Senza aggiungere nulla di nostro, condividiamo alcune riflessioni di Don Mario Proietti cpps. Quale premessa ricordiamo solo le parole di Benedetto XVI tratte dalla Lettera ai Vescovi per il Summorum Pontificum con il quale il Papa ridonava libera scelta a quanti volevano celebrare la Messa nella forma antica, per entrambi i Messali ebbe a scrivere:
- Non c’è nessuna contraddizione tra l’una e l’altra edizione del Missale Romanum. Nella storia della Liturgia c’è crescita e progresso, ma nessuna rottura. Ciò che per le generazioni anteriori era sacro, anche per noi resta sacro e grande, e non può essere improvvisamente del tutto proibito o, addirittura, giudicato dannoso. Ci fa bene a tutti conservare le ricchezze che sono cresciute nella fede e nella preghiera della Chiesa, e di dar loro il giusto posto. Ovviamente per vivere la piena comunione anche i sacerdoti delle Comunità aderenti all’uso antico non possono, in linea di principio, escludere la celebrazione secondo i libri nuovi. Non sarebbe infatti coerente con il riconoscimento del valore e della santità del nuovo rito l’esclusione totale dello stesso.
- e ancora dice chiaramente:
- Al riguardo bisogna innanzitutto dire che il Messale, pubblicato in duplice edizione da Paolo VI e poi riedito una terza volta con l’approvazione di Giovanni Paolo II, ovviamente è e rimane la forma normale – la forma ordinaria – della Liturgia Eucaristica. L’ultima stesura del Missale Romanum, anteriore al Concilio, che è stata pubblicata con l’autorità di Papa Giovanni XXIII nel 1962 e utilizzata durante il Concilio, potrà, invece, essere usata come forma extraordinaria della Celebrazione liturgica. Non è appropriato parlare di queste due stesure del Messale Romano come se fossero “due Riti”. Si tratta, piuttosto, di un uso duplice dell’unico e medesimo Rito.
IL SENTIMENTALISMO PROGRESSISTA E QUELLO TRADIZIONALISTA: DUE INGANNI DELLA FEDE
Viviamo in un tempo in cui la fede rischia di essere travolta da due estremi opposti. Da una parte vi è chi la riduce a pura emozione interiore, come se bastasse “sentire qualcosa” per essere credenti; dall’altra vi è chi la irrigidisce in un attaccamento viscerale alle forme, trasformando il rito in una bandiera identitaria più che in un mezzo della grazia. Apparentemente diversi, questi due atteggiamenti hanno lo stesso difetto: fanno della fede un fatto di sentimento, togliendole il suo fondamento oggettivo e il suo respiro universale.
Nella vita spirituale il sentimentalismo si presenta spesso sotto le vesti più accattivanti. È bello provare fervore nella preghiera, commuoversi davanti a un canto o sentire entusiasmo per un rito solenne. Ma se la fede diventa dipendenza dal sentire, allora si trasforma in un inganno: si cerca Dio solo quando si “sente” la sua presenza e lo si abbandona quando non si prova nulla. Questo è l’errore che San Giovanni della Croce denunciava con forza: non bisogna inseguire “gusti spirituali”, ma aderire a Dio con la fede nuda, che resta ferma anche nell’aridità.
San Tommaso d’Aquino ci aiuta a comprendere l’equilibrio: la fede è un atto dell’intelletto che aderisce alla verità divina per comando della volontà, mossa dalla grazia. La fede quindi non è un’emozione passeggera né un’idea astratta, ma una scelta ragionevole illuminata dall’amore. È la volontà che spinge l’intelletto ad abbracciare ciò che Dio rivela, e questa volontà è sostenuta dalla carità. Così la fede non è fredda, perché è accesa dall’amore, ma neppure sentimentale, perché si fonda sulla verità.
I santi hanno vissuto questa unità. Santa Teresa d’Avila pregava anche quando non provava fervore, sapendo che la fedeltà vale più dell’entusiasmo momentaneo. San Francesco di Sales diceva che i sentimenti sono buoni servitori ma cattivi padroni: possono aiutare a partire, ma non guidano il cammino. La vera guida resta la fede illuminata dalla ragione e sostenuta dalla carità.
