Ratzinger: dal seminario di Frisinga alla teologia a Monaco

Per questo, all’inizio del Concilio considerai lo schema preparatorio della costituzione sulla liturgia, che accoglieva tutte le conquiste essenziali del movimento liturgico, come un grandioso punto di partenza per quella adunanza ecclesiale, consigliando in tal senso il cardinal Frings. Non potevo prevedere che in seguito gli aspetti negativi del movimento liturgico si sarebbero ripresentati con maggior forza, con il serio rischio di portare addirittura all’autodistruzione della liturgia.” (Joseph Ratzinger)

NEL SEMINARIO DI FRISINGA (dall’autobiografia – La Mia Vita)

Il seminario di Frisinga, cui noi eravamo destinati, era adibito a ospedale militare per prigionieri di guerra stranieri, che erano lì ricoverati, in attesa del loro ritorno in patria; per questo le sue porte non poterono tanto presto essere riaperte. Un piccolo gruppo di seminaristi degli ultimi corsi era potuto entrare nei pochi locali rimasti liberi nel novembre 1945. Durante le feste natalizie si erano però già create le condizioni perché anche gli altri aspiranti potessero essere ospitati alla meglio, benché una gran parte della casa dovesse ancora essere adibita ad altri scopi. Era un gruppo variopinto, di circa 120 seminaristi, quello che ora si trovava insieme a Frisinga per incamminarsi sulla strada del sacerdozio.

Le differenze di età erano grandi: si andava dal gruppo dei quarantenni fino a noi, un paio di diciannovenni. Molti avevano prestato servizio militare per tutta la guerra, quasi tutti per qualche anno, ed erano passati per orrori e prove che avevano segnato profondamente la loro vita. Si può quindi capire che alcuni di questi vecchi soldati guardassero a noi giovani come a dei bambini immaturi, a cui mancavano le sofferenze necessarie per il ministero sacerdotale e che non erano passati per quelle notti oscure in cui il sì al sacerdozio può ricevere la sua vera forma. Malgrado la grande differenza di esperienze e di orizzonti ci teneva insieme una grande riconoscenza, per il fatto di essere usciti dall’abisso di quegli anni difficili. Da questa riconoscenza nasceva la volontà determinata di recuperare il tempo perso e di servire Cristo nella sua Chiesa, per un tempo nuovo e migliore, per una Germania migliore, per un mondo migliore.

Nessuno dubitava che la Chiesa fosse il luogo delle nostre speranze. Malgrado le molte debolezze umane, essa era stata il polo di opposizione all’ideologia distruttiva della dittatura nazista; essa era rimasta in piedi nell’Inferno, che pure aveva ingoiato i potenti, grazie alla sua forza, proveniente dall’eternità. Noi avevamo la prova: le porte degli inferi non prevarranno su di essa. Sapevamo, per esperienza diretta, che cosa erano “le porte degli inferi”  e potevamo anche vedere con i nostri occhi che la casa costruita sulla roccia si era mantenuta salda.

Riconoscenza e voglia di rinascere, di lavorare nella Chiesa e per il mondo: erano questi i sentimenti che dominavano l’atmosfera in quella casa. A essi si aggiungeva una fame di conoscenze, che era andata crescendo negli anni della desolazione, in cui eravamo stati esposti al Moloch del potere, cui erano estranei la cultura e lo spirito. Come ho già detto, i libri erano una rarità nella Germania distrutta e separata dal resto del mondo. Tuttavia, malgrado i danni provocati dai bombardamenti, in seminario si era conservata una biblioteca di buon livello, che era almeno in grado di saziare la nostra fame di quel momento. Gli interessi erano molteplici.

Non ci si voleva limitare alla teologia in senso stretto, ma porsi all’ascolto dei contemporanei. I romanzi di Gertrud von Le Fort, Elisabeth Langgässer, Ernst Wiechert venivano divorati; Dostoevskij era tra gli autori che ognuno leggeva, e inoltre i grandi francesi: Claudel, Bernanos, Mauriac. Anche i nuovi sviluppi delle scienze della natura venivano seguiti con interesse. Si riteneva che con la svolta impressa da Planck, Heisenberg, Einstein, la scienza fosse di nuovo sulla via di Dio. L’orientamento antireligioso, che aveva raggiunto il suo apogeo con Haeckel, si era spezzato, e ciò infondeva nuovo coraggio. Il filosofo di Monaco Aloys Wenzel, che a sua volta proveniva dalla fisica, scrisse un’opera di grande successo, la Filosofia della libertà, in cui cercava di dimostrare che l’immagine deterministica del mondo propria della fisica classica, che non lasciava alcuno spazio a Dio, era stata rimpiazzata da un’immagine aperta del mondo, in cui c’è spazio per il nuovo, per ciò che non può essere previsto e predeterminato fin dall’inizio. In campo teologico e filosofico Romano Guardini, Josef Pieper, Theodor Häcker e Peter Wust erano gli autori la cui voce ci toccava più da vicino.

