Quanto segue è la raccolta di sei brevi interventi da parte del Domenicano Padre Riccardo Barile, pubblicati sul sito di La Nuova Bussola Quotidiana e che vogliamo condividere in una sola pagina per una riflessione di insieme, attenta e ponderata, facendo nostre le sue parole:
Ecco la ragione per la quale il Vetus Ordo va mantenuto, anche se praticato da piccoli gruppi, accolti però con attenzione pastorale. La loro presenza induce a salutari riflessioni sul miglioramento del Novus Ordo o almeno su di uno spirito diverso con il quale celebrarlo.
Le chiacchiere del sottoscritto qui finiscono con la liberante citazione dell’Apostolo: «se in qualche cosa pensate diversamente, Dio vi illuminerà anche su questo» (Fil 3,15).
Riguardo, invece, alla questione grottesca su Traditionis Custodes, vi invitiamo a leggere l’intervista fatta da mons. Nicola Bux e che postiamo al termine di questi articoli.
Passato e futuro del rito “preconciliare” dopo il concilio
Dopo il siluro di Traditionis custodes (2021), il fuoco dell’interesse liturgico si è smorzato. È normale, anche perché altre problematiche come il sinodo sulla sinodalità, le guerre nonché il conclave hanno monopolizzato l’attenzione. Ma sul VO (Vetus Ordo) o Messa “prima del concilio” si sono riaccese timide speranze dopo la liturgia dignitosissima delle esequie del Romano Pontefice Francesco e certi atteggiamenti del Romano Pontefice Leone XIV, che non sono VO, ma che lasciano trasparire uno stile più tradizionale.
Il presupposto è che la Messa in VO è un problema pastorale e spirituale della Chiesa cattolica a prescindere da motivazioni esterne come gli eventuali buoni rapporti con i lefebvriani. Dunque chi pratica il VO dovrebbe avere in testa alcune considerazioni storiche e teologiche per vivere più correttamente questa esperienza. In questo primo intervento si ricostruirà la storia della pratica del VO dall’inizio della riforma liturgica sino ad oggi perché in successione sono emersi diversi criteri teologici e pastorali che possono insegnare qualcosa.
Prima fase: Paolo VI. Molta attenzione verso preti anziani e malati ma inflessibilità nella sostanza.
Promulgato da Paolo VI il primo Messale della riforma liturgica in data 3 aprile 1969, il 20 ottobre 1969 la Sacra Congregazione per il Culto Divino (SCCD) pubblicò l’Istruzione Constitutione apostolica sull’avvio graduale dell’uso del nuovo Messale e alla fine si prescriveva che «I sacerdoti di età avanzata» quando celebrano senza il popolo e si trovano in difficoltà con i nuovi formulari «con il consenso del loro ordinario possono conservare i riti e i testi attualmente in uso» (IV,19: EV 3/1639). Poco dopo la Segreteria generale della CEI il 25.11.1969 rese nota una lettera a firma del padre Annibale Bugnini – sotto l’autorità della Segreteria di Stato e della SCCD – dove si precisava che i vescovi potevano dispensare dall’uso del nuovo Messale «non solo i sacerdoti anziani o cecuzienti, ma tutti coloro che per qualsiasi motivo si trovano in grave difficoltà» senza ricorrere alla Santa Sede (ECEI 1/2243), il tutto ribadito in una successiva notificazione del 14.6.1971 (EV 4/971). È chiaro che la condiscendenza era basata sul presupposto che nel giro di pochi anni i sacerdoti anziani in difficoltà con la nuova Messa sarebbero morti e tutto il mondo cattolico avrebbe celebrato il nuovo rito.
Ma ahimè, c’erano dei sacerdoti non anziani che volevano continuare a celebrare con il VO: mons. Lefebvre e i suoi seguaci. Qui il problema si poneva in modo diverso e Paolo VI fu inflessibile. In una lettera a mons. Lefebvre dell’11.10.1976 scrisse che il divieto del VO era motivato «dal bene spirituale e dall’unità di tutta la comunità ecclesiale», mentre concedendo il VO «daremo libero corso a una nozione della Chiesa e della Tradizione del tutto falsa (notionem Ecclesiae ac Traditionis prorsus falsam induci sineremus)» (Insegnamenti… XIV, pp. 818-819). Viene da pensare al card. Gaetano quando, Legato in Germania, incontrò Lutero ad Augusta nel 1518 e, preso atto di quanto diceva, pronunciò la frase tremenda e profetica: «Sarebbe come fare un’altra Chiesa / Hoc enim est novam ecclesiam construere». Anche per Paolo VI concedere come normale il VO “sarebbe stato come fare un’altra Chiesa”.
Seconda fase: Giovanni Paolo II. Una mano tesa verso Lefebvre e il germe di una nuova prospettiva teorica.
Giovanni Paolo II nel Motu proprio Ecclesia Dei afflicta (2.7.1988) espresse il dolore per lo scisma lefebvriano e con un intento pacificante volle rivolgersi ai fedeli «vincolati ad alcune precedenti forme liturgiche e disciplinari della tradizione latina» e «facilitare la loro comunione ecclesiale, mediante le misure necessarie per garantire il rispetto delle loro giuste aspirazioni» (5,c: EV 11/1203). Per giustificare l’uso del VO in casa cattolica, sostenne che bisognava prendere coscienza «non solo della legittimità ma anche della ricchezza che rappresenta per la Chiesa la diversità di carismi, tradizioni, di spiritualità e di apostolato» (5,a: EV 11/1201). Allora non si badò molto alla giustificazione addotta, la quale ribaltava il criterio di Paolo VI: ora il VO apparteneva alla “diversità di carismi” riconosciuti nella Chiesa e chi voleva praticarlo coltivava una “giusta aspirazione”. Era un piccolo seme teorico, destinato diventare un grande albero nella fase successiva.
Terza fase: Benedetto XVI. Una più ampia liberalizzazione del VO, nuovi fondamenti teorici e una nuova situazione pastorale.
Già negli anni ’80 nell’intervista fattagli da Messori il card Joseph Ratzinger «a titolo personale» ipotizzava la «concessione della liturgia preconciliare» purché si trattasse di qualcosa di straordinario e «venisse riconfermato il carattere ordinario dei riti riformati» (Rapporto sulla fede, pp. 128-129). Divenuto Romano Pontefice con il nome di Benedetto XVI, il 7.7.2007 diede corpo a quanto sopra con il motu proprio Summorum Pontificum (EV 24/1101-1126) accompagnato, alla stessa data, dalla lettera Con grande fiducia, indirizzata a tutti i vescovi (EV 24/1127-1136) e creando una situazione nuova, anche se radicata sulle precedenti concessioni di Giovanni Paolo II.
Anzitutto la possibilità di celebrare in VO fu ampiamente liberalizzata – per brevità tralascio di citare tutte le determinazioni canoniche – e in data 30.4.2011 l’Istruzione Universae Ecclesiae (EV 27/300-339) ampliò ulteriormente queste possibilità.
In secondo luogo furono enunciati due fondamenti teologici, liturgici e canonici che giustificavano la celebrazione in VO: salvo il fatto che il Messale promulgato da Paolo VI resta la forma ordinaria della celebrazione cattolica, il Messale VO di Giovanni XXIII del 1962 è la forma straordinaria dell’unico rito romano e non è mai stato abrogato (e proprio per questo può essere usato con una certa libertà) (Art. 1: EV 24/1107-1108). Due novità assolute ma un discorso scivoloso sul quale prossimamente ritorneremo.
Pastoralmente le due forme avrebbero potuto «arricchirsi a vicenda» e nella celebrazione con il nuovo Messale, se usato con una certa recezione dello stile del VO, «potrà manifestarsi, in maniera più forte di quanto non lo è spesso finora, quella sacralità che attrae molti all’antico uso».
Anche dal punto di vista dei destinatari c’è un allargamento di prospettiva: resta l’anelito al superamento della divisione lefebvriana facendo di tutto «per conservare o conquistare la riconciliazione e l’unità», ma lo sguardo si amplia verso persone di casa cattolica «profondamente ferite dalle deformazioni arbitrarie della liturgia». Infine, quasi estinta la generazione anziana cresciuta con il Messale “prima del concilio” «è emerso chiaramente che anche giovani persone scoprono questa forma liturgica (…) e vi trovano una forma particolarmente appropriata per loro» (Con grande fiducia: EV 24/1130.1132-1133). Questa è la novità non prevista da Paolo VI e da Giovanni Paolo II e nella quale attualmente ci troviamo (cf. il recente pellegrinaggio Parigi-Chartres): non si tratta solo di simpatia per il latino, ma di un modo di pregare e di celebrare, di incontrare Dio e di vivere la realtà della Chiesa e della propria vita spirituale, riscoperto da giovani e da giovani adulti, e dunque di un fenomeno ecclesiale nuovo “a prescindere” da Lefebvre.
Quarta fase: Francesco. Una riorganizzazione restrittiva in vista dell’estinzione delle celebrazioni VO.
«È per difendere l’unità del Corpo di Cristo che mi vedo costretto a revocare la facoltà concessa dai miei Predecessori»: così Papa Francesco nella Lettera di accompagnamento del Motu proprio Traditionis custodes del 16.7.2021, in cui stabilisce che «i libri liturgici promulgati dai santi Pontefici Paolo VI e Giovanni Paolo II, in conformità ai decreti del Concilio Vaticano II, sono l’unica espressione della lex orandi del Rito Romano» (art. 1) – questo smentisce la forma ordinaria/straordinaria di Ratzinger e di nuovo siamo al movimento del pendolo -, passando poi a diverse restrizioni per l’uso del VO. Come mai la marcia indietro? Beh, anche perché in alcuni che usano il VO c’è «il rifiuto della Chiesa e delle sue istituzioni in nome di quella che essi giudicano la “vera Chiesa”» e ovviamente il rifiuto del Vaticano II.
È un ritorno al “discernimento” radicale di Paolo VI, ma in una situazione nuova e più complicata perché qui non si tratta di preti anziani prossimi alla fine, ma anche gi giovani e giovani adulti, i quali però devono essere condotti “alla fine” non della vita ma della Messa in VO. Infatti il Vescovo ««avrà cura di non autorizzare la costituzione di nuovi gruppi» (3 § 6) e voi Vescovi «operare perché si torni a una forma celebrativa unitaria» seguendo quanti «hanno bisogno di tempo per ritornare al Rito Romano promulgato dai santi Paolo VI e Giovanni Paolo II». Dunque la prospettiva è che il VO deve finire.
Quale sarà la fase da oggi in poi?
Difficile rispondere. In questa piccola storia abbiamo constatato che ogni Pontefice si è rapportato in modo differente con il VO. Ma non ci sono solo i pontefici: ci sono persone di ogni età che praticano il VO e che non sono pregiudizialmente contro il Vaticano II, come tanti giovani del pellegrinaggio Parigi-Chartres che erano lì, ma sono stati anche alle cattolicissime e postconciliari GMG.
