La Nuova Bussola Quotidiana ha firmato stamani un’ articolo drammatico, leggi qui, nel quale comprendiamo quella “resa” che avrebbe spinto i genitori del piccolo Charlie ad arrendersi, a gettare la spugna e noi non siamo certo qui a giudicare la loro scelta, anzi, queste nostre riflessioni desiderano far emergere la gravità di un certo grado culturale della morte, al quale siamo arrivati, continuando a sperare, a pregare per questi due genitori affranti e davvero esausti, ma anche ingannati!
Che cosa hanno in comune queste due Anime e la famosa enciclica di Giovanni Paolo II, la Salvifici doloris? Certamente sono due casi completamente diversi, eppure condividono una similitudine che faremo bene a meditare: in Don Dolindo Ruotolo, nonostante la grettezza dei suoi genitori, la ruvidezza dei comportamenti di un padre autoritario e manesco, prevale quel senso della vita che era la nostra cultura di un tempo, il valore che si dava alla sofferenza e di conseguenza il valore che si dava alla vita umana, a prescindere da…. Nel caso di Charlie, pur emergendo l’amore di due genitori pronti a fare ogni sacrificio per il loro unico figlio, alla fine prevale quel senso di scoraggiamento che è la “cultura della morte” non in quanto essa sia un fattore del tutto naturale nel momento in cui nasce una vita, ma una “cultura” ingannatrice atta a capovolgere il senso stesso della vita e del suo valore a prescindere dal fatto, appunto, se uno nasce “malato” o meno.
Specifichiamo nuovamente che non stiamo qui a giudicare la scelta dei genitori di Charlie, ai quali continueremo a restare vicini con la preghiera, tuttavia è importante non trascurare le motivazioni avulse che dicono, palesemente, come viene stravolta la cultura della vita… in cultura della morte! Per questo abbiamo scelto come parallelo riflessivo (non come paragone) il caso di Don Dolindo Ruotolo, nato nel 1882 e quinto di undici tra fratelli e sorelle di cui tre morti durante il primo anno di vita, come era facile per l’epoca.
I genitori di Don Dolindo erano persone che, senza dubbio come i genitori del piccolo Charlie, amavano i loro figli. Non era solo “cultura del tempo” sfornare figli a gogò piuttosto era la normalità: fare figli e affidarsi (se cattolici) anche al Buon Dio per l’esito del loro sviluppo. Nell’autobiografia di Don Dolindo “fui chiamato Dolindo che significa dolore…” – vedi qui – il Santo Sacerdote ce lo spiega in alcuni meravigliosi passaggi che vogliamo condividervi, per comprendere proprio come siamo entrati, oggi, nella cultura della morte proprio perché stiamo eliminando il valore della SOFFERENZA.
Scrive Don Dolindo a riguardo del padre: “Il mio nome Dolindo significa “Dolore”, lo formò lui stesso e mi confidò, quando avevo 14 anni, che me lo aveva imposto con una previsione curiosa. Egli mi diceva “io sento che tu devi essere non già un Sacerdote comune, ma un apostolo, e sento che non per caso ti ho maltrattato tanto nell’infanzia…”. Egli, mio padre, mi aveva reso veramente “dolore”, come si rivelerà da quello che dirò”.
Sottolineando – nuovamente – che non stiamo facendo paragoni, e neppure emettendo giudizi di sorta, ecco cosa accadde a Don Dolindo all’età di 11 mesi, raccontato da lui stesso. Una mattina comparvero sulle sue manine delle macchie rosse, le ossa delle mani erano “cariate” a tal punto da giustificare un immediato intervento “… fino alla perforazione dei dorsi”. Mentre veniva operato (siamo nel 1882-83 e non esisteva l’anestesia), il piccolo Dolindo veniva tenuto in braccio dalla nonna materna. Qualche mese avanti, mentre si constatava la riuscita dell’intervento, subentra un tumore facciale, alla guancia destra: “… e siccome erano impegnate le glandole, dovetti subire una operazione ancora più dolorosa… (..) Ho ringraziato sempre il Signore di aver ricevuto fin dai primi mesi della mia vita, i segni della Sua Passione sulle mani, e il segno della guanciata sanguinosa che Egli ricevette dal servo del sommo sacerdote… Così iniziò la mia vita di dolore, che poi doveva crescere sempre, e diventare tanto partecipe alla Passione adorata di Gesù Cristo. (..) Confesso che questa estrema severità (del padre – e i problemi legati allo stato di salute), questi dolori continui, sproporzionati all’età, che era così, senza alcun sorriso, con la fame e la povertà, mi resero completamente un cretino… (..) Quando ho risentito in me le spontanee ed inevitabili miserie del corpo, io ho esultato per la gloria che ne veniva a Dio dalla mia nullità, e da ogni infermità, e così la mia miseria non ha mai potuto trascinarmi lontano da Dio; è diventata una voce angosciata, che diceva a Dio: Tu solo sei grande, ed io non sono nulla..”