Si rivelò importante il fatto che come prefetto della sala di studio (non c’erano camere singole) ci venne assegnato un teologo da poco rientrato dalla prigionia inglese: Alfred Läpple, che in seguito avrebbe operato come pedagogo a Salisburgo e che sarebbe divenuto celebre come uno dei più fecondi scrittori religiosi del nostro tempo. Già prima della guerra aveva cominciato a lavorare a una dissertazione in teologia sull’idea di coscienza nel cardinal Newman con Theodor Steinbüchel, che allora insegnava teologia morale a Monaco; la sua presenza si rivelò per noi particolarmente stimolante grazie all’ampiezza delle sue conoscenze di storia della filosofia e al suo gusto per il dibattito.

Lessi i due volumi di Steinbüchel, dedicati alla fondazione filosofica della teologia morale, che erano appena apparsi in nuova edizione e vi trovai soprattutto un’eccellente introduzione al pensiero di Heidegger e Jaspers, come anche alle filosofie di Nietzsche, Klages, Bergson. Ancora più importante fu un’altra opera di Steinbüchel, La svolta del pensiero: come si riteneva di poter constatare in fisica l’abbandono dell’immagine meccanicistica del mondo e una svolta verso una nuova apertura all’Ignoto e anche all’Ignoto conosciuto – Dio –, così si riteneva di poter osservare anche in filosofia un ritorno alla metafisica, che da Kant in avanti era stata ritenuta inadeguata.

Steinbüchel, che aveva iniziato il suo cammino con degli studi su Hegel e sul socialismo, presentava nel libro citato lo sviluppo, dovuto in particolare a Ferdinand Ebner, del personalismo che anche per lui era divenuto una svolta nel suo cammino culturale. L’incontro con il personalismo, che poi trovammo esplicitato con grande forza persuasiva nel grande pensatore ebreo Martin Buber, fu un evento che segnò profondamente il mio cammino spirituale, anche se il personalismo, nel mio caso, si legò quasi da sé con il pensiero di Agostino che, nelle Confessioni, mi venne incontro in tutta la sua passionalità e profondità umane. Ebbi, invece, delle difficoltà nell’accesso al pensiero di Tommaso d’Aquino, la cui logica cristallina mi pareva troppo chiusa in se stessa, troppo impersonale e preconfezionata. Ciò dipese probabilmente anche dal fatto che il filosofo del nostro seminario, Arnold Wilmsen, ci presentava un rigido tomismo neoscolastico, che per me era semplicemente troppo lontano dalle mie domande personali. Peraltro, Wilmsen era di per sé una persona interessante che aveva lavorato come operaio nella Ruhr. Il desiderio di conoscenza lo aveva spinto a risparmiare il denaro necessario per poter studiare filosofia.

Dei suoi insegnanti di Monaco lo aveva profondamente impressionato il nuovo indirizzo fenomenologico, ispirato a Husserl, ma non ne era stato soddisfatto. Si era quindi recato a Roma e qui aveva trovato quel che cercava nella filosofia tomista che vi veniva insegnata. Ci colpivano profondamente il suo entusiasmo e la sua profonda convinzione, ma ora egli non sembrava più uno che si pone degli interrogativi, bensì uno che difende con passione contro ogni interrogativo ciò che ha trovato. Noi, però, proprio perché giovani, eravamo appunto persone che ponevano domande. Un grande aiuto ci venne invece dal corso in quattro semestri di un docente ancora giovane, Jacob Fellmaier, sulla storia della filosofia, che riuscì a trasmetterci una visione d’insieme completa su tutta la grande ricerca dello spirito umano, da Socrate e dai presocratici fino al presente, offrendoci così dieci fondamenti di cui io ancor oggi sono grato.

Lo studio era alimentato, come ho già ricordato, dalla fame comune di conoscenza, ma trovò anche delle condizioni favorevoli nel clima familiare che regnava in seminario, malgrado tutte le differenze di età e di formazione culturale. A ciò contribuiva decisamente la personalità del nostro rettore, Michael Höck, che aveva trascorso cinque anni nel campo di concentramento di Dachau e che noi, per i suoi modi benevoli e cordiali, chiamavamo semplicemente “il padre”. In casa si faceva inoltre molta musica e, in occasione di alcune feste, si recitavano anche dei pezzi teatrali.

Ma, soprattutto, restano come preziosi ricordi le grandi feste liturgiche in cattedrale e la preghiera silenziosa nella cappella del seminario. La grande figura dell’anziano cardinal Faulhaber mi colpì profondamente. Si percepiva sensibilmente il peso delle sofferenze che aveva sopportato negli anni del nazismo e che ora gli conferiva un invisibile alone di dignità. Non cercavamo in lui “un vescovo accessibile”: mi colpiva piuttosto la veneranda grandezza della sua missione, con cui egli si era del tutto identificato.

