Benedetto XVI ha avuto una sola priorità: salvare l’unità della Chiesa attraverso la Tradizione nella Verità
Iniziamo questa analisi con una nota simpatica: «È Babbo Natale!» esclama, ridendo, la folla radunata in piazza San Pietro, accorgendosi del copricapo rosso e bianco di Benedetto XVI. E’ il mattino del 21 dicembre 2005. In questo fine d’anno a Roma fa freddo; e il vento del Nord, la famosa tramontana, sceso dai vicini monti abruzzesi, sferza il viso dei presenti. Babbo Natale? I più anziani rettificano: ma no, il papa porta il «camauro» di velluto rosso, l’antica cuffia pontificia dipinta nei quadri rinascimentali. Dopo la morte di Giovanni XXIII, nel 1963, nessun papa lo aveva più utilizzato (riportava così la giornalista Isabelle de Gaulmyn).
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Benedetto XVI, dirà dopo in una intervista molto umilmente: “avevo semplicemente freddo, ed ho usato il copricapo previsto dal vestiario pontificio“; ma per i romani e i pellegrini è stato una specie di regalo di Natale, molto apprezzato. Per la prima volta il neo-papa rispolvera l’abbigliamento del passato in un modo così semplice da spiazzare i commentatori televisivi.
Ma veniamo ai ricordi più sostanziosi in questa prima parte che vogliamo analizzare, brevemente, con voi.
Il giorno dopo di quel freddo dicembre, rivolgendosi alla Curia romana riunita per gli auguri natalizi, pronuncia un discorso molto importante, che fissa la sua linea in relazione al Vaticano II ma nel rispetto della tradizione. Di questo discorso una delle principali concretizzazioni sarà il Motu Proprio (decisione indiscutibile del Pontefice) “Summorum Pontificum” del luglio del 2007, che permette l’uso libero del Messale tridentino, la Messa detta “antica”.
Quel discorso è un testo essenziale per comprendere l’animo liturgico di Ratzinger. È citato spesso, anche in modo maldestro. E’ necessario, allora, precisarne bene il contenuto. Infatti, fin dalla sua elezione, nel messaggio programmatico del suo pontificato – pronunciato nella Cappella Sistina alla presenza dei cardinali elettori – il nuovo papa affermava «con forza la decisa volontà di proseguire nell’impegno di attuazione del concilio Vaticano II». E il 22 dicembre 2005 spiega ciò che intende per «attuazione del concilio».
E’ significativo che, prima di tutto, egli inizi con un elogio del suo predecessore. L’intonazione è data: intendo situarmi nella linea di Giovanni Paolo II. Prosegue nel fare un bilancio dell’anno per poi tornare a parlare del concilio col «pretesto» che si sono da poco festeggiati i quarant’anni della sua chiusura. Pretesto, perché il concilio, in realtà, è il nocciolo del discorso. Tra le altre domande Benedetto XVI si chiede: «Che cosa, nella recezione del concilio, è stato buono, che cosa insufficiente o sbagliato?».
Come giovane teologo egli è stato uno dei protagonisti del Vaticano II; è perciò legittima e fondamentale una sua valutazione, ora che è diventato anche Pontefice, su ciò che è stato accolto e gli errori compiuti, cosa che richiede una giusta interpretazione (ermeneutica). Alcuni vedono nel Vaticano II una divisione, una rottura all’interno della Chiesa: un «salto» che ne modifica la natura. Loro pensano che sarebbe necessario andare al di là dei testi alla ricerca del vero «spirito» conciliare. Per Ratzinger questa è una concezione pericolosa, che porterebbe alla rottura dell’unità della Chiesa separando conservatori e modernisti. Benedetto XVI preferisce invece «l’ermeneutica della riforma». La «riforma», cioè il rinnovamento nella continuità, e non la «discontinuità», come invece ha sovente affermato chi ha ripreso il suo discorso.
