«Tre sono i luoghi in cui son ricevute le anime dei nostri cari secondo i loro rispettivi meriti: l’Inferno, il Purgatorio e il Cielo.
Nell’Inferno le anime degli empi, nel Purgatorio quelle che hanno bisogno di purificarsi e nel Cielo le anime pure e sante.
Quelle che vanno in Purgatorio aspettano la redenzione, ma prima devono essere tormentate o col calore del fuoco o col rigore del freddo o in qualche altro modo più o meno grave e duro; quelle che stanno in Cielo godono ineffabilmente per la visione beatifica, come sorelle di Cristo nella natura umana, sue coeredi nella gloria e simili a Lui nel gaudi eterni di cui partecipano.
Orbene, come le prime non meritano di essere redente e le terze non hanno bisogno di redenzione, ci resta solo da volger gli occhi della nostra carità compassionevole alle seconde, alle quali ci uniscono i legami dell’umanità.
Andrò dunque in questa regione e vedrò questa gran meraviglia di fuochi espiatori, dove il Padre pietoso lascia in mano al tentatore i Suoi figli che un giorno saranno glorificati non per la loro morte, ma per la loro purificazione, non spinto dalla Sua indignazione, ma dalla Sua misericordia; non per la loro distruzione, ma per nostro insegnamento, non perché siano vasi di ira destinati alla morte eterna, ma vasi di misericordia preparati per l’intera glorificazione.
Mi affretterò a soccorrerli, mi interesserò di loro coi miei sospiri, implorerò perdono per esse con le mie penitenze, intercederò per esse con le mie preghiere, soddisferò per esse col Sacrificio incruento, per vedere se in tal modo otterrò che il Signore si degni di accettare questi suffragi e giudichi opportuno applicarli loro, mutando la loro pena in riposo, la loro miseria in ricchezza e la loro afflizione in corona di gloria sempiterna.
Con questi suffragi e intercessioni e altri simili aiuti possiamo abbreviare i loro tormenti, porre termine alla loro prigionia e distruggere la pena che meritano.
Percorri, dunque, o anima fedele, chiunque tu sia, percorri quella regione di espiazione e osserva ciò che lì si fa e si soffre, e in questo mercato fa’ le tue provviste di sentimenti di compassione che ti ispirino ad applicare a quelle anime ogni genere di suffragio». (Sermone di San Bernardo)
❖ Breve percorso storico tratto dal Beato Cardinal Ildefonso Schuster.
Lo spirito di questa commemorazione si manifesta sin dall’annunzio del Martirologio: «Oggi facciamo la commemorazione di tutti i fedeli defunti. La Chiesa, nostra buona Madre, dopo aver con degne lodi esaltato i suoi figli che già godono in cielo, vuole soccorrere anche le anime che ancor soffrono nel luogo di purificazione e per esse intercede con tutte le sue forze presso il Signore e suo Sposo Cristo, perché quanto prima esse possano raggiungere la comunità degli eletti in cielo».
Ma vediamo quali sono le origini storiche del culto ai fedeli defunti.
Il Cardinal Ildefonso Schuster nel suo Liber Sacramentorum sottolinea che in tutte le civiltà pagane si scopre un fondo di religione particolarmente quando si tratta dei defunti. La violazione di una tomba è considerato un grande crimine, secondo l’universale principio «Parce sepulto». I pagani danno al culto dei defunti un carattere familiare.
Li seppelliscono nei giardini o lungo i margini delle grandi vie consolari che partivano da Roma e arrivavano fino ai confini dell’impero.
Coprivano di fiori i sepolcri e li visitavano spesso, celebrando persino banchetti per unirsi in spirito con le anime dei trapassati.
I cristiani dei primi secoli non sopprimono queste usanze pagane; al contrario, le accettano per purificarle e cristianizzarle. Erigono cimiteri sulle grandi vie, conservano le novendialia e nei giorni 3° e 9° vanno alle tombe per celebrare i banchetti.
La Chiesa dei primi secoli, con spirito di materna comprensione, accettò quanto vi era di accettabile nel rituale funebre latino, ma lo sublimò e lo santificò, infondendovi la speranza cristiana della risurrezione.
Così, fin dai primi tempi, alla liturgia funebre fu intimamente unita l’idea della Vita eterna: «Nulla di macabro o di spaventoso. Non apparati fregiati dall’emblema della morte, con crani e tibie di defunti disegnate su quei drappi. Tutto invece spirava pace e serena speranza».
Questo spirito si riflette nel Cum Christo vivas, in pace dormias, così frequenti nelle catacombe.
Ma la Chiesa santifica gli onori funebri, soprattutto introducendo in essi il Sacrificio eucaristico in suffragio per i defunti.
Tertulliano afferma: «Noi celebriamo la preghiera per i defunti natalitiis e nell’anniversario della morte».
Molto toccante è anche il testo di santa Monica tramandato dalle Confessioni di sant’Agostino: «Seppellite questo corpo dove che sia, senza darvene pena. Di una sola cosa vi prego: ricordatevi di me, dovunque siate, innanzi all’altare del Signore».
Sappiamo inoltre che fin dai tempi delle persecuzioni si recitavano delle preci funebri che i possono conside-rarsi come il rito primitivo delle ese-quie cristiane. Non si può determinare chiaramente quali fossero.
San Girolamo, nel descrivere quelle di Fabiola, dice che si udiva risuonare per le vie di Roma il canto dell’Alleluia. E nella vita di santa Paola dice che la salma della Santa fu portata a spalla dai vescovi, mentre altri prelati portavano torce e ceri; e che si cantarono ordinatamente salmi in greco, latino e siriaco, non solo per lo spazio di tre giorni, finché fu sepolta nella cripta accanto alla grotta del Signore, ma durante tutta la settimana.
Sant’Agostino, descrivendo i funerali di sua madre santa Monica, dice che Evodio intonò il salmo 100 e che tutti i presenti rispondevano ad ogni versetto Misericordiam et iudicium cantato tibi, Domine.
Quando l’Italia venne invasa dai barbari, i cimiteri cessano di esistere e si seppelliscono i fedeli nelle chiese o presso di esse. Scompaiono così i banchetti, i rosolia e tutto ciò che ha carattere puramente familiare, per lasciar posto solo a ciò che è strettamente liturgico, cioè: sepoltura nel luogo sacro e Messa nel giorno della sepoltura, nel terzo, nel settimo e nell’anniversario.
Questa liturgia comincia ad arricchirsi con l’introduzione dell ‘ufficio defunctorum, che si canta nei monasteri di Roma, già nel secolo VII.
