Raniero La Valle, Ratzinger e l’evoluzione del dogma

Ecco come i rahneriani ti stravolgono l’insegnamento di Benedetto XVI

Dopo aver letto l’interessante Lectio del domenicano Padre Giovanni Cavalcoli che vi sollecitiamo a conoscere poiché spiega di cosa stiamo parlando, clicca qui, sulle strumentalizzazioni di La Valle – rahneriano puro – nel conferire ai Papi l’encomio (si fa per dire ovviamente) del titolo “modernista”, ci siamo resi conto che in un articolo di La Valle del 2016, vedi qui e dal sottotitolo eloquente “a sinistra da cristiani”, c’è un riferimento a Benedetto XVI allucinante e davvero diabolico per la strumentalizzazione fatta alle sue parole, che non possiamo ignorare.

Perdonate la lunga citazione, ma è fondamentale per capire come lavora il demonio. Scrive La Valle:

Del tutto errata la dottrina della riparazione – Questa sintesi trinitaria di Panikkar ci introduce allora alla terza rivoluzione della fede che oggi è in atto. Anch’essa possiamo coglierla a partire dal Concilio, l’abbiamo vista affermarsi tra i teologi e oggi ne vediamo la solenne proclamazione.

E’ la rivoluzione che riconosce come del tutto errata la dottrina che per secoli la Chiesa ha  presentato, e cioè che il Padre avesse avuto bisogno del sangue del Figlio per ripagarsi dell’offesa subita col peccato originale. Si tratta della dottrina di S. Anselmo, espressa nel suo famoso “Cur Deus homo?”, perché Dio si è fatto carne? E’ la dottrina sacrificale, della riparazione dovuta a Dio, della legittimazione dell’olocausto, dell’espiazione necessaria attraverso il sangue dell’innocente. Una dottrina incompatibile con la misericordia, anzi fautrice della massima ingiustizia, come è la punizione dell’innocente, eppure è stata una dottrina permanente insegnata nel catechismo fino al Concilio Vaticano II e ancora presente, sebbene in modo più sfumato, nel Catechismo della Chiesa cattolica del 1992.

Questa dottrina che è stata causa di abbandoni di massa della fede e della Chiesa, criticata dai teologi, è stata tranquillamente dichiarata in sé del tutto errata dal papa emerito Benedetto XVI in una recente intervista resa nella rettoria dei Gesuiti di Roma, raccolta da un gesuita e pubblicata dall’Osservatore Romano (La fede non è un’idea ma la vita, intervista al Papa emerito Benedetto XVI, O.R. 16 marzo 2016)

Che cosa dice il papa emerito Benedetto XVI? – “La contrapposizione tra il Padre, che insiste in modo assoluto sulla giustizia, e il Figlio che ubbidisce al Padre e ubbidendo accetta la crudele esigenza della giustizia, non è solo incomprensibile oggi, ma, a partire dalla teologia trinitaria, è in sé del tutto errata. Il Padre e il Figlio sono una cosa sola”.

Evoluzione del dogma – E papa Benedetto, che parla esplicitamente di “evoluzione del dogma”, spiega così l’agire di Dio: “Dio semplicemente non può lasciare com’è la massa del male che deriva dalla libertà che Lui stesso ha concesso. Solo lui, venendo a far parte della sofferenza del mondo, può redimere il mondo. “Fu la passione dell’amore. Ma il Padre stesso, il Dio dell’universo, non soffre anch’egli in un certo senso? Il Padre stesso percepisce una sofferenza d’amore (Omelie su Ezechiele 6,6). Il Padre sostiene la croce e il crocifisso, si china amorevolmente su di lui e d’altra parte per così dire è insieme sulla croce. Non si tratta di una giustizia crudele, non già del fanatismo del Padre.

“Non c’è dubbio che in questo punto – dice Ratzinger – siamo di fronte a una profonda evoluzione del dogma. Nella seconda metà del secolo scorso si è affermata la consapevolezza che Dio non può lasciare andare in perdizione tutti i non battezzati e che se è vero che i grandi missionari del XVI secolo erano ancora convinti che chi non è battezzato è per sempre perduto – e ciò spiega il loro impegno missionario – nella Chiesa cattolica dopo il Concilio Vaticano II tale convinzione è stata definitivamente abbandonata”.

E la folgorante conclusione di  papa Benedetto è questa: “Come Cristo è “essere per”, così cristiani non si è per se stessi, bensì, con Cristo, per gli altri”.


E fin qui la citazione di La Valle. Avete capito bene cosa fa dire La Valle a Benedetto XVI che invece non ha detto? Il testo integrale dell’intervista citata lo trovate qui e vi raccomandiamo di leggerla integralmente… per capire cosa ha detto realmente Ratzinger.

Secondo La Valle Benedetto XVI sarebbe d’accordo nell’evoluzione del dogma, ossia, nel modificarlo a partire dal fatto che il Sacrificio di Cristo non sarebbe affatto L’ESPIAZIONE E LA SODDISFAZIONE e la Giustizia che Dio richiede a causa del nostro peccato. Attenzione, non stiamo parlando di una evoluzione insignificante, qui si arriva a toccare LA SANTISSIMA TRINITA’! La Valle estrapola alcune frasi dalla risposta di Benedetto XVI e gli fa dire che il dogma della Chiesa giunto fino a noi oggi è la causa delle divisioni nella Chiesa…. capite bene a quale livello di perversione siamo arrivati!