STUDIO DELLA TEOLOGIA A MONACO

Con il semestre estivo del 1947 si concluse anche il biennio di studi filosofici, previsto dal piano di studi allora in vigore, e bisognava prendere una nuova decisione. Per chiarire di che cosa si trattava, bisogna dare qualche spiegazione sul contesto. In Baviera c’erano allora due facoltà teologiche situate all’interno di università statali: a Monaco e a Würzburg.

A Eichstätt c’era un seminario tridentino nel senso stretto della parola, ovvero un seminario per la preparazione dei sacerdoti, con un corpo docente indipendente e sottoposto solo al vescovo, che era il responsabile ultimo della formazione teologica. In cinque diocesi – tra cui quella di Monaco-Frisinga – c’era un seminario diocesano, affiliato a una facoltà riconosciuta dallo Stato. La sede del seminario della nostra diocesi era Frisinga. La facoltà teologica di Monaco non serviva quindi alla formazione sacerdotale di una sola diocesi. Per questo a Monaco non c’era neppure un seminario diocesano, ma il cosiddetto Georgianum, che era stato fondato dal duca Giorgio il Ricco a Ingolstadt per i candidati al sacerdozio provenienti da tutta la Baviera. Questa istituzione, insieme con l’università di Ingolstadt, si trasferì dapprima a Landshut, poi a Monaco.

Con la creazione dei seminari diocesani, la sua funzione divenne quella di offrire ospitalità ai teologi che intendevano studiare teologia in università e che, per questo, ricevevano l’approvazione del loro vescovo. Con altri due studenti del mio anno, mi decisi a indirizzare al vescovo la richiesta di proseguire gli studi a Monaco, ricevendone la necessaria approvazione. Studiando in università, speravo di poter penetrare ancor più in profondità nel dibattito culturale del nostro tempo ed, eventualmente, di potermi un giorno dedicare completamente alla teologia scientifica.

Poiché, per mancanza di combustibile, non era possibile organizzare un vero e proprio semestre invernale, fu deciso che l’anno accademico 1947/1948 sarebbe iniziato già il 1° settembre; in compenso saremmo andati in vacanza da Natale a Pasqua, dunque per più di tre mesi e mezzo. Arrivammo quindi a Monaco alla fine di agosto, per gli esercizi spirituali che precedevano l’anno accademico. Molti degli edifici universitari erano cumuli di macerie. Anche la biblioteca era in gran parte inaccessibile. La facoltà teologica aveva trovato una sistemazione provvisoria nell’ex residenza di caccia di Fürstenried, a sud di Monaco.

Qui l’infelice re Ottone aveva trascorso i decenni della sua follia fino alla prima guerra mondiale. Dopo la fine della monarchia l’arcidiocesi di Monaco era entrata in possesso di quel piccolo castello e lo aveva adibito a casa di esercizi. Nella situazione di bisogno degli anni Venti vi erano stati aggiunti due modesti edifici, in cui venne ospitato un seminario per vocazioni adulte.

In questi due edifici vennero provvisoriamente sistemati tanto la facoltà teologica che il Georgianum. La mancanza di spazio era cronica: in una sola casa abitavano due professori, c’erano la segreteria della facoltà e la sala delle riunioni, inoltre le biblioteche seminariali per la teologia pastorale, la storia della Chiesa e l’esegesi dell’Antico e del Nuovo Testamento, oltre ai locali dove noi studiavamo e dormivamo. Data la mancanza di spazio, si dormiva in letti a castello. Quando, il primo giorno, aprii gli occhi ancora mezzo addormentato, credetti per un attimo di essere ancora in guerra e di ritrovarmi di nuovo nella nostra batteria antiaerea. Anche il vitto era scarso, dato che non si poteva fare affidamento su una propria fattoria, come invece avveniva a Frisinga.

Nel castello c’era un piccolo lazzaretto, esso pure destinato a dei feriti di guerra stranieri, e, inoltre, la casa per gli esercizi. Di straordinario, invece, c’era il fatto che avevamo a nostra disposizione il bel parco del castello, che era suddiviso in due parti, una strutturata come un giardino all’inglese, l’altra alla francese. Molto spesso me ne andavo a passeggiare per quel parco, immerso in molti pensieri; là sono maturate le decisioni di quegli anni e là ho riflettuto su quel che ci veniva detto nelle ore di lezione, cercando di trarne una mia visione delle cose.

Il clima tra di noi era più asciutto che a Frisinga. Non c’era quella spontanea cordialità che là dominava. Eravamo un gruppo troppo eterogeneo perché questo potesse avvenire: c’erano studenti da tutta la Germania, soprattutto dal nord, e, inoltre, molti che ormai stavano concludendo il dottorato e che erano già molto avanti con il loro lavoro. L’interesse intellettuale era dominante e generava un certo individualismo, mentre a Frisinga la volontà comune di impegnarsi presto nella pastorale contribuiva a creare dei legami reciproci molto stretti. Qui l’accento sulle lezioni era più forte e intorno ai corsi si creava lo spazio per degli interessi comuni, per lo scambio di domande e di risposte.