Nel secolo X, soprattutto nei monasteri benedettini, prevalse l’uso di celebrare annualmente una memoria di tutti i benefattori o amici defunti del cenobio. Sant’Odilone, abate di Cluny, passa come colui che diede forza di legge e carattere universale a tale consuetudine invalsa già in molte chiese. Conosciamo l’editto di sant’Odilone. Esso è del 998, ma non riguarda che i soli cenobi che dipendevano allora da Cluny, e che giungevano a qualche centinaio sparsi, com’erano, in Francia, in Spagna ed in Italia.
In quel documento il pio Abate ordina che il dì primo novembre, dopo i vespri solenni, le campane diano i rintocchi funebri, ed i monaci celebrino in coro l’ufficio dei defunti.
Il giorno seguente, poi, tutti i sacerdoti debbono offrire a Dio il Divin Sacrificio prò requie omnium defunctorum.
Quest’uso trovò largo seguito, dapprima nei vari cenobi benedettini; quindi a poco a poco nei rituali diocesani, finché non divenne rito universale della Chiesa latina. Negli Ordines Romani, l’anniversarium omnium animarum (per tutte le anime defunte) compare la prima volta nell’Ordo XIV, del secolo XIV.
Nei secoli a noi più vicini, la pietà verso le povere anime del Purgatorio ha conseguito un enorme sviluppo. Fu così che durante la prima guerra mondiale (1914-1918) quando ogni città, per non dire ogni famiglia, ebbe a piangere i propri morti, Benedetto XV allargò a tutta la Chiesa Cattolica un Privilegio, che già Benedetto XIV aveva concesso agli Stati che stavano sotto la corona di Spagna: il permesso cioè ad ogni sacerdote di celebrare il dì due di novembre tre messe in suffragio dei Defunti. Nella mente del Concedente, oltre l’inutile macello, com’egli chiamò quella guerra, influirono anche altre ragioni.
«La pietà degli avi – spiega il beato Cardinal Schuster – aveva riccamente dotati gli altari, chiese e capitoli, perché dopo morte venisse suffragata colla Messa l’anima del donatore. La rivoluzione però e la confisca dei beni ecclesiastici il più delle volte hanno dissipati quei lasciti; cosicché, a cagione della miseria a cui ora è ridotto il clero, quel grande Pontefice si sentiva costretto tuttodì a dispensare capitoli, comunità religiose e sacerdoti dall’onere di questi antichi legati di Messe, divenuti ormai insolubili. Che fece allora Benedetto XV? Abituato già all’uso liturgico spagnolo sin dal tempo in cui era stato in quella nunziatura pontificia col defunto Cardinal Rampolla del Tindaro, egli permise ad ogni sacerdote di celebrare tre volte la Messa nella Commemorazione dei Fedeli Defunti. Le condizioni furono le seguenti: uno dei sacrifici poteva venir offerto secondo l’intenzione particolare del celebrante; gli altri due invece, volle il Papa che venissero celebrati, uno per tutti i fedeli trapassati, e l’altro, poi, a soddisfazione d’un cumulo e-norme di legati di Messe, rimasti insoluti per colpa del fisco.
Questa politurgia del 2 novembre, nell’odierna disciplina ecclesiastica viene a costituire un privilegio più unico che raro, il quale in certo modo equipara la Commemorazione di tutti i Fedeli Defunti al giorno stesso del santo Natale. E’ il vero Natale delle anime purganti».
Da ciò si comprende la grande importanza che riveste la Messa per i defunti.
San Tommaso dimostra teologicamente che è il principale suffragio.
La pietà dei fedeli verso i defunti, pertanto, deve indirizzarsi anzitutto a questo “supremo suffragio”, memore che gli ornamenti dei sepolcri servono talvolta per conforto, talvolta per vanità dei vivi, più che per sollievo dei defunti. Invece questi traggono beneficio dalla Messa, dalle elemosine e da ogni genere di opere caritatevoli.
Mons Domenico Pompili, sottosegretario della Cei e direttore dell’Ufficio nazionale per le comunicazioni sociali, ha dolorosamente espresso nel 2010: “La morte, in realtà, è rimossa dall’orizzonte della vita quotidiana, anche dal punto di vista percettivo, mentre proliferano le sue spettacolarizzazioni anche tra gli stessi cristiani che partecipano in massa ai funerali di qualcuno, ma senza poi ricordare ai suffragi, senza convertirsi più ad una preparazione alla Morte. I malati terminali spesso scompaiono nella solitudine degli ospedali e si muore per lo più lontano dalla famiglia. Ai bambini non si fa vedere la salma dei nonni, perché potrebbero rimanerne turbati e così si resta analfabeti e muti di fronte a un evento che è, invece, parte rilevante della vita”.
❖ Ad una mamma che ha perso un figlio(di San Basilio Magno)
La morte, triste eredità di ogni figlio d’Adamo, alla quale nessuno può sfuggire, non è la fine di tutto, ma l’inizio di quella vita beata che è l’unica degna di essere conquistata. Tutto passerà in questo mondo, dalle cose più umili alle più grandiose, ma la vita eterna durerà senza fine e sarà senza lutto né dolore.
«Per la tua dignità, avrei voluto star zitto, pensando che, come per un occhio infiammato anche il rimedio più delicato è causa di dolore, così per l’anima afflitta dal peso del dolore la parola, anche se di gran consolazione, può sembrare inopportuna se rivolta nel momento della sofferenza.
Ma poi mi è venuto in mente che avrei parlato a una cristiana, già da tempo ammaestrata nelle realtà divine e preparata agli eventi umani, e perciò non ho ritenuto giusto trascurare il mio dovere.
Conosco com’è il cuore di una madre, e quando penso in particolare al tuo cuore, per tutti tanto mite e buono, ne so misurare il dolore nelle presenti circostanze.
Hai perso un figlio che, quando era vivo, tutte le madri stimavano beato, desiderando che i loro figli fossero come lui; morto, tutte lo piangono come se i loro propri figli fossero sepolti sotterra. […].
Ma i nostri eventi non si svolgono senza la Provvidenza: come abbiamo imparato nel Vangelo, neppure un passero cade a terra senza la volontà del nostro Padre (cf Mt 10,29). Quando qualcosa succede, succede per volontà del nostro Creatore.
Chi può opporsi alla volontà di Dio? Accettiamo gli eventi: con l’impazienza non correggiamo ciò che è avvenuto e piuttosto roviniamo noi stessi: non accusiamo il retto giudizio di Dio.
Non siamo saggi abbastanza per giudicare i suoi disegni arcani. Ora il Signore mette alla prova il tuo amore per lui. Ora ti viene data l’occasione di aver parte tra i martiri, con la tua pazienza.
