1- Il primato di Pietro e l’unità della Chiesa (*)
La questione del primato di Pietro e della sua continuazione nei vescovi di Roma è di gran lunga il punto più scottante del dibattito ecumenico. Anche all’interno della Chiesa cattolica il primato di Roma si presenta ininterrottamente come la pietra d’inciampo, a cominciare dalle lotte medievali tra impero e sacerdozio, attraverso i movimenti per le Chiese nazionali dell’inizio dell’epoca moderna e le tendenze di distacco da Roma del XIX secolo, fino alle attuali ondate di protesta contro la funzione di guida del papa e la sua maniera di concepirla. Nonostante tutto, c’è oggi anche una tendenza positiva nell’affermazione comune a molti non cattolici della necessità di un centro comune della cristianità.
Diventa evidente che solo un tale centro può essere uno scudo efficace contro lo scivolamento nella dipendenza dai condizionamenti dei sistemi politici o culturali; che solo in tal modo la fede dei cristiani può conquistarsi una voce chiara in mezzo al brusìo confuso delle differenti ideologie. Tutto ciò ci obbliga, nell’affrontare il nostro tema, a prestare una particolare attenzione alla testimonianza della Bibbia e a interrogare con speciale accuratezza la fede della Chiesa degli inizi.
Dobbiamo distinguere più da vicino due problemi fondamentali. Il primo si può così delineare: c’è stato davvero un primato di Pietro? Ora, siccome ciò può essere difficilmente negato di fronte alle testimonianze del Nuovo Testamento, dobbiamo precisare meglio la domanda. Che cosa significa propriamente quel posto privilegiato di Pietro, che il Nuovo Testamento ci documenta in molteplici maniere? Più difficile e in qualche modo più decisiva è la seconda questione, che ci dobbiamo porre: si può davvero giustificare una successione di Pietro sulla base del Nuovo Testamento? Questo la esige o piuttosto la esclude? E, anche ammessa una successione, Roma ha i titoli per avanzare una pretesa giustificata di esserne la sede?
Cominciamo col primo gruppo di problemi.
a – La missione di Pietro nell’insieme della tradizione neotestamentaria
Ciò che subito colpisce è che tutte le grandi raccolte di testi del Nuovo Testamento conoscono il tema Pietro, che si manifesta così come un tema di significato universale, che non può venire in alcun modo limitato a una determinata tradizione, circoscritta in senso locale o personale. Nell’epistolario paolino ci imbattiamo prima di tutto in un’importante testimonianza, costituita dall’antica formula di fede, che Paolo tramanda in 1Cor 15,3-7. Cefa – nome col quale egli designa l’apostolo di Betsàida servendosi del termine aramaico che significa roccia – viene presentato quale primo testimone della risurrezione di Gesù Cristo.
Ora dobbiamo tener presente che la missione apostolica, proprio nella prospettiva paolina, è essenzialmente una testimonianza della risurrezione di Cristo: secondo la sua stessa testimonianza, Paolo può considerarsi apostolo nel senso pieno della parola perché anche a lui è apparso il Risorto e lo ha chiamato. Così diventa comprensibile l’importanza tutta particolare del fatto che Pietro abbia visto per primo il Signore e che egli entri come primo testimone nella confessione articolata della comunità primitiva. In questo fatto potremmo quasi scorgere un nuovo insediamento nel primato, nella preminenza tra gli apostoli. Se a ciò si aggiunge che si tratta di un’antichissima formula prepaolina, che viene tramandata da Paolo con grande venerazione come un elemento intangibile della tradizione, allora diventa evidente l’importanza del testo.
È pur vero che la polemica lettera ai Galati ci mostra Paolo in conflitto con Pietro, in difesa dell’autonomia della sua vocazione apostolica. Ma proprio tale contesto polemico conferisce alla testimonianza dell’epistola su Pietro un significato tanto più rilevante. Paolo sale a Gerusalemme «per conoscere Pietro» («videre Petrum»), come ha tradotto la Vulgata (Gal 1,18). «Degli apostoli non vidi nessun altro», aggiunge, «se non Giacomo, il fratello del Signore». Tuttavia lo scopo della visita a Gerusalemme è precisamente l’incontro con Pietro. Quattordici anni dopo Paolo, in seguito a una rivelazione, si reca ancora una volta nella Città Santa, dove ora fa visita alle tre colonne, Giacomo, Cefa, Giovanni, questa volta con un obiettivo ben chiaro e circoscritto. Egli espone loro il vangelo che annuncia tra i pagani «per non trovarmi nel rischio di correre o di aver corso invano»; affermazione sorprendente per la prospettiva della lettera e di grandissima importanza per l’autocoscienza dell’Apostolo delle genti: c’è solo un unico vangelo comune e la certezza di predicare il messaggio autentico è legata alla comunione con le colonne. Esse sono il criterio.