C’era in me una fortissima aspettativa nei confronti dei corsi tenuti dai nostri grandi professori di università. Il luogo, poi, in cui essi si tenevano era molto particolare. Dato che non c’era una vera e propria aula, le lezioni si svolgevano nella serra del giardino del castello. Quando vi entrammo per la prima volta fummo accolti da una calura rovente, che in inverno fu compensata da un freddo altrettanto pungente. Ma queste piccolezze esteriori allora non ci disturbavano quasi per nulla. Per completare il quadro, devo però ricordare che la facoltà teologica di Monaco era stata soppressa dai nazisti nel 1938, perché il cardinal Faulhaber aveva negato il suo assenso a un professore, che era noto come sostenitore di Hitler e che i nostri governanti avevano chiamato a ricoprire la cattedra di diritto canonico. Il comunicato del ministero nazionalsocialista dichiarò in tale occasione che di fronte a tale intromissione, che nulla aveva a che fare con la scienza, la libertà della ricerca scientifica non era più garantita; in tali circostanze – continuava il comunicato – la facoltà teologica di Monaco non aveva più ragione di continuare a esistere.

Dopo la guerra si dovette quindi provvedere a rifondare del tutto ex novo la facoltà. A questo scopo, ci si poté giovare del corpo docente di due facoltà – Breslavia (in Slesia) e Braunsberg (nella Prussia Orientale) – che avevano cessato di esistere dopo l’occupazione polacca delle regioni a est della linea dell’Oder-Neiße e l’espulsione della popolazione tedesca.

Da Breslavia venivano i professori di Antico e Nuovo Testamento (Stummer e Maier) e quello di storia della Chiesa (Seppelt); da Braunsberg venivano Egenter, un sacerdote di Passau, docente di teologia morale, e Gottlieb Söhngen, professore di teologia fondamentale, che, in quanto originario di Colonia, incarnava nel modo più felice il tipico temperamento renano.

Da Münster veniva poi Michael Schmaus, un sacerdote della diocesi di Monaco, che era divenuto famoso ben al di là dei confini della Germania grazie alla novità del suo manuale di dogmatica. Egli si era distaccato dallo schema neoscolastico e aveva realizzato una vivace presentazione della dogmatica cattolica tutta ispirata allo spirito del movimento liturgico e alla nuova attenzione ai Padri e alla Scrittura, che era venuta maturando negli anni successivi alla prima guerra mondiale. Da Münster Schmaus aveva portato altri due bravi docenti: Josef Pascher, professore di teologia pastorale, che prima della guerra aveva già lavorato per un breve periodo presso la facoltà di Monaco, e un giovane professore di diritto canonico, Klaus Mörsdorf, che propugnava con decisione una visione del diritto canonico come disciplina teologica, collocando il diritto canonico non ai margini della teologia, ma nel suo stesso centro e che, per questo, si sforzava di comprenderlo a partire dall’Incarnazione – come una logica conseguenza dell’Incarnazione della Parola, che, proprio per questo, si traduceva anche nella necessità di forme istituzionali e giuridiche.

Pascher aveva percorso un interessante cammino spirituale: dapprima aveva studiato matematica, dedicandosi anche all’apprendimento delle lingue orientali, poi si era buttato sulla pedagogia e sulla filosofia delle religioni, aveva svolto delle ricerche sulla mistica di Filone di Alessandria, per arrivare, passando per la teologia pastorale, alla liturgia, che negli anni di Monaco divenne il suo vero campo di lavoro. Come direttore del Georgianum era responsabile della nostra formazione umana e sacerdotale; interpretava questo incarico secondo lo spirito della liturgia e riuscì così a dare una profonda impronta al nostro cammino spirituale. Proprio le tre diverse origini accademiche dei nostri docenti contribuirono ad allargare gli orizzonti culturali della nostra facoltà, conferendole una ricchezza interiore che attirava studenti da tutta la Germania.

Indiscutibilmente, la star della facoltà era Friedrich Wilhelm Maier, professore di esegesi del Nuovo Testamento. Anch’egli aveva dietro di sé un cammino personale davvero inusuale. Ancora in giovane età, aveva conseguito la libera docenza presso l’università di Strasburgo, che allora apparteneva al Reich tedesco (dove, tra l’altro, proprio in quel tempo, prima del 1911, Michael Faulhaber era professore di Antico Testamento). Per le sue qualità di giovane brillante e preparato, gli era stato affi­dato il commento esegetico ai vangeli sinottici, all’interno di un commentario biblico in fase di pubblicazione. Si era gettato con entusiasmo in questo lavoro, sostenendo la tesi, oggi quasi dovunque accettata, delle due fonti, secondo cui Marco e una raccolta non più disponibile di detti di Gesù (la fonte “Q”) costituirebbero la base dei tre vangeli sinottici, e, dunque, Marco sarebbe la fonte per i vangeli di Matteo e di Luca, ritenuti, pertanto, di composizione più recente.