La madre dei Maccabei vide morire i suoi sette figli, eppure non gemette, non versò una lacrima indegna; invece ringraziò Dio di vederli liberare dai vincoli della carne col ferro e col fuoco, tra tormenti atroci; così piacque a Dio e divenne celebre tra gli uomini (cf 2 Mac 7). Il dolore è grande, lo affermo anch’io; ma è grande anche la mercede riposta presso Dio per chi sa sopportare.
Quando diventasti madre, vedesti il fanciullo e ringraziasti Dio, ma certo sapevi che tu, donna mortale, avevi generato un uomo mortale.
È strano dunque che sia morto chi era mortale?
Ma ci tormenta che sia morto così presto. Eppure non sappiamo se sia morto proprio a suo tempo: non siamo in grado di giudicare ciò che è utile per le anime e determinare i limiti della vita umana.
Considera il mondo intero in cui tu abiti, e rifletti che tutto quello che vediamo è mortale, tutto è soggetto alla distruzione.
Guarda lassù il cielo: anch’esso un giorno si dissolverà; guarda il sole: neppure esso resterà per sempre. Le stelle tutte, gli animali terrestri e marini, la bellezza del mondo, la terra stessa: tutto è soggetto alla distruzione, tutto fra non molto più non sarà. Il pensiero di ciò ti sia di conforto nella disgrazia. Non misurare il dolore in sé, altrimenti ti sembra insopportabile; giudicalo insieme con tutti gli eventi umani e così troverai conforto.
[…] Ritengo che le parole non siano sufficienti per confortare, ma credo che in queste circostanze sia necessaria la preghiera. Prego dunque il Signore stesso che con la sua ineffabile potenza tocchi il tuo cuore, illumini la tua anima con buoni pensieri, affinché tu possa trovare in te stessa il modo di confortarti ».
❖ II momento della Morte di Santa Caterina da Siena
Il demonio non può fare nulla alle anime se non quanto Dio permette che faccia per provare la loro virtù e conquistarsi così la salvezza e la santità. Ogni anima riceve da Dio le grazie necessarie per vincere le tentazioni e, se cade in peccato, ciò accade perché lo ha voluto. Alla morte ognuno avrà per giudice solo la propria coscienza e da se stesso, se non si converte, si condannerà in eterno.
MORTE DEI GIUSTI E DEI PECCATORI
«I demoni sono ministri incaricati di tormentare i dannati nell’inferno e di esercitare e provare la virtù delle anime in questa vita. La loro intenzione non è certamente di provare la virtù, perché non hanno la carità; essi vogliono distruggerla in voi, ma non lo potranno mai fare, se voi non volete consentirvi.
Ora, considera la pazzia dell’uomo che si rende debole per il mezzo appunto ch’io gli avevo dato per esser forte, e che si abbandona da se stesso nelle mani del demonio. Perciò voglio che tu sappia ciò che accade nel momento della morte a quelli che, durante la loro vita, hanno volontariamente accettato il giogo del demonio, il quale non poteva costringerveli.
I peccatori che muoiono nel loro peccato non hanno altri giudici che se stessi; il giudizio della loro coscienza basta, ed essi si precipitano con disperazione nell’eterna dannazione. Prima di passarne la soglia, essi l’accettano per odio della virtù, scelgono l’inferno coi demoni, loro signori.
All’opposto i giusti, che vissero nella carità, muoiono nell’amore. Quando viene il loro ultimo istante, se hanno praticata perfettamente la virtù, illuminati dal lume della fede e sostenuti dalla speranza del Sangue dell’Agnello, vedono il bene che Io ho loro apparecchiato, e colle braccia dell’amore lo abbracciano stringendo con strette d’amore Me, sommo ed eterno bene, nell’ultima estremità della morte. E così gustano vita eterna prima che abbiano lasciato il corpo mortale, cioè prima che sia separata l’anima dal corpo.
Per quelli che passarono la loro vita in una carità comune senza aver raggiunta quella gran perfezione, quando arrivano alla morte si gettano nelle braccia della mia misericordia col medesimo lume della fede e colla medesima speranza ch’ebbero in un grado inferiore. Essendo stati imperfetti, essi abbracciano la mia misericordia, perché la trovano più grande delle loro colpe. I peccatori fanno il contrario: essi vedono con disperazione il posto che li attende e con odio l’accettano.
Gli uni e gli altri non attendono di essere giudicati, ma partonsi di questa vita, e riceve ognuno il luogo suo. Lo gustano e lo posseggono prima che si partano dal corpo, nell’estremità della morte. I dannati seguono l’odio e la disperazione; i perfetti seguono l’amore, il lume della fede, la speranza del Sangue dell’Agnello; gl’imperfetti si affidano alla mia misericordia e vanno in Purgatorio» (Dialogo, c. XLII).
PACE DELLE ANIME SANTE NEL MOMENTO DELLA MORTE
«Quant’è felice l’anima dei giusti quando essi arrivano al momento della morte… A costoro non nuoce la visione dei demoni, perché vedono Me per la fede e mi posseggono per l’amore e perché in loro non è veleno di peccato. La loro oscurità non dà ad essi noia né alcun timore, perché il loro timore non è servile, ma santo. Onde non temono i loro inganni; perché col lume soprannaturale e col lume della Sacra Scrittura ne conoscono gl’inganni; sicché non ricevono tenebre né turbamento.
Essi muoiono gloriosamente bagnati nel Sangue del mio Figliuolo, colla fame della salute delle anime e, tutti affocati nella carità del prossimo, passano per la porta del Verbo divino, entrano in Me e dalla mia bontà sono collocati ciascuno nello stato suo, e vien misurato loro secondo la misura che hanno recata a Me dell’affetto della carità» (Dialogo, c. CXXXI).
IL DEMONIO E IL PECCATORE MORENTE
«Quanto spaventosa e terribile è la morte dei peccatori! Nei loro ultimi momenti, il demonio li accusa e li spaventa apparendo loro. Tu sai che la sua figura è tanto orribile che la creatura eleggerebbe ogni pena che in questa vita si potesse sostenere, anziché vedere il demonio nella visione sua.
E tanto si rinfresca al peccatore lo stimolo della coscienza che miserabilmente lo rode nella coscienza sua.
Le disordinate delizie e la propria sensualità, la quale si fece signora e la ragione fece serva, l’accusano miserabilmente, perché egli allora conosce la verità di quello che prima non conosceva. Onde viene a gran confusione dell’errore suo; perché nella vita sua visse come infedele e non fedele a Me; perché l’amor proprio gli velò la pupilla del lume della santissima fede. Onde il demonio lo molesta d’infedeltà, per farlo venire a disperazione… In questo gran combattimento egli si trova nudo e senza alcuna virtù; e da qualunque lato si volti, non ode altro che rimproveri con grande confusione». (Dialogo, CXXXII).