La Valle innanzi tutto mischia due domande ben distinte che vengono rivolte a Benedetto XVI per le quali offre due risposte che non sono “la risposta” ma, come ama fare Ratzinger, sono risposte separate e ben distinte, che offrono spunti di discussione e riflessione lasciando all’interlocutore di raggiungere la doverosa risposta attraverso l’insegnamento della Chiesa.

La prima domanda riguarda perciò un certo LINGUAGGIO usato a suo tempo da sant’Anselmo e che oggi sembrerebbe non essere più comprensibile dall’uomo moderno; la seconda riguarda lo stile e la base degli Esercizi spirituali di Loyola, e dunque la curiosità di capire se non vi sia in atto una “evoluzione del dogma”…. La Valle invece unisce le due risposte facendo dire a Benedetto XVI ciò che non ha affatto detto.

Come risponde Benedetto XVI? Nella prima domanda sul metodo di sant’Anselmo Benedetto XVI offre tre spunti di riflessioni (a, b, c,) ma che non sono affatto “l’evoluzione del dogma” come gli attribuisce La Valle, quanto piuttosto la comprensione specifica di un Dio che non manda il Figlio esclusivamente per riparare il Peccato dell’uomo, MA PER AMORE. L’Amore di Dio per l’Uomo caduto in disgrazia (Peccato originale al quale La Valle non crede) è il movente che mancherebbe NELL’INTERPRETAZIONE a sant’Anselmo, è questo che fa emergere Benedetto XVI nel punto a) della risposta. Ratzinger sottolinea l’erronea INTERPRETAZIONE ESCLUSIVISTA  di un Figlio che risponderebbe così al Padre SOLO per una esclusiva CRUDELTA’ della soddisfazione della giustizia…. Benedetto XVI rileva che l’interpretazione all’insegnamento di sant’Anselmo potrebbe condurre l’uomo di oggi  a vedere in Dio NON IL PADRE MISERICORDIOSO ma esclusivamente un Dio “crudele” che imporrebbe così al Figlio una certa crudeltà nell’obbedienza della Croce….

Nel punto b) Ratzinger si domanda: “Ma allora perché mai la croce e l’espiazione?” La Valle usa la domanda per far dire a Benedetto XVI che bisogna evolvere il dogma del Sacrificio e della stessa Trinità, ma non è così, Benedetto XVI dopo la domanda, specifica che quel pensiero NON E’ SUO, ma di teologi modernisti, infatti afferma: “In qualche modo oggi, nei contorcimenti del pensiero moderno di cui abbiamo parlato sopra…“, e spiega come la compresero i Cristiani, e quindi la Chiesa, nei primi secoli.

Nel punto c) Benedetto XVI riprende un passaggio da Origine, offrendo ulteriore spunto alla comprensione del Sacrificio offerto dal Figlio al Padre. Punto. Non c’è alcuna evoluzione del dogma, ma tre riflessioni per comprendere meglio il Sacrificio del Padre nel Figlio e con lo Spirito Santo. Ed anzi, in chiusura di questi aspetti Ratzinger dice: “In alcune zone della Germania ci fu una devozione molto commovente che contemplava die Not Gottes (“l’indigenza di Dio”). Per conto mio ciò mi fa passare davanti agli occhi un’impressionante immagine che rappresenta il Padre sofferente, che come Padre condivide interiormente le sofferenze del Figlio…(…) il Padre sostiene la croce e il crocifisso, si china amorevolmente su di lui e d’altra parte per così dire è insieme sulla croce. Così in modo grandioso e puro si percepisce lì cosa significano la misericordia di Dio e la partecipazione di Dio alla sofferenza dell’uomo. Non si tratta di una giustizia crudele, non già del fanatismo del Padre, bensì della verità e della realtà della creazione: del vero intimo superamento del male che in ultima analisi può realizzarsi solo nella sofferenza dell’amore. ” Dove sta, qui, l’evoluzione del dogma?

Per capire poi la risposta di Benedetto XVI su sant’Anselmo, è fondamentale andarsi a rileggere la Catechesi che egli tenne il 23 settembre 2009, nella quale afferma:

” … questo grande Santo dell’epoca medievale, fondatore della teologia scolastica, al quale la tradizione cristiana ha dato il titolo di “Dottore Magnifico” perché coltivò un intenso desiderio di approfondire i Misteri divini, nella piena consapevolezza, però, che il cammino di ricerca di Dio non è mai concluso, almeno su questa terra. La chiarezza e il rigore logico del suo pensiero hanno avuto sempre come fine di “innalzare la mente alla contemplazione di Dio” (Ivi, Proemium). Egli afferma chiaramente che chi intende fare teologia non può contare solo sulla sua intelligenza, ma deve coltivare al tempo stesso una profonda esperienza di fede. L’attività del teologo, secondo sant’Anselmo, si sviluppa così in tre stadi: la fede, dono gratuito di Dio da accogliere con umiltà; l’esperienza, che consiste nell’incarnare la parola di Dio nella propria esistenza quotidiana; e quindi la vera conoscenza, che non è mai frutto di asettici ragionamenti, bensì di un’intuizione contemplativa. Restano, in proposito, quanto mai utili anche oggi, per una sana ricerca teologica e per chiunque voglia approfondire le verità della fede, le sue celebri parole: “Non tento, Signore, di penetrare la tua profondità, perché non posso neppure da lontano mettere a confronto con essa il mio intelletto; ma desidero intendere, almeno fino ad un certo punto, la tua verità, che il mio cuore crede e ama. Non cerco infatti di capire per credere, ma credo per capire”..” (Benedetto XVI)

Da questa Catechesi si capisce come vanno lette le parole di Benedetto XVI riportate malamente e perversamente, invece, da La Valle.