Il papa-teologo porta due esempi per nulla casuali. Dapprima, il rapporto con il mondo. Il Vaticano II sembra aver determinato un rapporto nuovo tra Chiesa ed età moderna o, come ha detto Giovanni XXIII, una «apertura verso il mondo». Benedetto XVI osserva che quest’apertura procede da una lunga evoluzione anteriore, e che non elimina le tensioni tra la Chiesa e il mondo d’oggi, soprattutto non elimina affatto ciò che la Chiesa insegnava “ieri” a riguardo dell’uomo e del mondo. In poche parole, nonostante il «sì» al mondo la Chiesa resta un «segno di contraddizione», e continua a levare la sua voce nei confronti dei pericoli e degli errori della cultura che la circonda, contro le nuove politiche e ideologie già fortemente denunciate sia da Paolo VI (vedi l’Humanae vitae) sia da Giovanni Paolo II in difesa della Famiglia fortemente – allora – minacciata. Benedetto XVI diventa così, egli stesso, un ostacolo per i «progressisti-modernisti».
Il secondo esempio, invece, è un serio avvertimento per i cattolici «integralisti»: si tratta della libertà religiosa. Si sa che il decreto (o dichiarazione) sulla libertà religiosa (Dignitatis humanae) fu uno dei testi più discussi del concilio, in cui è racchiuso, indipendentemente dalle problematiche liturgiche, il motivo dell’opposizione di quanti hanno seguito, per esempio, monsignor Lefebvre. Per Benedetto XVI la libertà religiosa è incontestabile perché non l’ha «inventata» il concilio, ma nasce dai grandi principi etici del cristianesimo e appartiene al «patrimonio più profondo della Chiesa». Ratzinger fa però osservare, in più riprese, l’errore di un ecumenismo esasperante e sincretista fino a concretizzare, su richiesta di Giovanni Paolo II, il famoso Documento “Dominus Jesus” nel quale si ribadiscono i punti saldi della Tradizione a riguardo dell’unicità e della superiorità magisteriale della Chiesa Cattolica.
Indubbiamente Benedetto XVI viene a trovarsi fra due fuochi incrociati. Criticato dalle frange più estreme del mondo tradizionalista, da loro accusato pure di eresia; odiato e fortemente osteggiato dalla presenza numerosa progressista e modernista dentro la Chiesa, che lo accusa di essere un integralista.
Eletto a settantotto anni, sa di essere l’ultimo pontefice ad aver partecipato al Vaticano II, l’evento innegabilmente più rilevante per la Chiesa Cattolica del XX secolo. E’ mala fede accusarlo di voler fare marcia indietro circa i testi conciliari, citati invece in quasi tutti i suoi discorsi, ma è anche in mala fede chi lo accusa di essere un eretico. Più di una volta ha manifestato la sua fedeltà agli insegnamenti del Vaticano II, anche se, probabilmente, le polemiche che ne sono scaturite lo hanno ferito e profondamente segnato, come dirà egli stesso nell’ultima intervista uscita nel settembre 2016. Riguardo al concilio, Ratzinger ha sempre pensato di dover lasciare un’eredità indiscutibile alle generazioni future, che invece di demolirlo devono studiarlo onestamente, traendone il buono, trasformandolo da oggetto di rottura a fonte di unità.
Ciò ha sorpreso, per esempio, la maggior parte dei cattolici francesi, ma anche l’episcopato tedesco che è sempre stato critico nei suoi confronti. Si domandano: come sarebbe a dire che il Vaticano II è stato male interpretato? Bisogna dire che il progressismo in Francia ha trasformato l’eredità conciliare in realtà intoccabile, tra loro e i tedeschi, la cosiddetta “alleanza renana” (si legga il famoso Discorso di Benedetto XVI ai Parroci 14.2.2013), il concilio è diventato una sorta di super-dogma. Ma Ratzinger stesso ha reso notevole il dibattito sulla interpretazione dei testi che, per lui, non sono “un dogma”, ma suscettibili piuttosto di correzioni e affiatamento con l’insegnamento perenne della Chiesa… questo ha sempre inteso per “ermeneutica” della continuità.
In questi ultimi anni è stato contestato da certi ecclesiastici – in modo particolare a Roma – l’Istituto di scienze religiose di Bologna, dove alcuni storici – tra cui molti francesi – hanno continuato a portare avanti un lavoro di considerevole rottura sulla storia del concilio. Per il cardinale Ruini, ad esempio, che fu vicario di Roma e persona vicina al papa, la linea sostenuta dall’Istituto bolognese non propone infatti una storia vera, obiettiva, perché accorda in modo unilaterale troppa importanza allo «spirito» in cui si è svolto, uno “spirito interpretativo” condannato sia da Giovanni Paolo II quanto da Benedetto XVI.