❖ LA TEOLOGIA DELLE ESEQUIE CRISTIANE (don Enrico Finotti – da Zenit 2012)
Uno degli errori oggi più diffusi è quello di sottovalutare le basi teologiche e impostare dei progetti pastorali senza il fondamento dottrinale, con esclusiva attenzione alle urgenze sociologiche. In tal modo tutto diventa fragile e, in poco tempo, anche un progetto alquanto elaborato viene travolto dal passare di quelle opinioni momentanee che l’hanno generato. Questa insipienza, tipica del relativismo, porta a non dedicare sufficiente tempo ed energie alla formazione teologica e, non considerandone adeguatamente la sua necessità essenziale, tutta la costruzione è posta in stato permanente di crollo. E’ ciò che avviene anche nel tessuto ecclesiale, quando miriadi di pubblicazioni e interminabili riunioni producono frutti effimeri e bruciano inutilmente le migliori intenzioni. Di qui lo stato diffuso di spossatezza e di inefficacia, che debilita i pastori e i fedeli.
Anche riguardo alle esequie ecclesiastiche, una pastorale intelligente, duratura ed efficace sul popolo di Dio, non può che basarsi su una solida teologia, che illumini e giustifichi il senso dei riti liturgici.
Il Sommo Pontefice Benedetto XVI è maestro di questa rifondazione teologicaa tutto l’agire della Chiesa e il suo magistero, se accolto con docilità, porterà la Chiesa a quella solidità di pensiero e di azione, che è intrinseca alla rivelazione divina e che non ammette il dubbio sistematico e la vaporosità di una ricerca mai conclusa e fine a se stessa. Per questa urgente opera di rifondazione teologica il Papa esordisce indicando come prima emergenza proprio la Liturgia, culmen et et fons’ della vita della Chiesa. Le sue omelie, in particolare, introducono i fedeli nella celebrazione dei santi Misteri in linea con la più classica tradizione mistagogica dei Padri, costituendo un esempio di alto profilo per tutti i sacerdoti.
Le esequie cristiane si rapportano alle due dimensioni costitutive dell’uomo: l’anima e il corpo. La Chiesa eleva il pio suffragio per l’anima immortale del defunto, nella speranza della sua eterna salvezza, e ne onora con una degna sepoltura il corpo esanime, nell’attesa della sua risurrezione.
I riti esequiali descrivono e trasmettono fondamentali articoli di fede, che costituiscono la ‘forma’ interiore e il senso dei riti esteriori trasmessi dalla tradizione liturgica.
Possiamo allora individuare i principali dogmi che vi sono sottesi.
1. L’immortalità dell’anima
Nelle esequie cristiane spira una presenza soprannaturale, che ci fa percepire che l’anima del defunto non è estinta nel nulla, ma è viva, perché immortale. Sta ora sul versante ultraterreno, è uscita dal regime della fede ed è entrata nella dimensione dell’ eternità. Pur separata dal corpo, sussiste nell’esercizio, per quanto misterioso ma reale, delle sue facoltà spirituali. Tale certezza fa delle esequie una celebrazione di vita e di profonda serenità, pur nell’amarezza delle lacrime per il distacco e apre i credenti all’attesa di un rinnovato incontro con chi vive e ci aspetta lassù, come ben si esprime una monizione del rito delle esequie: “…di nuovo infatti, potremo godere della presenza del fratello nostro e della sua amicizia e, questa nostra assemblea, che ora con tristezza sciogliamo, lieti un giorno nel regno di Dio ricomporremo” (Rito delle Esequie, n. 73).
2. Il Purgatorio
La Chiesa sa bene che ogni uomo è peccatore e, nonostante il lavacro battesimale, a causa della concupiscenza, la vita della Grazia è fragile e l’itinerario terreno faticoso e incerto. Al di là del perdono sacramentale, elargito ordinariamente mediante il sacramento della Penitenza, la Giustizia divina esige una adeguata riparazione, prima che l’anima possa accedere alla gloria: è il dogma del purgatorio. La Chiesa, dunque, non presume mai nei suoi figli quello stato perfetto di santità, che solo Dio può riconoscere e, umilmente, invoca misericordia, eleva il suffragio e si mantiene sotto il giogo della penitenza. Per questo lo stile della liturgia esequiale è penitenziale: nel colore (viola o nero), nell’addobbo (assenza di fiori), nel tenore delle orazioni e nei canti. La Chiesa non ‘canonizza’ il defunto, ma lo affida a Dio con il cuore contrito ed umiliato e aspetta solo da Lui la lode. In qualche modo, nelle esequie, la Chiesa, secondo la parabola evangelica del banchetto nuziale (Lc 14, 7ss.), pone il defunto all’ultimo posto, steso a terra ai piedi della ‘santa mensa’, e attende che Dio stesso, e solo Lui, sorga e dica “Amico, passa più avanti” (Lc 14, 10).
3. La comunione dei Santi
La Chiesa sa di poter comunicare misteriosamente con i Defunti, di poterli affidare realmente alla misericordia di Dio, di avere con loro una misteriosa solidarietà soprannaturale e ricevere il beneficio di una invisibile e valida intercessione. Per questo educa i suoi figli, ancora peregrini qui in terra, a mantenere una continua comunione con coloro che ci hanno preceduti nel segno della fede e dormono il sonno della pace. Le persone amate e tutti quelli che ci hanno fatto del bene ci seguono, ci amano con carità soprannaturale e intercedono per noi secondo i disegni di Dio. Essi ci attendono là dove ogni lacrima sarà asciugata e si vedrà il volto di Dio. S. Cipriano afferma tutto ciò con squisita dolcezza: “Là ci attende un gran numero di nostri cari, ci desiderano i nostri genitori, i fratelli, i figli in festosa e gioconda compagnia, sicuri ormai della propria felicità, ma ancora trepidanti per la nostra salvezza” (Lit. Ore, Uff. lett. venerdì 34° sett. ord.).
Soffermiamoci a questo punto a considerare gli effetti che la secolarizzazione sta oggi producendo, entrando violentemente nella liturgia esequiale della Chiesa. Il cuneo che ne consente l’ingresso è costituito da un concetto di ‘pastorale’ intesa ormai solo come accondiscendenza sociologica all’ambiente, senza più riferimento al Mistero della fede.