Don Dolindo, nello scrivere la sua autobiografia per obbedienza al confessore (era il 1923), sottolinea un’ aspetto che interessa maggiormente a noi in queste riflessioni, egli lamenta che, nonostante il clima e la cultura cattolica della famiglia e di quanti la circondavano, nessuno insegnava a loro, bambini, di “amare Gesù, fare tutto per Gesù”… e scrive: “Sono assai dolente che nessuno mi insegnò a conoscere e ad amare Gesù e la Vergine Santissima. Mi facevano dire le preghiere, un rosario strapazzato, ma nessuno ci istruiva. Il Catechismo per la Prima Comunione lo imparai da solo a memoria, ma senza capire il contenuto… Oh, perché non mi ti fecero amare, o Gesù buono?… (..) Sia benedetto Dio, anche in questo! Io non ero un fanciullo, ma un troglodita! Mi ricorderò di più dei poveri selvaggi, che lo sono stato anche io, pur vivendo nel secolo decimonono! In realtà io non vissi in questi anni, fui annientato… e mi pare che tutta la mia vita sia stata più un annientamento che una vita… Sia benedetto Dio, anche in questo!”
Chi vuol comprendere, comprenda, non è difficile!
«Completo nella mia carne – dice l’apostolo Paolo spiegando il valore salvifico della sofferenza – quello che manca ai patimenti di Cristo, in favore del suo corpo che è la Chiesa » (Col.1,24) con queste parole inizia, invece, la preziosa enciclica sul “valore della sofferenza” scritta da san Giovanni Paolo II nel 1984, quasi un presagio una profezia a riguardo poi alla messa in pratica proprio sulla sua pelle, sulla sua malattia. Il Papa “della sofferenza” spiegava come questa appartenga alla trascendenza dell’uomo: “essa è uno di quei punti, nei quali l’uomo viene in un certo senso «destinato» a superare se stesso, e viene a ciò chiamato in modo misterioso…”. A quanto abbiamo letto anche dalle confidenze di Don Dolindo, così spiega magnificamente Giovanni Paolo II nell’enciclica citata:
” L’uomo soffre in modi diversi, non sempre contemplati dalla medicina, neanche nelle sue più avanzate specializzazioni. La sofferenza è qualcosa di ancora più ampio della malattia, di più complesso ed insieme ancor più profondamente radicato nell’umanità stessa. Una certa idea di questo problema ci viene dalla distinzione tra sofferenza fisica e sofferenza morale. Questa distinzione prende come fondamento la duplice dimensione dell’essere umano, ed indica l’elemento corporale e spirituale come l’immediato o diretto soggetto della sofferenza. Per quanto si possano, fino ad un certo grado, usare come sinonimi le parole «sofferenza» e «dolore», la sofferenza fisica si verifica quando in qualsiasi modo «duole il corpo», mentre la sofferenza morale è «dolore dell’anima».
Imponente è quest’altro passaggio: “Perché il male? Perché il male nel mondo? Quando poniamo l’interrogativo in questo modo, facciamo sempre, almeno in una certa misura, una domanda anche sulla sofferenza.
L’uno e l’altro interrogativo sono difficili, quando l’uomo li pone all’uomo, gli uomini agli uomini, come anche quando l’uomo li pone a Dio. L’uomo, infatti, non pone questo interrogativo al mondo, benché molte volte la sofferenza gli provenga da esso, ma lo pone a Dio come al Creatore e al Signore del mondo. Ed è ben noto come sul terreno di questo interrogativo si arrivi non solo a molteplici frustrazioni e conflitti nei rapporti dell’uomo con Dio, ma capiti anche che si giunga alla negazione stessa di Dio. Se, infatti, l’esistenza del mondo apre quasi lo sguardo dell’anima umana all’esistenza di Dio, alla sua sapienza, potenza e magnificenza, allora il male e la sofferenza sembrano offuscare quest’immagine, a volte in modo radicale, tanto più nella quotidiana drammaticità di tante sofferenze senza colpa e di tante colpe senza adeguata pena. Perciò, questa circostanza – forse ancor più di qualunque altra – indica quanto sia importante l’interrogativo sul senso della sofferenza, e con quale acutezza occorra trattare sia l’interrogativo stesso, sia ogni possibile risposta da darvi.
L’uomo può rivolgere un tale interrogativo a Dio con tutta la commozione del suo cuore e con la mente piena di stupore e di inquietudine; e Dio aspetta la domanda e l’ascolta, come vediamo nella Rivelazione dell’Antico Testamento. Nel Libro di Giobbe l’interrogativo ha trovato la sua espressione più viva…”
E ci fermiamo qui, lasciando ognuno di voi proseguire nelle riflessioni.