E veniamo allora alla parte in cui Benedetto XVI parla di “evoluzione del dogma” e in quale contesto lo ha espresso, e capiremo che non è come dice La Valle. Benedetto XVI parte da una domanda sugli Esercizi spirituali di Loyola e sulla differente applicazione-evoluzione tra il Santo Fondatore e il Santo delle Missioni, il gesuita Francesco Saverio. Va subito spiegato che questi Esercizi spirituali di Loyola hanno perduto da anni il loro fondamento originale, qui in questo studio sul gesuitismo vi abbiamo portato le prove. Inoltre bisogna fare attenzione alla domanda che chiede quanto segue: “Si può dire che su questo punto, negli ultimi decenni, c’è stato una sorta di «sviluppo del dogma» di cui il Catechismo deve assolutamente tenere conto?”

«sviluppo del dogma»…. è questo che intende dire Benedetto XVI quando usa, vuoi anche impropriamente, il termine “evoluzione”, infatti la risposta è: “Non c’è dubbio che in questo punto siamo di fronte a una profonda evoluzione del dogma…” NON è l’evoluzione che intende La Valle e tutto il rahnerismo appresso, ma è inteso per come la domanda si è espressa “SVILUPPO del dogma” che non ha affatto una negatività se è ben spiegato il senso. Sviluppare qualcosa non significa, come intende La Valle MODIFICARE, ma andare avanti, comprendere meglio, aumentarne il senso…. attribuendo, per altro, questo SVILUPPO a partire da Loyola, dal Concilio di Trento e da san Francesco Saverio!! Benedetto XVI, piuttosto, col suo metodo mite che NON condanna nessuno, fa emergere dove si annidano i problemi e spiega in questo passaggio, quanto La Valle omette:

“Nella seconda metà del secolo scorso si è completamente affermata la consapevolezza che Dio non può lasciare andare in perdizione tutti i non battezzati e che anche una felicità puramente naturale per essi non rappresenta una reale risposta alla questione dell’esistenza umana. Se è vero che i grandi missionari del XVI secolo erano ancora convinti che chi non è battezzato è per sempre perduto — e ciò spiega il loro impegno missionario — nella Chiesa cattolica dopo il concilio Vaticano II tale convinzione è stata definitivamente abbandonata. Da ciò derivò una doppia profonda crisi. Per un verso ciò sembra togliere ogni motivazione a un futuro impegno missionario. Perché mai si dovrebbe cercare di convincere delle persone ad accettare la fede cristiana quando possono salvarsi anche senza di essa? Ma pure per i cristiani emerse una questione: diventò incerta e problematica l’obbligatorietà della fede e della sua forma di vita. Se c’è chi si può salvare anche in altre maniere non è più evidente, alla fin fine, perché il cristiano stesso sia legato alle esigenze dalla fede cristiana e alla sua morale. Ma se fede e salvezza non sono più interdipendenti, anche la fede diventa immotivata….”

Si evince chiaramente che qui Ratzinger pone come riflessione UNA CRITICA a quell’aver abbandonato la vera motivazione che spingeva i cristiani a diventare missionari, fino a dare la propria vita…. perché farsi cristiano, cattolico, se tanto mi salverei lo stesso? Altro che “evoluzione” come la pretende La Valle.

Perdonate ora un altra lunga citazione ma è fondamentale per capire la perversione di Raniero La Valle. Questa è la VERA RISPOSTA DI BENEDETTO XVI CHE DENUNCIA RAHNER – il maestro che La Valle difende – QUALE IDEATORE DI IDEE CONTROVERSE E PER NULLA CATTOLICHE, leggiamolo:

Negli ultimi tempi sono stati formulati diversi tentativi allo scopo di conciliare la necessità universale della fede cristiana con la possibilità di salvarsi senza di essa. Ne ricordo qui due: innanzitutto la ben nota tesi dei cristiani anonimi di Karl Rahner. In essa si sostiene che l’atto-base essenziale dell’esistenza cristiana, che risulta decisivo in ordine alla salvezza, nella struttura trascendentale della nostra coscienza consiste nell’apertura al tutt’altro, verso l’unità con Dio. La fede cristiana avrebbe fatto emergere alla coscienza ciò che è strutturale nell’uomo in quanto tale. Perciò quando l’uomo si accetta nel suo essere essenziale, egli adempie l’essenziale dell’essere cristiano pur senza conoscerlo in modo concettuale. Il cristiano coincide dunque con l’umano e in questo senso è cristiano ogni uomo che accetta se stesso anche se egli non lo sa. È vero che questa teoria è affascinante, ma riduce il cristianesimo stesso a una pura conscia presentazione di ciò che l’essere umano è in sé e quindi trascura il dramma del cambiamento e del rinnovamento che è centrale nel cristianesimo….”