Il lettore odierno è indotto a chiedere come si sia giunti a questo gruppo di tre persone e quale fosse la posizione di Pietro al suo interno. Effettivamente O. Cullmann ha avanzato la tesi che dopo l’anno 42 Pietro abbia dovuto cedere il primato a Giacomo; non solamente per lui, il vangelo di Giovanni riflette la rivalità tra Giovanni e Pietro. Occuparsi di tali questioni sarebbe interessante, ma ci porterebbe troppo lontano dal nostro tema.
Con ogni verosimiglianza Giacomo esercitò una sorta di primato sul giudeo-cristianesimo, che aveva il suo centro in Gerusalemme. Ma questo primato non ebbe mai importanza per la Chiesa universale ed è scomparso dalla storia col tramonto del giudeo-cristianesimo.
La posizione speciale di Giovanni era di tutt’altra natura, come si può ben vedere dal quarto vangelo. Si può così accettare tranquillamente, per questa fase di formazione della Chiesa che viene descritta nella lettera ai Galati, una sorta di triplice primato, in cui tuttavia la preminenza di ognuno dei tre ha ragioni differenti ed è di natura diversa. Resta perciò immutata, comunque si voglia definire il rapporto reciproco nel gruppo delle colonne, la singolare preminenza di Pietro che risale al Signore stesso, rispetto alla comune «funzione delle colonne», e rimane confermato quindi che ogni predicazione del vangelo deve misurarsi sulla predicazione di Pietro. Inoltre, la lettera ai Galati è una testimonianza del fatto che tale preminenza sussiste anche quando il primo degli apostoli nel suo comportamento personale rimane al di sotto del suo compito ministeriale (Gal 2,11-14).
Se dopo questa breve panoramica sulla testimonianza paolina ci rivolgiamo ora alla letteratura giovannea, troviamo lungo tutto il vangelo una forte presenza del tema di Pietro, cui fa da contrappunto la figura del discepolo prediletto. Il vertice è raggiunto nella grande pericope della missione di Gv 21,15-19. Perfino R. Bultmann ha affermato chiaramente che in questo testo a Pietro «viene affidata la guida suprema della Chiesa»; egli vi scorge anzi la redazione originaria della stessa tradizione che ritorna in Mt 16 e considera questo passaggio come un antico brano di tradizione pregiovannea.
Tuttavia la sua tesi secondo cui l’evangelista sarebbe interessato all’autorità di Pietro solo per poterla rivendicare in favore del discepolo prediletto, dopo che essa era rimasta per così dire vacante in seguito alla morte di Pietro, è una proposta che non trova sostegno né nel testo né nella storia della Chiesa. Veramente essa dimostra anche che non può essere evitata la questione del significato delle parole rivolte da Gesù a Pietro dopo la morte di questi. Ciò che qui è per noi importante è che, accanto alla linea di tradizione paolina, anche quella giovannea ci offre una testimonianza assolutamente chiara in favore della posizione preminente di Pietro, derivante dal Signore.
Troviamo infine in ognuno dei vangeli sinottici tradizioni autonome sul medesimo tema, di modo che risulta ancora una volta evidente come esso faccia parte della configurazione costitutiva della predicazione e sia presente in tutti gli ambiti della Tradizione, in quello giudeo-cristiano, in quello antiocheno, nella sfera della missione di Paolo e in Roma. Per brevità dobbiamo qui rinunciare ad analizzare tutti i testi, così come dobbiamo rinunciare a uno sguardo sulla versione lucana del mandato primaziale: «Conferma i tuoi fratelli» (22,32) che, collegando la missione petrina con l’evento dell’ultima cena, pone un’importante accentuazione ecclesiologica. Al contrario vorrei piuttosto mostrare in una forma più generale la posizione speciale che nei tre vangeli sinottici viene assegnata a Pietro, anche indipendentemente da Mt 16.
b – Pietro nel gruppo dei Dodici, secondo la tradizione sinottica
A questo proposito va anzitutto constatata in linea generale la posizione speciale di Pietro nel gruppo dei Dodici. Insieme con i due figli di Zebedeo egli forma, all’interno dei Dodici, un gruppo di tre, cui viene riconosciuto particolare rilievo. Solo loro vengono ammessi a due eventi di particolare importanza: la trasfigurazione e l’agonia al monte degli Ulivi (Mc 9,2ss; 14,33ss); così come solo questi tre diventano testimoni della risurrezione della figlioletta di Giairo (Mt 5,37). Ma d’altra parte, all’interno di questi tre, spicca Pietro: è lui che fa da portavoce nella scena della trasfigurazione; e a lui si rivolge il Signore nell’ora dolorosa del monte degli Ulivi.
In Lc 5,1-11 la vocazione di Pietro appare come la forma originaria della vocazione apostolica, ed è ancora Pietro che tenta di imitare il Signore quando cammina sulle acque (Mt 14,28ss); è lui, infine, a chiedere, dopo la concessione del potere di legare e di sciogliere ai discepoli, quante volte si debba perdonare (Mt 18,21).