Ma proprio questo appariva in contraddizione con la tradizione, risalente fino al secondo secolo, che vede in Matteo il vangelo più antico, che l’apostolo stesso avrebbe scritto “in dialetto ebraico”. Maier venne così a trovarsi nel pieno della controversia modernista, combattuta con accesa veemenza, il cui punto nodale era proprio la questione dei vangeli. In Francia Loisy aveva messo quasi del tutto in discussione la credibilità dei vangeli.

Le teorie dell’esegesi liberale finirono per apparire come una minaccia al fondamento stesso della fede – un problema che anche oggi non è stato affatto risolto. La tesi di Maier venne vista come una sorta di capitolazione di fronte al liberalismo, per cui fu costretto a ritirarsi dall’attività accademica. Più di una volta egli ci parlò del “Recedat a cathedra” (deve rinunciare all’insegnamento), che Roma aveva sentenziato nei suoi confronti. Egli divenne allora cappellano militare e con questo incarico prese parte alla prima guerra mondiale. Poi fu nominato cappellano in un carcere, dei cui detenuti conservava ancora dei ricordi positivi. Grazie al mutato clima culturale degli anni Venti poté finalmente rientrare nel mondo accademico. Nel 1924 fu chiamato a Breslavia come professore di Nuovo Testamento e lì, come in seguito anche a Monaco, riuscì in breve tempo a guadagnarsi i cuori dei propri uditori. In ogni caso, non riuscì mai a superare del tutto il trauma delle sue dimissioni forzate. Nei confronti di Roma provava una certa amarezza, che si estendeva anche all’arcivescovo di Monaco, che a suo modo di vedere agiva in maniera troppo poco collegiale. Malgrado queste riserve, Maier era un uomo profondamente credente e un sacerdote realmente preoccupato della corretta formazione sacerdotale dei giovani che gli erano affidati.

Le sue lezioni erano le uniche in cui la serra diventava troppo piccola; per avere un posto bisognava arrivare molto presto. Peraltro, da molti punti di vista Maier apparteneva a un mondo ormai tramontato. Curava ancora la grande retorica di fine secolo scorso – inizio del Novecento, che all’inizio fece colpo su di me, ma poi, a poco a poco, mi sembrava un po’ artificiosa e fine a se stessa. Anche il punto di partenza della sua esegesi era rimasto quello dell’epoca liberale. Aveva sì letto, con ammirevole zelo, tutto quello che poi era uscito e vi aveva anche lavorato sopra, ma alla fine la svolta che avevano introdotto nell’esegesi Bultmann e Barth, ciascuno a modo proprio, gli era in fondo passata accanto senza che egli riuscisse ad assimilarla.

Se ci ripenso, credo di poter dire che egli rappresentasse un esempio di quell’orientamento che Romano Guardini aveva incontrato nei suoi professori di Tubinga e che egli definì come un liberalismo delimitato dal dogma. Rispetto al nuovo orientamento, che Guardini forse elaborò per primo all’interno del dramma del modernismo, si trattava di una posizione insufficiente: il dogma non opera come una realtà capace di infondere forza nella costruzione della teologia, ma solo come un vincolo, come negazione e limite estremo.

Ma a distanza di quasi cinquant’anni posso vedere anche il positivo: il porre in maniera aperta e sgombra da pregiudizi delle domande, a partire dall’orizzonte del metodo storico liberale, creava una nuova immediatezza con le Sacre Scritture e liberava dimensioni del testo, che non erano più percettibili nella lettura eccessivamente cristallizzata del dogma. La Bibbia ci parlava con una immediatezza e una freschezza nuove.

Quel che, invece, nel metodo liberale era arbitrio e appiattiva la Bibbia (si pensi ad Harnack e alla sua scuola) veniva tenuto distante con l’obbedienza al dogma. Proprio l’equilibrio tra liberalismo e dogma aveva una sua specifica fecondità. Ecco perché durante i sei semestri dei miei studi teologici ascoltai con grande attenzione tutte le lezioni di Maier, facendole oggetto di rielaborazione personale. Per me l’esegesi è sempre rimasta il centro del mio lavoro teologico. È merito di Maier se da noi la Sacra Scrittura era diventata “l’anima del nostro studio teologico”, come esige il concilio Vaticano II. Anche se, personalmente, col passar del tempo percepivo sempre di più i limiti dell’impostazione di Maier, che non era in grado di cogliere tutta la profondità della figura di Cristo, tuttavia quel che io udii e appresi sistematicamente da lui resta per me fondamentale.