Il Santo Padre Leone XIV ai partecipanti al Giubileo delle Chiese Orientali in data 14.5.2025 ha detto: «Quanto bisogno abbiamo di recuperare il senso del mistero, così vivo nelle vostre liturgie!». E qui siamo di nuovo di fronte al movimento pendolare perché il “senso del mistero” è espressione impronunciabile da ogni liturgista postconciliare e anche Papa Francesco ha preferito parlare di “stupore” ma di non usare «la fumosa espressione “senso del mistero”» (Desiderio desideravi [29.6.2022], n. 25). Che farà Papa Leone circa la pratica del VO? Non è poi così importante saperlo. È più importante disporre di alcune buone idee sui limiti e sui vantaggi del VO. Quali? Alla prossima.
Quegli equivoci che nuocciono alla “Messa di sempre”
Quanti praticano il VO (Vetus Ordo, la Messa “prima del concilio”) dovrebbero avere in testa e nel cuore alcune valutazioni di fondo per vivere più correttamente questa esperienza, sia per evitare di difendere l’indifendibile o difenderlo con ragioni non valide, sia per un salutare rapporto di mutuo influsso con il Novus Ordo, cioè la Messa e la pastorale oggi correnti, sia per non essere «trasportati qua e là da qualsiasi vento di dottrina» (Ef 4,14). Propongo alcune valutazioni, ovviamente discutibili, che potrebbero essere cinque, iniziando per ora dalla prima e fondamentale.
La Messa in VO è “la Messa di sempre”, spesso si dice e si scrive. No! Non c’è espressione più equivoca di questa e, per certi versi, anche sbagliata. Vediamo perché.
Se ci poniamo dal punto di vista del rito, si notano agli inizi diversità ed evoluzioni. Addirittura alcune formule molto classiche furono introdotte con un certo ritardo, come il Sanctus, che comparve in Oriente verso il sec. IV e in Occidente verso il sec. V, oppure l’Agnus Dei, introdotto nella liturgia di Roma da papa Sergio I († 701). In questo senso la Messa in VO non è “la Messa di sempre”.
Disponiamo di una prima descrizione della Eucaristia in san Giustino († 166) in Apologia I,65-67. A parte la preziosa annotazione: «questo cibo è chiamato da noi “eucaristia”» e noi lo assumiamo «non come pane comune né come comune bevanda», ma come «ci fu insegnato essere carne e sangue del Gesù incarnato» (I,66,1-2), il testo è abbastanza avaro di descrizioni rituali. Prevede sull’altare/mensa tre coppe – pane, acqua e vino misto ad acqua -, la preghiera dei fedeli – poi caduta in disuso – e circa la Preghiera eucaristica così si esprime: colui che presiede «per quanto gli è possibile, innalza preghiere e ringraziamenti e il popolo acclama pronunciando l’Amen» (I,67,5). L’attuale Messa in VO non è esattamente così!
La Tradizione Apostolica (sec. III) ci tramanda il testo di una Preghiera eucaristica che, con modifiche, è servita di modello alla attuale seconda Preghiera eucaristica. Tuttavia il vescovo non deve sforzarsi di ripeterla a memoria, ma «preghi piuttosto secondo le proprie capacità (secundum suam potestate unusquisque oret)», anche se ovviamente la sua preghiera deve essere «corretta e conforme all’ortodossia (tantum oret quod sanum est in orthodoxia)» (c. 9). Questo formulare la Preghiera eucaristica da parte del vescovo “così come può” è un criterio che è all’antitesi delle prescrizioni rituali e dello “spirito” dell’attuale Messa in VO, che in tal caso non può essere “la Messa di sempre”.
Con l’Ordo I (fine sec. VII / inizio sec. VIII) disponiamo di una descrizione minuziosa della messa papale: è un rito complessissimo con molti ministri e popolo, non comporta l’elevazione e le genuflessioni, addirittura prevede che prima della comunione un ministro si accosti al papa per ricevere i nomi degli invitati a pranzo e comunicarli immediatamente agli interessati e contemporaneamente la stessa scena con il vicedominus (una sorta di segretario di stato) e i suoi invitati (nn. 98-99). Impensabile una scena del genere nella Messa in VO, anche in forma solenne!
Invece il modello rituale dell’odierna Messa in VO incomincia con l’Ordo Missae secondo la Curia Romana nel sec. XIII.
Il papa non può celebrare tutti i giorni una Messa ritualmente solenne, per cui si costituisce un rito più breve che, con qualche ritocco, sarà il Messale tridentino di san Pio V del 1570 e con qualche altro ritocco il Messale di Giovanni XXIII del 1962, attualmente in uso per chi pratica il VO. All’inizio questa Messa è celebrata nel Sancta Sanctorum del Laterano, residenza dei papi sino al 1309, cioè sino all’esilio avignonese, un’area quadrata il cui pavimento misura più o meno 7 metri per lato. La struttura base del rito è la Messa semplice di un solo sacerdote, con aggiunte qua e là in caso di Messa conventuale o Messa solenne; non si menzionano l’omelia, la preghiera dei fedeli, la comunione dei fedeli. I Francescani adottarono e diffusero questa Messa – non i Domenicani che elaborarono un loro rito –, che divenne comune in tutta la Chiesa latina. Inutile descriverla perché sostanzialmente corrisponde all’attuale VO.
Se, al di là dei precedenti storici del rito, ci si pone al livello della comunicazione, l’espressione “la Messa di sempre” risulta problematica.
Infatti, come spesso viene pronunciata da chi è convinto e come viene intesa da chi magari è lontano o polemico, lascia intendere che la Messa nata dalla riforma liturgica e attualmente in uso… non sia la Messa di sempre! E se la Messa attuale non è la Messa di sempre è una Messa falsa, o non tradizionale, o per lo meno deviante. Ciò probabilmente il più delle volte non è inteso da quanti pronunciamo questa espressione, ma il più delle volte è ciò che viene recepito dai destinatari al di fuori del giro.
Sarà utile tener presente due citazioni che sanciscono che anche quella uscita dalla riforma del Vaticano II è “la Messa di sempre”.
Il card. Giuseppe Siri († 1989), sollecitato a farsi quasi capofila di una cordata di contestazione al nuovo rito della Messa, così rispose (proprio lui, il principe dei tradizionalisti!): «Il Novus Ordo non può essere multato di eresia. Il potere col quale san Pio V ha fissata la sua riforma liturgica è lo stesso potere di Paolo VI. L’aver riformato l’ordo implica la sua sostituzione all’antico. Noi dobbiamo obbedire. Ci sono questioni ben più gravi nella Chiesa: questa non ha rilevanza alcuna» (Lettera a R. Bellowood del 6.9.1982 in: Nicla Buonasorte, Siri Tradizione e Novecento. Il Mulino, Bologna 2006, p. 341).
A sua volta Papa Ratzinger, nella Lettera del 7.7.2007 che accompagnava il motu proprio Summorum Pontificum – in cui aveva solennemente ribadito che l’attuale Messale è la forma ordinaria della lex orandi della Chiesa cattolica di rito latino –, precisò ulteriormente che «per vivere la piena comunione anche i sacerdoti delle Comunità aderenti all’uso antico non possono, in linea di principio, escludere la celebrazione secondo i libri nuovi. Non sarebbe infatti coerente con il riconoscimento del valore e della santità del nuovo rito l’esclusione totale dello stesso» (EV 24/1134).
Dunque “la Messa di sempre” è garantita dalla continuità del carisma/potere dei Pontefici che hanno approvato le diverse forme rituali e quelle in vigore esigono non solo un atto di obbedienza, ma di comunione partecipativa.
In conclusione, qualificare l’odierno VO come “la Messa di sempre” è assolutamente sbagliato? No, assolutamente parlando ci può essere un senso accettabile. La prima condizione è che con “la Messa di sempre” non si intenda indicare una stretta continuità storica/rituale, ma nell’attuale VO questa continuità parta dal sec. XIII, cioè dall’Ordo della Messa secondo la Curia Romana.
Scartato il concetto di una identità storica/rituale, la seconda condizione è di lasciar intendere che anche la Messa uscita dalla riforma liturgica dopo il Vaticano II è “la Messa di sempre” per le ragioni indicate poco sopra.
La terza condizione è che con il VO come “Messa di sempre” si intenda sottolineare una più intensa continuità con una forma di accostamento a Dio e celebrazione dei misteri in fondo comune a Oriente e Occidente nell’antichità e anche nel secondo millennio e che si riscontra un po’ meno nella Messa riformata dopo il Vaticano II e che è una delle ragioni per mantenere in vita – per ora – il VO.
Ma è chiaro che quelli di cui sopra sono dei concetti rarefatti e delle sottili distinzioni che nel linguaggio comune anche ecclesiale abitualmente non vengono percepiti, per cui l’espressione viene fatalmente intesa nel suo senso contrappositivo e peggiore. Per cui, per la buona salute dell’attuale VO, è meglio non usare una simile espressione. Coraggio, ci sono altre quattro valutazioni. Alla prossima.
Quattro aspetti da chiarire sulla Messa in rito antico
Dopo la prima valutazione della volta scorsa, ecco le altre quattro da tenere presente sul VO (la Messa “prima del concilio”).
La Messa del VO (Messale 1962) non è mai stata abolita?
Così scrisse e disse Papa Ratzinger: il Messale del 1962 non fu «mai abrogato» (Summorum Pontificum, art. 1: EV 24,1108). Affermazione difficile da sostenere, poiché cozza contro il can. 20 del CJC: «La legge posteriore abroga la precedente (…) se lo indica espressamente (…) oppure riordina integralmente tutta quanta la materia della legge precedente» e il Vaticano II ha inteso proprio “riordinare integralmente” la liturgia e le singole celebrazioni: «la santa Madre Chiesa desidera fare un’accurata riforma generale della liturgia» (SC 21).
Se il Messale del 1962 non era mai stato abrogato, bisognava dargli un inquadramento nella attuale liturgia e Papa Ratzinger coniò la nuova categoria di espressione o forma ordinaria della preghiera della Chiesa (il Messale attuale) ed espressione o forma straordinaria della stessa (il Messale del 1962) (EV 24,1107). Anche questa seconda categoria risulta alquanto artificiale, tanto che Papa Francesco in Traditionis custodes l’ha eliminata stabilendo che gli attuali libri liturgici sono «l’unica espressione della lex orandi del Rito Romano» (art. 1).
Tutto sarebbe stato molto più semplice se Benedetto XVI si fosse limitato a mettere in piedi delle norme giuridiche che regolamentassero l’uso del Messale precedente senza giustificarle con spiegazioni teoriche, perché queste ultime si prestano di più ad essere criticate e contestate. Così in genere agiscono gli uomini di governo. Ma Ratzinger, che era un intellettuale – anzi un professore –, non poteva resistere alla tentazione di spiegare… e con molta simpatia glielo perdoniamo.
Ciò significa che anche oggi la celebrazione in VO può senz’altro continuare, ma basandosi su di una concessione giuridica di fatto senza che i suoi sostenitori difendano categorie indifendibili. In fondo, se la legge della Chiesa ritiene il VO possibile e praticabile, è perché lo giudica in qualche modo utile e positivo o per lo meno non negativo e questo basta. Certamente resta vero che quanto «per le generazioni anteriori era sacro, anche per noi resta sacro e grande» (Ratzinger, Lettera di accompagnamento a Summ. Pont.: EV 24/1134), ma questo vale come ascolto della tradizione e principio ispiratore, non come liceità di praticare forme rituali del passato e non solo del 1962, ma – perché no? – anche del II o III secolo o dell’anno 1000…
La Messa del VO nella forma semplice è soprattutto una Messa “per il prete” e un po’ meno “per il popolo”.
