J.Ratzinger-Benedetto XVI Riflessioni sulla creazione e il peccato (3)

In principio Dio creò il cielo e la terra. Riflessioni sulla creazione e il peccato  (*)

vedi qui secondo capitolo

III. La creazione dell’uomo

Quando il Signore Dio fece la terra e il cielo, ancora nessun cespuglio della steppa vi era sulla terra, né alcuna graminacea della steppa vi era spuntata, perché il Signore Dio non aveva fatto piovere sulla terra e non vi era Adamo che lavorasse il terreno e facesse sgorgare dalla terra un canale e facesse irrigare tutta la superficie del terreno; allora il Signore Dio modellò l’uomo con la polvere del terreno e soffiò nelle sue narici un alito di vita; così l’uomo divenne un essere vivente. Poi il Signore Dio piantò un giardino in Eden, ad Oriente, e vi collocò l’uomo che aveva modellato. Il Signore Dio fece spuntare dal terreno ogni sorta d’alberi, attraenti per la vista e buoni da mangiare, e l’albero della vita nella parte più interna del giardino, insieme all’albero della conoscenza del bene e del male (Gn 2,4-9).

Che cos’è l’uomo? È una domanda che viene posta a ogni generazione e a ogni singolo individuo, perché, a differenza degli animali, noi non troviamo già tracciati con precisione davanti a noi i binari della nostra vita. Essere uomo è cosa che rimane per ognuno di noi anche un compito, un invito alla nostra libertà. Ognuno deve chiedersi che cosa significa essere uomo e decidere chi o che cosa vuole essere come uomo. Ognuno di noi deve rispondere volente o nolente nella propria vita alla domanda sulla natura dell’uomo.

Che cos’è l’uomo? Il racconto della creazione della Sacra Scrittura vuole introdurci al terreno misterioso dell’essere umano. Vuole aiutarci a ri-conoscere qual è il progetto di Dio sull’uomo, aiutarci a dare in modo creativo la nuova risposta che Dio attende da ognuno di noi.

– L’uomo tratto dalla terra (1)

Che cosa ci dice dunque? Anzitutto ci racconta che Dio formò l’uomo con la polvere della terra. Umiliazione e consolazione nello stesso tempo.

Ci umilia, perché in tal modo ci dice: tu non sei Dio, non ti sei fatto da solo, non disponi dell’universo e sei limitato; sei un essere votato alla morte come ogni vivente, sei solo terra. Ma ci consola anche, perché ci dice pure: l’uomo non è un demone, come a volte potrebbe sembrare, non è uno spirito cattivo; l’uomo non è fatto di potenze negative, ma della terra buona di Dio.

Dietro di ciò balugina qualcosa di ancor più profondo. Ci viene infatti detto che tutti gli uomini sono polvere. Al di là di tutte le distinzioni messe in piedi dalla cultura e dalla storia rimane il fatto che noi siamo in fondo la stessa cosa, il medesimo genere. L’idea espressa dal medioevo nelle danze dei morti, in seguito alle spaventose esperienze della potenza minacciosa della morte al tempo delle grandi epidemie di peste, nella sostanza è già presente qui: l’imperatore e il mendicante, il padrone e il servo sono in fondo un’unica cosa, un unico e medesimo uomo tratto dalla stessa terra e destinato a ritornare alla stessa. Attraverso tutti gli alti e bassi della storia l’uomo rimane sé stesso, rimane terra, plasmato con essa e destinato a ritornare a essa.

In tal modo diventa contemporaneamente visibile l’unità di tutto il genere umano: proveniamo tutti da un’unica terra. Non c’è diversità di «sangue e terra». Non esistono uomini radicalmente diversi, come ritenevano i miti di tante religioni e affermano anche tante ideologie del nostro tempo. Non esistono caste e razze diverse, composte da uomini di diverso valore. Siamo tutti quanti un’unica umanità, plasmata con l’unica terra di Dio. Proprio questo pensiero sta molto a cuore al racconto della creazione, sta molto a cuore a tutta la Bibbia. Contro tutte le divisioni ed esaltazioni dell’uomo, con cui l’uno si pone al di sopra e contro l’altro, l’umanità viene presentata come l’unica creazione di Dio tratta dalla sua unica terra.

Quanto è detto qui all’inizio, viene poi nuovamente ripetuto dopo il diluvio: nella grande tavola delle nazioni di Genesi 10 ritorna il medesimo pensiero, secondo cui un unico uomo è presente nei molti uomini. La Bibbia pronuncia un no deciso contro ogni razzismo, contro ogni divisione dell’umanità.

– Immagine di Dio

Ma per la creazione dell’uomo occorre ancora un secondo elemento. La materia fondamentale è la terra; da essa ha origine l’uomo perché Dio soffia l’alito di vita sul corpo precedentemente modellato.

Una realtà divina entra nel mondo. Il primo racconto della creazione, su cui abbiamo riflettuto nella precedente meditazione, ci dice lo stesso con un’altra immagine già più approfondita: l’uomo è creato a immagine e somiglianza di Dio (cfr.Gn.1,26-27); in lui si toccano il cielo e la terra; in lui Dio entra nella sua creazione; l’uomo è in diretto contatto con Dio, è chiamato da lui.

La parola di Dio dell’antica alleanza vale per ogni singolo individuo: «Per nome io ti chiamo, tu sei mio». Ogni uomo è conosciuto e amato da Dio. Ognuno è da lui voluto. Ognuno è sua immagine. Qui soltanto sta l’unità più profonda e grande dell’umanità, nel fatto che noi tutti, che ogni uomo, realizziamo l’unico progetto di Dio e abbiamo origine dalla medesima idea creatrice di Dio. Perciò la Bibbia dice: chi profana l’uomo, profana la proprietà di Dio  (Gn.9,5).

La vita umana sta sotto la particolare protezione di Dio, perché ogni uomo – povero o elevato che sia, malato, sofferente, inutile o importante, nato o non nato, inguaribilmente infermo o sprizzante salute ed energia – è una sua immagine, porta in sé il suo alito. Questo è il motivo più profondo dell’inviolabilità della dignità umana, e su di questo poggia in fondo qualsiasi civiltà. Dove l’uomo non viene più considerato come colui che sta sotto la protezione di Dio, non viene più visto come colui che porta in sé l’alito di Dio, lì hanno inizio le riflessioni che lo valutano secondo il suo valore utilitaristico. Lì comincia la barbarie che ne calpesta la dignità. Viceversa, dove è considerata l’immagine di Dio, lì si mette in risalto il suo lato spirituale e morale.

Il destino di tutti noi dipende dalla capacità di difendere questa dignità morale dell’uomo nel mondo della tecnica e di tutte le sue possibilità. Ci troviamo infatti di fronte a una tentazione particolare dell’era tecnico-scientifica. L’atteggiamento tecnico-scientifico ha prodotto una particolare forma di certezza, quella che può essere confermata con l’esperimento e la formula matematica. In tal modo esso ha liberato in una certa misura l’uomo dall’angoscia e dalla superstizione e gli ha conferito un determinato potere sul mondo. Ora però l’uomo è esposto alla tentazione di considerare come ragionevole e quindi come serio solo ciò che può essere certificato con l’esperimento e con il calcolo. Ciò significa che il morale e il sacro non contano più, vanno anzi annoverati nel campo delle realtà da superare, dell’irrazionale.

Quando però l’uomo fa una cosa del genere, quando riduce l’etica alla fisica, lì estingue la realtà autentica dell’uomo, non lo libera bensì lo distrugge. Dobbiamo di nuovo apprendere quel che Kant sapeva e riconosceva: che esistono due tipi di ragione, quella teoretica e quella pratica, come scrive il filosofo, o, come possiamo tranquillamente dire noi, la ragione fisico-scientifica e la ragione morale-religiosa. Non bisogna dichiarare la ragione morale pura e semplice insipienza e superstizione solo perché essa è strutturata in modo diverso e possiede una conoscenza diversa da quella matematica. Essa è una forma, anzi la forma superiore di ragione, perché solo essa assicura alle scienze naturali e alla tecnica la loro dignità e impedisce loro di distruggere l’uomo. Kant parlò della preminenza della ragione pratica su quella teoretica, nel senso che le realtà superiori più profonde e decisive sono quelle conosciute dalla ragione morale dell’uomo nella sua libertà morale. Lì infatti, aggiungiamo noi, è la sede della somiglianza con Dio, quella che fa diventare l’uomo qualcosa di più della «terra» e della polvere (2).

Facciamo un altro passo. L’essenza di un’immagine consiste nel fatto che essa rappresenta qualcosa. Quando la vedo, riconosco ad esempio l’uomo o il paesaggio che essa riproduce. L’immagine rimanda a qualcos’altro al di fuori di sé stessa. La realtà vera e propria dell’immagine non consiste quindi in ciò che essa è di per sé, in una cornice, in un pezzo di lino dipinto ad olio; la sua autentica realtà di immagine sta nel rimandare al di là di sé, nell’indicare qualcosa che essa non è in sé stessa. Così anche la somiglianza con Dio significa per prima cosa che l’uomo non è chiuso in sé stesso. Se egli tenta di esserlo, tradisce sé stesso. La somiglianza con Dio significa «riferimento»; è una dinamica che mette in moto l’uomo e lo orienta al completamente altro; significa capacità di relazione, significa che l’uomo è capace di Dio. Di conseguenza l’uomo è sé stesso alla massima potenza quando esce da sé, quando è capace di dire «Tu» a Dio.

Sì, alla domanda: che cosa distingue propriamente l’uomo dall’animale, qual è il suo elemento del tutto nuovo?, dobbiamo rispondere: l’uomo è l’essere capace di pensare Dio, è l’essere capace di pregare. Egli è nella maniera più profonda presso sé stesso quando trova la relazione con il suo Creatore. Perciò la somiglianza con Dio significa anche che l’uomo è un essere della parola e dell’amore, un essere in movimento verso l’altro, destinato a donarsi all’altro e a possedere veramente sé stesso solo donandosi generosamente nel modo giusto.

La Sacra Scrittura ci permette di compiere un ulteriore passo avanti, se seguiamo di nuovo la nostra regola fondamentale, secondo la quale dobbiamo leggere l’Antico e il Nuovo Testamento insieme, perché solo alla luce del Nuovo riusciamo a capire il senso più profondo dell’Antico.

Nel Nuovo Testamento Cristo è detto il secondo Adamo, l’Adamo definitivo e l’immagine di Dio (ad es.: 1Cor.15,44-48; Col.1,15). Ciò significa che solo in lui troviamo la risposta piena alla domanda: che cos’è l’uomo? Solo in lui si manifesta il contenuto più profondo di questo progetto. Cristo è l’uomo definitivo, e la creazione è come il progetto provvisorio di lui. Pertanto possiamo dire: l’uomo è l’essere che può diventare fratello di Gesù Cristo. È la creatura che può diventare una cosa sola con Cristo e, in lui, con Dio stesso. Così questo orientamento del creato verso Cristo, del primo Adamo verso il secondo Adamo, significa che l’uomo è un essere in cammino, un essere in divenire. Egli non è ancora sé stesso, deve ancora diventarlo. Qui, nel mezzo dell’idea della creazione, fa già capolino il mistero pasquale, il mistero del granello morto.

L’uomo deve divenire con Cristo un granello morto per risorgere veramente, per essere veramente elevato, per essere veramente sé stesso (cfr.Gv.12,24). L’uomo non va definito solo alla luce della sua origine passata o di un tratto isolato della sua esistenza che chiamiamo presente. Egli è orientato a un futuro, il solo che metterà pienamente in luce chi egli è (cfr.Gv.3,2). Nell’uomo dobbiamo sempre vedere colui con il quale un giorno condividerò la gioia di Dio. Dobbiamo vedere colui con il quale sono chiamato a divenire membro del corpo di Cristo, con cui un giorno siederò alla tavola di Abramo, Isacco e Giacobbe, alla tavola di Gesù Cristo, per essere suo fratello e con lui fratello di Gesù Cristo e figlio di Dio.

_09 Dio Creò Cielo e terra Ratzinger 5– Creazione ed evoluzione

Qualcuno potrebbe ora dire: tutto questo è molto bello, ma non è smentito dalle nostre conoscenze scientifiche circa l’origine dell’uomo dal mondo animale?

Orbene, gli spiriti più riflessivi hanno da lungo tempo riconosciuto che qui non si tratta di alternativa. Non possiamo dire: creazione o evoluzione. La formula esatta è creazione ed evoluzione, perché le due cose rispondono a due domande diverse.

Il racconto della polvere della terra e dell’alito di Dio, che abbiamo appena ascoltato, non ci narra infatti come l’uomo ha avuto origine. Esso ci dice che cosa egli è. Ci parla della sua origine più intima, illustra il disegno che sta dietro di lui.

Viceversa la dottrina dell’evoluzione cerca di individuare e descrivere dei processi biologici. Non riesce a spiegare l’origine del «progetto» uomo, a spiegare la sua derivazione interiore e la sua essenza.

Ci troviamo perciò di fronte a due questioni che si integrano, non si escludono.

Ma soffermiamoci ancora un momento su questo punto, perché anche in questo caso la direzione presa dal pensiero in questi ultimi due decenni ci aiuta a vedere in maniera nuova l’intima unità fra creazione ed evoluzione, tra fede e ragione. Una delle caratteristiche specifiche del XIX secolo fu quella di aver continuamente approfondito la coscienza della storicità e del divenire di tutte le cose. Esso riconobbe che certe cose, da noi ritenute immutabili e sempre uguali, sono il prodotto di un lungo divenire. Ciò vale nel campo dell’umano, ma vale anche nel campo della natura. Si capì allora che l’universo non è una specie di grande scaffale, in cui tutto è sistemato al suo posto, ma che esso va piuttosto paragonato a un albero vivo che cresce e diviene, che proietta a poco a poco i suoi rami sempre più in alto nel cielo. Questa idea generale è stata ed è spesso presentata in termini un po’ fantasiosi, ma col progredire della ricerca si vede sempre meglio qual è il modo giusto di intenderla.

Farò qualche brevissimo accenno a questo argomento basandomi su Jacques Monod che, nella sua qualità di scienziato di primo piano e di deciso nemico di ogni fede nella creazione, può essere certo considerato un testimone insospettabile (3).

Anzitutto mi sembrano importanti due precisazioni di fondo, da lui messe a fuoco. La prima dice: nella realtà non esiste solo la necessità. Nel mondo non possiamo, come pretendeva ancora Laplace, e come Hegel cercò di elaborare nella sua sintesi concettuale, derivare tutto con assoluta necessità in successione cronologica e causale. Non esiste una formula, da cui tutto il resto deriva necessariamente. Nel mondo non esiste solo la necessità, ma anche il caso, dice Monod.

Come cristiani noi andremmo ancora un gradino più a fondo e diremmo: esiste anche la libertà. Ma ritorniamo a Monod. Egli ricorda che esistono in particolare due realtà, che non dovevano necessariamente esistere: potevano, ma non dovevano necessariamente esistere.

Una delle due è la vita. Secondo le leggi fisiche, la vita poteva, e non doveva, aver origine. Anzi, egli aggiunge: era estremamente inverosimile che ciò si verificasse. La probabilità matematica in questo senso era pressoché nulla, per cui possiamo anche ritenere che la vita, questo evento estremamente improbabile, si sia verificata una sola volta sulla nostra terra (4).

La seconda realtà, che poteva ma non doveva necessariamente essere, è il misterioso essere uomo. Anche lui è così improbabile che Monod afferma in veste di scienziato: dato l’alto grado di improbabilità può darsi benissimo che solo una volta si sia verificato l’evento che ha dato origine a questo essere. Noi siamo un caso, conclude.  Abbiamo estratto un numero fortunato alla lotteria, dobbiamo paragonarci a una persona che inaspettatamente ha vinto un miliardo alla lotteria (5).

Nel suo linguaggio ateo egli non fa che ripetere quel che la fede dei secoli passati aveva chiamato la «contingenza» dell’uomo e quel che per la fede si era tramutato in preghiera: io non dovrei essere, ma sono, e tu, o Dio, mi hai voluto. Solo che al posto della volontà di Dio Monod mette il caso e la lotteria, che ci avrebbero dato origine.

Se le cose stessero così, sarebbe davvero difficile affermare che si è trattato di un colpo di fortuna. Non molto tempo fa un taxista mi faceva osservare che un numero crescente di giovani spesso ripete: «Non mi è mai stato chiesto se volevo nascere». E un maestro mi riferiva: «Ho cercato di indurre un alunno ad essere grato ai genitori dicendogli: “Devi pur loro la vita!”. Ma egli mi ha risposto: “Di questo non sono proprio grato!”». Quel piccolo non vedeva alcuna fortuna nell’essere uomo. E in effetti, se siamo stati gettati dal caso cieco nel mare del nulla, abbiamo sufficienti motivi per ritenere questo fatto un colpo di sfortuna. Solo se sappiamo che esiste uno che non ha tirato ciecamente a sorte, che noi non siamo un caso, bensì siamo dalla libertà e dall’amore, allora noi, i non necessari, possiamo ringraziare per questa libertà e riconoscere con gratitudine che è un dono essere uomini.

Affrontiamo ora direttamente la questione dell’evoluzione e dei suoi meccanismi. La micro-biologia e la biochimica hanno fatto qui delle conquiste sconvolgenti. Esse penetrano sempre più nel mistero intimo della vita, cercano di decifrarne il linguaggio segreto e di riconoscere quel che essa propriamente è. Nel corso di questo lavoro esse sono giunte a riconoscere che possiamo indubbiamente mettere a confronto sotto molti aspetti un organismo e una macchina. L’uno e l’altra hanno infatti dei punti in comune: ambedue realizzano un progetto, un piano concepito e razionale, coerente e logico; il loro funzionamento è basato su una costruzione ideata con precisione e quindi in maniera riflessa. Ma accanto a questi punti in comune ci sono anche delle diversità.

Una prima, piuttosto modesta, può essere così descritta: il progetto «organismo» è incomparabilmente più intelligente e ardito delle macchine più raffinate. Queste, se paragonate al progetto «organismo», sono concepite e costruite in maniera affrettata. Una seconda differenza incide più a fondo: il progetto «organismo» si muove da solo, dall’interno, non come le macchine, che sono messe in moto dall’esterno. E infine la terza differenza: il progetto «organismo» ha la forza di riprodursi; esso può rinnovare e trasmettere il progetto da lui stesso rappresentato. In altre parole: esso ha la facoltà della procreazione, mediante la quale viene di nuovo all’esistenza un vivente in tutto simile e concordante (6).

Qui compare ora qualcosa di importante e di inatteso, che Monod chiama il «lato platonico del mondo». Ciò significa: non esiste soltanto il divenire, nel corso del quale tutto cambia continuamente, ma esiste anche il permanente, esistono anche le idee perenni, che illuminano la realtà e ne sono stabilmente i principi direttivi. Esiste il permanente, ed esso è così fatto che ogni organismo riproduce rigorosamente il proprio modello, il progetto da esso rappresentato. Ogni organismo, come dice Monod, è per sua natura conservatore. Mediante la procreazione esso si riproduce esattamente com’è. Monod conclude perciò coerentemente: per la biologia moderna l’evoluzione non è una proprietà degli esseri viventi; una loro proprietà è piuttosto quella di essere immutabili: essi si tramandano; il loro progetto rimane (7).

Monod trova tuttavia ugualmente la via per l’evoluzione, constatando che nella trasmissione del progetto possono verificarsi degli errori. Questo errore, una volta verificatosi, continua a essere trasmesso, appunto perché la natura è conservatrice. Tali errori possono sommarsi e dalla loro somma può risultare qualcosa di nuovo.

Segue ora una conclusione strabiliante: in questo modo è sorto tutto il mondo della vita, è sorto l’uomo; noi siamo il prodotto di errori casuali (8).

Che dire di questa risposta? È compito delle scienze naturali chiarire attraverso quali fattori l’albero della vita si differenzia e si sviluppa, mettendo nuovi rami. Non spetta alla fede. Però possiamo e dobbiamo avere il coraggio di dire: i grandi progetti della vita non sono un prodotto del caso e dell’errore né sono il prodotto di una selezione, cui si attribuiscono predicati divini, che in questa sede sono illogici, a-scientifici, un mito moderno.

I grandi progetti della vita rimandano a una ragione creatrice, ci indicano lo Spirito creatore e lo fanno oggi in maniera più chiara e splendente che mai. Oggi pertanto possiamo dire con una certezza e una gioia nuove: Sì, l’uomo è un progetto di Dio.

Solo lo Spirito creatore fu sufficientemente forte, grande e ardito da escogitare questo progetto. L’uomo non è uno sbaglio, ma è voluto, è il frutto di un amore. Egli può scoprire in sé stesso, nell’ardito progetto da lui rappresentato, il linguaggio dello Spirito creatore che gli parla e lo incoraggia a dire: Sì, Padre, tu mi hai voluto. (Nota nostra aggiuntiva)

I soldati romani, dopo aver flagellato Gesù, averlo incoronato di spine e averlo rivestito con un manto ridicolo, lo ricondussero a Pilato. Questo militare incallito rimase evidentemente scosso alla vista di quell’uomo straziato. Appellandosi alla pietà, lo presentò alla folla con le parole: «Idu ho anthropos!», «Ecce homo», espressione che noi abitualmente traduciamo: «Ecco l’uomo». La traduzione precisa dell’espressione greca dovrebbe invece essere: «Ecco, questo è l’uomo!». Sulle labbra di Pilato queste erano le parole di un cinico che intendeva dire: noi andiamo fieri di essere uomini, ma guardatelo qui, questo verme: questo è l’uomo! Quanto è spregevole e piccolo! Ma l’evangelista Giovanni ha riconosciuto nelle parole del cinico un’affermazione profetica e le ha trasmesse così alla cristianità.

Sì, Pilato ha ragione quando dice: Ecco, questo è l’uomo! In lui, in Gesù Cristo, possiamo riconoscere che cosa è l’uomo, il progetto di Dio, e quel che noi ne abbiamo fatto. In Gesù sfigurato possiamo vedere quanto l’uomo possa essere crudele, meschino e basso. In lui possiamo riconoscere la storia dell’odio e del peccato umani. Ma in lui e nel suo amore sofferente per noi possiamo ancor di più riconoscere la risposta di Dio: Sì, questo è l’uomo, l’amato da Dio fin nella polvere, l’amato in misura tale che Dio gli va dietro fin nell’estrema miseria della morte. Pure nell’umiliazione più profonda l’uomo rimane il chiamato da Dio, il fratello di Gesù Cristo e quindi il chiamato a partecipare all’eterna vita divina. La domanda «che cosa è l’uomo?» trova la sua risposta nella sequela di Gesù Cristo. Seguendo i suoi passi noi impariamo giorno dopo giorno, mediante l’amore e la sofferenza paziente, che cosa è l’uomo e diveniamo uomini.

Durante questo periodo di quaresima guardiamo perciò a colui che Pilato e la Chiesa ci pongono davanti agli occhi. Egli è l’uomo. Chiediamogli di insegnarci a divenire e a essere veramente uomini.

Amen.

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NOTE

(*) tratto da Joseph Ratzinger – Benedetto XVI – In principio Dio creò il cielo e la terra. Riflessioni sulla creazione e il peccato –  Lindau, Torino 2006

Note al capitolo III  la creazione dell’uomo

1) pensieri esposti nelle pagine seguenti li ho sviluppati ampia-mente nel mio contributo «Fraternité» nel Dictionnaire de spiritua- lité, voi. V, pp. 11, 41,1167.

2) Cfr. M. Kriele, Befreiung und politische Aufklàrung, Freiburg 1980, pp. 72-107.

3) So bene che dopo “II caso e la necessità” (Mondadori, Milano 19713) il dibattito non solo è proseguito ma ha fatto addirittura registrare una esplosione di pubblicazioni sul tema. Tali pubblicazioni vanno nelle più diverse direzioni e apportano nuove conoscenze empiriche e soprattutto nuove posizioni teoriche. Cito solo le pubblicazioni più note in Germania: M. Eigen, R. Winkler, Das Spiel, Munchen 1975; R. Riedl, Strategie der Genesis, Munchen 1976; R. Riedl, Biologie der Erkenntnis, Berlin 1979; inoltre R. Spaemann, R. Lòw, Die Frage Wozu ?, Munchen 1981; R. Spaemann, R Koslowski, R. Lòw (a cura di), Evolutionstheorie and menschliches Selbstverstànd- nis, Civitas Resultate, vol. VI, 1984. Però in un ciclo di prediche non potevo ovviamente addentrarmi in dettagliate discussioni scientifiche e dovevo limitarmi a porre in luce le linee fondamentali della problematica, nonché i limiti e le relazioni dei singoli metodi e dei livelli conoscitivi corrispondenti alle singole scienze. Inoltre mi pare che l’opera di Monod costituisca ancora, per la precisione e la chiarezza della sua argomentazione, il miglior punto di partenza. Per quanto riguarda la rigorosità del metodo, precisamente circa il rapporto tra empiria e filosofia, nessuna delle pubblicazioni successive l’ha più eguagliata, almeno a mio parere.

4) Cfr. Monod, Il caso e la necessità cit., p. 45 sgg, 118.

5) Ivi, p. 118: «La scienza moderna ignora ogni predestinazione. Il destino viene scritto nel momento in cui si compie e non prima. Il nostro non lo era prima della comparsa della specie umana […]. Altro avvenimento unico, che dovrebbe, proprio per questo, trattenerci da ogni forma di antropocentrismo. Se esso è stato veramente unico, come forse lo è stata la comparsa della vita stessa, ciò dipende dal fatto che, prima di manifestarsi, le sue possibilità erano quasi nulle. L’universo non stava per partorire la vita, né la biosfera l’uomo. Il nostro numero è uscito alla roulette».

6) Ivi, pp. 22-24.

7) Ivi: «Proprio ai biologi della mia generazione è stato accordato il privilegio che la quasi identità della chimica cellulare in tutta la biosfera si rivelasse loro. Fin dal 1950 se ne era avuta la certezza e ogni pubblicazione ne era un’ulteriore conferma […]. Le speranze dei “platonici” più convinti erano quindi esaudite al di là di ogni aspettativa» (p. 89); «Tutto il sistema è, quindi, interamente e profondamente conservatore, chiuso su sé stesso, e assolutamente incapace di ricevere un’istruzione qualsiasi dal mondo esterno […]. E fondamentalmente cartesiano e non hegeliano» (p. 94).

8) Ivi, p. 99: «Ancora oggi molte persone d’ingegno non riescono ad accettare e neppure a comprendere come la selezione, da sola, abbia potuto trarre da una fonte di rumore tutte le musiche della biosfera». Sarebbe facile mostrare come le teorie del gioco di Eigen, le quali cercano di conferire al caso una sua logica, in realtà non introducono alcun fattore nuovo e quindi finiscono più per velare che per approfondire o completare le affermazioni di Monod.

(Nota nostra aggiuntiva) A questo discorso di Ratzinger vanno aggiunti altri riferimenti, soprattutto omelie natalizie che posteremo, nelle quali, riprendendo questo tema della creazione dell’uomo, di ciò che dice la scienza e uomini non credenti che parlano del “caso”, Ratzinger appunto porta l’Incarnazione di Dio quale prova esauriente che esiste il Creatore di tutte le cose e che “si è fatto uomo”, specificando che non è soltanto un problema di fede credere o non credere, ma che è proprio una prova concreta, un fatto avvenuto, la cui testimone attendibile è la Madre, Maria stessa, una creatura umana.

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INDICE

Premessa di Joseph Ratzinger – p. 7

I. Dio creatore – p. 13

La distinzione tra forma e contenuto del racconto della creazione – p. 17

L’unità della Bibbia come criterio di interpretazione – p. 21

Il criterio cristologico – p. 30

II. Il senso dei racconti biblici della creazione – p. 37

La ragionevolezza della fede nella creazione – p. 39

Il significato permanente degli elementi simbolici del testo – p. 43

Creazione e culto – p. 45

La struttura sabbatica della creazione – p. 50

Sfruttamento della terra? – p. 52

III. La creazione dell’uomo – p. 61

L’uomo tratto dalla terra – p. 62

Immagine di Dio – p. 65

Creazione ed evoluzione – p. 71

IV. Peccato e redenzione – p. 83

Sul tema del peccato – p. 85

Limiti e libertà dell’uomo – p. 89

Il peccato originale – p. 97

La risposta del Nuovo Testamento – p. 101

Conseguenze della fede nella creazione – p. 107