Tutto questo viene sottolineato dalla posizione di Pietro nelle liste dei discepoli. Ce ne sono state tramandate quattro versioni (Mt 10,2-4; Mc 13,16-19; Lc 6,14-16; At 1,13), che presentano diverse varianti nei particolari, ma che comunque pongono tutte concordemente il nome di Pietro al vertice. Nel vangelo di Matteo egli viene addirittura introdotto col termine significativo «il primo»; per la prima volta risuona quella radice, che successivamente nel discorso sul «primato» divenne il concetto per esprimere la specifica missione del pescatore di Betsàida. È quanto viene affermato anche in Mc 1,36 e Lc 9,32, quando i discepoli vengono presentati con la formula «Pietro e quelli con lui».
Passiamo ora a una seconda, importante circostanza: quella relativa al nuovo nome che Gesù ha dato all’apostolo. Come ha rilevato l’esegeta protestante Schulze-Kadelbach, appartiene a «quanto di più certo noi conosciamo di quest’uomo» il fatto che egli sia stato chiamato col titolo di «roccia – pietra» e che questo non era il suo nome originario, ma il nuovo appellativo, datogli da Gesù. Paolo fa ancor uso, come abbiamo visto, della forma aramaica, proveniente dalle labbra di Gesù, e chiama l’apostolo «Cefa». Il fatto poi che si sia tradotto il termine e che esso sia entrato nella storia col titolo greco di Pietro, conferma inequivocabilmente che non si trattava in nessun modo di un nome proprio di persona. I nomi propri non vengono mai tradotti. Ora non era inconsueto che i rabbini imponessero dei soprannomi ai loro discepoli; lo stesso Gesù ha fatto qualcosa di simile con i due figli di Zebedeo, chiamandoli «figli del tuono» (Mc 3,17).
Ma come si deve comprendere il nuovo appellativo Pietro? Certo esso non si riferisce al carattere di quest’uomo, cui si adatta molto meglio la descrizione, che Flavio Giuseppe aveva dato del carattere tipico della Galilea: «coraggioso, bonario, fiducioso, ma anche facilmente influenzabile e amante delle novità». La denominazione di «roccia – pietra» non ha nessun significato pedagogico o psicologico; essa va compresa solo a partire dal mistero, vale a dire in prospettiva cristologica ed ecclesiologica: attraverso l’incarico conferitogli da Gesù, Simon Pietro diventerà proprio quello che egli non è attraverso «la carne e il sangue». Jeremias ha mostrato che sullo sfondo vi è il linguaggio simbolico della roccia santa. Un testo rabbinico può essere illuminante a questo proposito: «Il Signore disse: “Come posso creare il mondo, quando sorgeranno questi senza-Dio e mi si rivolteranno contro?”. Ma quando Dio vide che doveva nascere Abramo, disse: “Guarda, ho trovato una roccia, sulla quale posso costruire e fondare il mondo”. Perciò egli chiamò Abramo una roccia: “Guardate alla roccia da cui siete stati tagliati” (Is 51,1.2)».
Abramo, il padre di tutti i credenti, è con la sua fede la roccia, la quale sostiene la creazione, respingendo il caos, il diluvio originario che incalza e minaccia di rovinare tutto. Simone, che per primo ha confessato Gesù come il Cristo ed è stato il primo testimone della risurrezione, diventa ora, con la sua fede rinnovata cristologicamente, la roccia che si oppone alla sporca marea dell’incredulità e alla sua forza distruttiva dell’umano. Si può così affermare che di per sé, anche solo nella denominazione assolutamente incontestabile del pescatore di Betsàida come «roccia – pietra», è contenuta tutta la teologia di Mt 16,18 e che quindi essa viene anche garantita nella sua autenticità.
c – Il detto sul ministero di Mt 16,17-19
Dobbiamo ora considerare un po’ più da vicino questo testo centrale della tradizione su Pietro. Di fronte al significato che la parola del Signore sul «legare» e sullo «sciogliere» ha ricevuto nella Chiesa cattolica non può stupire che nell’esegesi si ripercuotano e si riflettano tutte le polemiche confessionali, così come le oscillazioni interne alla stessa teologia cattolica. Mentre la teologia liberale protestante trovò motivi per contestare l’origine gesuana di queste parole, tra le due guerre mondiali anche fra i teologi protestanti si andò consolidando una sorta di consenso, con cui si accettava abbastanza unanimemente l’origine di queste parole dal Signore stesso.
Nel nuovo clima teologico, creatosi dopo la guerra, questo consenso venne molto presto a mancare. Non può meravigliare che nell’atmosfera del postconcilio anche gli esegeti di parte cattolica si siano allontanati sempre più dalla tesi dell’origine gesuana del detto. Si va dunque alla ricerca di situazioni nella Chiesa primitiva, in cui queste parole possono inserirsi e si pensa per lo più, con Bultmann, alle più antiche comunità palestinesi, rispettivamente a Gerusalemme oppure anche ad Antiochia, dove si ipotizza che vada collocato il luogo di formazione del vangelo di Matteo.