Ciò deriva dalla sua origine storica di Messa feriale per il Papa in un ambiente relativamente piccolo e con la presenza di alcuni della curia e quindi senza la necessità di coinvolgere il popolo. Ancora oggi ogni presbitero che celebra questa Messa può sperimentare che in un certo senso è “fatta per lui”, per plasmare i suoi sentimenti di fede e di adorazione attraverso una precisa ritualità e introdurlo sempre di più nel mistero. Questo non è tuttavia un limite assoluto, in quanto il prete celebrante a sua volta comunica ai fedeli uno stile. Ci ritorneremo.
La Messa del VO non ha una ritualità sufficientemente distinta per i due poli (Liturgia della Parola e Liturgia Eucaristica) e, soprattutto per il primo polo, è inadeguata.
Ciò deriva da quanto sopra, e cioè da essere soprattutto una “Messa per il prete”, che quindi legge all’altare Epistola e Vangelo dando le spalle al popolo. Anzi, storicamente nella Messa solenne con vari ministri prevalsero considerazioni allegoriche e si arrivò a leggere/cantare l’Epistola rivolti verso l’altare e dando le spalle al popolo in quanto l’Epistola e il lettore rappresentavano il Battista che annunciava Cristo simboleggiato dall’altare; a volte si arrivò a leggere/cantare il Vangelo contro la parete nord in quanto Cristo con la sua predicazione dirada le tenebre (cf. Mt 4,12-16).
In ogni caso, già prima della promulgazione del Messale “dopo il concilio” la Sacra Congregazione dei Riti in data 26.9.1964 aveva stabilito che «nelle Messe con partecipazione di popolo, le Letture, l’Epistola e il Vangelo si leggano o si cantino verso il popolo» (n. 49: EV 2/259). Poi, nello spirito di comprensione, Summorum Pontificum aveva stabilito che nel VO le letture “potevano” essere proclamate in lingua vernacola (Art. 6: EV 24,1117), mentre oggi Traditionis custodes stabilisce che “siano” proclamate in lingua vernacola (Art. 3, § 3).
Prima di diventare Benedetto XVI, il card. Ratzinger era già convinto di questo, e cioè che la liturgia cristiana dall’inizio aveva «due luoghi. Il primo è quello della liturgia della parola, al centro dello spazio, nel quale i fedeli sono radunati introno al bema, una sorta di tribuna su cui si trovavano il trono dell’Evangelo, il seggio episcopale e il leggio. La liturgia eucaristica vera e propria ha il suo luogo nell’abside, presso l’altare, che i fedeli circondano, rivolti tutti, con il celebrante, verso oriente, al Signore che viene» (J. Ratzinger, Introduzione allo spirito della liturgia. San Paolo, Cinisello Balsamo 2001, p. 69), per cui nella attuale riforma era importante «tornare a distinguere con chiarezza il luogo della liturgia della parola rispetto alla liturgia eucaristica vera e propria, dal momento che qui si tratta effettivamente di un discorso e di una risposta e, quindi, ha anche senso che stiano uno di fronte all’altro colui che annuncia e coloro che ascoltano» (p. 77).
Oggi nelle celebrazioni del VO si cerca in diversi modi di provvedere a quanto sopra. Con ciò non si vuol sostenere che bisogna stravolgere la ritualità del VO, ma semplicemente che quanto alla Liturgia della Parola bisogna essere coscienti dei limiti storici di tale ritualità e non proporla oggi come normale e ideale.
Non si può tornare indietro, però…
«Non possiamo tornare a quella forma rituale che i Padri conciliari, cum Petro e sub Petro, hanno sentito la necessità di riformare, approvando, sotto la guida dello Spirito e secondo la loro coscienza di pastori, i principi da cui è nata la riforma. I santi Pontefici Paolo VI e Giovanni Paolo II approvando i libri liturgici riformati ex decreto Sacrosancti Œcumenici Concilii Vaticani II hanno garantito la fedeltà della riforma al Concilio» (Papa Francesco, Desiderio desideravi [29.6.2022], n. 61).
Verissimo, non si può tornare indietro ed è illusorio auspicare che la normalità di oggi sia il VO di ieri, per il fatto che l’attuale atto di trasmettere la tradizione implica anche di trasmettere il Vaticano II e quanto è maturato dopo.
Ciò detto, resta un però… La guida dello Spirito Santo, evocata sopra per i padri conciliari, e le approvazioni papali dei libri liturgici a garanzia della fedeltà al concilio non sono da mettere in dubbio, ma, soprattutto per la fase della riforma postconciliare, le approvazioni non bastano a garantire che si sia proceduto al meglio.
Il Vaticano II infatti stabilì che nella riforma della liturgia «le nuove forme scaturiscano in maniera in qualche modo organica da quelle già esistenti» (SC 23) e a questo punto ci si può domandare: quanto nelle nuove forme è scaturito dalle precedenti? quanto della Messa “prima del concilio” è passato nella Messa “dopo il concilio”? Certamente è passato quanto nella Messa c’è di essenziale e sostanziale e alcuni riti sono stati decisamente migliorati, non soltanto la Liturgia della Parola ma anche tanti altri, ad esempio l’incongruenza dell’Ite Missa est che precedeva la benedizione finale.
Ma resta un sospetto, e cioè che quanti hanno messo mano al lavoro di riforma, pur senza mai proclamarlo solennemente, adottassero il criterio della prima antichità come periodo aureo al quale, più o meno dall’età carolingia (sec. VIII in avanti) fosse succeduto un periodo di continua involuzione per cui bisognava espungere tutto ciò che si era introdotto nei termini di maggior simbolismo rituale ed espressivo/teatrale come inchini, baci all’altare, segni di croce, formule di adorazione che comprimevano troppo la bassezza umana ecc. Ovviamente la condivisione del criterio era di diverso grado negli interessati e alla fine si riconosceva che non proprio tutto era negativo, però…
Bisognerebbe invece ribaltare il criterio e considerare se un certo stile e certi riti entrati dopo la prima antichità non siano stati invece una maturazione provvidenziale, ad analogia del pensiero greco e del diritto romano che entrarono nel pensiero e nell’agire della Chiesa. Ovviamente tutto questo da non accettarsi al 100%, ma con un discernimento variabile, che però non comporti una pregiudiziale svalutazione. Il che significa che si potrebbe immaginare – sognare? – l’attuale Messa della riforma postconciliare al cui interno certe formule e certi riti del VO potrebbero essere recuperati. Quali? Alla prossima.

Una Messa da sogno ovvero il Vetus Ordo nel Novus Ordo
“I have a dream / Io ho un sogno”: così Martin Luther King il 28.08.1963 e da allora personaggi importanti e profetici anche nella Chiesa cominciarono a sognare, come il card. Martini che nel discorso di sant’Ambrogio 1996 esclamò: «Alla fine del millennio lasciateci sognare!». Di recente sono apparsi “sogni liturgici”: reinventare nuovi canoni come negli anni ’70 e ’80, rivedere il linguaggio di orazioni e prefazi in modo esistenziale, evitare di rivolgerci a Dio come “Maestà” dal momento che siamo figli, postulare «un vero laboratorio (…) che dia inizio a una riforma liturgica, senza paura» (E. Bianchi in VP 2025/01, p. 51). Tutti sogni progressisti e quindi ben accolti.
Più difficile invece nella Chiesa è sognare un futuro che recuperi un passato perduto. E tuttavia, come di fronte alla proposta di eliminare l’Orate fratres, Paolo VI osservò: «Sarebbe una gemma perduta» (Annibale Bugnini, La riforma liturgica. CLV Edizioni liturgiche, Roma 1997, p. 376), allo stesso modo vorrei qui andare alla riscoperta di alcune “gemme” della Messa Vetus Ordo “perdute” nella Messa Novus Ordo, ma che avrebbero potuto essere inserite senza modificare l’impianto attuale, mantenendo un legame più forte con il rito precedente. Un cammino pericoloso, perché ufficialmente non si dice mai che la riforma ha avuto dei limiti e che potrebbe/dovrebbe essere revisionata; anzi, «la riforma liturgica è irreversibile» (Papa Francesco, Discorso al CAL 24.08.2017) e ancora – roba da far invidia alla Pravda – «è meglio evitare di usare la espressione “riforma della riforma”» (Comunicato della Sala Stampa della Santa Sede: Alcuni chiarimenti sulla celebrazione della Messa, 11.07.2016).
Per cui qui ci si ridurrà a sognare ciò che avrebbe potuto essere la Messa di oggi con una più generosa continuità con la Messa di ieri e limitandosi a pochissimi testi/riti.
Anticipo un’obiezione: ciò che qui si sognerà riguarda per lo più il sacerdote e non il popolo. È formalmente vero, ma sostanzialmente falso, in quanto il sacerdote oggi è rivolto al popolo e con più facilità trasmette ad esso lo “spirito” che viene in lui formato da certe parole che dice e da certi gesti rituali che le accompagnano: il popolo vede e magari anche sente e si imbeve dello stesso spirito senza bisogno di spiegazioni verbali.
All’inizio della Messa VO, dopo le preghiere “penitenziali” ai piedi dell’altare, il sacerdote sale all’altare dicendo sottovoce: «Signore, ti preghiamo, allontana da noi le nostre iniquità perché con mente pura meritiamo di entrare nel Santo dei Santi. Per Cristo nostro Signore. Amen». Poi appena giunto all’altare, inchinato e con le mani giunte su di esso e baciandolo a metà della formula, dice: «O Signore, per i meriti dei tuoi Santi, dei quali qui vi sono le loro reliquie, e di tutti i Santi, ti preghiamo di perdonare con indulgenza tutti i miei peccati».
La seconda formula è difficile da inserire nella Messa attuale perché fa riferimento alle numerose reliquie conservate nella cappella papale del Laterano e in molte chiese di oggi quasi non ci sono più reliquie, ma la prima formula perché non potrebbe anche oggi accompagnare il bacio del sacerdote all’altare appena giunto in presbiterio? Ci sono infatti due cenni preziosi che orientano lo spirito con il quale vivere la celebrazione: la coscienza di entrare nel Santo dei Santi, cioè in comunione con la liturgia del cielo, e la coscienza di dover celebrare con una “mente pura” grazie a una purificazione del Signore che “allontana da noi le nostre iniquità”. Sintonizzando lo spirito su queste due richieste, tutta la presidenza della celebrazione risulterà diversa da tante celebrazioni attuali.
Nulla da modificare nella Liturgia della Parola se non la preghiera del sacerdote prima del Vangelo, si intende in assenza del diacono. Oggi il sacerdote dice: «Purifica il mio cuore e le mie labbra, Dio onnipotente, perché possa annunciare degnamente il tuo santo Vangelo». Una bella preghiera, ma quella del VO è più bella e più ricca.
Infatti così suona: «O Dio onnipotente, purifica il mio cuore e le mie labbra, tu che purificasti le labbra del profeta Isaia con un carbone ardente, perché grazie alla tua misericordia, sia purificato per annunciare degnamente il tuo santo Vangelo». È prezioso il riferimento scritturistico a Is 6,6-7 (messo lì ai tempi di “esilio della Bibbia” e tolto ai nostri tempi quando abbiamo finalmente ritrovato la Bibbia e la lectio divina!), ma anche l’accentuata richiesta di purificazione, che, invocata nella preghiera e tenuta presente nell’omelia, forse cambierebbe qualcosa in meglio. Le parole sono anche rafforzate da una ritualità: «il sacerdote, ritto con le mani giunte, innalza gli occhi verso Dio e, abbassandoli subito e profondamente inchinato, dice in segreto: O Dio onnipotente ecc.». Questa è una gemma perduta che avrebbe benissimo potuto non essere perduta.