Come già si evidenzia dalle Udienze generali del Mercoledì di Paolo VI, nelle quali critica e condanna continuamente una certa interpretazione del concilio, è stato subito dopo la fine del concilio che sono sorti i problemi della sua interpretazione.
Benedetto XVI non legge i testi solo da intellettuale, ma da teologo che segue la Patristica ed è attento al magistero dei Padri. Ma un concilio non è anche un evento storico che può dar luogo a diverse interpretazioni?
Nel luglio 2007, durante le vacanze sulle Dolomiti, in uno di quei cordiali incontri che Benedetto XVI predilige, parlando con alcuni preti ha dimostrato di essere consapevole del rischio del disorientamento di un’intera generazione, parlando poi di vera APOSTASIA, sulla scia stessa del Predecessore. Un prete anziano gli chiede amaramente una parola per quelli come lui: «Per noi che ci siamo preparati durante gli anni del concilio, poi siamo partiti con entusiasmo e forse anche con la pretesa di cambiare il mondo, abbiamo anche lavorato tanto e oggi siamo un po’ in difficoltà». Il pontefice lo rassicura, ribadendo che non si tratta di negare il Vaticano II ma di riscoprirne la grande eredità, ma anche la verità e la DIFESA DOTTRINALE. Ecco il passaggio imponente della sua mirabile risposta:
“Anch’io ho vissuto i tempi del Concilio, essendo nella Basilica di San Pietro con grande entusiasmo e vedendo come si aprivano nuove porte e pareva realmente essere la nuova Pentecoste, dove la Chiesa poteva nuovamente convincere l’umanità, dopo l’allontanamento del mondo dalla Chiesa nell’Ottocento e nel Novecento…. Abbiamo tanto sperato, ma le cose in realtà si sono rivelate più difficili. Tuttavia rimane la grande eredità del Concilio, che ha aperto una strada nuova, è sempre una magna charta del cammino della Chiesa, molto essenziale e fondamentale. Ma perché è andata così? Prima vorrei forse cominciare con un’osservazione storica. I tempi di un post-Concilio sono quasi sempre molto difficili. Dopo il grande Concilio di Nicea – che per noi è realmente il fondamento della nostra fede, di fatto noi confessiamo la fede formulata a Nicea – non è nata una situazione di riconciliazione e di unità come aveva sperato Costantino, promotore di tale grande Concilio, ma una situazione realmente caotica di lite di tutti contro tutti. San Basilio nel suo libro sullo Spirito Santo paragona la situazione della Chiesa dopo il Concilio di Nicea ad una battaglia navale di notte dove nessuno più conosce l’altro, ma tutti sono contro tutti. Era realmente una situazione di caos totale: così descrive con colori forti il dramma del dopo Concilio, del dopo Nicea, San Basilio. Poi 50 anni dopo, per il Concilio primo di Costantinopoli, l’imperatore invita San Gregorio Nazianzeno a partecipare al Concilio e San Gregorio Nazianzeno risponde: No, non vengo, perché io conosco queste cose, so che da tutti i Concili nasce solo confusione e battaglia, quindi non vengo. E non è andato…”
Non, dunque, uno « spirito ricostruito dietro i testi», fa presente Ratzinger ma «proprio i grandi testi conciliari riletti adesso con le esperienze che abbiamo avuto e che hanno portato frutto», senza timore di denunciare però, quanto è andato storto, le false interpretazioni, gli abusi liturgici, gli abusi di presunte riforme che nulla hanno a che vedere con quanto fu detto al concilio. Benedetto XVI ha a cuore che si tratta di preservare l’unità della chiesa dai conflitti e dalle fratture che sono state scavate tra chi si è spinto oltre il concilio e chi invece vive la «reazione» dell’anticonciliarità.
A Benedetto XVI sta a cuore l’unità, ma non quella “a tutti i costi”, non quella sincretista, e perciò raccoglie critiche e malumori dall’ala modernista, che dal concilio è la più influente nella Chiesa, e raccoglie accuse di eresie dall’ala più fondamentalista che, del concilio, vorrebbe la fine di questa assise e la denuncia ufficiale della sua anticattolicità… Venendo dal paese della Riforma, è forse più sensibile di altri al pericolo delle divisioni. E’ un carattere mite, ma al tempo stesso fermo nella Verità, accetta critiche e confronti, non impone, non obbliga e proprio questo suo modo paziente e sincero, gli attirerà nemici da tutte e due gli schieramenti mentre, il piccolo gregge, imparerà ad amarlo e a seguirlo per sempre…
Una di queste fratture riguardava, come ben sappiamo, lo scisma di monsignor Lefebvre e la questione degli integralisti. Una volta chiarita la giusta interpretazione del Vaticano II, Benedetto XVI tenterà di riannodare i fili con la Fraternità Sacerdotale San Pio X (FSSPX), con una bellissima Lettera ai Vescovi del 2009. Ed è in merito alla liturgia riformata che il cambiamento richiesto dall’ultimo concilio è stato più grande a causa degli abusi e, soprattutto, per aver imposto – abusivamente – il divieto di celebrare nel modo antico. Ed è su questo che Benedetto XVI cercherà di intervenire, ricomponendo la grave frattura: su ciò che si traduce generalmente con «messa in latino», con tutto ciò che il rito comporta a fondamento della VERA PRESENZA REALE DI GESU’ NELLA EUCARISTIA. Infatti non è tanto questione di lingua, ma di rito: del rito tridentino, o di san Pio V, sostituito non dal concilio, ma dalla successiva interpretazione, con quello comunemente detto di Paolo VI ad opera di mons. Bugnini e l’ala modernista nel concilio.
Il cardinale Ratzinger ha sempre pensato, e detto senza riserve, quanto sia stato ingiusto proibire l’utilizzo dell’antico Messale, sottraendo ad alcuni fedeli ciò che era considerato un patrimonio. Il risultato è stato quello di guardare al Vaticano II come a una rottura. Il Motu Proprio Summorum Pontificum, che conferisce la possibilità e la libertà di usare il rito tridentino in tutte le parrocchie, è stato una prima applicazione della sua «ermeneutica della continuità» del concilio. La discussione attorno al Motu Proprio sul rito tridentino è durata più di un anno. Il testo è apparso solo nel luglio del 2007. Non si può rimproverare al Papa di non aver consultato, ascoltato, misurato, riflettuto, e forse perfino esitato!
Nella Lettera ai Vescovi che accompagna il famoso Motu Proprio, Benedetto XVI precisa i suoi obiettivi: «pervenire a una riconciliazione interna in seno alla chiesa». Benedetto XVI ribadisce nuovamente la sua preoccupazione per una giusta lettura del concilio insistendo più sulla continuità che sulla rottura e insiste: “la dottrina non può essere usata per dividere, essa unisce”….
E paradossalmente, in Italia la decisione provoca maggiori tensioni, perché la maggioranza dei vescovi è contraria al rito antico e ostacola la sua applicazione. E’ proprio tra il 7 luglio e il 14 settembre 2007 che inizia uno vero scontro, un braccio di ferro, dell’episcopato contro Papa Benedetto XVI.
«Alla fine, per chi è stato pubblicato questo Motu Proprio?» si è chiesto sfrontatamente il signor Enzo Bianchi, guida del Monastero di Bose – molto ascoltato a Roma dalle frange più moderniste e anti-Ratzinger – in un articolo intitolato: «Se il Messale diventa una bandiera». Ma fu mala fede, perché non era certo questa l’intenzione di Benedetto XVI, non era una questione di bandiera!
Il problema sono i contenuti e gli abusi successivi al concilio! Se nel 2007 Benedetto XVI risolve a modo suo la questione della legittima presenza del rito antico, nel 2008 affronta, senza alcun Motu Proprio, la prassi della RICEZIONE DELLA EUCARISTIA: essa va presa in ginocchio, per chi vuole e chi può, e alla bocca. E così, con l’aiuto di un nuovo Maestro delle Cerimonie Liturgiche, mons. Guido Marini, Benedetto XVI riporta l’Eucaristia alla Sua dignità centrale nella Messa papale.
Ecco un passaggio dal testo ufficiale:
“In questa prospettiva, l’allora cardinale Ratzinger aveva assicurato che «la Comunione raggiunge la sua profondità solo quando è sostenuta e compresa dall’adorazione». Per questo, egli riteneva che «la pratica di inginocchiarsi per la santa Comunione ha a suo favore secoli di tradizione ed è un segno di adorazione particolarmente espressivo, del tutto appropriato alla luce della vera, reale e sostanziale presenza di Nostro Signore Gesù Cristo sotto le specie consacrate» (cit. nella Lettera This Congregation della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, del 1° luglio 2002: EV 21, n. 666). Giovanni Paolo II nella sua ultima enciclica, Ecclesia de Eucharistia, ha scritto al n. 61: «Dando all’Eucaristia tutto il rilievo che essa merita, e badando con ogni premura a non attenuarne alcuna dimensione o esigenza, ci dimostriamo veramente consapevoli della grandezza di questo dono. Ci invita a questo una tradizione ininterrotta, che fin dai primi secoli ha visto la comunità cristiana vigile nella custodia di questo “tesoro”. […] Non c’è pericolo di esagerare nella cura di questo Mistero, perché “in questo Sacramento si riassume tutto il mistero della nostra salvezza”». In continuità con l’insegnamento del suo Predecessore, a partire dalla solennità del Corpus Domini del 2008, il Santo Padre Benedetto XVI ha iniziato a distribuire ai fedeli il Corpo del Signore, direttamente sulla lingua e stando inginocchiati…”
Ed è proprio ciò che è accaduto, almeno a Roma. Benedetto XVI ha un senso molto profondo della tradizione ecclesiale. Per lui, tutto ciò in cui consisteva la ricchezza della fede – la vita liturgica e spirituale del passato – non può essere oggi senza valore, nonostante il giovane Ratzinger abbia vissuto gli anni di seminario nella scia del movimento del rinnovamento liturgico preconciliare, particolarmente sviluppato in Germania. Nel suo libro Gesù di Nazaret, si trova questa significativa annotazione a proposito dell’evangelista Luca e della parabola del vino nuovo e degli otri vecchi e nuovi. Luca aggiunge «alla fine: “Nessuno poi che beve il vino vecchio desidera il nuovo, perché dice: ‘Il vecchio è… buono!’ (5,39)” – un’aggiunta che forse è lecito interpretare come un’espressione di comprensione nei confronti di coloro che volevano restare “al vino vecchio”».
«Vino vecchio», forse, ma fino a che punto? Vecchio, nel linguaggio biblico, è saggezza, è la crescita delle virtù, della prudenza, dell’umiltà. Benedetto XVI vuole dimostrare che – il vecchio – è inderogabile per il nuovo, e che non c’è un “nuovo” nella Chiesa, ma un cammino in crescendo che ha nelle fondamenta questo “vecchio” che è tutto il suo patrimonio, un patrimonio di cui il “nuovo” non può fare a meno. E così è non solo per i riti, ma soprattutto per la dottrina in generale. Non a caso ha voluto iniziare il suo Pontificato donando alla Chiesa e al mondo il Compendio dl Catechismo della Chiesa Cattolica, presentandolo con queste parole chiarissime:
“Il Compendio, che ora presento alla Chiesa universale, è una sintesi fedele e sicura del Catechismo della Chiesa Cattolica. Esso contiene, in modo conciso, tutti gli elementi essenziali e fondamentali della fede della Chiesa, così da costituire, come era stato auspicato dal mio Predecessore, una sorta di vademecum, che consenta alle persone, credenti e non, di abbracciare, in uno sguardo d’insieme, l’intero panorama della fede cattolica. (..) Affido pertanto con fiducia questo Compendio anzitutto alla Chiesa intera e ad ogni cristiano in particolare, perché grazie ad esso possa ritrovare, in questo terzo millennio, nuovo slancio nel rinnovato impegno di evangelizzazione e di educazione alla fede, che deve caratterizzare ogni comunità ecclesiale e ogni credente in Cristo a qualunque età e nazione appartenga.
Ma questo Compendio, per la sua brevità, chiarezza e integrità, si rivolge a ogni persona, che, vivendo in un mondo dispersivo e dai molteplici messaggi, desidera conoscere la Via della Vita, la Verità, affidata da Dio alla Chiesa del Suo Figlio. Leggendo questo autorevole strumento che è il Compendio, possa ciascuno, grazie in particolare all’intercessione di Maria Santissima, la Madre di Cristo e della Chiesa, riconoscere e accogliere sempre di più l’inesauribile bellezza, unicità e attualità del Dono per eccellenza che Dio ha fatto all’umanità: il Suo unico Figlio, Gesù Cristo, che è «la Via, la Verità e la Vita» (Gv 14,6)…”
Vogliamo concludere questa prima parte con le parole di Benedetto XVI in occasione della Solennità di San Giuseppe, anche quale nostro augurio spirituale per il suo Onomastico:
Cari Fratelli nell’Episcopato. Cari fratelli e sorelle, sia lodato Gesù Cristo che ci riunisce oggi in questo stadio, per farci penetrare più profondamente nella sua vita! Gesù Cristo ci raduna in questo giorno in cui la Chiesa, celebra la festa di san Giuseppe, sposo della Vergine Maria. Inizio coll’augurare un’ottima festa a tutti coloro che, come me, hanno ricevuto la grazia di portare questo bel nome, e chiedo a san Giuseppe di accordare loro una protezione speciale guidandoli verso il Signore Gesù Cristo tutti i giorni della loro vita. Saluto anche le parrocchie, le scuole e i collegi, le istituzioni che portano il nome di san Giuseppe. (..)
Come possiamo entrare nella grazia specifica di questo giorno? Fra poco, a conclusione della Messa, la liturgia ci svelerà il punto culminane della nostra meditazione, quando ci farà dire: «Con questo nutrimento ricevuto al tuo altare, Signore, hai saziato la tua famiglia, gioiosa di festeggiare san Giuseppe; custodiscila sempre sotto la tua protezione e veglia sui doni che le hai fatto». Voi vedete, noi domandiamo al Signore di custodire sempre la Chiesa sotto la sua costante protezione – ed Egli lo fa! – esattamente come Giuseppe ha protetto la sua famiglia e ha vegliato sui primi anni di Gesù bambino. Il Vangelo ce lo ha appena ricordato. L’Angelo gli aveva detto: «Non temere di prendere con te Maria, tua sposa» (Mt 1,20), ed è esattamente quello che ha fatto: «Egli fece come gli aveva ordinato l’angelo del Signore» (Mt 1,24). Perché san Matteo ha tenuto ad annotare questa fedeltà alle parole ricevute dal messaggero di Dio, se non per invitarci ad imitare questa fedeltà piena di amore? (…) a tutti i giovani che sono qui, io rivolgo parole di amicizia e di incoraggiamento: davanti alle difficoltà della vita, mantenete il coraggio! La vostra esistenza ha un prezzo infinito agli occhi di Dio. Lasciatevi prendere da Cristo, accettate di donarGli il vostro amore e, perché no, voi stessi nel sacerdozio o nella vita consacrata! È il più alto servizio. Ai bambini che non hanno più un padre o che vivono abbandonati nella miseria della strada, a coloro che sono separati violentemente dai loro genitori, maltrattati e abusati, e arruolati a forza in gruppi militari che imperversano in alcuni Paesi, vorrei dire: Dio vi ama, non vi dimentica e san Giuseppe vi protegge! Invocatelo con fiducia.
Dio vi benedica e vi custodisca tutti! Vi dia la grazia di avanzare verso di Lui con fedeltà. Doni alle vostre vite la stabilità per raccogliere il frutto che Egli si aspetta da voi! Vi renda testimoni del suo amore, qui, e fino alle estremità della terra! Io Lo prego con fervore di farvi gustare la gioia di appartenerGli, ora e per i secoli dei secoli. Amen.” (Benedetto XVI – Omelia 19.3.2009)
si legga anche:
– Ratzinger docet: la Chiesa di Cristo non è un partito politico
– Due interviste del 1992 al cardinale Ratzinger