Per la verità vi sono anche altre voci; così recentemente J.M. van Cangh e M. van Esbroeck, in seguito alle osservazioni di H. Riesenfeld, hanno messo nuovamente in luce il contesto giudaico del racconto di Matteo e propongono quindi considerazioni degne della massima attenzione, le quali confermano la grande antichità del testo e fanno emergere più chiaramente la sua profondità teologica, anche al di là di quanto finora noto.
In questa sede, non ci è possibile entrare in tutti questi dibattiti; del resto non ne abbiamo neppure bisogno e ciò per due motivi: da un lato abbiamo visto che la sostanza di quanto affermato in Matteo ha il suo corrispettivo in tutti gli strati della Tradizione presenti nel Nuovo Testamento, per quanto possano essere costruiti diversamente tra loro. Una tale unità della tradizione si può spiegare solo con un’origine in Gesù stesso. Ma non abbiamo bisogno di seguire più a lungo queste discussioni anche a motivo di una riflessione teologica, e cioè che per colui che legge la Bibbia come parola di Dio nella fede della Chiesa, la validità di una parola non dipende da ipotesi storiche circa la forma e l’origine più antica. Quanto siano di vita breve queste ipotesi lo sa bene chiunque abbia prestato un po’ più a lungo attenzione alle proposte degli esegeti.
Per il credente, una parola di Gesù che si trova nella sacra Scrittura, non riceve la sua forza vincolante dal fatto che la maggioranza degli esegeti contemporanei la riconosce come tale, ed essa non perde la sua validità quando si verifica il contrario.
In altri termini: la garanzia della validità non proviene da costruzioni ipotetiche, per quanto fondate possano essere, ma dall’appartenenza al canone della Scrittura, che la fede della Chiesa garantisce come parola di Dio, cioè come sicuro fondamento della nostra esistenza.
Premesso questo, è tuttavia importante comprendere il più esattamente possibile, mediante gli strumenti della scienza storica, la struttura e il contenuto di un testo. L’obiezione principale dell’epoca liberale contro l’origine gesuana della parola di vocazione consisteva nell’osservazione che qui viene impiegato il vocabolo «Chiesa» (ekklesia), che nei vangeli ricorre solo qui e in Mt 18,17. Dato che, come abbiamo mostrato nel primo capitolo, si dava per certo che Gesù non aveva voluto alcuna Chiesa, quest’uso linguistico appariva come un anacronismo rivelatore della formazione tardiva del detto nel contesto della Chiesa già nata. Contro questa ipotesi, l’esegeta evangelico A. Oepke ha attirato l’attenzione sul fatto che non si è mai abbastanza prudenti con le statistiche di parole. Egli ha fatto notare, per esempio, che in tutta la lettera ai Romani di san Paolo non ricorre mai la parola «croce», benché senz’alcun dubbio la lettera sia impregnata dall’inizio alla fine della teologia della croce dell’Apostolo.
Rispetto a questi rilievi è molto più importante quindi la forma letteraria del testo, sulla quale lo stesso indiscusso portavoce della teologia liberale, A. von Harnack, ha detto: «Non ci sono molti altri passi estesi nei vangeli, dai quali traspare così sicuramente lo sfondo aramaico del pensiero e della forma, come da questa pericope fortemente compatta». In modo del tutto simile si è espresso anche Bultmann: «Non vedo come possano darsi le condizioni della sua origine se non nella comunità originaria di Gerusalemme». Aramaica è la formula introduttiva «beato sei tu»; aramaico è il nome, non spiegato, Barjona, così come sono aramaici i successivi concetti di «porte degli inferi», «chiavi del regno dei cieli», «legare e sciogliere», «sulla terra e nei cieli». Il gioco di parole col termine «pietra» (tu sei la pietra e su questa pietra…) non funziona del tutto in greco, dal momento che ora diventa necessario un cambiamento di genere tra Pietro e pietra: così possiamo anche qui sentire risuonare in trasparenza la parola aramaica Cefa e percepire la voce stessa di Gesù.
Passiamo ora all’interpretazione, che ancora una volta possiamo intraprendere solo per alcuni punti principali. Abbiamo già detto del simbolismo della «roccia – pietra» per il quale Pietro appare messo in parallelo con Abramo; la sua funzione per il nuovo popolo, la Ekklesia, riveste un significato cosmico ed escatologico, corrispondente alla natura di questo popolo. Per comprendere il modo in cui Pietro è roccia, prerogativa che egli non ha di per se stesso, è utile tener presente la continuazione del racconto in Matteo.
Non a partire «dalla carne e dal sangue», ma per rivelazione del Padre egli aveva espresso il riconoscimento di Cristo in nome dei Dodici. Quando poi Gesù spiega la forma e la via del Cristo in questo mondo, profetizzando la morte e la risurrezione, allora rispondono la carne e il sangue: Pietro «rimproverò il Signore»: «Questo non ti accadrà mai!» (16,22). E Gesù gli replicò: «Allontanati da me, satana! Tu mi sei di scandalo (skandalon)…» (v. 23).