Sui riti dell’offertorio c’è molto da dire. Il VO vedeva il pane e il vino non solo presentati, ma offerti con un iniziale senso di sacrificio e ovviamente i testi e la ritualità erano su questa linea. Quando furono proposte le formule attuali “Benedetto sei tu, Signore, Dio dell’universo ecc.”, Paolo VI osservò che esse «non hanno alcuna intenzionalità oblativa», a meno di aggiungere un “che ti offriamo”. Il “Consilium” si espresse in negativo e la resistenza a non introdurre termini di oblatività/sacrificio era motivata dal «non anticipare o sminuire il valore dell’unica vera offerta di Cristo immolato, espressa nel canone». Nonostante ciò il “che ti offriamo” rimase «potendosi provvedere [a mascherarlo: N.d.R.]… con le traduzioni» (!) e infatti la traduzione italiana non dice “offriamo”, ma “presentiamo” (Annibale Bugnini, La riforma liturgica. CLV Edizioni liturgiche, Roma 1997, pp. 375-376).
Invece conservando, ritoccando e semplificando un poco le formule del Vetus Ordo, oggi il Novus Ordo all’offertorio potrebbe essere così: alla presentazione del pane il sacerdote, «elevati gli occhi a Dio e subito abbassati», dice: «Accetta, Padre Santo, Dio onnipotente ed eterno, questa ostia immacolata che ti offriamo per tutti i fedeli circostanti, ma anche per tutti i fedeli cristiani vivi e defunti affinché a noi e a loro procuri la salvezza nella vita eterna» (formula semplificata), poi depone la patena sul corporale tracciando prima con essa un segno di croce orizzontale sul corporale stesso; alla presentazione del calice il sacerdote dice: «O Signore, ti offriamo il calice della salvezza e imploriamo la tua clemenza perché con odore di soavità salga al cospetto della tua divina maestà per la salvezza nostra e di tutto il mondo» e lo depone sul corporale allo stesso modo dell’ostia con la patena. L’“odore di soavità” che accompagna l’offerta può vantare tante citazioni dell’AT, ma anche del NT (Ef 5,2; Fil 4,18). Infine è prevista una sorta di epiclesi con una suggestiva ritualità: il sacerdote «eleva gli occhi, allarga le mani, le porta in alto e congiungendole davanti al petto (movimento circolare)», dice: «Vieni , santificatore, Dio onnipotente ed eterno e benedici [il sacerdote benedice con un segno di croce orizzontale] questo sacrificio preparato per il tuo santo nome».
I gesti rituali che accompagnano le parole, soprattutto per la quasi epiclesi, aiutano ad “entrare nel mistero” più di centomila blà blà blà di spiegazioni. È chiaro che non siamo formalmente nel sacrificio eucaristico del canone, ma i testi/riti sacrificali sono giustificati dal fatto che pane e vino sono nostre “offerte” che simboleggiano molto di più di pane e vino, e sono offerti per essere trasformati e diventare il sacrificio di Cristo e dunque non c’è nulla di strano di esprimere già dall’offertorio questa intenzionalità. E così è bello sognare che sarebbe avvenuto.
Sulle parole e sui riti che gravitano intorno alla comunione, tralascio le questioni sulla mano o sulla bocca, in piedi e in fila o inginocchiati sulla balaustra o su di un banco ad hoc in quanto già ampiamente qui dibattute. Tralascio la suggestione – difficile e da studiare bene – di recuperare l’immissione nel calice di una parte di ostia con la formula «La pace del Signore sia sempre con voi» e tre segni di croce sul calice con il frammento di ostia. Mi riferisco invece alle formule e al modo della comunione del sacerdote, oggi molto brevi: «Il Corpo/Sangue di Cristo mi custodisca per la vita eterna».
Si può per contro sognare che al loro posto per la comunione del sacerdote fossero rimaste le formule e i riti più ricchi del Vetus Ordo. Ad esempio, con qualche ritocco funzionale a non stravolgere il Novus Ordo, prima della comunione il sacerdote fa la genuflessione e dice: «Prenderò il pane celeste e invocherò il nome del Signore», poi tenendo l’ostia in mano traccia un segno di croce su di se stesso dicendo: «Il Corpo del Signore nostro Gesù Cristo custodisca la mia anima [o “mi custodisca”, come il Novus Ordo] per la vita eterna» e assume il Corpo di Cristo. Stessi gesti per il calice, ma con la formula: «Che cosa renderò al Signore per quanto mi ha dato? Prenderò il calice della salvezza e invocherò il nome del Signore. Lodandolo invocherò il Signore e sarò salvo dai miei nemici», formula che per la prima parte risale al Sal 115,12-13 e per la conclusione a 2Sam 22,4 secondo la vulgata (di nuovo, con il concilio abbiamo scoperto la Bibbia, poi ne cancelliamo le citazioni…). Il popolo sarebbe molto edificato al vedere che il sacerdote si segna con l’ostia e con il calice prima di assumere il Corpo e il Sangue e forse molti farebbero la comunione con più profondità di spirito.
Poi prima della purificazione del calice il sogno è che fosse rimasta la bella preghiera del sacerdote: «O Signore, il tuo Corpo che ho assunto e il Sangue che ho bevuto aderiscano alle mie viscere e fa’ che, rinnovato dai tuoi puri e santi sacramenti, non rimanga in me macchia di peccato».
Per finire i sogni, sarebbe bello che la benedizione finale fosse preceduta ancora oggi dalla gestualità del Vetus Ordo: il sacerdote «eleva al cielo gli occhi e le mani, le estende e le ricongiunge, inclina il capo (alla Croce) e dice: Vi benedica ecc.».
Come ognuno se ne avvede, non s’è fatta parola sul canone perché merita un articolo tutto per sé e sappiano i venticinque lettori che entreranno in un paese delle meraviglie. Alla prossima.
Un Canone da sogno ovvero l’antico nel nuovo
Dall’attuale Preghiera eucaristica I (raramente usata) sono spariti inchini, baci e segni di croce. Come sarebbe se si recuperasse almeno una parte della ritualità precedente?
«Chi volesse celebrare con devozione secondo l’antecedente forma liturgica non stenterà a trovare nel Messale Romano riformato secondo la mente del Concilio Vaticano II tutti gli elementi del Rito Romano, in particolare il canone romano, che costituisce uno degli elementi più caratterizzanti» (Papa Francesco, Lettera di accompagnamento a Traditionis Custodes, 16.07.2021). In teoria è verissimo, ma in pratica sembra una barzelletta perché trovare un prete che usi il canone romano, sì, qualche volta capita, ma è merce rara. E tuttavia il sogno di oggi comincia proprio dal canone romano o I Preghiera eucaristica e si ferma qui: gli altri canoni, nuovi, restino come sono, ma come potrebbe essere il canone romano del Novus Ordo se nella ritualità fosse passato qualcosa di più dal Vetus Ordo?
Uno dei primi criteri della riforma fu: «diminuire i segni di croce, i baci all’altare, le genuflessioni, gli inchini e cose del genere» (Annibale Bugnini, La riforma liturgica. CLV Edizioni liturgiche, Roma 1997, p. 337). Si trattava di gesti rituali che per la maggioranza riguardavano il canone e che furono aboliti perché considerati «segni secondari» nati nell’area franco germanica dal sec. VIII/IX in avanti e che rispondevano «a un bisogno nuovo di drammatizzazione e di intensiva visualizzazione dei riti»; gesti rituali esaminati in paragrafi dai significativi titoli: «Nuovo quadro inflazionistico di formule e gesti / Pletora di segni», anche se alla fine si concedeva che il processo «rappresenta anche in certi settori un arricchimento e un progresso, se non altro perché corrisponde a certe attese vive dei tempi» (Vincenzo Raffa, Liturgia eucaristica. CLV Edizioni Liturgiche, Roma 2003, pp. 137.129.136.140). In realtà, cioè che i chierici di allora inventarono per se stessi e che il popolo a stento percepiva, possono rivelarsi oggi nella celebrazione coram populo qualcosa che risponde alle “attese vive” di oggi per una umanità che vive in un’era delle immagini.
Nel Novus Ordo il canone romano dal Vetus Ordo ha conservato il testo, giustamente privo di finali “Per Cristo” ai vari paragrafi. Ha conservato anche alcuni gesti rituali: le braccia allargate, un segno di croce, le mani stese sulle offerte, il levare gli occhi al cielo e i lievi inchini alla consacrazione, l’inchino a mani giunte nel “Ti supplichiamo, Dio onnipotente”. Nelle altre preghiere eucaristiche quest’inchino non c’è perché non c’è il testo, così come nella consacrazione non c’è il levare gli occhi al cielo.
Qui non si sogna di reintrodurre indice e pollici uniti dopo la consacrazione, né i vari “Per Cristo”, né le tante genuflessioni quando si scopre il calice, ma un sogno generale c’è: che i canoni, come stabilito all’inizio, fossero rimasti quattro, mentre così non è successo. Anche perché la moltiplicazione dei canoni ha con sé il rischio di produrre dei canoni tematici di queste o quelle idee, ciò che nel Vetus Ordo è impedito in radice essendo il canone unico. E da qui in avanti è su questo canone unico che ci concentriamo: la Iª Preghiera eucaristica o canone romano.
Tra gli elementi da recuperare dal Vetus Ordo, i più numerosi sono i segni di croce, ma sono anche i più problematici. È difficile provarne l’origine romana. Si sa invece che «Papa Zaccaria nel 751, su richiesta di S. Bonifacio di Baviera, ne inserì l’indicazione nel testo del canone, che il prete Lul, inviato di Bonifacio, aveva con sé» (Raffa, p. 137; cf. Epistola XIII di Papa Zaccaria: PL 89,953), ma forse non era un uso romano. Teologicamente i segni di croce dopo la consacrazione sembrarono benedizioni consacratorie fuori luogo. Innocenzo III († 1216) ammise che «su tale questione io vorrei essere istruito piuttosto che istruire», poi spiegò che «nel canone probabilmente le parole significano [consacrano: N.d.R.] qualcosa e i segni alludono a qualcos’altro» (De sacro Altaris Mysterio V,2). San Tommaso d’Aquino († 1274) scrisse che i segni di croce dopo la consacrazione non sono benedizioni consacratorie, ma «commemorazioni della forza della croce e del modo della passione di Cristo» (III, q 83, a 5, ad 4um).
Risolta questa difficoltà, possiamo serenamente iniziare il sogno.
I gesti rituali recuperabili nel Novus Ordo dal canone romano del Vetus Ordo sono: un movimento delle mani più ricco, tanti segni di croce, due baci all’altare, un inchino profondo, le braccia in forma di croce. Eccoli di seguito, come un sogno dopo l’altro.