Al contrario della notevole personalità di Maier, il docente di Antico Testamento, Friedrich Stummer, era un uomo silenzioso e riservato, la cui forza stava nella serietà del suo lavoro storico e filologico, mentre solo con molta cautela arrivava ad accennare a delle linee teologiche. Io, però, stimavo molto proprio questo stile cauto e per questo frequentai con attenzione le sue lezioni e anche i suoi seminari. In questo modo l’Antico Testamento è divenuto importante per me e ho capito sempre di più che il Nuovo Testamento non è il libro di un’altra religione, che si è appropriata delle Sacre Scritture degli Ebrei, quasi si trattasse di una sorta di preliminare tutto sommato secondario.

Il Nuovo Testamento non è altro che un’interpretazione a partire dalla storia di Gesù di “legge, profeti e scritti”, che al tempo di Gesù non erano ancora giunti alla loro forma matura di canone definitivo, ma erano ancora aperti e si presentavano quindi ai discepoli come testimonianza a favore di Gesù stesso, come Sacre Scritture che rivelavano il suo mistero.

Ho capito sempre di più che il giudaismo (che in senso stretto comincia con la conclusione del processo di formazione del canone scritturistico e, dunque, nel primo secolo dopo Cristo) e la fede cristiana, così come è descritta nel Nuovo Testamento, sono due modi di far proprie le Sacre Scritture di Israele, che in definitiva dipendono dalla posizione assunta nei confronti della figura di Gesù di Nazaret. La Scrittura, che noi oggi chiamiamo Antico Testamento, è di per sé aperta ad ambedue le strade. Solo dopo la seconda guerra mondiale abbiamo comunque cominciato davvero a capire che anche l’interpretazione ebraica possiede una sua specifica missione teologica nel tempo “dopo Cristo”.

Ma torniamo al 1947: anche per noi, che cominciavamo allora a studiare teologia, divenne presto chiaro che il gruppo di Breslavia non si distingueva solo per l’età dai professori arrivati da Münster e Braunsberg (i professori di Breslavia avevano tutti più di sessant’anni), ma era anche espressione di un’altra epoca teologica. I due esegeti e (sia pure in maniera meno evidente) il professore di storia della Chiesa erano espressione, in senso buono, dell’età liberale. Invece, i tre di Münster, ma anche i due professori di Braunsberg, erano profondamente segnati dalla svolta teologica, che aveva avuto luogo dopo la prima guerra mondiale, insieme con un cambiamento generale della cultura.

La prima guerra mondiale con il suo esercito di milioni di morti, con tutti gli orrori che la tecnica, come strumento di guerra, aveva reso possibile, era stata sperimentata come il crollo del dogma progressista liberale e, quindi, anche della stessa concezione liberale del mondo. Proprio con l’aiuto delle moderne conquiste tecniche e scientifiche si era arrivati a una distruzione dell’uomo e della sua dignità, che prima non era per nulla possibile.

Sotto lo choc di questa esperienza si tornava a guardare a quel che prima si era ritenuto ormai superato: la Chiesa, la liturgia, il sacramento, e ciò non avveniva solo in ambito cattolico, ma anche nel mondo protestante. La Lettera ai Romani di Karl Barth si pose come una sfida al liberalismo e come testo programmatico di una nuova teologia, consapevolmente “ecclesiale”. Non a caso Karl Barth aveva voluto che la sua grande opera dogmatica venisse pubblicata con il titolo di Dogmatica ecclesiale.

Il movimento di rinnovamento liturgico, che si andava allora formando, era anche portatore di una nuova concezione della liturgia. Nel segno di questa nuova consapevolezza si giunse anche a un avvicinamento tra le confessioni cristiane, a una sofferta e appassionata ricerca dell’Una Sancta. Schmaus aveva scritto la sua dogmatica proprio a partire da questo spirito. Egenter, nel campo della teologia morale, insieme con altri – tra cui soprattutto Fritz Tillmann e Theodor Steinbüchel – rappresentava la tendenza alla ricerca di una nuova fisionomia della teologia morale. Essi volevano prendere le distanze dalla casistica e superare il dominio del concetto di natura, per ripensare la morale interamente a partire dall’idea della sequela di Cristo.

Accanto agli esegeti, furono importanti per me le figure di Söhngen e Pascher. Inizialmente Söhngen voleva dedicarsi interamente alla filosofia e aveva cominciato la sua strada con una dissertazione su Kant. Apparteneva a quella dinamica corrente tomista che dell’Aquinate aveva fatto propri la passione per la verità e la risolutezza della domanda sul fondamento e il fine di tutto il reale, ma che si sforzava consapevolmente di far questo nell’ambito del dibattito filosofico contemporaneo. Con la sua fenomenologia Husserl aveva riaperto alla metafisica una breccia, che ora veniva ulteriormente allargata da altri, anche se con modalità completamente differenti. Heidegger si interrogava sull’essere, Scheler sui valori, Nikolai Hartmann cercava di sviluppare una metafisica in senso rigorosamente aristotelico.