Colui che, per dono di Dio, può essere solida roccia, è di per se stesso una pietra sulla strada, che induce il piede ad inciampare. La tensione tra il dono che proviene dal Signore e le proprie capacità diventa così evidente da destare scalpore; qui viene in qualche modo anticipato tutto il dramma della storia del papato, nel corso della quale ci imbattiamo sempre in entrambi gli elementi: quello per cui il papato, grazie a una forza che non gli deriva da se stesso, rimane il fondamento della Chiesa e quello per cui nello stesso tempo singoli papi, per le caratteristiche tipiche della loro umanità, diventano sempre nuovamente scandalo, perché essi vogliono precedere Cristo, piuttosto che seguirlo; perché essi credono, con la loro logica umana, di dovergli preparare quella strada che invece solo lui può determinare: «Tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini» (Mt 16,23).
Per quanto riguarda la promessa che il potere della morte non potrà avere il sopravvento sulla roccia (la Chiesa?), troviamo un parallelo nella vocazione del profeta Geremia, al quale fu detto, all’inizio della sua missione: «Io, dunque, ecco: ti rendo oggi come città fortificata, come colonna di ferro e come muraglia di bronzo contro tutto il paese, contro i re di Giuda e i principi suoi, contro i suoi sacerdoti e contro il popolo del paese. Essi combatteranno contro di te ma non ti sopraffaranno perché con te sono io, per salvarti» (Gr 1,18s).
Ciò che scrive A. Weiser di questo brano dell’Antico Testamento può servire molto bene come spiegazione della promessa di Gesù a Pietro: «Dio esige tutto il coraggio di una fiducia senza condizioni nel suo potere straordinario, quando egli promette quanto è apparentemente impossibile, di rendere cioè il fragile uomo una “città fortificata”, una “colonna di ferro” e una “muraglia di bronzo”, così che potrà da solo resistere contro tutta la popolazione del paese e contro i detentori del potere, come un vivente baluardo di Dio… Non gli viene garantita l’intangibilità di un uomo di Dio “consacrato”,… ma solo la vicinanza di Dio, che lo “salva” e i suoi nemici non avranno il sopravvento su di lui (cfr. Mt 16,18)».
Veramente la promessa fatta a Pietro è più estesa di quelle fatte ai profeti dell’antica alleanza: contro di essi cerano solo le forze della carne e del sangue, contro Pietro ci sono le porte degli inferi, le forze distruttive degli abissi. Geremia riceve solamente una promessa personale in vista del suo ministero profetico; Pietro ottiene una promessa per l’assemblea del nuovo popolo di Dio, che si estende a tutti i tempi; una promessa che va oltre il tempo della sua esistenza personale. A causa di ciò Harnack ha pensato che qui venisse profetizzata l’immortalità di Pietro e, in un certo senso, egli ha colto nel segno: la roccia non sarà sopraffatta, poiché Dio non abbandonerà la sua Ecclesia alle forze della distruzione.
Il potere delle chiavi ricorda la parola di Dio che in Is 22,22 è rivolta ad Eliacim, al quale, insieme con le chiavi, viene consegnata «la signoria e il potere sulla casa di Davide». Ma anche la parola del Signore agli scribi e ai farisei, che vengono rimproverati di chiudere il regno dei cieli davanti agli uomini (Mt 23,13), ci aiuta a comprendere il contenuto di questo detto sul mistero: poiché Pietro è un fedele amministratore del messaggio di Gesù, egli apre la porta del regno dei cieli; a lui compete la funzione del portinaio, che deve giudicare se accogliere o rifiutare (cfr. Ap 3,7). In tal modo il significato del detto sulle chiavi si avvicina chiaramente a quello sul «legare» e lo «sciogliere». Quest’ultima espressione è desunta dal linguaggio rabbinico e significa da un lato la pienezza delle decisioni dottrinali; dall’altro lato esprime il potere disciplinare, cioè il diritto di infliggere o di togliere la scomunica.
Il parallelismo «sulla terra e nei cieli» afferma che le decisioni ecclesiali di Pietro hanno valore anche davanti a Dio; idea che si incontra, in forma simile, anche nella letteratura talmudica. Se prestiamo attenzione ai paralleli del detto di Gesù risorto, riportato in Gv 20,23, diventa evidente che con l’autorità di sciogliere e di legare si intende essenzialmente il potere di rimettere i peccati affidato in Pietro alla Chiesa (cfr. anche Mt 18,15-18) . Ciò mi sembra un elemento della massima importanza. Nel cuore stesso del nuovo ministero, che toglie energia alle forze della distruzione, c’è la grazia del perdono. È essa che costituisce la Chiesa.
La Chiesa è fondata sul perdono. Pietro stesso rappresenta nella sua persona questo fatto: colui che è caduto nella tentazione, ha confessato e ricevuto il perdono, può essere il detentore delle chiavi. La Chiesa è nella sua intima essenza luogo del perdono in cui viene bandito il caos. Essa viene tenuta insieme dal perdono, Pietro ne è una dimostrazione perenne: essa non è la comunità dei perfetti, ma la comunità dei peccatori, che hanno bisogno del perdono e lo cercano.