> Il Prefazio comporta attualmente tre movimenti ascensionali: allargare le braccia (Il Signore sia con voi), alzare le mani (In alto i nostri cuori), allargare le braccia (Rendiamo grazie al Signore nostro Dio). Il sogno è di disporre della gestualità del Vetus Ordo che comporta un movimento più vario: mani sull’altare al Dominus vobiscum, mani elevate al Sursum corda, mani giunte e inchino di capo al Gratias agamus e mani estese per il resto del Prefazio.
> Inizio del canone: “Te igitur clementissime Pater / Padre clementissimo”. All’inizio il Vetus Ordo prevede che il sacerdote, «estendendo ed elevando alquanto le mani e poi congiungendole ed elevando gli occhi al cielo e poi abbassandoli, si inchini profondamente all’altare con le mani su di esso e dica» le prime parole del canone baciando poi l’altare e tornando in postura eretta. Questa gestualità si potrebbe recuperare collocando il bacio non all’interno del testo, ma subito dopo l’inchino, essendo il bacio un «attingere da Cristo, di cui l’altare è simbolo, quella grazia di benedizione alla quale accennano le formule» (M. Righetti, Storia liturgica III. Ancora, Milano 1998, p. 453). Con questo inizio gestuale il canone sarebbe vissuto più in profondità di come è vissuto adesso.
Poi nelle parole che seguono, invece dell’attuale unico segno di croce – lasciato forse per non sembrare di averli tolti tutti! -, il sogno è di recuperare i tre segni di croce su «benedire questi + doni, queste + offerte, questo + sacrificio puro e santo».
> Poco prima della consacrazione, al “Quam oblationem / Santifica, o Dio”, il sogno è di recuperare i tre segni di croce su ostia/calice uniti e i due segni di croce su ostia e calice separati. L’ideale sarebbe che la traduzione italiana si uniformasse di più al latino, comunque con l’attuale traduzione si potrebbe procedere così: «Santifica, o Dio, questa offerta con la potenza della tua benedi+zione, e degnati di accettarla a nostro fa+vore in sacrificio spiri+tuale e perfetto, perché diventi per noi il Cor+po (solo sull’ostia) e il San+gue (solo sul calice) ecc.».
> Alla consacrazione è meno opportuno riprendere il segno di croce sull’ostia e sul calice alla parola “benedixit”, resa correttamente dalla traduzione italiana non con “benedisse” ma con “rese grazie”, perché un gesto del genere provocò e provocherebbe un cortocircuito teologico che per brevità tralascio di spiegare.
> Subito dopo la consacrazione a “Unde et memores / In questo sacrificio” il sogno è di riprendere la postura delle braccia estese in forma di croce, tuttora presente nel Vetus Ordo ambrosiano e negli antichi riti domenicano, certosino e altri. Ovviamente il gesto – spiega san Tommaso – rappresenta «l’estensione delle braccia di Cristo in croce» (III, q 83, a 5, ad 5um).
Poi di riprendere di nuovo tre segni di croce su ostia/calice uniti e i due segni di croce su ostia e calice separati, così: «(…) tra i doni che ci hai dato, la vittima pu+ra, san+ta, imma+colata, pane + santo (solo sull’ostia) della vita eterna, calice + (solo sul calice) dell’eterna salvezza.
> Al “Supplices te rogamus / Ti supplichiamo, Dio onnipotente”, recuperare un bacio e tre segni di croce, così: il sacerdote inizia profondamente inchinato e con le mani giunte sull’altare e dopo «su tutti noi che partecipiamo di questo altare» bacia l’altare e tornando in posizione eretta traccia due croci alle parole: «comunicando al santo mistero del Cor+po (solo sull’ostia) e San+gue (solo sul calice) del tuo Figlio ecc.».
> Verso la fine del canone altri tre segni di croce sono recuperabili al «Per Cristo Signore nostro tu, o Dio, crei e santi+fichi sempre, fai + vivere, bene+dici e doni al mondo ogni bene».
> Ultimo sogno: La conclusione “Per + ipsum, et cum + ipso, et in + ipso / Per Cristo, con Cristo e in Cristo” nel Vetus Ordo prevede i tre segni di croce indicati, ma con l’ostia sul calice e, alle parole che seguono, altri due segni di croce con l’ostia che il sacerdote traccia nello spazio tra se stesso e il calice, concludendo il tutto con una piccola elevazione (elevans parum) del calice con l’ostia. Trasferire questa gestualità nella conclusione dell’attuale canone, trasformando la piccola elevazione nella grande elevazione attuale e auspicabilmente il tutto in canto sarebbe una conclusione efficacissima a livello segnico, ma un poco complessa per molti “presidenti” – il Vetus Ordo del venerabile rito ambrosiano prevede una ritualità ancora più complessa usando anche la patena –, dovendo coordinare i gesti con il canto, per cui qui mi limito a sognarla con un “oppure”, cioè “per chi ci riesce”.
Chi è riuscito a leggere fin qui, può immaginarsi/sognare una preghiera eucaristica così verso il popolo, con gli inchini, i segni di croce e i baci assecondanti il ritmo delle parole. Il canone sarebbe un’altra cosa. Ma questo sogno potrebbe rivelarsi un veleno mortale per il canone romano che quasi più nessuno, ridotto così, userebbe. Per cui un più realistico sogno è che la Iª Preghiera eucaristica resti com’è e in un futuro Messale o in un fascicolo separato si affianchi un “secondo modo” con le variazioni rituali sopra riportate.
Infine non ci si può fermare all’estetica perché se “Vissi d’arte” funziona per Floria Tosca, per un cristiano ci vuole qualcosa di più e vi sono alcune questioni trasversali fin qui non sviluppate ma con le quale il discorso dovrà essere concluso perché, come si esprimeva l’Alfieri, “abbia [il discorso] ornato pieno”. Alla prossima.
Conclusioni trasversali sull’antica e la nuova liturgia
Silenzio, mistero, partecipazione, concelebrazione, adorazione, orientamento, gestualità: tiriamo le somme sui punti di forza e i limiti del rito pre-riforma liturgica e di quello successivo. Che possono migliorarsi vicendevolmente.
Le presenti considerazioni conclusive si situano a livello del Vetus Ordo così come è, a prescindere da che cosa farà Papa Leone XIV e che cosa provocheranno le “scoperte” di Diane Montagna.
Le varie forme della Messa. Stando al Messale 1962, il Vetus Ordo distingue la Messa letta dalla Messa in canto; quest’ultima può essere semplicemente “cantata” (con il solo sacerdote), “solenne” (con l’assistenza di vari ministri), “pontificale” (con un vescovo celebrante) (Rubricae Generales III, 271). Anche il Novus Ordo in OGMR 112ss. enumera diverse forme di Messa con la novità della concelebrazione, assente nel Vetus Ordo, mentre sarebbe opportuna in occasione di raduni numerosi. Non sarà semplice costruire tale rito, comunque il problema c’è.
Il silenzio oggi risulta minimo nella prassi del Novus Ordo nonostante le indicazioni dell’OGMR 45 e spesso la celebrazione è un bombardamento continuo di parole.
Al contrario il Vetus Ordo assicura molti spazi di silenzio mentre il rito continua a svolgersi. Il momento più silenzioso è il canone, pronunciato «secreto dicens / dicendo in segreto». Alcune motivazioni di questo “segreto” non sono più sostenibili. San Tommaso d’Aquino spiega che il canone viene detto in segreto perché «riguarda qualcosa che spetta al solo sacerdote, come l’oblazione e la consacrazione», però annota che il sacerdote prima delle parole in segreto risveglia l’attenzione del popolo con “Il Signore sia con voi” o altre formule e alla fine il popolo interviene con l’assenso dell’Amen (III, q 83, a 4, ad 6um). È noto poi che in antico il canone non era in segreto: Sant’Agostino rivolgendosi ai fedeli dice: «(…) subito dopo (viene) quel che si fa nella santa orazione che voi ascolterete, in cui, mediante la parola, si fa presente il corpo e il sangue di Cristo» (Discorso 229,3) e Giustiniano nella “novella” del 26.03.565 ordinava a vescovi e preti di proclamare il canone «non in secreto, sed cum ea voce quae a fidelissimo populo exaudiatur».
Se oggi nel Vetus Ordo il canone continua in segreto bisogna osservare questo silenzio e non coprirlo di musiche o canti. Ma più decisivo è che di questo segreto non se ne faccia un assoluto mentale perché non risale alla prima tradizione.
Il nodo irrisolto dell’orientamento riguarda sia il Vetus che il Novus Ordo, in quanto entrambi, in modo specularmente opposto, hanno una soluzione assoluta: quasi sempre verso il popolo nel Novus Ordo, quasi mai verso il popolo nel Vetus Ordo.
La questione – posta con forza dal card. Ratzinger in Introduzione allo spirito della liturgia, pp. 70ss. – fu affrontata in modo polemico e contrappositivo, cioè ideologico, mentre in un libro francese già nel 1993 Paul De Clerck, senza mettere in discussione la riforma liturgica, auspicava che per alcune preghiere il presidente e gli altri si rivolgessero verso un polo escatologico o di gloria (ed. italiana: L’intelligenza della liturgia, LEV 1999, pp. 153-156).
Ma anche nel Vetus Ordo non tutto è così fisso come sembrerebbe, perché sarebbe opportuno che le letture fossero rivolte al popolo e nel Messale del 1962 troviamo scritto che «se l’altare è ad oriente, verso il popolo, il celebrante, rivolta la faccia al popolo, non si gira dando le spalle all’altare quando dice Dominus vobiscum, Orate fratres, Ite, missa est o quando deve dare la benedizione» (Ritus servandus… V,3). Vi sono infatti chiese antiche dove l’altare non è contro la parete ed è volto ad oriente e ciò significa di fatto celebrare di fronte al popolo.
Ebbene, questi spunti richiederebbero forse una piccola conversione a entrambi gli Ordines.
Nel Novus Ordo il sacerdote potrebbe rivolgersi ogni tanto verso un polo di gloria e in questa postura proclamare il canone dopo aver spiegato ai fedeli che tutti insieme ci si rivolge verso Cristo glorioso e la Gerusalemme del cielo. Anche solo due o tre volte all’anno, sarebbe una formazione liturgica per i fedeli.
Nel Vetus Ordo si potrebbe celebrare coram populo e con il canone in forma udibile e i tanti segni rituali del celebrante entrerebbero nel cuore degli astanti per rimanervi stabilmente anche quando non saranno visibili.
Inserimento in una realtà pastorale. Giustamente Traditionis custodes richiede che per le celebrazioni del Vetus Ordo il vescovo nomini un sacerdote il quale «abbia a cuore non solo la dignitosa celebrazione della liturgia, ma la cura pastorale e spirituale dei fedeli» (§ 4). Inoltre nel Messale 1962 si richiede una attiva partecipazione dei fedeli (cf. Rubricae Generales… I,272) rimandando a una Istruzione della Sacra Congregazione dei Riti del 3.9.1958, la quale esortava i fedeli a cantare le risposte al sacerdote, l’ordinario della Messa, le parti proprie della Messa.