Per una serie di circostanze esteriori, Söhngen si era poi rivolto alla teologia. Lui, che era nato da un matrimonio misto e che, proprio per la sua origine, era particolarmente sensibile alla questione ecumenica, intervenne nella disputa con Karl Barth ed Emil Brunner all’epoca a Zurigo. Ma si occupò anche, con grande competenza, della teologia dei misteri, iniziata dal benedettino di Maria Laach, Odo Casel. Questa teologia era nata direttamente dal movimento liturgico, ma riproponeva con nuovo vigore la questione fondamentale del rapporto tra razionalità e mistero, del luogo che nel cristianesimo spetta al pensiero platonico e alla filosofia e, in maniera ancor più radicale, la questione di che cosa sia specificamente cristiano.

Ma ciò che più caratterizzava il metodo di Söhngen era che egli pensava sempre a partire dalle fonti stesse – a cominciare da Aristotele e Platone, passando per Clemente di Alessandria e Agostino, fino ad Anselmo, Bonaventura e Tommaso, Lutero e la scuola teologica di Tubinga del secolo scorso; anche Pascal e Newman erano tra i suoi autori preferiti. Ciò che in lui soprattutto mi colpiva, era che non si accontentava mai di una sorta di positivismo teologico, come talvolta capitava di avvertire in altre discipline, ma poneva con grande serietà la questione della verità e, quindi, anche la questione dell’attualità di quanto è creduto.

Pascher, il teologo della pastorale, che – come detto – era anche il direttore del nostro Georgianum, sapeva spesso arrivare al nostro cuore con le sue vivissime conferenze spirituali, in cui si rivolgeva a noi in modo molto personale, grazie alla sua ricca esperienza spirituale, e senza schemi precostituiti. Nel suo sistema educativo tutto si fondava sulla celebrazione quotidiana della santa Messa, di cui ci presentò il senso e la struttura in un grande corso tenuto nell’estate del 1948, i cui contenuti erano già stati pubblicati nel 1947 in un libro intitolato Eucaristia. Fino ad allora il mio atteggiamento nei confronti del movimento liturgico era stato contrassegnato da qualche riserva. In molti dei suoi rappresentanti mi pareva di cogliere un razionalismo e uno storicismo unilaterali, un atteggiamento troppo mirato alla forma e all’originarietà storica, ma che lasciava trasparire una strana freddezza nei confronti dei valori del sentimento, che la Chiesa ci faceva invece sperimentare come il luogo in cui l’anima si sente a casa propria. Certo, lo Schott mi era molto caro, anzi, insostituibile. L’accesso alla liturgia e alla sua autentica celebrazione, a cui esso aveva spianato la strada, era per me il contributo indiscutibilmente positivo del movimento liturgico. Ma mi disturbava una certa ristrettezza di molti dei suoi sostenitori, che volevano far valere solo una forma.

Grazie alle lezioni di Pascher e alla solennità con la quale ci insegnava a celebrare la liturgia, secondo il suo spirito più profondo, anch’io divenni un sostenitore del movimento liturgico. Come avevo imparato a comprendere il Nuovo Testamento quale anima di tutta la teologia, così capii che la liturgia ne era il fondamento vitale, senza di cui essa finisce per inaridirsi. Per questo, all’inizio del Concilio considerai lo schema preparatorio della costituzione sulla liturgia, che accoglieva tutte le conquiste essenziali del movimento liturgico, come un grandioso punto di partenza per quella adunanza ecclesiale, consigliando in tal senso il cardinal Frings. Non potevo prevedere che in seguito gli aspetti negativi del movimento liturgico si sarebbero ripresentati con maggior forza, con il serio rischio di portare addirittura all’autodistruzione della liturgia.

Quando ripenso agli anni intensi in cui studiavo teologia, posso solo meravigliarmi di tutto quello che oggi si sostiene a proposito della cosiddetta Chiesa “preconciliare”.

Tutti noi vivevamo nella percezione della rinascita, avvertita già negli anni Venti, di una teologia capace di porre domande con rinnovato coraggio e di una spiritualità che si sbarazzava di ciò che era ormai invecchiato e superato, per farci rivivere in modo nuovo la gioia della redenzione. Il dogma non era sentito come un vincolo esteriore, ma come la sorgente vitale, che rendeva possibili nuove conoscenze. La Chiesa per noi era viva soprattutto nella liturgia e nella grande ricchezza della tradizione teologica. Non abbiamo preso alla leggera l’esigenza del celibato, ma eravamo comunque convinti di poterci fidare dell’esperienza secolare della Chiesa e che quella rinuncia che essa ci chiedeva, e che penetrava fin nel profondo di noi, sarebbe divenuta feconda.

Mentre negli ambienti cattolici della Germania di allora c’era, in generale, un sereno consenso nei confronti del papato e una sincera venerazione per la grande figura di Pio XII, il clima che dominava nella nostra facoltà era un po’ più tiepido.