Dietro il detto sull’autorità diventa visibile il potere di Dio come misericordia e quindi come pietra angolare della Chiesa; in sottofondo udiamo la parola del Signore: «Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma gli ammalati; non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori» (Mc 2,17). La Chiesa può sorgere solo là dove l’uomo giunge alla propria verità, e questa verità consiste precisamente nel fatto che egli ha bisogno della grazia. Dove l’orgoglio gli preclude questa conoscenza, egli non trova la strada che porta a Gesù. Le chiavi del regno dei cieli sono le parole del perdono, che sicuramente nessun uomo può pronunciare da solo, ma che solamente la potenza di Dio garantisce.
Siamo ora anche in grado di comprendere perché a questa pericope fa seguito immediatamente un preannuncio della passione: con la sua morte Gesù ha sbarrato la porta alla morte, alla potenza degli inferi, vi ha posto il coperchio e ha così espiato tutte le colpe, di modo che da questa morte derivi ininterrottamente forza di perdono.
a – Il principio della successione in generale
Che il Nuovo Testamento, in tutti i suoi grandi filoni di tradizione, conosca il primato di Pietro è incontestabile. La vera difficoltà sorge non appena si pone la seconda domanda: si può fondare l’idea della successione di Pietro? Ancora più ardua è la terza domanda ad essa collegata: si può giustificare in modo credibile la successione romana di Pietro? Per quanto riguarda la prima di queste due questioni dobbiamo anzitutto constatare che nel Nuovo Testamento non ce un’esplicita affermazione della successione di Pietro. Non ci si deve meravigliare di questo, in quanto i vangeli, così come le grandi epistole paoline, non affrontano il problema di una Chiesa postapostolica; cosa che, del resto, va vista come un segno della fedeltà alla Tradizione da parte dei vangeli. D’altra parte, nei vangeli è possibile trovare questo problema in un modo indiretto, se si dà ragione al principio metodologico della storia delle forme, secondo cui è stato riconosciuto come facente parte della Tradizione solo quanto nel corrispettivo ambiente della Tradizione venne avvertito come in qualche modo significativo per il presente. Ciò dovrebbe significare, per esempio, che Giovanni, verso la fine del I secolo, cioè quando Pietro era già morto da tempo, non considerò affatto il suo primato come qualcosa di appartenente al passato, ma come qualcosa che restava attuale per la Chiesa.
Alcuni credono anzi – forse con un po’ troppa fantasia – di poter scorgere nella «concorrenza» tra Pietro e «il discepolo amato da Gesù» un’eco delle tensioni tra la rivendicazione romana del primato e l’autocoscienza delle Chiese dell’Asia Minore. Ciò sarebbe in ogni modo una testimonianza molto precoce, e per di più interna alla Bibbia, del fatto che si riteneva che la linea petrina continuasse in Roma. Tuttavia noi non dobbiamo in alcun modo appoggiarci su ipotesi tanto incerte. Mi sembra giusta, al contrario, l’idea fondamentale secondo cui le tradizioni neotestamentarie non rispondono mai a un mero interesse di curiosità storica, ma portano in sé la dimensione del presente e in questo senso sottraggono sempre le cose al mero passato, senza per questo cancellare l’autorità speciale dell’origine.
Del resto proprio quegli studiosi che negano il principio della successione hanno poi proposto ipotesi di successione. O. Cullmann, ad esempio, si pronunciò con grande chiarezza contro l’idea di successione; riteneva tuttavia di poter dimostrare che Pietro sarebbe stato sostituito da Giacomo e che questi avrebbe esercitato il primato di colui che in precedenza era stato il primo degli apostoli. Bultmann, a partire dalla menzione delle tre colonne in Gal 2,9, crede di poter concludere che da una direzione personale si sarebbe passati a una direzione collegiale e che un collegio sarebbe subentrato nella successione di Pietro.
Non ce bisogno di discutere queste e altre ipotesi simili; il loro fondamento è piuttosto debole. Tuttavia si dimostra così che l’idea della successione non può essere elusa, se si considera la parola tramandata davvero come uno spazio aperto al futuro. Negli scritti del Nuovo Testamento che si collocano nel momento del passaggio alla seconda generazione o che ad essa già appartengono – specialmente gli Atti degli apostoli e le lettere pastorali – il principio della successione assume infatti una forma concreta. La concezione protestante secondo cui la «successione» si trova solo nella Parola come tale, ma non in «strutture» di qualsiasi genere, si rivela anacronistica, sulla base della forma effettiva della tradizione neotestamentaria.
La Parola è legata ad un testimone, il quale garantisce la sua inequivocabilità, che essa non possiede come mera Parola affidata a se stessa. Il testimone tuttavia non è un individuo che sussiste per se stesso e in se stesso. Egli è tanto poco testimone da se stesso e per la propria capacità di ricordare, quanto poco Simone può essere roccia con le proprie forze. Egli è testimone non in quanto «carne e sangue», ma attraverso il suo legame con lo Spirito, il Paraclito, che è garante della verità e apre la memoria. È lui che, dal canto suo, unisce il testimone a Cristo. Infatti il Paraclito non parla da se stesso, ma prende dal «suo» (cioè da quello che è di Cristo: Gv 16,13).