Ecco la vera risposta di Benedetto XVI, altro che “l’evoluzione del dogma trinitario”, bugiardo e mistificatore!! E se non bastasse, Ratzinger aggiunge ancora:

Ancor meno accettabile è la soluzione proposta dalle teorie pluralistiche della religione, per le quali tutte le religioni, ognuna a suo modo, sarebbero vie di salvezza e in questo senso nei loro effetti devono essere considerate equivalenti. La critica della religione del tipo di quella esercitata dall’Antico Testamento, dal Nuovo Testamento e dalla Chiesa primitiva è essenzialmente più realistica, più concreta e più vera nella sua disamina delle varie religioni. Una ricezione così semplicistica non è proporzionata alla grandezza della questione… (…) Quello di cui la persona umana ha bisogno in ordine alla salvezza è l’intima apertura nei confronti di Dio, l’intima aspettativa e adesione a Lui, e ciò viceversa significa che noi assieme al Signore che abbiamo incontrato andiamo verso gli altri e cerchiamo di render loro visibile l’avvento di Dio in Cristo. È possibile spiegare questo “essere per” anche in modo un po’ più astratto. È importante per l’umanità che in essa ci sia verità, che questa sia creduta e praticata. Che si soffra per essa. Che si ami. Queste realtà penetrano con la loro luce all’interno del mondo in quanto tale e lo sostengono. Io penso che nella presente situazione diventi per noi sempre più chiaro e comprensibile quello che il Signore dice ad Abramo, che cioè dieci giusti sarebbero stati sufficienti a far sopravvivere una città, ma che essa distrugge se stessa se tale piccolo numero non viene raggiunto. È chiaro che dobbiamo ulteriormente riflettere sull’intera questione.

Lo ripetiamo: dove sta “l’evoluzione del dogma” descritto dal rahneriano La Valle?

Infine l’ultima domanda che sintetizziamo: Il sacramento della confessione è, e in quale senso, uno dei luoghi nei quali può avvenire una «riparazione» del male commesso?

Risponde saggiamente Benedetto XVI: “Ho già cercato di esporre nel loro complesso i punti fondamentali relativi a questo problema rispondendo alla terza domanda. Il contrappeso al dominio del male può consistere in primo luogo solo nell’amore divino-umano di Gesù Cristo che è sempre più grande di ogni possibile potenza del male. Ma è necessario che noi ci inseriamo in questa risposta che Dio ci dà mediante Gesù Cristo. Anche se il singolo è responsabile per un frammento di male, e quindi è complice del suo potere, insieme a Cristo egli può tuttavia «completare ciò che ancora manca alle sue sofferenze» (cfr. Colossesi 1, 24).

Il sacramento della penitenza ha di certo in questo campo un ruolo importante. Esso significa che noi ci lasciamo sempre plasmare e trasformare da Cristo e che passiamo continuamente dalla parte di chi distrugge a quella che salva…”

Lo ripetiamo: dove sta “l’evoluzione del dogma” descritto dal rahneriano La Valle, attribuito diabolicamente a Benedetto XVI? Ecco come si strumentalizza la Verità. Noi abbiamo cercato succintamente di darvi un aiuto alla comprensione dei fatti, a voi fare lo stesso discernimento e fuggire dalle perverse dottrine! E non è da sottovalutare l’ultimo recente intervento di Benedetto XVI attraverso un breve testo al libro del cardinale Sarah, Prefetto per il Culto divino, attraverso il quale egli nel difendere la sacralità liturgica della Messa contro arbitrari tentativi di sovvertirla, ribadisce così la dottrina SUL SACRIFICIO DI CRISTO, cliccare qui per il testo integrale.

. ricordiamo che da questo link, potrete accedere a tutti gli scritti di Ratzinger-Benedetto XVI, che stiamo pian piano pubblicando, anche con molti inediti.

Laudetur Jesus Christus


http://www.osservatoreromano.va/it/news/la-fede-non-e-unidea-ma-la-vita

Pubblichiamo il testo integrale dell’intervista a Benedetto XVI contenuta nel libro Per mezzo della fede. Dottrina della giustificazione ed esperienza di Dio nella predicazione della Chiesa e negli Esercizi Spirituali a cura del gesuita Daniele Libanori (Cinisello Balsamo, Edizioni San Paolo, 2016, pagine 208, euro 20) in cui il Papa emerito parla della centralità della misericordia nella fede cristiana. Il volume raccoglie gli atti di un convegno che si è svolto nell’ottobre scorso a Roma. Come scrive Filippo Rizzi su «Avvenire» del 16 marzo, che ne pubblica uno stralcio, l’autore dell’intervista (il cui nome non è presente nel libro) è il gesuita  Jacques Servais, allievo di Hans Urs von Balthasar e studioso della sua opera.

Santità, la questione posta quest’anno nel quadro delle giornate di studio promosse dalla rettoria del Gesù è quella della giustificazione per la fede. L’ultimo volume della sua opera omnia (gs IV) mette in evidenza la sua affermazione risoluta: «La fede cristiana non è un’idea, ma una vita». Commentando la celebre affermazione paolina (Romani 3, 28), lei ha parlato, a questo proposito, di una duplice trascendenza: «La fede è un dono ai credenti comunicato attraverso la comunità, la quale da parte sua è frutto del dono di Dio» («Glaube ist Gabe durch die Gemeinschaft; die sich selbst gegeben wird», gs IV, 512). Potrebbe spiegare che cosa ha inteso con quell’affermazione, tenendo conto naturalmente del fatto che l’obiettivo di queste giornate è chiarire la teologia pastorale e vivificare l’esperienza spirituale dei fedeli?