La teologia che noi apprendevamo era ampiamente segnata dal pensiero storico, così che lo stile delle dichiarazioni romane, più legato alla tradizione neoscolastica, suonava piuttosto estraneo. A questo contribuiva un po’ forse anche un certo orgoglio tedesco, per cui ritenevamo di saperne di più di “quelli laggiù”.

Anche le esperienze vissute dal nostro veneratissimo professor Maier suscitavano in noi dei dubbi sull’opportunità di certe dichiarazioni romane, tanto più che, nel frattempo, la teoria delle due fonti, a suo tempo rifiutata, era ormai divenuta di uso corrente. Ma questo tipo di riserve e di sentimenti non compromise in nessun momento il profondo assenso al primato petrino, nella forma in cui era stato definito dal concilio Vaticano I.

In questo contesto vorrei raccontare un episodio che mi sembra illuminare molto bene quella situazione.

Quando si era ormai prossimi alla definizione dogmatica dell’assunzione corporea di Maria in cielo, venne richiesto anche il parere delle facoltà teologiche di tutto il mondo. La risposta dei nostri docenti fu decisamente negativa. In questo giudizio si faceva sentire l’unilateralità di un pensiero che aveva un presupposto non solo e non tanto storico, ma storicistico. La tradizione veniva difatti identificata con ciò che era documentabile nei testi. Il patrologo Altaner, professore a Würzburg (ma a sua volta originario di Breslavia), aveva dimostrato con criteri scientificamente inoppugnabili che la dottrina dell’assunzione corporea di Maria in cielo era sconosciuta prima del quinto secolo: dunque non poteva far parte della “tradizione apostolica”, e questa fu la conclusione condivisa dai docenti di Monaco.

L’argomento è ineccepibile, se si intende la tradizione in senso stretto come trasmissione di contenuti e testi già fissati. Era la posizione sostenuta dai nostri docenti. Ma se si intende la tradizione come il processo vitale, con cui lo Spirito Santo ci introduce alla verità tutta intera e ci insegna a comprendere quel che prima non riuscivamo a percepire (cfr. Gv 16,12s), allora il “ricordarsi” successivo (cfr. Gv 16,4) può scorgere quel che prima non si era visto e pure era già dato, già “tramandato”, nella parola originaria.

Ma una prospettiva di questo genere era allora del tutto assente nel pensiero teologico tedesco. Nell’ambito del dialogo ecumenico, al cui vertice stavano l’arcivescovo di Paderborn, Jäger, e il vescovo luterano Stählin (soprattutto da questo circolo è nato poi il Consiglio per l’unità dei cristiani), all’incirca nel 1949 Gottlieb Söhngen si pronunciò appassionatamente contro la possibilità del dogma. In tale circostanza Eduard Schlink, professore di teologia sistematica a Heidelberg, gli chiese molto esplicitamente: «Che cosa farà se il dogma venisse comunque proclamato? Non dovrebbe voltare le spalle alla Chiesa cattolica?». Söhngen, dopo un attimo di riflessione, rispose: «Se il dogma sarà proclamato, mi ricorderò che la Chiesa è più saggia di me e che io ho più fiducia in lei che nella mia erudizione».

Credo che questa scena dica tutto sullo spirito con cui a Monaco si faceva teologia, in maniera critica ma credente.

Nell’estate del 1949 un’ala del Georgianum nella Ludwigstraße di Monaco fu resa sufficientemente abitabile. Anche nell’università, situata proprio di fronte al Georgianum, il numero di aule disponibili era cresciuto, così che potemmo ritornare in città. Notammo subito che c’era ancora molto da fare: alle nostre stanze, situate al terzo piano, si arrivava attraverso uno spazio all’aperto e, almeno all’inizio, salendo su una scala a pioli.

Ora era finalmente possibile frequentare anche le lezioni di altre facoltà, anche se l’approssimarsi degli esami finali poneva subito dei limiti a propositi di questo genere. Il vantaggio di abitare in città e di lavorare nella sede vera e propria dell’università era indubbio, ma io sperimentavo anche il lato negativo: a Fürstenried, noi tutti, docenti e discenti, tanto i seminaristi che gli studenti e le studentesse della città, eravamo vissuti insieme come una grande famiglia.

Ora ci mancavano questa immediatezza e questa vicinanza. Gli anni di Fürstenried restano nella mia memoria come un tempo di grandi novità, pieno di speranza e di fiduciosa attesa, ma anche come un tempo di grandi e sofferte decisioni. Quando mi capita di entrare in quel parco, rimasto ancor oggi intatto, le vie esteriori che lo attraversano si uniscono tanto strettamente a quelle interiori, che qui ho cominciato a percorrere, che quel che ho vissuto in quel luogo ritorna vivo e presente dinanzi a me in tutta la sua freschezza.

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