E la diga crollò, nel 1773, proprio quando un papa, Clemente XIV, soppresse la Compagnia di Gesù, privando la Chiesa dei suoi migliori difensori. Il padre Jacques Terrien ha svolto una accurata ricerca storica su una tradizione, che rimonta ai primi tempi della Compagnia, secondo la quale la perseveranza nella vocazione all’interno dell’Istituto fondato da sant’Ignazio sarebbe un pegno sicuro di salvezza (Recherches historiques sur cette tradition que la mort dans la Compagnie de Jésus est un gage certain de prédestination, Oudin, Paris 1883).

Tra le numerose testimonianze che il religioso riporta, dai Bollandisti a santa Teresa d’Avila, è di particolare interesse una rivelazione che ebbe nel 1569 san Francesco Borgia, preposito generale dell’ordine. «Dio mi ha rivelato – affermò il santo spagnolo – che nessuno di coloro che sono vissuti, vivono o vivranno nella Compagnia, morendo in essa,  sarà condannato, per lo spazio di trecento anni. E’ la stessa grazia che già fu fatta all’Ordine di san Benedetto» (Terrien, op.cit, pp. 21-22).

Poiché i gesuiti furono fondati nel 1540, il privilegio della salvezza per coloro che sono morti all’interno della Compagnia, si estende fino al 1840, lasciando fuori le generazioni successive. Ed è infatti dalla fine del XIX secolo che inizia la decadenza dell’ordine fondato da sant’Ignazio, anche se con molte eccezioni. Questa decadenza ebbe una significativa espressione negli anni del Concilio Vaticano II, dove un ruolo decisivo venne svolto dal gesuita Karl Rahner, e soprattutto in quelli che ad esso seguirono quando, sotto il governo del padre Arrupe, i Gesuiti promossero, sotto varie forme, la teologia della liberazione in America Latina.

Oggi un Papa gesuita, formato alla scuola della teologia della liberazione, alimenta la crisi nella Chiesa. Per resistere a un’autorità abusivamente esercitata, chiediamo l’aiuto di quei santi gesuiti che negli scritti o nella testimonianza della vita, mostrarono quali sono i limiti dell’obbedienza: da san Roberto Bellarmino, che ricordava come la regula fidei, non sta nel superiore, ma nella Chiesa, al beato Miguel Pro di cui ricorre quest’anno il novantesimo anniversario del martirio, avvenuto a causa della sua resistenza al governo massonico del Messico, il 23 novembre del 1927. 

I commenti sono chiusi.

Crea un sito web o un blog su WordPress.com

Su ↑