Tale legame con lo Spirito e col suo modo di essere – «non parlerà da se stesso, ma quanto sentirà dire» – viene chiamato, nel linguaggio della Chiesa, «sacramento». Il sacramento designa il triplice intrecciarsi di Parola – testimone – Spirito Santo e Cristo, che descrive la struttura specifica della successione neotestamentaria. Dalla testimonianza delle lettere pastorali e degli Atti degli apostoli si può desumere con una certa sicurezza che già la generazione apostolica ha dato a questo reciproco intrecciarsi di persona e parola, nella presenza creduta per fede dello Spirito e di Cristo, la forma dell’imposizione delle mani.
b – La successione romana di Pietro
La figura neotestamentaria della successione, così costituita, nella quale la Parola viene sottratta all’arbitrio umano proprio attraverso il coinvolgimento in essa del testimone, viene molto presto fronteggiata da un modello essenzialmente intellettuale e antistituzionale, che nella storia conosciamo col nome di gnosi. Qui viene innalzata a principio la libera interpretazione e lo sviluppo speculativo della parola. Di fronte alla pretesa intellettuale, avanzata da questa corrente, molto presto non è più sufficiente il rimando a singoli testimoni. Diventarono necessari dei punti di riferimento per la testimonianza, che vennero trovati nelle cosiddette sedi apostoliche, cioè in quei luoghi in cui gli apostoli avevano operato.
Le sedi apostoliche diventano i punti di riferimento della vera communio. All’interno di questi punti di riferimento, tuttavia, si dà ancora un preciso criterio, che riassume in sé tutti gli altri (con chiarezza presso Ireneo di Lione): la Chiesa di Roma, in cui Pietro e Paolo hanno sofferto il martirio.
Con essa ogni singola comunità deve essere in accordo, essa è veramente il criterio dell’autentica tradizione apostolica. Del resto Eusebio di Cesarea, nella prima redazione della sua Storia ecclesiastica, ha fatto una descrizione dello stesso principio: il contrassegno della continuità della successione apostolica si concentra nelle tre sedi petrine di Roma, Antiochia e Alessandria, dove Roma, quale luogo del martirio, è ancora una volta, delle tre sedi petrine, quella preminente, quella veramente decisiva.
Questo ci porta a una constatazione della massima importanza : il primato romano, cioè il riconoscimento di Roma quale criterio della fede autenticamente apostolica, è più antico del canone del Nuovo Testamento, della Scrittura.
A tal proposito ci si deve guardare da una quasi inevitabile illusione. La Scrittura è più recente degli scritti da cui è costituita. Per lungo tempo l’esistenza dei singoli scritti non diede ancora luogo al Nuovo Testamento come Scrittura, come Bibbia. La raccolta degli scritti nella Scrittura è piuttosto opera della Tradizione, che cominciò nel II secolo, ma che solo nel IV e V secolo giunse in qualche misura a conclusione. Un testimone insospettabile quale Harnack ha segnalato al riguardo che, prima della fine del secondo secolo, si impose in Roma un canone dei «libri del Nuovo Testamento» secondo il criterio dell’apostolicità e cattolicità, criterio che a poco a poco fu seguito anche dalle altre Chiese, «a causa del suo valore intrinseco e della forza dell’autorità della Chiesa romana». Possiamo quindi affermare: la Scrittura è diventata Scrittura mediante la Tradizione, di cui fa parte come elemento costitutivo, proprio in questo processo, la «potentior principalitas» della cattedra di Roma.
Son così diventati evidenti due punti: il principio della Tradizione, nella sua configurazione sacramentale quale successione apostolica, fu costitutivo per l’origine e la continuazione della Chiesa. Senza questo principio non è assolutamente possibile immaginare un Nuovo Testamento e ci si dibatte in una contraddizione quando si vuole affermare l’uno e negare l’altro. Abbiamo visto inoltre che a Roma fin dall’inizio venne stabilita e tramandata la lista dei nomi dei vescovi come serie della successione. Possiamo aggiungere che Roma e Antiochia, quali sedi di Pietro, erano consapevoli di trovarsi nella successione della missione di Pietro e che presto nel gruppo delle sedi petrine fu assunta anche Alessandria come luogo dell’attività di Marco, discepolo di Pietro.
Tuttavia il luogo del martirio appare chiaramente come il detentore principale della suprema autorità petrina e gioca un ruolo preminente nella formazione della nascente tradizione ecclesiale e, in particolare, nella formazione del Nuovo Testamento come Bibbia; esso appartiene alle sue essenziali condizioni di possibilità, sia interne che esterne. Sarebbe affascinante mostrare come abbia influito in tutto ciò l’idea che la missione di Gerusalemme era passata a Roma, ragion per cui inizialmente Gerusalemme non solo non fu «sede patriarcale» ma non fu mai neppure sede metropolitana: Gerusalemme risiede ora in Roma e il suo titolo di preminenza si è trasferito, con la partenza di Pietro, nella capitale del mondo pagano.