Ciò che vogliamo sottolineare ancora una volta, è questo diabolico scoraggiamento che è figlio del demonio, è quel sentimento che investì Giuda il traditore il quale, pur essendosi pentito, si scoraggiò fino alla fine arrivando a togliersi la vita… “Per Charlie è troppo tardi…il danno è fatto…” ripete sconsolato l’avvocato riportando le parole dei genitori che “hanno gettato la spugna”… e giungono così alla convinzione di spegnere una vita… “Il tempo per Charlie è scaduto…” o santo cielo!!! e chi può mai dare una sentenza del genere?
Spaventa, dunque, non la malattia e la sofferenza di Charlie, ma i parametri – i “nuovi” parametri – attraverso i quali sarà decretato, in futuro, chi è degno di vivere e chi no…. spaventa questa nuova “cultura” della morte: “Si è considerato che i muscoli di Charlie si sono deteriorati fino a un punto che è fondamentalmente irreversibile e, qualora il trattamento funzionasse, la sua qualità della vita non sarebbe quella che vorremmo per il nostro prezioso piccolo bambino. Entrambi hanno concordato che il trattamento sarebbe dovuto iniziare molto prima”….
Nessun genitore vorrebbe mai mettere al mondo un bambino malato!! Inoltre, quanti bambini nati sani si ammalano nel corso della loro crescita? E cosa faremo? Li elimineremo tutti perché “non è la sofferenza ciò che sognavamo per loro?” Vogliamo concludere con queste parole di san Giovanni Paolo II, dalla Salvifici doloris:
“Cristo si è avvicinato soprattutto al mondo dell’umana sofferenza per il fatto di aver assunto egli stesso questa sofferenza su di se’. Durante la sua attività pubblica provò non solo la fatica, la mancanza di una casa, l’incomprensione persino da parte dei più vicini, ma, più di ogni cosa, venne sempre più ermeticamente circondato da un cerchio di ostilità e divennero sempre più chiari i preparativi per toglierlo di mezzo dai viventi. Cristo è consapevole di ciò, e molte volte parla ai suoi discepoli delle sofferenze e della morte che lo attendono.. (..) perciò Cristo rimprovera severamente Pietro, quando vuole fargli abbandonare i pensieri sulla sofferenza e sulla morte di Croce… (..) Il motivo della sofferenza e della gloria ha la sua caratteristica strettamente evangelica, che si chiarisce mediante il riferimento alla Croce ed alla risurrezione. La risurrezione è diventata prima di tutto la manifestazione della gloria, che corrisponde all’elevazione di Cristo per mezzo della Croce. Se, infatti, la Croce è stata agli occhi degli uomini lo spogliamento di Cristo, nello stesso tempo essa è stata agli occhi di Dio la sua elevazione. Sulla Croce Cristo ha raggiunto e realizzato in tutta pienezza la sua missione: compiendo la volontà del Padre, realizzò insieme se stesso. Nella debolezza manifestò la sua potenza, e nell’umiliazione tutta la sua grandezza messianica. Non sono forse una prova di questa grandezza tutte le parole pronunciate durante l’agonia sul Golgota e, specialmente, quelle riguardanti gli autori della crocifissione: «Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno»? A coloro che sono partecipi delle sofferenze di Cristo queste parole si impongono con la forza di un supremo esempio. La sofferenza è anche una chiamata a manifestare la grandezza morale dell’uomo, la sua maturità spirituale…”
O ritorniamo a pensare, a ragionare come Gesù nei Vangeli, come Giobbe davanti alle sofferenze della vita, oppure saremo destinati all’autodemolizione, ad un suicidio di massa che inizia nell’errata cultura della morte, nel presunto diritto che – vivere – spetta “solo” a chi è sano, a chi nasce senza complicazioni… perché, sia ben chiaro che, qualunque discorso disfattista che ha a che fare con la vita – dono di Dio – è in verità un tentativo contro Gesù Cristo, contro Dio, la cui immagine è impressa negli uomini da Lui creati, nella buona o nella cattiva sorte, imparando ad abbracciare la Croce non solo per dare l’unico vero senso alla sofferenza, ma anche per dare a questa la speranza e la certezza della vittoria finale nella beatitudine eterna.
Per questo condividiamo anche le conclusioni dell’articolo de La Nuova Bussola: “Questo quotidiano ha scritto più volte che il trattamento sperimentale era una strada da tentare, ma che la vita di Charlie andava e va difesa in ogni caso, così come quella di qualsiasi malato capace di vivere grazie a una cura di base come la ventilazione assistita, la nutrizione o l’idratazione. La vita umana va protetta anche quando non esiste una terapia efficace, perché non è dalle condizioni fisiche che dipende la nostra dignità: è perché siamo esseri umani, con un corpo e un’anima, che la nostra dignità è incancellabile. Per questo ogni legge che apre le porte all’eutanasia è inaccettabile.”
Laudetur Jesus Christus