Tutto questo richiede sforzo e continuità, impossibili con partecipazioni saltuarie o dilazionate. Se il minimo è partecipare alla Messa Vetus Ordo ogni tanto, la normalità è la partecipazione settimanale (in una parrocchia che la preveda alla domenica). L’ottimo è parteciparvi quando è celebrata da comunità religiose o monastiche che abitualmente pregano in Vetus Ordo. Enzo Bianchi – con un coraggio da cuor di leone… XIV – riconosce che «sono comunità vive, piene di zelo» e, se ce n’è una, «occorre che ci sia chi la risvegli, chi la sostenga, chi la indichi come luce che splende su tutti» (VP 2025/07, p. 55). Ad esempio, la Fraternità di San Vincenzo Ferreri a Chémeré-le-Roi in Francia, costituita da ex domenicani e approvata nel 1988 e praticante l’antico rito domenicano, è ricca di iniziative apostoliche anche su internet e addirittura alcune famiglie avrebbero cercato di dimorare vicino per creare come una seconda comunità allargata di laici che vivano in modo diverso lo stesso carisma. Qui non ci si limita all’estetica o al gusto del silenzio, ma c’è un cammino spirituale che ogni celebrazione in Vetus Ordo dovrebbe perseguire.
Il Vetus Ordo, attraverso le parole e la corporeità delle rubriche, ha una sua specificità verso il sacro, il mistero, il santo, l’adorazione.
Appena si nominano parole come sopra, qualcuno insorge e in parte ha ragione, perché è vero che esiste anche un “fumoso” senso del mistero. Tutto sta a non partire da Rudolf Otto († 1937), cercando nel Vetus Ordo il numinoso, che è anche tremendo, misterioso, affascinante. Partiamo invece dalla pesca miracolosa, dopo la quale «Simon Pietro si gettò alle ginocchia di Gesù, dicendo: “Signore, allontanati da me perché sono un peccatore”» (Lc 5,8) o da Gesù che mentre benediceva gli apostoli «veniva portato su, in cielo. Ed essi si prostrarono davanti a lui» (Lc 24,51-52). Ecco il primo atto liturgico dopo l’Ascensione di Gesù: una prostrazione!
Così il Vetus Ordo ispira un particolare “senso del sacro” per l’esigenza che oggi per incontrare Dio è necessario uno spazio, alcuni tempi, alcune parole e gesti separati dal mondo comune. È «una necessità teologica, proveniente dalla convinzione che il mondo così com’è non è nello stato originario voluto da Dio e neppure nello stato definitivo di gloria» (Giacomo Biffi, Il quinto evangelo. ESD, Bologna 2008, p. 78) sino a che non saremo nella Gerusalemme celeste dove non ci sarà più «alcun tempio» (Ap 21,22).
Il Vetus Ordo ispira anche il “senso del mistero”, cioè l’agire salvifico di Dio rivelato dalle parole di Cristo (cf. Mt 13,11) e per mezzo dello Spirito Santo (cf. 1Cor 2,7.10ss.), cioè la volontà di Dio (cf. Ef 1,9). Mistero che è anche conoscenza della vita intima di Dio uno e trino, che è «ineffabile, incomprensibile, invisibile, inafferrabile» (Liturgia di san Giovanni Crisostomo, Anafora: CCC 42) e che non è né assurdo né numinoso, perché è la proiezione infinita di quanto già ora conosciamo con la ragione e con la fede.
Il Vetus Ordo ispira la “santità”, che appartiene solo a Dio, ma è comunicata a noi (cf. 1Pt 1,15-16) da Gesù il Santo di Dio (cf. Mc 1,24; Lc 1,35; Gv 6,69; Ap 3,7), che con il suo sacrificio è entrato nel Santo dei Santi e in lui ci fa entrare nel santuario celeste (cf. Eb 9,3.11-12; 10,19-20).
Il Vetus Ordo pratica l’adorazione, presente nel NT come prostrazione/adorazione negli incontri con il Gesù storico (cf. Mt 8,2; 9,18; 14,33; 15,25; 20,20; Lc 17,16; Gv 9,38) e risorto (cf. Mt 28,9.17; Lc 24,52), nella vita carismatica della comunità (cf. 1Cor 14,25), nella liturgia celeste e dunque in paradiso (cf. Ap 4,10; 5,14; 7,11; 11,16; 14,7; 15,4; 19,4; 22,3).
Ma tutto questo non c’è anche nel Novus Ordo? Sì, c’è, perché anche il Novus Ordo è “la Messa di sempre”.
Tuttavia nel Vetus Ordo c’è qualcosa di più. C’è una riverenza e uno stupore «che scaturisce dal sapersi alla presenza della maestà di Dio», come Mosè ed Elia, «che non osarono guardare Iddio facie ad faciem», sostenuto, come nelle liturgie orientali, da «bellissime preghiere con le quali il sacerdote esprime il più profondo senso di umiltà e di riverenza di fronte ai santi misteri» (Giovanni Paolo II, 21.9.2001: EV 20/1808).
Ed oltre alle “bellissime preghiere” ci sono le rubriche, molto precise, che modellano la gestualità corporale del sacerdote inducendo in lui un atteggiamento spirituale che passa nei fedeli. Molto più del Novus Ordo, il Vetus Ordo ricorre al linguaggio del corpo, che, essendo espresso dalle rubriche, viene percepito oggi dai più come una camicia di forza, mentre è il modo normale di educare lo spirito del sacerdote e dei fedeli e di meglio far risaltare il sacro, il santo, il mistero, l’adorazione. Ciò che non capita quando gli “oppure” sono troppi.
Ecco la ragione per la quale il Vetus Ordo va mantenuto, anche se praticato da piccoli gruppi, accolti però con attenzione pastorale. La loro presenza induce a salutari riflessioni sul miglioramento del Novus Ordo o almeno su di uno spirito diverso con il quale celebrarlo.
Le chiacchiere del sottoscritto qui finiscono con la liberante citazione dell’Apostolo: «se in qualche cosa pensate diversamente, Dio vi illuminerà anche su questo» (Fil 3,15).
L’intervista – cancellata brutalmente insieme al Blog di Messa in Latino che è stato rimosso, vergognosamente, da Google – di Mons. Bux
A seguito della bomba mediatica ecclesiastica dell’articolo di Diane Montagna dell’1 luglio che denunciava autentiche falsità di Papa Francesco nel Motu Proprio “Traditionis Custodes” che, contrariamente a quanto detto dai vescovi di tutto il mondo che si dichiaravano soddisfatti della liberalizzazione della Messa Tradizionale, affermava la contrarietà dei Vescovi al Motu Proprio Summorum Pontioficum e la divisività della Messa di san Pio V e ne limitava draconianamente la celebrazione, è uscito a tempo di record il testo completo a firma Mons. Nicola Bux e Saverio Gaeta che riporta i documenti, gli antefatti, il contesto e i fatti che hanno condotto allo svelamento dell’autentico imbroglio di Papa Bergoglio. Abbiamo deciso di chiedere a Mons. Nicola Bux come si è giunti a questo e cosa contiene l’Appello finale a Papa Leone XIV. (Luigi Casalini)
- Monsignore, lei descrive la riforma liturgica postconciliare come un chiaro allontanamento dalle intenzioni autentiche del Concilio Vaticano II e della Sacrosanctum Concilium. Secondo lei, quale fu l’errore più grave nell’attuazione concreta della riforma liturgica?
Mettere al primo posto la partecipazione dei fedeli – diventata un ‘diritto’ – invece che i diritti di Dio, che con la sua Presenza rende possibile a noi di entrare in rapporto con Lui: questo è il culto divino: coltivare la relazione con il Signore. La liturgia è ‘sacra’ per questo, altrimenti è solo liturgia, ossia atto pubblico, incline all’esibizione, allo spettacolo, all’intrattenimento: come si dice in America: litur-teinement.
- Lei afferma che “la liturgia è divenuta un campo di battaglia”. Ritiene che questo conflitto sia destinato a durare oppure vede segnali di un possibile ritorno alla pace liturgica della Chiesa?
L’art.22c della Costituzione Liturgica del Vaticano II, ammonisce: nessuno assolutamente, anche se sacerdote, osi aggiungere, togliere o mutare alcunché. Ecco dobbiamo abbandonare l’idea che la sacra liturgia sia a nostra disposizione: no, essa viene dall’alto e va semplicemente servita; non “animata”, perché è lo Spirito Santo che l’anima, non noi. Si deve approntare un “codice liturgico”, previsto già nei lavori della riforma pre-conciliare, con precise sanzioni per chiunque lo trasgredisca. Ne ha scritto lo studioso Daniele Nigro, in I diritti di Dio, Sugarco 2012, con prefazione del card.Burke. Non sono senza peccato i fautori delle deformazioni nel Novus Ordo, ma anche quelli del Vetus che non si attengono all’ultima edizione del Messale Romano del 1962, come prescritto dal Motu Proprio Summorum Pontificum di Benedetto XVI. Solo osservando l’ordine viene la pace, anche liturgica.
- Nel testo si parla della presenza reale di Cristo in termini dogmatici tradizionali: “vera, reale, sostanziale”. Qual è oggi, a suo avviso, il pericolo più grave per la fede dei fedeli nei confronti di questo mistero centrale dell’Eucaristia?
Non è solo un pericolo ma una realtà diffusa, la riduzione del Sacramento – Santissimo – ad un simbolo conviviale, ad un cibo comune; esso, anzi Egli, il Signore, è il “farmaco dell’immortalità”, e va adorato prima di essere manducato. I farmaci più delicati non si prendono, ma si ricevono con ogni precauzione: questa modalità è essenziale per la fede nell’Eucaristia, è più importante di una catechesi sulla Comunione.
- Lei cita le parole di Benedetto XVI: “ciò che per le generazioni anteriori era sacro, anche per noi resta sacro e grande”. Come risponde a chi sostiene che la liturgia tradizionale è diventata ormai un simbolo di opposizione ideologica al Papa e al Concilio?
La strumentalizzazione di singoli e gruppi c’è, ma non è prevalente. Invece è in atto la rinascita del Sacro – che è la Presenza del Signore – nei cuori (adorazione, Comunione in bocca, silenzio, vocazioni…).Basta visitare i tanti paesi del mondo dove è stato attuato con prudenza dai vescovi il Motu Proprio di Benedetto XVI. La pazienza della carità nell’obbedienza alla Chiesa hanno prevalso.
- Nel libro si legge della “Messa spezzatino”, frutto della frammentazione linguistica e simbolica della liturgia attuale. Quali misure pratiche suggerirebbe per restituire alla Messa la sua coerenza interna e il senso del sacro?
Soprattutto lo sguardo a Gesù Cristo, che nelle Liturgie orientali è dato dal volgersi a Oriente, donde Egli è venuto, viene e verrà. E’ la dimensione cosmica ed escatologica o definitiva del culto divino. L’orientamento del sacerdote ad Deum, alla Croce, specialmente dall’Offertorio alla Comunione è decisivo per restituire alla liturgia la dimensione verticale perduta. L’orientamento è più importante della lingua latina, ma questa, è importante per la percezione del ‘sacro’ nel culto, specialmente nella Preghiera Eucaristica e nelle altre preghiere sacerdotali.
- Quale è stata, secondo lei, la mens di Francesco in Traditionis Custodes?
Una contraddizione in se stessa: aveva lodato il mistero nelle liturgie orientali e poi non ha voluto accorgersi che il rito romano antico, il più grande dei riti latini nella Chiesa, parallelo a quello bizantino in Oriente, risponde alla crisi della fede in Occidente: con l’impulso all’evangelizzazione – ferma le sette in America Latina – la conversione dei giovani, i battesimi degli adulti, la rinascita della famiglia aperta alla vita, della vita religiosa e delle vocazioni. Papa Francesco è stato vittima del suo “anticlericalismo”.