Suor Francis, «Il padre misericordioso» (2010)

Si tratta della questione: cosa sia la fede e come si arriva a credere. Per un verso la fede è un contatto profondamente personale con Dio, che mi tocca nel mio tessuto più intimo e mi mette di fronte al Dio vivente in assoluta immediatezza in modo cioè che io possa parlargli, amarlo ed entrare in comunione con lui. Ma al tempo stesso questa realtà massimamente personale ha inseparabilmente a che fare con la comunità: fa parte dell’essenza della fede il fatto di introdurmi nel noi dei figli di Dio, nella comunità peregrinante dei fratelli e delle sorelle. L’incontro con Dio significa anche, al contempo, che io stesso vengo aperto, strappato dalla mia chiusa solitudine e accolto nella vivente comunità della Chiesa. Essa è anche mediatrice del mio incontro con Dio, che tuttavia arriva al mio cuore in modo del tutto personale.

La fede deriva dall’ascolto (fides ex auditu), ci insegna san Paolo. L’ascolto a sua volta implica sempre un partner. La fede non è un prodotto della riflessione e neppure un cercare di penetrare nelle profondità del mio essere. Entrambe le cose possono essere presenti, ma esse restano insufficienti senza l’ascolto mediante il quale Dio dal di fuori, a partire da una storia da Lui stesso creata, mi interpella. Perché io possa credere ho bisogno di testimoni che hanno incontrato Dio e me lo rendono accessibile.

Nel mio articolo sul battesimo ho parlato della doppia trascendenza della comunità, facendo così emergere una volta ancora un importante elemento: la comunità di fede non si crea da sola. Essa non è un’assemblea di uomini che hanno delle idee in comune e che decidono di operare per la diffusione di tali idee. Allora tutto sarebbe basato su una propria decisione e in ultima analisi sul principio di maggioranza, cioè alla fin fine sarebbe opinione umana. Una Chiesa così costruita non può essere per me garante della vita eterna né esigere da me decisioni che mi fanno soffrire e che sono in contrasto con i miei desideri. No, la Chiesa non si è fatta da sé, essa è stata creata da Dio e viene continuamente formata da Lui. Ciò trova la sua espressione nei sacramenti, innanzitutto in quello del battesimo: io entro nella Chiesa non già con un atto burocratico, ma mediante il sacramento. E ciò equivale a dire che io vengo accolto in una comunità che non si è originata da sé e che si proietta al di là di se stessa.

La pastorale che intende formare l’esperienza spirituale dei fedeli deve procedere da questi dati fondamentali. È necessario che essa abbandoni l’idea di una Chiesa che produce se stessa e far risaltare che la Chiesa diventa comunità nella comunione del corpo di Cristo. Essa deve introdurre all’incontro con Gesù Cristo e portare alla Sua presenza nel sacramento.

Quando lei era prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, commentando la Dichiarazione congiunta della Chiesa cattolica e della Federazione luterana mondiale sulla dottrina della giustificazione del 31 ottobre 1999, ha messo in evidenza una differenza di mentalità in rapporto a Lutero e alla questione della salvezza e della beatitudine così come egli la poneva. L’esperienza religiosa di Lutero era dominata dal terrore davanti alla collera di Dio, sentimento piuttosto estraneo all’uomo moderno, marcato piuttosto dall’assenza di Dio (su veda il suo articolo in «Communio», 2000, 430). Per questi il problema non è tanto come assicurarsi la vita eterna, quanto piuttosto garantirsi, nelle precarie condizioni del nostro mondo, un certo equilibrio di vita pienamente umana. La dottrina di Paolo della giustificazione per la fede, in questo nuovo contesto, può raggiungere l’esperienza «religiosa» o almeno l’esperienza «elementare» dei nostri contemporanei?

Innanzitutto tengo a sottolineare ancora una volta quello che scrivevo su «Communio» (2000) in merito alla problematica della giustificazione. Per l’uomo di oggi, rispetto al tempo di Lutero e alla prospettiva classica della fede cristiana, le cose si sono in un certo senso capovolte, ovvero non è più l’uomo che crede di aver bisogno della giustificazione al cospetto di Dio, bensì egli è del parere che sia Dio che debba giustificarsi a motivo di tutte le cose orrende presenti nel mondo e di fronte alla miseria dell’essere umano, tutte cose che in ultima analisi dipenderebbero da lui. A questo proposito trovo indicativo il fatto che un teologo cattolico assuma in modo addirittura diretto e formale tale capovolgimento: Cristo non avrebbe patito per i peccati degli uomini, ma anzi avrebbe per così dire cancellato le colpe di Dio. Anche per ora la maggior parte dei cristiani non condivide un così drastico capovolgimento della nostra fede, si può dire che tutto ciò fa emergere una tendenza di fondo del nostro tempo. Quando Johann Baptist Metz sostiene che la teologia di oggi deve essere «sensibile alla teodicea» (theodizeeempfindlich), ciò mette in risalto lo stesso problema in modo positivo. Anche a prescindere da una tanto radicale contestazione della visione ecclesiale del rapporto tra Dio e l’uomo, l’uomo di oggi ha in modo del tutto generale la sensazione che Dio non possa lasciar andare in perdizione la maggior parte dell’umanità. In questo senso la preoccupazione per la salvezza tipica di un tempo è per lo più scomparsa.

Tuttavia, a mio parere, continua ad esistere, in altro modo, la percezione che noi abbiamo bisogno della grazia e del perdono. Per me è un «segno dei tempi» il fatto che l’idea della misericordia di Dio diventi sempre più centrale e dominante — a partire da suor Faustina, le cui visioni in vario modo riflettono in profondità l’immagine di Dio propria dell’uomo di oggi e il suo desiderio della bontà divina. Papa Giovanni Paolo II era profondamente impregnato da tale impulso, anche se ciò non sempre emergeva in modo esplicito. Ma non è di certo un caso che il suo ultimo libro, che ha visto la luce proprio immediatamente prima della sua morte, parli della misericordia di Dio. A partire dalle esperienze nelle quali fin dai primi anni di vita egli ebbe a constatare tutta la crudeltà degli uomini, egli afferma che la misericordia è l’unica vera e ultima reazione efficace contro la potenza del male. Solo là dove c’è misericordia finisce la crudeltà, finiscono il male e la violenza. Papa Francesco si trova del tutto in accordo con questa linea. La sua pratica pastorale si esprime proprio nel fatto che egli ci parla continuamente della misericordia di Dio. È la misericordia quello che ci muove verso Dio, mentre la giustizia ci spaventa al suo cospetto. A mio parere ciò mette in risalto che sotto la patina della sicurezza di sé e della propria giustizia l’uomo di oggi nasconde una profonda conoscenza delle sue ferite e della sua indegnità di fronte a Dio. Egli è in attesa della misericordia. Non è di certo un caso che la parabola del buon samaritano sia particolarmente attraente per i contemporanei. E non solo perché in essa è fortemente sottolineata la componente sociale dell’esistenza cristiana, né solo perché in essa il samaritano, l’uomo non religioso, nei confronti dei rappresentanti della religione appare, per così dire, come colui che agisce in modo veramente conforme a Dio, mentre i rappresentanti ufficiali della religione si sono resi, per così dire, immuni nei confronti di Dio. È chiaro che ciò piace all’uomo moderno. Ma mi sembra altrettanto importante tuttavia che gli uomini nel loro intimo aspettino che il samaritano venga in loro aiuto, che egli si curvi su di essi, versi olio sulle loro ferite, si prenda cura di loro e li porti al riparo. In ultima analisi essi sanno di aver bisogno della misericordia di Dio e della sua delicatezza. Nella durezza del mondo tecnicizzato nel quale i sentimenti non contano più niente, aumenta però l’attesa di un amore salvifico che venga donato gratuitamente. Mi pare che nel tema della misericordia divina si esprima in un modo nuovo quello che significa la giustificazione per fede. A partire dalla misericordia di Dio, che tutti cercano, è possibile anche oggi interpretare daccapo il nucleo fondamentale della dottrina della giustificazione e farlo apparire ancora in tutta la sua rilevanza.

Quando Anselmo dice che il Cristo doveva morire in croce per riparare l’offesa infinita che era stata fatta a Dio e così restaurare l’ordine infranto, egli usa un linguaggio difficilmente accettabile dall’uomo moderno (cfr. gs iv 215.ss). Esprimendosi in questo modo, si rischia di proiettare [in] su Dio un’immagine di un Dio di collera, afferrato, dinanzi al peccato dell’uomo, da [uno stato affettivo] sentimenti di violenza e di aggressività paragonabile/i a quello che noi stessi possiamo sperimentare. Come è possibile parlare della giustizia di Dio senza rischiare di infrangere la certezza, ormai assodata presso i fedeli, che [il Dio] quello dei cristiani è un Dio «ricco di misericordia» (Efesini 2, 4)?

La concettualità di sant’Anselmo è diventata oggi per noi di certo incomprensibile. È nostro compito tentare di capire in modo nuovo la verità che si cela dietro tale modo di esprimersi. Per parte mia formulo tre punti di vista su questo punto:

a) La contrapposizione tra il Padre, che insiste in modo assoluto sulla giustizia, e il Figlio che ubbidisce al Padre e ubbidendo accetta la crudele esigenza della giustizia, non è solo incomprensibile oggi, ma, a partire dalla teologia trinitaria, è in sé del tutto errata. Il Padre e il Figlio sono una cosa sola e quindi la loro volontà è ab intrinseco una sola. Quando il Figlio nel giardino degli ulivi lotta con la volontà del Padre non si tratta del fatto che egli debba accettare per sé una crudele disposizione di Dio, bensì del fatto di attirare l’umanità al di dentro della volontà di Dio. Dovremo tornare ancora, in seguito, sul rapporto delle due volontà del Padre e del Figlio.

b) Ma allora perché mai la croce e l’espiazione? In qualche modo oggi, nei contorcimenti del pensiero moderno di cui abbiamo parlato sopra, la risposta a tali domande è formulabile in modo nuovo. Mettiamoci di fronte all’incredibile sporca quantità di male, di violenza, di menzogna, di odio, di crudeltà e di superbia che infettano e rovinano il mondo intero. Questa massa di male non può essere semplicemente dichiarata inesistente, neanche da parte di Dio. Essa deve essere depurata, rielaborata e superata. L’antico Israele era convinto che il quotidiano sacrificio per i peccati e soprattutto la grande liturgia del giorno di espiazione (yom-kippur) fossero necessari come contrappeso alla massa di male presente nel mondo e che solo mediante tale riequilibrio il mondo poteva, per così dire, rimanere sopportabile. Una volta scomparsi i sacrifici nel tempio, ci si dovette chiedere cosa potesse essere contrapposto alle superiori potenze del male, come trovare in qualche modo un contrappeso. I cristiani sapevano che il tempio distrutto era stato sostituito dal corpo risuscitato del Signore crocifisso e che nel suo amore radicale e incommensurabile era stato creato un contrappeso all’incommensurabile presenza del male. Anzi essi sapevano che le offerte presentate finora potevano essere concepite solo come gesto di desiderio di un reale contrappeso. Essi sapevano anche che di fronte alla strapotenza del male solo un amore infinito poteva bastare, solo un’espiazione infinita. Essi sapevano che il Cristo crocifisso e risorto è un potere che può contrastare quello del male e che salva il mondo. E su queste basi poterono anche capire il senso delle proprie sofferenze come inserite nell’amore sofferente di Cristo e come parte della potenza redentrice di tale amore. Sopra citavo quel teologo per il quale Dio ha dovuto soffrire per le sue colpe nei confronti del mondo; ora, dato questo capovolgimento della prospettiva, emerge la seguente verità: Dio semplicemente non può lasciare com’è la massa del male che deriva dalla libertà che Lui stesso ha concesso. Solo lui, venendo a far parte della sofferenza del mondo, può redimere il mondo.

c) Su queste basi diventa più perspicuo il rapporto tra il Padre e il Figlio. Riproduco sull’argomento un passo tratto dal libro di de Lubac su Origene che mi pare molto chiaro: «Il Redentore è entrato nel mondo per compassione verso il genere umano. Ha preso su di sé le nostre passiones prima ancora di essere crocefisso, anzi addirittura prima di abbassarsi ad assumere la nostra carne: se non le avesse provate prima non sarebbe venuto a prender parte alla nostra vita umana. Ma quale fu questa sofferenza che egli sopportò in anticipo per noi? Fu la passione dell’amore. Ma il Padre stesso, il Dio dell’universo, lui che è sovrabbondante di longanimità, pazienza, misericordia e compassione, non soffre anch’egli in un certo senso? “Il Signore tuo Dio, infatti, ha preso su di sé i tuoi costumi come colui che prende su di sé suo figlio” (Deuteronomio 1, 31). Dio prende dunque su di sé i nostri costumi come il Figlio di Dio prende su di sé le nostre sofferenze. Il Padre stesso non è senza passioni! Se lo si invoca, allora Egli conosce misericordia e compassione. Egli percepisce una sofferenza d’amore (Omelie su Ezechiele 6, 6)».

In alcune zone della Germania ci fu una devozione molto commovente che contemplava die Not Gottes (“l’indigenza di Dio”). Per conto mio ciò mi fa passare davanti agli occhi un’impressionante immagine che rappresenta il Padre sofferente, che come Padre condivide interiormente le sofferenze del Figlio. E anche l’immagine del “trono di grazia” fa parte di questa devozione: il Padre sostiene la croce e il crocifisso, si china amorevolmente su di lui e d’altra parte per così dire è insieme sulla croce. Così in modo grandioso e puro si percepisce lì cosa significano la misericordia di Dio e la partecipazione di Dio alla sofferenza dell’uomo. Non si tratta di una giustizia crudele, non già del fanatismo del Padre, bensì della verità e della realtà della creazione: del vero intimo superamento del male che in ultima analisi può realizzarsi solo nella sofferenza dell’amore.

Negli «Esercizi Spirituali», Ignazio di Loyola non utilizza le immagini veterotestamentarie di vendetta, al contrario di Paolo (cfr. 2 Tessalonicesi 1, 5-9); ciò non di meno egli invita a contemplare come gli uomini, fino alla Incarnazione, «discendevano all’inferno» (Esercizi Spirituali n. 102; cfr. ds IV, 376) e a considerare l’esempio dagli «innumerevoli altri che vi sono finiti per molti meno peccati di quelli che ho commesso io» (Esercizi Spirituali n. 52). È in questo spirito che san Francesco Saverio ha vissuto la propria attività pastorale, convinto di dover tentare di salvare dal terribile destino della perdizione eterna quanti più «infedeli» possibile. L’insegnamento, formalizzato nel concilio di Trento, nella sentenza riguardo al giudizio sui buoni e sui cattivi, in seguito radicalizzato dai giansenisti, è stato ripreso ín modo molto più contenuto nel Catechismo della Chiesa cattolica (cfr. §5 633, 1037). Si può dire che su questo punto, negli ultimi decenni, c’è stato una sorta di «sviluppo del dogma» di cui il Catechismo deve assolutamente tenere conto?

Non c’è dubbio che in questo punto siamo di fronte a una profonda evoluzione del dogma. Mentre i padri e i teologi del medioevo potevano ancora essere del parere che nella sostanza tutto il genere umano era diventato cattolico e che il paganesimo esistesse ormai soltanto ai margini, la scoperta del nuovo mondo all’inizio dell’era moderna ha cambiato in maniera radicale le prospettive. Nella seconda metà del secolo scorso si è completamente affermata la consapevolezza che Dio non può lasciare andare in perdizione tutti i non battezzati e che anche una felicità puramente naturale per essi non rappresenta una reale risposta alla questione dell’esistenza umana. Se è vero che i grandi missionari del XVI secolo erano ancora convinti che chi non è battezzato è per sempre perduto — e ciò spiega il loro impegno missionario — nella Chiesa cattolica dopo il concilio Vaticano II tale convinzione è stata definitivamente abbandonata. Da ciò derivò una doppia profonda crisi. Per un verso ciò sembra togliere ogni motivazione a un futuro impegno missionario. Perché mai si dovrebbe cercare di convincere delle persone ad accettare la fede cristiana quando possono salvarsi anche senza di essa? Ma pure per i cristiani emerse una questione: diventò incerta e problematica l’obbligatorietà della fede e della sua forma di vita. Se c’è chi si può salvare anche in altre maniere non è più evidente, alla fin fine, perché il cristiano stesso sia legato alle esigenze dalla fede cristiana e alla sua morale. Ma se fede e salvezza non sono più interdipendenti, anche la fede diventa immotivata.

Negli ultimi tempi sono stati formulati diversi tentativi allo scopo di conciliare la necessità universale della fede cristiana con la possibilità di salvarsi senza di essa. Ne ricordo qui due: innanzitutto la ben nota tesi dei cristiani anonimi di Karl Rahner. In essa si sostiene che l’atto-base essenziale dell’esistenza cristiana, che risulta decisivo in ordine alla salvezza, nella struttura trascendentale della nostra coscienza consiste nell’apertura al tutt’altro, verso l’unità con Dio. La fede cristiana avrebbe fatto emergere alla coscienza ciò che è strutturale nell’uomo in quanto tale. Perciò quando l’uomo si accetta nel suo essere essenziale, egli adempie l’essenziale dell’essere cristiano pur senza conoscerlo in modo concettuale. Il cristiano coincide dunque con l’umano e in questo senso è cristiano ogni uomo che accetta se stesso anche se egli non lo sa. È vero che questa teoria è affascinante, ma riduce il cristianesimo stesso a una pura conscia presentazione di ciò che l’essere umano è in sé e quindi trascura il dramma del cambiamento e del rinnovamento che è centrale nel cristianesimo.

Ancor meno accettabile è la soluzione proposta dalle teorie pluralistiche della religione, per le quali tutte le religioni, ognuna a suo modo, sarebbero vie di salvezza e in questo senso nei loro effetti devono essere considerate equivalenti. La critica della religione del tipo di quella esercitata dall’Antico Testamento, dal Nuovo Testamento e dalla Chiesa primitiva è essenzialmente più realistica, più concreta e più vera nella sua disamina delle varie religioni. Una ricezione così semplicistica non è proporzionata alla grandezza della questione.

Ricordiamo da ultimo soprattutto Henri de Lubac e con lui alcuni altri teologhi che hanno fatto forza sul concetto di sostituzione vicaria. Per essi la proesistenza di Cristo sarebbe espressione della figura fondamentale dell’esistenza cristiana e della Chiesa in quanto tale. È vero che così il problema non è del tutto risolto, ma a me pare che questa sia in realtà l’intuizione essenziale che così tocca l’esistenza del singolo cristiano. Cristo, in quanto unico, era ed è per tutti e i cristiani, che nella grandiosa immagine di Paolo costituiscono il suo corpo in questo mondo, partecipano di tale “essere per”. Cristiani, per così dire, non si è per se stessi, bensì, con Cristo, per gli altri. Ciò non significa una specie di biglietto speciale per entrare nella beatitudine eterna, bensì la vocazione a costruire l’insieme, il tutto. Quello di cui la persona umana ha bisogno in ordine alla salvezza è l’intima apertura nei confronti di Dio, l’intima aspettativa e adesione a Lui, e ciò viceversa significa che noi assieme al Signore che abbiamo incontrato andiamo verso gli altri e cerchiamo di render loro visibile l’avvento di Dio in Cristo.

È possibile spiegare questo “essere per” anche in modo un po’ più astratto. È importante per l’umanità che in essa ci sia verità, che questa sia creduta e praticata. Che si soffra per essa. Che si ami. Queste realtà penetrano con la loro luce all’interno del mondo in quanto tale e lo sostengono. Io penso che nella presente situazione diventi per noi sempre più chiaro e comprensibile quello che il Signore dice ad Abramo, che cioè dieci giusti sarebbero stati sufficienti a far sopravvivere una città, ma che essa distrugge se stessa se tale piccolo numero non viene raggiunto. È chiaro che dobbiamo ulteriormente riflettere sull’intera questione.

Agli occhi di molti “laici”, segnati dall’ateismo del XIX e XX secolo, Lei ha fatto notare, è piuttosto Dio — se esiste — che non l’uomo che dovrebbe rispondere delle ingiustizie, della sofferenza degli innocenti, del cinismo del potere al quale si assiste, impotenti, nel mondo e nella storia universale (cfr. «Spe salvi», n. 42)… Nel suo libro «Gesù di Nazaret», lei fa eco a ciò che per essi — e per noi — è uno scandalo: «La realtà dell’ingiustizia, del male, non può essere semplicemente ignorata, semplicemente messa da parte. Essa deve assolutamente essere superata e vinta. Solamente così c’è veramente misericordia» («Gesù di Nazaret», III 153, citando 2 Timoteo 2, 13). Il sacramento della confessione è, e in quale senso, uno dei luoghi nei quali può avvenire una «riparazione» del male commesso?

Ho già cercato di esporre nel loro complesso i punti fondamentali relativi a questo problema rispondendo alla terza domanda. Il contrappeso al dominio del male può consistere in primo luogo solo nell’amore divino-umano di Gesù Cristo che è sempre più grande di ogni possibile potenza del male. Ma è necessario che noi ci inseriamo in questa risposta che Dio ci dà mediante Gesù Cristo. Anche se il singolo è responsabile per un frammento di male, e quindi è complice del suo potere, insieme a Cristo egli può tuttavia «completare ciò che ancora manca alle sue sofferenze» (cfr. Colossesi 1, 24).

Il sacramento della penitenza ha di certo in questo campo un ruolo importante. Esso significa che noi ci lasciamo sempre plasmare e trasformare da Cristo e che passiamo continuamente dalla parte di chi distrugge a quella che salva.

di Jacques Servais

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