La mentalità secolarizzata dominante cancella totalmente i dogmi della fede sopra esposti e svuota di conseguenza lo spirito e la lettera dei riti liturgici stabiliti dalla Chiesa, che vengono devitalizzati, alterati e, infine, omessi e reinventati.
Mentre le esequie ecclesiastiche sono celebrazioni vive nel presente e rivolte al futuro, aperte alla speranza teologale e alla luce mirabile di ciò che ancora non vediamo, le esequie secolarizzate sono irreversibilmente rivolte al passato, travolte dal flusso inesorabile del tempo e fragili come la memoria psicologica. Infatti, se il defunto è nel nulla e di lui non rimane niente come persona viva, se insomma l’immortalità dell’anima è negata, resta solo il triste ricordo, totalmente sul versante del passato e inesorabilmente sempre più flebile, fino alla sua graduale dissoluzione. Per questo la secolarizzazione accentra la celebrazione sulla commemorazione del defunto. Essa, infatti, è il perno rituale nelle esequie profane. Ma la commemorazione è sguardo al passato.
La persona commemorata né vive, né più ritornerà. Di essa rimangono solo le sue idee, il suo esempio e le sue opere: tutte realtà compiute dalla persona estinta, ma prive del soggetto vivo che le ha prodotte e quindi affidate alla interpretazione positiva o negativa dei posteri, come anche alla loro totale obliterazione.
Se l’anima non vive più, diventa del tutto inutile la preghiera di suffragio per l’eventuale purificazione ultraterrena. Col dogma dell’immortalità dell’anima cade pure quello sul purgatorio e quello della comunione dei Santi. Così in linea con la secolarizzazione si farà ampio uso dell’elogio.
Non resta, infatti, che celebrare con enfasi quei ‘fasti’, che ora sono retaggio della memoria di chi ha conosciuto il defunto.
La compiacenza verso i parenti o verso le istituzioni a cui apparteneva esige che un grande elogio funebre consoli chi resta e giustifichi l’ideologia o l’istituzione a cui il defunto aderiva. Ebbene la commemorazione e l’elogio stanno inquinando in modo esteso le esequie cristiane, sia in certe omelie, come soprattutto in interventi disseminati nel tessuto del rito esequiale e proposti in momenti rituali e luoghi sacri del tutto impropri.
La ‘canonizzazione’ del defunto si manifesta anche nei riti: l’uso facile di paramenti bianchi e canti di superficiale sentimentalismo stanno corrompendo la liturgia esequiale cristiana, che da molte parti non esiste più nella sua vera identità. Gli applausi sono i prodotti secolaristici delle acclamazioni liturgiche e un buonismo livellante sta cancellando ogni annunzio rigoroso del dogma della fede. Quella sobrietà e delicata circospezione che la Chiesa raccomanda, sia nel ricordare il defunto, come nel proporlo ad eventuale esempio ai fedeli, sta cedendo di fronte all’irruzione del costume dominante, che ormai costringe e assedia con modelli imposti violentemente dall’opinione.
Le esequie si rapportano anche al corpo del defunto, che sta per ricevere degna sepoltura. Ed anche verso di esso i riti della Chiesa rivelano e comunicano importanti dogmi di fede, che completano quelli già sopra descritti.
4. Il peccato originale
Il corpo quando è vitale sta in posizione eretta, ma, appena la vita lo abbandona, cade a terra e rimane disteso. Tutti gli uomini non possono che constatare questo fatto fisico. E’ quindi questa la posizione più naturale del corpo esanime nelle esequie. La Chiesa però non si ferma a questo dato e annunzia un mistero più profondo: l’uomo muore a causa del peccato originale, secondo le stesse parole del Signore Dio “…polvere tu sei e in polvere tornerai!” (Gen 3, 19). Deponendo il corpo dei suoi defunti, la Chiesa proclama la realtà del peccato originale, di cui la morte corporale è frutto e immagine. Essa non è secondo il piano di Dio, infatti: Dio non ha creato la morte e non gode per la rovina dei viventi, ma la morte è entrata nel mondo per invidia del diavolo (Sap 1, 13.2, 24). In tal senso il Miserere (Sl 50) è parte tradizionale delle esequie cristiane: ‘nel peccato mi ha concepito mia madre’. Il corpo disteso a terra, quasi a contatto con essa, proclama in modo visivo il nostro essere peccatori, pagandone il prezzo con la perdita dell’immortalità e portando nella nostra carne fino alle ultime conseguenze il castigo divino, pronunziato fin dalle origini: “…tornerai alla terra, perché da essa sei stato tratto…” (Gen 3, 19).
5. L’ultima penitenza
La morte corporale è l’ultimo atto della necessaria penitenza dovuta al peccato. Tutti, per quanto eminenti in santità, devono passare per questo estrema prostrazione penitenziale. Il Signore stesso, senza peccato, ha voluto subire nella sua morte e sepoltura, quella abissale umiliazione penitenziale che ci ha redenti. Ed ecco che il corpo senza vita del defunto, deposto davanti all’altare, in qualche modo celebra il suo ultimo atto penitenziale: il giacere esanime sulla terra. Lo aveva ben compreso S. Francesco di Assisi, che in prossimità della morte, volle farsi deporre dai suoi confratelli sulla nuda terra e così esalare l’ultimo respiro. Lo comprese il Papa Paolo VI, che volle il suo feretro a contatto con la terra e in tal modo ispirò la forma più eloquente del rito cristiano delle esequie. Ma il defunto non giace da solo, la tradizione pone sulla bara la Croce. Egli giace in misteriosa solidarietà col mistero della sepoltura del Signore e lo Spirito custodisce la sua carne in attesa del risveglio.
6. La risurrezione della carne
Il feretro è vigilato dal Cero pasquale, che dal suo candelabro illumina le tenebre della morte: è Cristo risuscitato dai morti, primizia di coloro che sono morti (1 Cor 15, 20). Se la croce sulla bara annunzia la solidarietà con la morte del Signore, il Cero pasquale annunzia la futura risurrezione di questa medesima carne, che ora sta esanime e immota. Poi quel corpo sarà deposto nel cimitero, ossia nel dormitorio, termine cristiano per affermare il misterioso ma vero risveglio nell’ultimo giorno. Tutto quindi parla di vita, anche per la carne e non solo per l’anima; e questa è la novità più tipica dell’escatologia cristiana, che annunzia una salvezza integrale della totalità della persona, anima e corpo.
Ed ecco, che, appena la secolarizzazione invade il rito cristiano delle esequie, pure questi altri dogmi della nostra fede vengono letteralmente cancellati e alla loro rimozione segue, inevitabile, una liturgia di sostituzione, che interpreta la nuova visione. Se cade il dogma del peccato originale, cade quello della penitenza quale necessità per il peccato e, se già l’anima è estinta nel nulla, ancor più il corpo è ormai inteso come materiale inerte, senza la profondità propria del mistero di Dio, che lo risusciterà. Anche riguardo al corpo nelle esequie secolarizzate lo sguardo è irrimediabilmente rivolto al passato: non c’è l’orizzonte luminoso sul Dio dei viventi e l’attesa dell’opera meravigliosa, che Egli compirà nel giorno della risurrezione. I riti allora dovranno interpretare la visione dell’uomo terreno, ormai privo del trascendente.
Il corpo subisce la fatua celebrazione di ciò che fu nel passato mediante il tumolo, monumento celebrativo che vuole interpretare la personalità dell’estinto. Si metterà in luce il suo ruolo, la sua autorità, il suo genio, la sua opera, ma al contempo si creerà una graduazione di classi in base al censo, o al ruolo sociale. Comunque sarà oscurata sia la fondamentale realtà della morte che tutti accomuna, sia dell’umile penitenza che è intrinseca allo stato del corpo morto. Il tumolo potrà avere diverse tipologie, che da quelle storiche arrivano a quell’ingombro di oggetti, cari al defunto, che oggi coprono, talvolta banalmente la bara, ma rappresenta sempre il segno eloquente di quella commemorazione rivolta irrimediabilmente al passato e ormai priva di vita, che sarà tanto più accentuata quanto più si eclisserà il senso della trascendenza e il compimento ultimo nel futuro di Dio.
Non si intende qui considerare le diverse forme storiche, assunte anche dalla liturgia della Chiesa, ma assicurare che in ogni forma antica o nuova non venga mai compromesso il carattere cristiano e i diversi aspetti del dogma della fede che vi sono connessi e che nelle modalità rituali devono essere ben visibili. E’ altresì evidente che nella celebrazione profana delle funerali il tumolo col cadavere elevato e onorato diventa l’icona centrale, il punto ottico di attrazione, ma nella celebrazione esequiale cristiana, invece, nessuno dovrà mai attentare alla centralità, al primato e alla sacralità dell’altare.
Anche il corpo esanime del defunto è orientato all’altare, davanti ad esso sta prostrato e da esso, sul quale si compie il Sacrificio incruento della Croce, scaturisce la sorgente viva della salvezza eterna dell’anima e il soffio vitale che risusciterà la carne nell’ultimo giorno. A nessuno, dunque, è lecito attentare alla maestà dell’altare!
Un ultimo dogma della fede sta a fondamento del carattere proprio delle esequie cristiane:
7. Il giudizio particolare da parte dell’unico giudice costituito da Dio, il Signore Gesù Cristo.
Occorre non dimenticare ciò che afferma l’Apostolo: Io neppure giudico me stesso… Il mio giudice è il Signore (1 Cor 4, 4). La Chiesa, ispirando a sobrietà la commemorazione del defunto ed evitando un superficiale elogio, sa bene che solo Dio è il giudice e solo Cristo sa quello che c’ è nel cuore dell’uomo (Gv 2, 25). Quello che di una persona apparve in vita potrebbe essere una ingannevole maschera, infatti l’uomo guarda all’apparenza, ma Dio guarda al cuore (1 Sam 16, 7). S. Agostino afferma: “Quale uomo infatti è in grado di giudicare un altro uomo? Il mondo è pieno di giudizi avventati. Colui del quale dovremmo disperare, ecco che all’improvviso si converte e diviene ottimo. Colui dal quale ci saremmo aspettati molto, ad un tratto si allontana dal bene e diventa pessimo….
Che cosa sia oggi ciascun uomo, a stento lo sa lo stesso uomo. Tuttavia fino a un certo punto egli sa cosa è oggi, ma non già quello che sarà domani…” (dal ‘Discorso sui pastori’). Per questo la Chiesa si discosta dal giudizio e lo affida a Dio, restando in profonda adorazione del Suo giusto verdetto. Ciò non succede nelle esequie secolari, che impostano inevitabilmente la loro celebrazione sul mero tessuto dell’apparenza umana dell’estinto e si pronunziano solo sulla corteccia superficiale delle sue opere esteriori. Lo sguardo umano non può, infatti, andare oltre a ciò che appare e il mistero della persona rimane velato. Solo Dio penetra quel velo, scruta le facoltà interiori e pronunzia un giudizio vero, inappellabile e definitivo. Anzi, mediante l’elogio, tale apparenza tende ad essere potenziata e, omessa ogni scoria e debolezza, viene idealizzata, perché non resta altro che ciò che appare.
Non raramente poi la verità oggettiva in ordine al bene e al male viene oscurata da una commemorazione riduttiva, posta a servizio delle tante umane convenienze di coloro che rimangono. Certo non si intende delegittimare la giusta commemorazione e il dovuto elogio, se il defunto veramente lo merita. Infatti le esequie del Giusto dovrebbero essere il suo ultimo atto di evangelizzazione e la consegna alla Chiesa, che lo ha generato, della sua estrema testimonianza di fedeltà e di vita in Cristo. Tuttavia sono diversi i toni, sobri gli accenni, umili i ricordi, contenuti i tempi e mai dovrà essere incrinato o in qualche modo oscurato il primato di Cristo e del suo Mistero. Egli è il Protagonista e con Lui la Chiesa, non dissociabile da Lui Sposa. In realtà ogni intervento indebito sul rito liturgico delle esequie espone il defunto ad un protagonismo che non deve avere e strumentalizza la fede e la liturgia al servizio del piccolo orizzonte di ciò che noi percepiamo.
Se non si interviene con urgenza e determinazione nella liturgia esequiale, come in molti altri campi della vita della Chiesa attuale, si arriverà, in un futuro molto prossimo, ad essere posti al servizio delle opinioni e del costume dominante e si potrebbe seriamente rischiare che l’eresia sia attribuita all’ortodossia, resa minoritaria, e a coloro che con tutte le forze cercano di mantenersi fedeli al dogma della fede e alla disciplina della Chiesa.
Che una solida teologia sia a fondamento di una nobile liturgia e l’intelligente obbedienza alle prescrizioni della Chiesa offra al popolo di Dio una edificante e degna celebrazione delle esequie dei figli di Dio.
❖ RISCOPRIRE I NOVISSIMI nel mese di Novembre
Che i Novissimi siano importanti per la vita era ben espresso dall’ammonizione, pezzo forte dei predicatori: memorare novissima tua et non peccabis ( il ricordo dei Novissimi ti terrà lontano dal peccato). Il discorso sulla fine è, in definitiva, sul fine che diamo alla vita. Vale la pena pensarci bene: su che cosa fondo la mia vita? Ho trovato un solido ancoraggio per la barchetta della mia esistenza? Domanda totale: per chi vivo?
Oggi si fa gran fatica parlare del peccato, anzi, sembra persino offensivo dire al peccatore: “amico, stai sbagliando! Vuoi comprendere il perchè?” e si evita di usare il termine “peccato”, che oramai è fatto d’uso esclamativo, magari per aver perso una partita di calcio, solo nelle sfortune mondane si sente dire “peccato!”, oscurando così il vero senso di questa parola.
Quante volte sentiamo dire ad un funerale: “Che peccato! è morto”, si capisce che chi usa con facilità questa parola, non ne conosce affatto il significato, altrimenti non la userebbe neppure verso la morte di un amico o del proprio genitore.
« Una delle più terribile imprudenze per l’anima, che ha conseguenze fatali, è quella di dimenticare le cose future, di non considerare i novissimi e arrivarvi impreparati. Quale rabbia sarà per i figli del mondo l’udirsi rinfacciare dai demoni nell’inferno: “O sciagurati! Voi sapevate che c ‘era un inferno e, potendolo schivare con poco costo, vi ci siete tuffati a capofitto! Voi avete dimenticato i novissimi, e avete perduto tutto..”
E sarà l’eterna dannazione, e questo “peccato” sarà solo vostro, non certo di Dio.
Memorare novissima tua – di padre Cornelio A. Lapide (1567 – 1637), gesuita belga.
GRANDE DISGRAZIA È DIMENTICARE I NOVISSIMI
I novissimi, cioè gli ultimi fini, sono la morte, il giudizio, il paradiso, l’inferno, l’eternità.
Dimenticare (volutamente, ben si intende) cose di tanta importanza, non prevederle, non prepararvisi, è la somma delle disgrazie che possa accadere ad un uomo, è il vero peccato.
Infatti, dimenticare la morte vuol dire non pensare a prepararvisi, ed avventurarsi alla triste morte del peccatore: disgrazia irreparabile.
Dimenticare il giudizio di Dio, non v’è giustificazione che tenga, è disprezzarlo; e allora sarà molto terribile questo giudizio.
Dimenticare il cielo è grande sciagura, perché così facendo non si fa nulla per guadagnarlo, e lo si perde; e perduto il paradiso, tutto è perduto.
Dimenticare l’inferno è andarvi incontro; e chi vi s’incammina facilmente vi precipita. Dimenticare l’eternità è lo stesso che perdere il tempo e l’eternità; si può immaginare disgrazia più tremenda?
Ciò nonostante, oh! come è comune nel mondo la dimenticanza dei novissimi! Perciò Gesù fulminò quello spaventevole anatema: «Guai al mondo!» (Mt 18,7).
A quanti si possono rivolgere quelle parole del Signore nel Deuteronomio: «Gente senza consiglio e senza prudenza, perchè non aprire gli occhi e comprendere e provvedere ai loro novissimi?» (32,28-29).
E quelle altre d’Isaia: «Tu non hai pensato a queste cose, e non ti sei ricordato dei tuoi novissimi» (47,7).
Ci si parla dei nostri novissimi; noi li conosciamo, vi crediamo, e intanto operiamo come se non ci riguardassero affatto e non diventiamo migliori! O cecità fatale! O follia incredibile! O uomini stupidi e da compiangersi! Non pensare, non penetrare, non temere cose tanto gravi, non prepararmi!
QUANTO È UTILE RICORDARSI DEI NOVISSIMI
«In tutte le tue opere – dice il Savio — proponiti sotto gli occhi i tuoi novissimi, e non cadrai mai in peccato» (Eccl 7,40).
La ragione è chiara, poiché il fine che uno si propone diventa il principio e la regola di tutte le azioni; ora, il fine di tutte le cose sta compreso essenzialmente nei fini ultimi, ossia nei novissimi. Tutte le persone operano per un fine; perché dunque non operare guardando ai fini ultimi?…
Chi dice a se stesso, quando si sente tentato a offendere Dio: “Al punto di morte, vorrò io aver commesso questo peccato?”, tosto si mette sull’avviso e resiste. Quando sarò innanzi al tribunale di Dio, quando il Giudice divino mi peserà nella bilancia della sua giustizia, vorrò che il peso dei miei misfatti vinca quello delle mie virtù? Ebbene, schiverò il peccato e praticherò la virtù. Mi sta a cuore di passare dal tribunale di Dio al cielo? dunque mi studierò di guadagnarmi questo cielo. Forse che mi garberà udirmi al giudizio quella terribile sentenza: Partitevi da me, o maledetti, e andate al fuoco eterno? Dio me ne scampi!”
Dunque mi applicherò a chiudermi l’inferno per sempre, schivando soprattutto il peccato mortale. Quando entrerò nell’eternità, vorrò io aver perduto il tempo? Certo che no: conviene dunque che non ne perda un istante”. Queste sono le salutari considerazioni che fa colui il quale non dimentica i suoi novissimi.
Dunque, chi non vede ch’egli diventa quasi impeccabile, compiendosi in lui il detto dello Spirito Santo: «Memorare novissima tua, et in aetemum non peccabis?».
Il fine dell’uomo, che è la beatitudine eterna, lo porta alla fuga del peccato e alla pratica della virtù, come a mezzi coi quali si ottiene la beatitudine.
Perciò sant’Agostino dice: «La considerazione di questa sentenza: “Ricorda i tuoi novissimi e non peccherai in eterno” è la distruzione dell’orgoglio, dell’invidia, della malignità, della lussuria, della vanità e della superbia, il fondamento della disciplina e dell’ordine, la perfezione della santità, la preparazione alla salute eterna. Se ti preme di non perderti, guarda in questo specchio dei tuoi novissimi ciò che sei e ciò che sarai; tu la cui concezione è macchia vergognosa, l’origine è fango, il termine è putredine. Davanti a questo specchio, cioè in faccia ai novissimi, che cosa diventano le delicate imbandigioni, i vini squisiti, le splendide calzature, il lusso del vestire, la mollezza della carne, la ghiottoneria, la crapula, l’ubriachezza, la magnificenza dei palazzi, l’estensione dei poderi, l’accumulamento delle ricchezze?».
Prendiamo dunque il consiglio di san Bernardo e nel cominciare un’azione qualunque diciamo a noi medesimi: “Farei io questo, se dovessi morire in questo momento?”.
Simile a quella di san Bernardo è la regola di condotta suggerita dal Siracide, per ordinare e santificare tutte le nostre azioni: «In ogni tua impresa scegli quello che vorresti aver fatto e scelto quando sarai in punto di morte».
Fate tutte le vostre azioni come vorreste averle fatte il giorno in cui comparirete innanzi a tutto il mondo, per renderne conto al supremo tribunale di Dio. Non fate cosa di cui abbiate a pentirvi eternamente: schivate quello che vi farebbe piangere per tutta l’eternità, quello che vi toccherebbe pagare nell’eterno abisso dell’inferno.
Studiatevi di fare benissimo e perfettissimamente ogni cosa, affinché abbiate da rallegrarvi di tutto ciò che pensate, dite, e fate; e ne riceviate una ricca mercede in cielo.
Ora la memoria dei novissimi procura tutti questi vantaggi.
Non dimenticate anche che sono prossimi i vostri novissimi; che incerta è l’ultima ora… Chi non teme una cattiva morte come avrà paura del giudizio e dell’inferno? Ah! Se gli uomini pensassero di frequente al giorno della loro morte, preserverebbero la loro anima da ogni cupidigia e malizia…
O voi, che volete essere eternamente felici, pensate sempre a quella sentenza. Parlando di Gerusalemme, Geremia dice che «ella si dimenticò del suo fine, perciò sdrucciolò in un profondo abisso di miserie e di degradazione» (Lament. 1,9).
Dunque, pensando agli ultimi fini non si cade, e chi è caduto si rialza.
«Noi cessiamo di peccare — dice san Gregorio — quando temiamo i tormenti futuri». Ripetiamo anche noi col Salmista: «Ho pensato ai giorni antichi, ho meditato gli anni eterni» (Sal. 76,5).
COME DOBBIAMO RICORDARE I NOVISSIMI
Perché il ricordo dei novissimi abbia tutta l’efficacia che ne promette lo Spirito Santo, conviene in primo luogo che non si fermi soltanto sopra di uno ma li abbracci tutti. Per qualcuno, infatti, il pensiero della morte, invece di essere incentivo al bene, può essere uno stimolo al male: «La nostra vita sfumerà come nebbia» (Sap 2,3), dissero gli empi ricordandosi della loro morte imminente; ma da questo pen-siero conclusero: « Venite dunque e godiamo finché abbiamo tempo» (ivi, 6).
Perciò non dice il Savio nel citato testo: memorare novissimum tuum, ma novissima tua; perché il pensiero della morte riesca proficuo, ricordiamoci che alla morte terrà dietro un duro giudizio (Eb 9,27); che al giudizio andrà annessa una sentenza o di eterna pena o di eterno premio (Mt 25,46).
Dal ricordo dei novissimi trae pure un gran vantaggio la vita spirituale del cristiano, la quale consistendo nella pratica delle quattro virtù cardinali – prudenza, giustizia, fortezza e temperanza – trova nella meditazione dei novissimi un ottimo alimento.
Infatti il ricordo della morte distrugge l’ambizione e la superbia, e così dà la prudenza. La memoria del giudizio, mettendoci dinanzi agli occhi quel giudice rigoroso, ci porta a usare giustizia e bontà col prossimo. Il ricordo dell’inferno reprime l’appetito dei piaceri illeciti e così avvalora la temperanza. La memoria del Paradiso diminuisce il timore dei patimenti di questa vita e così rinsalda la fortezza.
Si richiede, in secondo luogo, che questo ricordo sia fatto sulla propria persona, come pare ci dica il Savio il quale non dice semplicemente: memorare novissima, ma vi aggiunge tua.
Quanti vi sono che ricordano i novissimi anche spesso, ora discorrendone nelle chiese, ora trattandone nei libri, ora disputandone sulle cattedre, ora figurandoli o su marmi, o su bronzi, o su tele?
Eppure non menano tutti una vita santa. Bisogna che chi ricorda i novissimi pensi che proprio lui si troverà, e forse tra brevissimo tempo, sul letto di morte, nella bara, al camposanto…
Che proprio lui si presenterà al giudizio di Dio e a lui toccherà il castigo o il premio eterno.
Conviene, in terzo luogo, che questo ricordo dei novissimi non sia cosa speculativa o spauracchio, ma pratica, perciò lo Spirito Santo fa precedere al testo citato quelle parole: “in omnibus operibus tuis”, in ogni tua azione.
Se prima di ogni azione considerassimo i novissimi, non solo eviteremmo il peccato, ma troveremmo in quella considerazione la forza di praticare le più eroiche virtù.
Sarebbe poi un errore il credere che il pensiero dei novissimi porti con sé la tristezza. Se lo Spirito Santo ci assicura che il ricordo frequente dei novissimi basta a tenerci pura la coscienza: “in aeternum non peccabis”, è chiaro che esso porta con sé la gioia del cuore che è la più grande di tutte le gioie (Eccl.30,16).
E ne abbiamo, infatti, una conferma nel medesimo Ecclesiastico il quale, dopo di aver detto in altro luogo: «Non abbandonarti alla tristezza, ma cacciala da te» (38,21), soggiunge subito «et memento novissimorum», e ricordati dei novissimi, quasi che il pensiero dei novissimi sia il mezzo più sicuro per tenere lontana dal cuore umano la vera tristezza».
❖ I DOLORI DELLA MORTE
Il Signore fece comprendere a santa Brigida che le pene dure e umilianti che spesso i cristiani subiscono in morte sono un effetto della sua misericordia:
«Sono forse Io stesso degno di disprezzo perché la mia morte fu dura e vergognosa? I miei eletti sarebbero essi degli insensati per aver sofferto cose umilianti?
No, ma Io e i miei eletti abbiamo sofferto cose umilianti, per mostrare con la parola e con l’esempio che le vie del Cielo sono dure ed aspre e per far intendere ai cattivi quanto essi abbiano bisogno d’essere purificati, dal momento che anime innocenti dovettero soffrir tanto…
Colui che, amando Iddio con tutto il suo cuore, è afflitto da lunghe infermità vive e muore felicemente, perché la morte dura e dolorosa diminuisce il peccato e la pena del peccato e aumenta le corone. […] Gli amici di Dio dunque non devono rattristarsi appunto se hanno a subire dei mali temporali, o se muoiono duna morte amara, perché è un bene piangere un’ora e soffrire in questo mondo e non aver a soffrire in Purgatorio, dove non si può fuggire e dove non è più dato il tempo di meritare».
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– i brani citati sono tratti da De Vita contemplativa Anno VII – 2013 – Suore Francescane dell’Immacolata – con approvazione ecclesiastica.
Dottrina e Novena per i Nostri Defunti