La liturgia è una maestra in questo equilibrio. Non punta a far provare emozioni come uno spettacolo, né a impartire soltanto una lezione dottrinale. È un atto in cui l’uomo intero, corpo e anima, viene educato a lodare Dio. I segni sensibili non sono sentimentalismo, ma vie ordinate al Mistero. Il canto gregoriano non vuole commuovere come una canzone, ma elevare l’anima; l’incenso non serve a creare atmosfera, ma esprime la nostra adorazione. In questo modo la liturgia custodisce i sentimenti, ma non li idolatra.
C’è però un’altra forma di sentimentalismo, più sottile, che oggi emerge con forza: è quello tradizionalista, che si lega rigidamente a una forma liturgica o disciplinare, trasformandola in un simbolo identitario. La liturgia antica è un tesoro della Chiesa, ma quando diventa bandiera di appartenenza, rifugio psicologico o arma polemica, rischia di essere vissuta come una passione umana piuttosto che come un dono di Dio. Qui non è più la verità che guida, ma un attaccamento emotivo che prende le sembianze del sacro. È paradossale, ma è lo stesso errore che San Pio X denunciava nei modernisti: per i primi la fede era ridotta a sentimento interiore, per i secondi diventa sentimento esteriore. In entrambi i casi, la sostanza della fede, l’adesione alla verità rivelata e l’obbedienza alla Chiesa, viene oscurata.
Ecco dunque il cuore del problema: il sentimentalismo, sia progressista che tradizionalista, sostituisce la fede viva con un attaccamento passionale, che sia all’emozione o alla forma. La vera fede cattolica invece unisce verità e carità, mente e cuore, ragione e affetto. È la fede che si fonda sull’autorità di Dio, si nutre dei sacramenti, si esprime nell’amore fraterno e si vive nella comunione della Chiesa. Non disprezza i sentimenti, ma li educa; non svaluta le forme, ma le riconduce al loro fine; non si lascia dominare dalle passioni, ma resta salda nella verità.
Così si evita la freddezza e si evita il sentimentalismo. Si cammina su quella via stretta che conduce a Cristo, una fede illuminata dalla verità e riscaldata dall’amore. È la fede che resiste alle mode, che non si lascia trascinare dalle polemiche, che non si piega all’identitarismo né allo spiritualismo vuoto. È la fede cattolica, che pensa e ama, che contempla e agisce, che unisce la luce della verità e il calore della carità.
L’OFFERTORIO: CUORE PULSANTE TRA VETUS E NOVUS
Spesso, il confronto tra il Vetus Ordo (rito tradizionale) e il Novus Ordo (rito post-conciliare) si accende soprattutto a proposito dell’Offertorio. Per alcuni, il cambiamento ha rappresentato una perdita; per altri, un guadagno; per altri ancora, un tradimento. Per comprendere appieno questo dibattito, è fondamentale guardare con calma e chiarezza alle diverse impostazioni teologiche e spirituali che i due riti esprimono, pur all’interno della stessa fede cattolica.
Nel Messale di San Pio V (1962), l’Offertorio ha un linguaggio fortemente sacrificale. Il sacerdote offre a Dio il pane e il vino non solo come doni della creazione, ma già come “immacolata ostia” e “calice della salvezza”. Il tono è quello di un’anticipazione del sacrificio che sarà compiuto nel Canone, sottolineando la Messa come un sacrificio propiziatorio che il sacerdote, agendo in persona Christi, presenta a Dio per i vivi e i defunti.
Il Messale di Paolo VI (1970) ha sostituito l’antico Offertorio con una Presentazione dei doni. Le formule, sobrie e bibliche, si ispirano alle berakoth ebraiche: “Benedetto sei tu, Signore, Dio dell’universo, dalla tua bontà abbiamo ricevuto questo pane… questo vino…”. L’accento non è posto su un’offerta sacrificale anticipata, ma sul rendimento di grazie a Dio per i doni della creazione e del lavoro umano, che saranno trasformati nel Corpo e nel Sangue di Cristo durante la Preghiera Eucaristica. Il sacrificio non è negato, ma concentrato nel momento centrale della consacrazione e dell’epiclesi.
Il Concilio Vaticano II, con la Sacrosanctum Concilium, non aveva ordinato una riscrittura dell’Offertorio, ma aveva chiesto una semplificazione e un ritorno alle fonti. La riforma liturgica, guidata dal Consilium di Annibale Bugnini, ha scelto di sostituire le preghiere medievali con formule più sobrie e antiche, motivate da più fattori convergenti. Da una parte, si voleva eliminare l’impressione che ci fosse una sorta di “seconda consacrazione” anticipata, chiarendo che il sacrificio si compie pienamente solo nel Canone. Dall’altra, si intendeva mettere in risalto il ruolo dell’assemblea: non solo spettatrice, ma partecipe, portatrice del frutto della terra e del lavoro umano, che in Cristo diventa offerta gradita al Padre. Infine, la scelta di un linguaggio biblico e semplice intendeva ricollegarsi alle benedizioni delle origini e alla tradizione patristica, con uno stile sobrio che parlasse tanto al cuore dei fedeli quanto al dialogo ecumenico.
Non sono mancati però sospetti e critiche. Molti hanno visto in questa scelta un’influenza protestante. In effetti, le nuove formule, prive di linguaggio sacrificale esplicito, risultano meno problematiche per sensibilità luterane o calviniste. Lo stesso Bugnini avrebbe affermato che la riforma intendeva “togliere espressioni che fossero d’ostacolo ai fratelli separati”. Ma è scorretto pensare che la logica protestante abbia dettato la riforma. Essa semmai ha agito come un criterio negativo: evitare ciò che poteva risultare divisivo. La dottrina cattolica sul sacrificio eucaristico resta intatta, riaffermata con solennità nelle Preghiere Eucaristiche.
Dal punto di vista dogmatico, il cambiamento non era strettamente necessario, dato che il rito tradizionale esprimeva già con chiarezza la fede della Chiesa. Dal punto di vista pastorale, invece, i riformatori lo hanno ritenuto opportuno. Oggi possiamo riconoscerne i frutti e i limiti: da un lato sobrietà, semplicità e partecipazione comunitaria; dall’altro, una possibile attenuazione percettiva del senso sacrificale immediato.
Il confronto tra i due Offertori mostra che la Messa è e rimane lo stesso sacrificio di Cristo, espresso con linguaggi differenti. La vera questione non è opporre i due riti, ma recuperare e custodire in ciascuno la pienezza del mistero. La riforma non ha tolto nulla alla fede, ma ha cambiato il linguaggio. Oggi spetta alla catechesi e alla pastorale colmare il divario percettivo, perché i fedeli non dimentichino mai che sull’altare non c’è solo un convito, ma il sacrificio salvifico di Cristo.
Ecco allora l’auspicio: che la Chiesa, guidata dallo Spirito Santo, sappia unire la ricchezza della tradizione e la sobrietà della riforma, creando una sintesi viva, in cui il pane e il vino presentati dall’uomo non siano mai disgiunti dall’offerta che Cristo stesso compie di sé al Padre. Così la liturgia potrà restare la vera scuola della fede e dell’adorazione, il luogo dove il popolo di Dio si nutre davvero del Sangue di Cristo, fonte di vita nuova, sorgente di salvezza e cuore pulsante del mondo.
IL CANONE ROMANO E LE PAROLE DELLA CONSACRAZIONE: CONTINUITÀ E ACCENTI DIVERSI
Dopo l’Offertorio, il cuore della Messa si concentra sul Canone e sulle parole della Consacrazione. Qui il confronto tra Vetus Ordo e Novus Ordo è ancora più delicato, perché si tocca il centro stesso del mistero eucaristico.
Nel Messale di San Pio V (1962) il Canone Romano è l’unica preghiera eucaristica ammessa. È un testo antico, fissato già dal VI secolo e rimasto sostanzialmente immutato. La sua forza sta nel linguaggio fortemente sacrificale: si parla di offerta propiziatoria, di oblazione per i vivi e per i defunti, di comunione con i santi, di salvezza eterna. Ogni parola sembra scavata dalla fede della Chiesa e custodita nei secoli. È un tessuto solenne che avvolge la consacrazione e la incastona in una cornice teologica chiarissima: la Messa è sacrificio, è memoriale della Passione, è oblazione per la Chiesa e per il mondo.
Nel Messale di Paolo VI (1970) il Canone Romano non è stato abolito: è stato conservato come Prima Preghiera Eucaristica. Il testo è sostanzialmente lo stesso, con piccole varianti rubricistiche e la possibilità di adattare alcune parti secondo i tempi liturgici. La novità è che non è più l’unica preghiera eucaristica: nel Messale di Paolo VI, accanto ad esso, sono state introdotte nuove Preghiere eucaristiche, di diversa lunghezza e ispirazione, alcune più brevi e lineari, altre di respiro biblico e patristico. In seguito ne sono state approvate altre, per particolari circostanze liturgiche, così che oggi il celebrante dispone di più possibilità. La Prima Preghiera resta la più solenne e fedele alla tradizione romana, ma non ha più il monopolio, e ciò ha inevitabilmente ridotto la sua centralità nella percezione dei fedeli.
Quanto alle parole della Consacrazione, esse sono rimaste identiche nella sostanza. Per il pane la formula è la stessa: Hoc est enim Corpus meum. Per il calice, la differenza più nota è la collocazione di quella frase tanto cara alla tradizione: mysterium fidei. Nel Vetus Ordo era parte delle parole del Signore, inserita nella formula consacratoria. In realtà, però, non appartiene ai racconti dell’istituzione nei Vangeli né in san Paolo: è una formula della Chiesa, attestata nel Canone Romano almeno dal VI secolo, come atto di fede nel mistero eucaristico. Non sono dunque parole di Gesù, ma della comunità credente.
Per questo, nel Novus Ordo, il mysterium fidei è stato collocato subito dopo la consacrazione, come introduzione all’acclamazione del popolo. Non si è tolto nulla alla formula essenziale del sacramento, ma si è distinto con maggiore chiarezza ciò che proviene dal Signore e ciò che è risposta della Chiesa. Non è quindi uno stravolgimento, bensì un ritorno alla sobrietà evangelica. È la dimostrazione che la Chiesa, lungo i secoli, ha sempre esercitato una libertà nel custodire e plasmare le parole liturgiche, senza mai alterare il nucleo sacramentale affidato da Cristo.
Le traduzioni hanno creato ulteriori discussioni, soprattutto per quel pro multis reso in alcune lingue con “per tutti”. La Santa Sede è intervenuta chiarendo che la traduzione corretta è “per molti”, non perché Cristo non sia morto per tutti, ma perché le parole liturgiche devono essere fedeli al Vangelo e al latino, e ricordano che la salvezza universale richiede la libera accoglienza da parte di ciascuno.
Un passaggio storico significativo avvenne nel settembre 1969, quando i cardinali Ottaviani e Bacci presentarono a Paolo VI il cosiddetto “Breve esame critico del Novus Ordo Missae”, redatto da un gruppo di teologi guidati da Michel Guérard des Lauriers. In quel testo il nuovo messale veniva accusato di rappresentare “un impressionante allontanamento dalla teologia cattolica della Santa Messa, quale fu formulata nella Sessione XXII del Concilio di Trento”. La Congregazione per la Dottrina della Fede, presieduta dal cardinale Franjo Šeper, rispose con fermezza, giudicando il documento “superficiale, esagerato, impreciso, emotivo e falso”. Paolo VI, per dissipare i dubbi, accompagnò l’edizione del 1970 con un’introduzione che riaffermava con chiarezza la fedeltà della riforma alla tradizione cattolica.
In definitiva, non c’è stata alcuna rottura dogmatica: le parole della consacrazione sono rimaste le stesse nella sostanza, e il Canone Romano è rimasto integro. Ma ci sono stati cambiamenti nella forma e nella percezione. Nel Vetus Ordo tutto era incastonato in un unico Canone, solenne e immutabile, dove il senso sacrificale era ribadito in ogni riga. Nel Novus Ordo, invece, la molteplicità delle Preghiere Eucaristiche e lo spostamento di alcuni dettagli hanno portato ad un quadro più snello e lineare, ma anche ad un indebolimento della percezione immediata del sacrificio.
Per questo, ancora una volta, la questione non è scegliere tra un “prima” e un “dopo”, ma recuperare oggi la coscienza che le parole di Cristo non sono semplici ricordi, ma la potenza stessa che rinnova il sacrificio del Calvario. L’auspicio è che, qualunque Preghiera Eucaristica si usi, i fedeli non perdano mai il senso di trovarsi al centro del Mistero, davanti all’altare del sacrificio, dove Cristo offre il suo Corpo e il suo Sangue per la vita del mondo.