Tuttavia una riflessione dettagliata su questo tema ci porterebbe troppo lontano. Penso però che l’essenziale sia diventato evidente: il martirio di Pietro in Roma fissa il luogo dove la sua funzione continua. Questa consapevolezza si mostra già nel I secolo, attraverso la prima lettera di Clemente; anche se nei particolari lo sviluppo è stato naturalmente lento.
Riflessioni conclusive
Ci fermiamo a questo punto, dal momento che l’obiettivo essenziale delle nostre riflessioni è stato raggiunto. Abbiamo visto infatti che il Nuovo Testamento nella sua totalità documenta in maniera convincente il primato di Pietro; abbiamo visto che la costituzione della Tradizione e della Chiesa presupponeva la continuazione dell’autorità di Pietro in Roma. Il primato romano non è un’invenzione dei papi, ma un elemento essenziale dell’unità della Chiesa, che risale al Signore stesso e che si è fedelmente sviluppato nella Chiesa nascente.
Ma il Nuovo Testamento ci mostra qualcosa di più degli aspetti formali di una struttura; esso ci mostra anche la sua intima essenza. Non ci consegna solo prove documentarie, ma resta criterio e compito. Ci indica la tensione tra pietra d’inciampo e roccia; proprio nella sproporzione tra capacità umane e disposizione divina, Dio si lascia riconoscere come colui che è veramente presente e operante. Se il conferimento di una simile pienezza di autorità agli uomini ha potuto far scattare nel corso della storia – e non senza motivo – sempre di nuovo il timore di un potere umano arbitrario, tuttavia non solo la promessa del Nuovo Testamento, ma anche lo stesso percorso storico mostrano il contrario: la sproporzione degli uomini per una tale funzione è così stridente, così evidente, che proprio nel conferimento a un uomo della funzione di roccia diventa chiaro che non sono questi uomini che sostengono la Chiesa, ma solo Colui il quale la sostiene, più nonostante gli uomini che attraverso di essi.
Il mistero della croce non è forse da nessuna parte così tangibilmente presente come nella storia del primato. Il fatto che il suo centro sia costituito dal perdono è nello stesso tempo il suo presupposto e il segno della natura particolare del potere di Dio. Ogni singola parola biblica sul primato resta così, di generazione in generazione, un’indicazione, una misura, a cui dobbiamo sempre nuovamente piegarci.
Se la Chiesa mantiene la sua fede in queste parole, non si tratta di trionfalismo, ma di umiltà, che riconosce, stupita e grata, la vittoria di Dio, sulla debolezza umana e attraverso di essa. Chi per paura del trionfalismo o del potere arbitrario dell’uomo toglie a queste parole la loro forza, non annuncia affatto un Dio più grande, piuttosto lo rimpicciolisce. Egli infatti manifesta la potenza del suo amore proprio nel paradosso dell’impotenza umana e così rimane fedele alla legge della storia della salvezza.
Dunque, con lo stesso realismo con cui oggi ammettiamo i peccati dei papi, la loro inadeguatezza rispetto alla grandezza del loro ministero, dobbiamo anche riconoscere che sempre Pietro è stato la roccia contro le ideologie; contro la riduzione della Parola a quanto è plausibile in un’epoca determinata; contro la sottomissione ai potenti di questo mondo.
Riconoscendo questi fatti nella storia, noi non celebriamo degli uomini, ma diamo lode al Signore, che non abbandona la Chiesa e che ha voluto realizzare il suo esser roccia attraverso Pietro, la piccola pietra d’inciampo: non la «carne e il sangue», ma il Signore salva attraverso coloro che provengono dalla carne e dal sangue. Negare ciò non è un di più nella fede e neppure un di più nell’umiltà, ma un indietreggiare di fronte all’umiltà, che riconosce la volontà di Dio esattamente com’essa è. La promessa fatta a Pietro e la sua realizzazione storica in Roma rimangono quindi nel più profondo un motivo perenne di gioia: le potenze degli inferi non prevarranno contro di essa…
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– dallo stesso libro: Ratzinger spiega: la Chiesa di Cristo non è un partito
– Ratzinger e La Chiesa sulla soglia del Terzo Millennio
– Ratzinger La Chiesa non dipende dalle maggioranze
– qui l’indice delle nostre pubblicazioni agli Scritti di Ratzinger-Benedetto XVI
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(*) tratto dal volume: “La Chiesa. Una comunità sempre in cammino” (LEV 2006; Ed. sanpaolo 2008, pag.39-64), i primi tre capitoli che trattano, appunto La Chiesa, il primato Petrino e il ruolo dei Vescovi, fanno parte di un corso di teologia che l’allora cardinale Ratzinger tenne in Brasile dal 23 al 27 luglio 1990.
si legga – vedi qui – anche il testo ufficiale magisteriale voluto da Giovanni Paolo II, sul Primato Petrino, e scritto da Ratzinger nel 1998, quale Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede.