Il Dio di Gesù Cristo La questione di Giobbe

La questione di Giobbe (*)

L’immagine di Dio è l’uomo.

Il Dio dell’antica alleanza non ammette alcun’altra immagine. Nel sancta sànctorum del tempio non troviamo, come invece nei templi degli altri popoli, una statua di Dio, ma unicamente il trono vuoto con le tavole della legge e il vaso che contiene la manna . Questa è la sua immagine: il trono vuoto, che rinvia al suo potere e alla sua signoria senza fine; la sua parola, espressione della sua santità che vuole vivere nell’uomo; il suo pane, segno della potenza che egli esercita sulla creazione e sulla storia, segno della sua bontà, di cui vivono le creature cui egli ha reso abitabile il mondo. Tutto ciò rimanda all’uomo: egli dev’essere trono di Dio, luogo della sua parola; egli vive della bontà della creazione e di Colui che l’ha posta in essere.

L’uomo è immagine di Dio, e lui soltanto.

Quando si riflette più a fondo su questo, si può essere colti da un sentimento inquietante. Sicuramente ci sono, grazie a Dio, continuamente dei momenti privilegiati nei quali riusciamo a cogliere, attraverso l’uomo, qualcosa di Dio: nelle grandi opere dell’arte, regalate all’uomo nel corso della sua storia, noi intravediamo qualcosa della fantasia creatrice di Dio, dello Spirito creatore, della sua bellezza eterna che trascende ogni parola e qualsiasi calcolo della logica umana. Ma ancor più profondamente noi avvertiamo qualcosa di Dio stesso nella bontà di un uomo che è buono senza secondi fini. Mi è stato riferito, da una persona che ne fu testimone, di alcune ragazze asiatiche, che le suore avevano strappato a esperienze di miseria di varia natura e di cui si erano prese cura: le ragazze parlavano delle suore come si parla di Dio, perché è impossibile – così dicevano – che una persona umana sia capace di tanta bontà.

Dio si manifesta attraverso l’uomo – grazie a Dio! Ma è anche vero che la nostra esperienza conosce il più delle volte una realtà contraria: nella sua storia l’uomo assume più i tratti di un demone che quelli di un Dio buono, o per lo meno i tratti di un essere ambiguo. L’uomo contraddice il Dio cui la creazione rinvia. Forse è questo il vero motivo per cui le prove dell’esistenza di Dio rimangono, in ultima analisi, del tutto inefficaci: la luce che filtra attraverso le fenditure della creazione è oscurata dall’intervento dell’uomo. Non è necessario ricordare personaggi terribili quali Nerone, Hitler, Stalin; basti riflettere sulle esperienze che noi facciamo con il nostro prossimo e con noi stessi. Oltre alla colpa dell’uomo e all’oscurità che l’avvolge, troviamo la sofferenza incomprensibile delle persone innocenti, quell’accusa terribile a Dio che sale da Giobbe, Dostoevskij e dagli internati di Auschwitz: un coro dai toni sempre più stridenti.

Giobbe non può condividere l’apologia di Dio cui i suoi amici ricorrono per spiegare la sofferenza che lo affligge. Un’apologia tessuta secondo gli schemi della sapienza d’Israele, dove la pena è punizione per il peccato, il benessere è ricompensa per il bene compiuto e il mondo si presenta come un sistema di ricompense e punizioni, fondato sulla giustizia rigorosa, benché non sempre riusciamo a intravederne le ragioni.

Facendosi interprete della sofferenza di tanti innocenti, Giobbe contesta questa immagine di Dio. Lui sta vivendo un’esperienza radicalmente diversa: «(Dio) fa perire l’innocente e il reo! Se un flagello uccide all’improvviso, della sciagura degli innocenti egli ride. La terra è lasciata in balìa del malfattore: egli vela il volto dei suoi giudici; se non lui, chi dunque sarà?» (9,22-24).

Contro lo stupendo cantico di fiducia, che nasce dalla consapevolezza di un Dio onnipresente (Sal 138), Giobbe attesta l’esperienza contraria: “Ma se vado in avanti, egli non c’è, se vado indietro, non lo sento. A sinistra lo cerco e non lo scorgo, mi volgo a destra e non lo vedo” (23,8s.).

“La gioia di vivere, così naturale e originaria, non è più compatibile con una simile esperienza: Perché tu mi hai tratto dal seno materno? “Fossi morto e nessun occhio mi avesse mai visto!” (10,18).

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Giobbe si arrende a Dio

Al grido di Giobbe si associano oggi i milioni di individui che sono passati, senza nome, per le camere a gas di Auschwitz e le prigioni delle dittature di destra e di sinistra. Dov’è il vostro Dio? È la domanda dei loro accusatori, sempre più insistente. Certo, in queste parole si cela spesso un atteggiamento cinico, più che il rispetto per le indicibili sofferenze dell’uomo. Ma l’accusa è  pertinente: dove rimani o Dio? Chi sei tu, o Dio, se rimani muto?

Solo Dio può rispondere. E non lo ha fatto in modo definitivo, in modo tale che ora potremmo disporre di una sua risposta chiara e univoca. Ma non è rimasto nemmeno avvolto in un totale silenzio.

Ovviamente ci manca la sua ultima parola. Nella risurrezione di Gesù ci è stato dato solo un inizio. E come sempre, non investe soltanto la capacità intellettiva dell’uomo, ma anche il suo cuore, la sua stessa persona. È quanto osserviamo nella storia di Giobbe: Dio interviene nella disputa, ma non si pone dalla parte dei suoi difensori. Rifiuta come una bestemmia quell’apologia che lo dipinge come un fedele-spietato esecutore di una giustizia commutativa fondata sul concetto che le colpe commesse meritano d’essere punite. Chi l’offende non è Giobbe né la sua protesta, ma proprio i suoi difensori, che spacciano per volto di Dio un orrendo meccanismo della ritorsione.

A Giobbe il problema non viene risolto. Egli si rende conto soltanto della propria pochezza, dell’angustia delle sue prospettive nell’osservare il mondo. Egli impara a calmarsi, a tacere e a sperare. Il suo cuore si dilata, ma niente di più. Questa umiltà che si fa silenzio dovrebbe costituire anche per noi il primo passo della sapienza.

È interessante, però, osservare che l’accusa rivolta a Dio esprime soltanto in minima parte i sentimenti di quelli che soffrono nel mondo, di fronte a una massa di spettatori soddisfatti che non sanno che cosa significhi soffrire. Coloro che soffrono hanno imparato a vedere. Ogni singolo vive il proprio destino con Dio, né è possibile considerare l’umanità in blocco. Nel nostro mondo l’inno di lode sale a Dio dalle fornaci in cui si trova chi soffre: il racconto dei tre giovinetti gettati nella fornace ardente contiene una verità ben più profonda di quella fornitaci da eruditi trattati.

La risposta data a Giobbe è soltanto un inizio, un’anticipazione di quella risposta che Dio dà impegnando il proprio Figlio nella croce e nella risurrezione. Anche qui non ci possiamo affidare ai calcoli: la risposta di Dio non è spiegazione, ma azione. La risposta è un con-patire: non un puro sentimento, ma una realtà. La com-passione di Dio si fa concreta nella carne. Essa significa flagellazione, incoronazione di spine, crocifissione, sepolcro. Egli è entrato nella nostra sofferenza. Ciò che questo significa, ciò che può significare lo apprendiamo dalle grandi immagini del Crocifisso e dalle ‘Pietà’ che raffigurano la Madre con il Figlio morto tra le braccia.

Di fronte a queste immagini e in esse la sofferenza cambia volto per gli uomini: questi ora apprendono che nella propria sofferenza, anche la più intima, abita Dio stesso e che nelle loro piaghe essi sono diventati una cosa sola con Lui.

Non parliamo di consolazione. Questa esperienza, infatti, è l’origine dell’amore per coloro che soffrono. Ricordiamo soltanto i nomi di Francesco d’Assisi ed Elisabetta di Turingia. Il Crocifisso non ha tolto dal mondo la sofferenza, ma con la sua croce ha trasformato gli uomini, ha rivolto il loro cuore ai fratelli e alle sorelle che soffrono, e così ha rinvigorito e purificato gli uni e gli altri. È lui che ci ha ispirato quel ‘rispetto per l’inferiore’ che manca nei popoli pagani e che si estingue quando viene meno la fede nel Crocifisso.