- Perché, secondo lei, Francesco ha messo delle motivazioni false per far uscire Traditionis Custodes?
Un pregiudizio ideologico, un problema psichiatrico? A Buenos Aires sanno. La sua volontà era legge e i cortigiani si trovano sempre, non così i collaboratori.
3 domande sull’Appello finale:
- Nel suo Appello chiede che si torni a celebrare la Messa Tradizionale senza restrizioni, come sostanzialmente previsto dal Motu ProprioSummorum Pontificum.Cosa risponde a chi teme che questo possa minare l’autorità del Papa o creare divisioni nella Chiesa?
La Chiesa è circumdata varietate: grazie allo Spirito Santo esistono tanti riti, quindi di cosa avere paura. Mi pare che papa Leone abbia questa visione. L’autorità del Papa e del Vescovo sta proprio nel favorire i carismi e nel farne sintesi per l’unica missione della Chiesa, o no?
- Nel testo si dice che “la Chiesa cattolica non è una monarchia assoluta”. In che modo la sua proposta si armonizza con il principio di obbedienza gerarchica che caratterizza la Chiesa?
Sono sessant’anni che il rito romano antico sopravvive a tutti i tentativi di sopprimerlo: applichiamo il principio di Gamaliele: se fosse opera umana non sarebbe già scomparso? E se il Signore ne stesse facendo lo strumento per la riforma della Sua Chiesa?
- Lei fa riferimento alla sinodalità come principio invocato ma non rispettato. In che senso ritiene che la trasparenza e la collegialità siano state tradite nella gestione liturgica e dottrinale attuale?”
La sinodalità è lo stile della collegialità, è la mise en route delle quattro note della Chiesa, una, santa, cattolica e apostolica: quindi è a queste sottomessa; è un modo di esercitare l’autorità, non l’unico, perché, attenzione: l’ultima parola c’è l’ha il sacerdote nella comunità, il vescovo nella diocesi, il papa nella Chiesa universale, altrimenti questa diventa un’assemblea parlamentare. Chi ha concepito Traditionis Custodes e annessi, non ha attuato la sinodalità, non solo, ha falsificato quella manifestata dai Vescovi nelle risposte al Questionario. A proposito di “peccati contro la sinodalità”: si faccia mea culpa e si ritorni pian piano allo status quo ante. La Chiesa intera ne trarrà giovamento.
Riguardo ai fatti scaturiti, consigliamo di leggere qui:
Papa Francesco, Traditionis Custodes e la verità sulle restrizioni alla messa in latino

di Sabino Paciolla
Ho partecipato per la prima volta alla messa in latino, come usualmente viene chiamata (vetus ordo, secondo l’ultima riforma del rito avvenuta nel 1962 sotto Papa San Giovanni XXIII), circa sei anni fa. All’inizio, pur riscontrando qualche difficoltà dovuta alla lingua, ho provato subito una “strana” emozione, come una scossa che mi ha reso immediatamente chiaro ciò che confusamente percepivo e ricercavo nella messa secondo la forma ordinaria (per semplicità “in italiano”, cioè novus ordo, introdotto nel 1970): il senso del sacro.
La messa in latino mi pareva, grazie alle frequenti pause in cui si rimane in silenzio, ai momenti di raccoglimento, alla essenzialità e solennità del rito, che mi aiutasse meglio di quella “in italiano” a capire di essere alla presenza Signore, a percepire il senso del sacro, a spingere verso un naturale atteggiamento di adorazione dell’Altissimo, che si rende appunto presente durante la messa, ogni messa.
Di conseguenza, la messa in latino mi ha reso immediatamente palese l’assurdità di certi abusi liturgici che vengono perpetrati durante la messa “in italiano”, quelle manifestazioni stravaganti ad opera di sacerdoti che a volte rasentano il carnevalesco ed il cattivo gusto. Tutte queste “stravaganze” sono espressioni, a mio parere, di autoreferenzialità da parte del clero, di appropriazione indebita di ciò che in definitiva appartiene alla Chiesa, di dimenticanza del principio basilare che il sacerdote è un ministro e non il proprietario del rito. Tali manifestazioni sono l’espressione della perdita del senso del bello e, contestualmente, segno dell’assorbimento del brutto che ha invaso la società moderna, ampiamente scristianizzata. Pare, tristemente, che il nichilismo che pervade il tempo presente sia entrato anche nella Chiesa.
Preciso subito, a scanso di equivoci, che io partecipo normalmente alla messa “in italiano” e, quando mi è possibile, con piacere, anche a quella in latino, visto che tale rito non è presente nel luogo ove io risiedo. Ritengo ambedue le forme valide e, se partecipate senza una posizione ideologica nei confronti dell’una o dell’altra forma, utili alla crescita spirituale delle persone. Dirò di più, l’aver partecipato alla messa in latino mi ha fatto capire di più e meglio quella in italiano ed a parteciparvi con più consapevolezza.
Dato il beneficio spirituale che personalmente ho ricevuto dalla partecipazione alla messa in latino, sono rimasto scioccato nell’apprendere, il 16 luglio 2021, che Papa Francesco aveva emesso il motu proprio Traditionis custodes che riformava il motu proprio Summorum Pontificum che Benedetto XVI aveva promulgato il 7 luglio 2007.
In poche parole, Papa Benedetto, con il motu proprio Summorum Pontificum, aveva voluto liberalizzare e regolamentare l’uso della liturgia tradizionale della Messa in latino, secondo il Messale Romano del 1962 (la cosiddetta “Messa Tridentina” o “Forma Straordinaria”), con la duplice finalità di facilitare l’accesso alla liturgia tradizionale e promuovere la riconciliazione ecclesiale (sanare cioè le divisioni con gruppi cattolici tradizionalisti, come la Fraternità Sacerdotale San Pio X). Papa Francesco, al contrario, con il suo motu proprio, limitava fortemente l’uso della liturgia romana anteriore alla riforma del 1970, quella “in latino”. Ad aggravare la situazione vi era il fatto che il suo predecessore, Papa Benedetto XIV, l’autore del Summorum Pontificum, era ancora in vita, configurando così il suo atto come un vero e proprio sgarbo.
Non riuscivo a capacitarmi che Papa Francesco potesse limitare fortemente una cosa così bella, così grande, così preziosa, così appartenente alla Chiesa da circa 1.500 anni, un rito a cui avevano messo mano grandi teologi e persino santi importantissimi nella storia della Chiesa. Possibile, mi chiedevo, che teologi odierni possano arrivare a dire che non è bene seguire una forma della messa che il popolo cristiano, santi e teologi hanno seguito per circa 1.500 anni? Lo stesso Benedetto XVI scriveva:
Ciò che per le generazioni anteriori era sacro, anche per noi resta sacro e grande, e non può essere improvvisamente del tutto proibito o, addirittura, giudicato dannoso. Ci fa bene a tutti conservare le ricchezze che sono cresciute nella fede e nella preghiera della Chiesa, e di dar loro il giusto posto (Summorum Pontificum 10).
e inoltre:
Il Messale romano promulgato da Paolo VI è l’espressione ordinaria della “lex orandi” (“legge della preghiera”) della Chiesa cattolica di rito latino. Tuttavia il Messale romano promulgato da san Pio V e nuovamente edito da Giovanni XXIII deve venir considerato come espressione straordinaria della stessa “lex orandi” e deve essere tenuto nel debito onore per il suo uso venerabile e antico. Queste due espressioni della “lex orandi” della Chiesa non porteranno in alcun modo a una divisione nella “lex credendi” (“legge della fede”) della Chiesa; sono infatti due usi dell’unico rito romano.
Mi pareva quindi tutto assurdo. Cosa era successo?
Papa Francesco, nel 2020 fece inviare all’episcopato mondiale, a mezzo della Congregazione per la Dottrina della fede, un questionario consultivo mirante a fare il punto, dopo 13 anni, sull’applicazione del Summorum Pontificum. Si chiedeva, sulla base di 9 domande, come fosse stato accolto ed applicato il Summorum Pontificum.
Chiusa la consultazione, Papa Francesco, nella lettera che accompagnava il motu proprio Traditionis Custodes, affermava perentoriamente che «le risposte pervenute hanno rivelato una situazione che mi addolora e mi preoccupa, confermandomi nella necessità di intervenire». In sintesi, il Papa spiegava che era dovuto intervenire per porre rimedio alla situazione critica manifestata dai vescovi di tutto il mondo causata dai cattivi esiti prodotti dall’applicazione del Summorum Pontificum di Papa Benedetto XIV.
La cosa strana, però, era che i risultati della consultazione venivano tenuti segreti a tutti i vescovi e persino a Benedetto XVI. Il che era inspiegabile…e non convincente. I dubbi, poi, crebbero a dismisura quando abbiamo letto, nella autobiografia “Spera” del gennaio 2025, espressioni al limite dell’insulto come:
«È sociologicamente interessante il fenomeno del tradizionalismo, questo “indietrismo” che in ogni secolo regolarmente ritorna, questo riferimento a una presunta età perfetta che è però ogni volta un’altra».
e poi in maniera pesantissima:
“Perché non è sano che la liturgia si faccia ideologia. È curioso questo fascino per ciò che non si comprende, che appare un po’ occulto, e che a volte sembra interessare anche le generazioni più giovani. Spesso questa rigidità si accompagna alle sartorie ricercate e costose, ai pizzi, ai merletti, ai rocchetti. Non gusto della tradizione, ma ostentazione di clericalismo, che poi altro non è che la versione ecclesiale dell’individualismo. Non ritorno al sacro, tutt’altro, ma mondanità settaria. A volte questi travestimenti celano squilibri, deviazioni affettive, difficoltà comportamentali, un disagio personale che può venire strumentalizzato”.
Questi toni forti e la segretezza dei risultati della consultazione mostravano, direi chiaramente, che la ragione ultima della quasi abolizione del Summorum Pontificum, della cosiddetta messa in latino, non fosse tanto l’esito del sondaggio dei vescovi quanto una posizione preconcetta di ostilità ideologica nei confronti della messa in latino maturata nel circolo di teologi e chierici che circondavano Papa Francesco o, se vogliamo, di cui Papa Francesco si circondava. Una posizione ideologica che però veniva da lontano, da oltre 60 anni, come dirò più oltre.
Di tutto questo abbiamo ampiamente riferito su questo blog con vari articoli.
E’ in questo contesto che si inserisce lo scoop del primo luglio scorso della giornalista Diane Montagna, di cui abbiamo parlato qui, la quale ha pubblicato per la prima volta il giudizio complessivo della Congregazione per la Dottrina della Fede (CDF) basato sulla consultazione dei vescovi del 2020 riguardo al Summorum Pontificum di Benedetto XVI. Il documento che, come abbiamo detto, era rimasto segreto per 4 anni, rivela sorprendentemente tutta un’altra storia, e cioè che la maggioranza dei vescovi riteneva che modificare il Summorum Pontificum avrebbe causato più danni che benefici, contraddicendo la motivazione ufficiale di Traditionis Custodes e sollevando dubbi sulla sua credibilità.
I documenti resi pubblici dalla giornalista Montagna frantumano le parole che papa Francesco aveva scritto in una lettera di accompagnamento indirizzata ai vescovi di tutto il mondo. Egli infatti aveva scritto: «Purtroppo, l’obiettivo pastorale dei miei Predecessori […] è stato spesso gravemente disatteso. L’opportunità offerta da San Giovanni Paolo II e, con ancora maggiore magnanimità, da Benedetto XVI […] è stata sfruttata per ampliare le divisioni, rafforzare le divergenze e incoraggiare i dissensi che feriscono la Chiesa, le ostacolano il cammino e la espongono al pericolo della divisione».
La realtà, dopo quello che è venuto fuori, è invece totalmente diversa.
Nel corso di una conferenza stampa tenutasi in Vaticano il 3 luglio scorso, è stato chiesto all’arcivescovo Vittorio Francesco Viola, segretario del Dicastero per il Culto Divino, di commentare il documento pubblicato il 1° luglio da Diane Montagna. Mentre l’arcivescovo Vittorio Francesco Viola si apprestava a rispondere, è intervenuto subito, togliendogli la possibilità di rispondere, il direttore della sala stampa della Santa Sede, Matteo Bruni, il quale ha obiettato che la conferenza stampa era dedicata alla presentazione del nuovo formulario della Messa per la cura del creato, che verrà aggiunto alle Messe per diverse necessità e circostanze del Messale Romano. Bruni ha successivamente affermato che non stava “confermando l’autenticità dei testi pubblicati”, aggiungendo anche che «si tratta presumibilmente di parte di uno dei documenti su cui si è basata la decisione [di pubblicare Traditionis custodes,ndr], e costituisce un contributo a una ricostruzione molto parziale e incompleta del processo decisionale».
Ora, se è vero che Bruni non ha confermato l’autenticità del documento portato alla luce da Montagna, cosa ancora più importante, non ne ne ha smentito esplicitamente il contenuto. E questo, da un punto di vista giornalistico, è importantissimo.
Purtroppo per Bruni e per fortuna per noi, ad avvalorare la veridicità del documento della Montagna, giunge in soccorso il prezioso volume, pubblicato il 2 luglio scorso per i tipi di Fede & Cultura, intitolato: “La liturgia non è uno spettacolo”, con sottotitolo “Il questionario ai vescovi sul rito antico – Arma di distruzione di messa?”, scritto da mons. Nicola Bux e Saverio Gaeta.
Mons. Nicola Bux è un teologo e liturgista italiano. Ha studiato teologia presso la Pontificia Università Gregoriana. È stato professore di teologia sacramentale a Bari e consultore della Congregazione per la Dottrina della Fede e dell’Ufficio delle Celebrazioni Liturgiche del Sommo Pontefice Benedetto XVI. Esperto di liturgia, ha scritto numerosi libri, tra cui La riforma di Benedetto XVI. Saverio Gaeta è un giornalista, scrittore e saggista italiano, vaticanista di Famiglia Cristiana.
Il volume è prezioso perché spiega in maniera chiara, semplice e concisa il senso e la storia della liturgia, il sacramento della messa, l’ideologia conciliarista che ha avvelenato i frutti del Concilio Vaticano II, l’odierna crisi ecclesiale che dipende in gran parte dal crollo della liturgia, e tanto altro. Spiega la genesi del Summorum Pontificum e le puntuali ragioni che Papa Benedetto XVI ha portato a sostegno del suo motu proprio.
Il volume è però soprattutto importante perché illustra in maniera approfondita i risultati del famoso “questionario ai vescovi sul rito antico” fatto inviare da Papa Francesco ai vescovi di tutto il mondo che hanno portato poi a Traditionis Custodes e che, come detto, sono stati tenuti segreti ma che ora sono trapelati.
“A curare lo studio delle risposte,” si legge nel volume “l’elaborazione dei dati e il riepilogo conclusivo fu la Quarta sezione (già pontificia commissione Ecclesia Dei). Ovviamente, la parte più interessante del dossier è il giudizio complessivo, tracciato dai responsabili della congregazione per utilità di papa Francesco, il quale però non ne tenne sufficiente conto. Quel che viene immediatamente sottolineato nella sintesi è che:
dall’importante mole di documenti inviati e trattati si evince che il motu proprio Summorum Pontificum svolge oggi un ruolo significativo, seppur relativamente esiguo, nella vita della Chiesa. Concepito da papa Benedetto XVI dopo anni di scontri talvolta aspri tra i sostenitori della liturgia riformata del 1970 e quelli del Missale romanum nella sua versione del 1962, il motu proprio Summorum Pontificum ha saputo affermare l’uguale dignità delle due Forme del medesimo Rito romano, creando le condizioni favorevoli a una vera pace liturgica, in vista anche di una eventuale unità delle due Forme nel futuro.
[…]
Una valutazione globale indica che la diffusione del Rito romano antico, dopo il motu proprio Summorum Pontificum, si era all’epoca attestata intorno al 20% circa delle diocesi latine nel mondo. La sua applicazione «è certamente più serena e pacificata, anche se non dappertutto».
[…]
la maggioranza dei vescovi coinvolti dal questionario, che hanno generosamente e intelligentemente applicato il motu proprio Summorum Pontificum, si dichiara alla fine soddisfatto di esso,..
[…]
Di particolare interesse una costante che i vescovi fanno notare:
Quella secondo cui sono i giovani a scoprire e a scegliere questa liturgia antica. La maggior parte dei gruppi stabili presenti nell’orbe cattolico è composta di giovani e di giovani convertiti alla fede cattolica o che vi ritornano dopo un tempo di lontananza dalla Chiesa e dai sacramenti. Essi sono ammirati della sacralità, serietà, solennità della liturgia. Quello che più notano, anche a causa di una società eccessivamente rumorosa e parolaia, è la riscoperta del silenzio nella azione sacra, le parole contenute ed essenziali, una predicazione fedele alla dottrina della Chiesa, la bellezza del canto liturgico, la dignità celebrativa: un tutt’uno che attrae non poco.
Riguardo al problema della fuoriuscita di cattolici che si dirigono verso altre realtà, nel giudizio complessivo si può leggere:
alcuni vescovi fanno notare che è necessario tutelare i gruppi stabili [che seguono il Summorum Pontificum, ndr] per evitare fuoriuscite dalla Chiesa verso realtà scismatiche o verso la fraternità sacerdotale San Pio X (FSSPX).
[…]
Quel che nei questionari è stato segnalato da diversi vescovi è che «là dove questa dimensione ecclesiologica è stata recepita e applicata sta portando frutti visibili, in particolare nella liturgia». Tant’è che viene posto in risalto «il bene apportato dal motu proprio Summorum Pontificum anche per la Forma ordinaria della liturgia e per un recupero
di sacralità nella azione liturgica e per un processo di riconciliazione intra-ecclesiale».”
Quello che è importante è che la maggioranza dei vescovi riconosce è che:
Qualsiasi intervento esplicito può causare più danni che vantaggi
Inoltre, i vescovi riconoscono ulteriori rischi:
un eventuale cambiamento favorirebbe la fuoriuscita di fedeli dalla Chiesa, di fedeli delusi, verso la FSSPX o altri gruppi scismatici, e questo darebbe forza a chi sostiene l’idea che non si deve mai avere fiducia in una Roma che dà con una mano e riprende con l’altra. Cambiare la normativa provocherebbe dunque una ripresa delle guerre liturgiche. Potrebbe anche favorire la nascita di un nuovo scisma. Inoltre delegittimerebbe due pontefici, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, che si erano impegnati per non abbandonare questi fedeli.
Quello che ho riportato è solo una piccola parte di quanto riportato nel volume circa il “giudizio conclusivo” del questionario e, nonostante ciò, si capisce subito che, pur in presenza di pareri critici, la maggioranza dei vescovi di tutto il mondo si è espressa chiaramente a favore della permanenza, senza alcuna variazione legislativa, del Summorum Pontificum.
“Di estremo interesse risulta il florilegio di citazioni, tratte dalle risposte pervenute dalle diocesi, che i curatori del Dossier proposero a conclusione della sintesi sui risultati della consultazione. La scelta appare molto indicativa, soprattutto in quanto fu ritenuta rappresentativa della posizione complessiva dell’episcopato mondiale e venne perciò offerta a papa Francesco affinché potesse trarre consapevolmente le sue conclusioni e le conseguenti decisioni in merito al motu proprio Summorum Pontificum.”
Invito i lettori di questo blog a leggere direttamente dal volume, a cui rimando, il “florilegio di citazioni” per rendersi chiaramente conto di cosa è venuto fuori. Il volume può essere acquistato qui.
Da quello che sommariamente ho delineato sulla base della lettura del libro di mons. Nicola Bux e Saverio Gaeta, si capisce come la motivazione data da Papa Francesco per sostenere il suo motu proprio Traditionis Custodes sia del tutto falsa perché i vescovi NON volevano che si ponesse mano a variazioni legislative, in senso restrittivo, del Summorum Pontificum. Inoltre, che la decisione di portare alla restrizione, e addirittura alla soppressione, poi quest’ultima fase non attuata (forse per la levata di scudi espressa da blog e semplici fedeli), sia nata da circoli di teologi che hanno un pregiudizio ideologico contro un rito, quello in latino, che è tesoro e patrimonio della Chiesa.
Dicevo all’inizio di questo articolo che questo astio, questo autentico veleno, nei confronti del vetus ordo, e questo favore pregiudiziale nei confronti del rito in vernacolo nasce da molto lontano. Per dimostrarlo riporto un episodio. Si ricorderà che l’artefice della riforma della liturgia che portò alla messa “in italiano”, con tutti i suoi punti critici che hanno poi aperto alla “creatività” di cattivo gusto cui oggi assistiamo e le distorsioni di natura protestante, fu padre Annibale Bugnini. Egli fu segretario della Commissione per la riforma liturgica istituita da Papa Pio XII. Morto Pio XII il 9 ottobre del 1958, egli continuò il suo lavoro sotto Giovanni XXIII. Ebbene, egli, l’11 ottobre 1961, introdusse i lavori della commissione preparatoria sulla sacra liturgia con queste sconcertanti affermazioni che riprendo dal volume di Bux-Gaeta:
La cosa più sconveniente per gli articoli della nostra costituzione sarebbe se venissero respinti dalla commissione centrale o dallo stesso concilio. Pertanto, dobbiamo procedere cautamente e con discrezione. Cautamente, in modo da proporre le cose in modo accettabile, cioè, nella mia opinione, in parole tali che dicano molto e sembri che nulla sia detto: che molto venga detto in embrione e si lasci così la porta aperta a legittime e possibili deduzioni e applicazioni postconciliari: che nulla sia detto che abbia un sapore straordinariamente nuovo; che possa, per quanto ingenuo e innocente, indebolire tutto il resto.
In conclusione, ringrazio sia la giornalista Diane Montagna che mons. Nicola Bux e Saverio Gaeta per l’ottimo lavoro che hanno svolto a beneficio della verità. Esso risulterà sicuramente gradito a tutti i vescovi del mondo in quanto, dopo ben quattro anni, hanno potuto apprendere il risultato di una consultazione che li ha interessati in prima persona ma di cui sono stati tenuti all’oscuro, anzi, sono stati ingannati.
Questionario ai vescovi e messa in latino, Anche il sito web della Conferenza Episcopale Tedesca ammette: Francesco ha mentito