Non è forse vero che, con tutti i problemi del nostro ‘sistema sanitario’, iniziamo lentamente a renderci conto di nuovo che esistono delle cose che non si possono pagare? E di fronte ai mutamenti di cui siamo spettatori, non prendiamo forse sempre maggior coscienza di quel mutamento che è stato operato dalla fede e che non si riduce certo a vuota ‘consolazione’?

_03 Dio di Gesù Cristo-Giobbe 7Dobbiamo però procedere oltre. La croce non è rimasta la parola ultima che Dio ha profferito in Gesù Cristo. Gesù non è rimasto nel sepolcro. È risorto, e attraverso il Risorto Dio parla a noi. Il ricco epulone, dall’inferno, supplicava Dio di inviare Lazzaro ai suoi fratelli per ammonirli dell’orribile sorte cui sarebbero andati incontro. Egli pensava, infatti, che avrebbero prestato fede a un risorto dai morti (Lc.16,27s.). Ebbene, il vero Lazzaro è venuto. È qui e ci parla: questa vita non è tutto. Esiste un’eternità.

Dire questo è oggi, anche in teologia, cosa piuttosto non moderna. Un discorso sull’aldilà viene considerato una fuga dall’al di qua. Ma come può esserlo, se è una verità? Possiamo prescindere da essa? Dovremo liquidarla come consolazione? O non è vero, invece, che è proprio l’eternità a dare alla vita la sua serietà, la sua libertà, la sua speranza?

L’uomo è immagine di Dio. Un’immagine che a noi si presenta variamente deformata. L’immagine perfetta è solo quella di Cristo: è lui l’immagine ripristinata di Dio.

Ma quale Dio qui vediamo? Partendo da presupposti teologici inadeguati, molti si sono fatta una falsa immagine di Dio: l’immagine di un Dio terribile, che ha bisogno del sangue del proprio Figlio. Hanno visto Dio con gli occhi degli amici di Giobbe e si sono allontanati con orrore. Vero, però, è il contrario: il Dio della Bibbia non pretende sacrifici umani. Quando fa il suo ingresso nella storia delle religioni, cessa questo tipo di sacrificio. È Dio che impedisce ad Abramo di colpire Isacco: il figlio viene sostituito dall’ariete.

Il culto di YHWH incomincia quando il sacrificio del primogenito, esigito dalla religione che Abramo aveva ereditato, viene rimpiazzato dall’obbedienza, dalla fede: la sostituzione esteriore – l’ariete – sta semplicemente a esprimere questo processo ben più profondo, che non riguarda solo un surrogato, ma è un andare all’essenziale . Per il Dio d’Israele il sacrificio umano è un’atrocità; Moloch, il dio dei sacrifici umani, è appunto il sinonimo del dio falso cui si oppone la fede di YHWH. Per il Dio d’Israele, servizio divino non è la morte dell’uomo, ma la sua vita.

Ireneo di Lione ha espresso questo concetto nella bellissima formula: Gloria Dei homo vivens – l’uomo vivente, lui è la glorificazione di Dio. È questo il tipo di ‘sacrificio umano’, di liturgia che egli chiede .

Ma che cosa significa allora la croce del Signore? Essa è la forma di quell’amore che ha assunto interamente l’uomo e quindi è disceso anche nella sua colpa, nella sua morte. Così questo amore divenne ‘sacrificio’: in quanto amore senza limiti, che prende sulle spalle l’uomo, la pecora smarrita, e la riconduce al Padre attraverso la   notte dei suoi peccati. D’ora in poi esiste una specie nuova di sofferenza: sofferenza non come maledizione, ma come amore che trasforma il mondo.

Altri capitoli del libro:

Il Dio di Gesù Cristo Meditazioni sul Dio Uno e Trino

Il Dio di Gesù Cristo Dio il Creatore

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* Titolo originale:

Der Gott]esu Christi. (Il Dio di Gesù Cristo) Betrachlungen uber den Dreieinigen Gali

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