Magistero integrale Benedetto XVI per la Conversione di san Paolo

«non esiste un vero ecumenismo senza interiore conversione»

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CELEBRAZIONE DEI VESPRI
NELLA FESTA DELLA CONVERSIONE DI SAN PAOLO
A CONCLUSIONE DELLA SETTIMANA DI PREGHIERA
PER L’UNITÀ DEI CRISTIANI

OMELIA DI SUA SANTITÀ BENEDETTO XVI

Patriarcale Basilica di San Paolo fuori le Mura
Mercoledì, 25 gennaio 2006   

Cari fratelli e sorelle!

In questo giorno, nel quale si celebra la conversione dell’apostolo Paolo, concludiamo, riuniti in fraterna assemblea liturgica, l’annuale Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani. È significativo che la memoria della conversione dell’Apostolo delle genti coincida con la giornata finale di questa importante Settimana, in cui con particolare intensità domandiamo a Dio il dono prezioso dell’unità tra tutti i cristiani, facendo nostra l’invocazione che Gesù stesso elevò al Padre per i suoi discepoli: “Perché tutti siano una sola cosa. Come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi una cosa sola, perché il mondo creda che tu mi hai mandato” (Gv 17, 21). L’aspirazione di ogni Comunità cristiana e di ogni singolo fedele all’unità e la forza per realizzarla sono un dono dello Spirito Santo e vanno di pari passo con una sempre più profonda e radicale fedeltà al Vangelo (cfr Enc. Ut unum sint, 15). Ci rendiamo conto che alla base dell’impegno ecumenico c’è la conversione del cuore, come afferma chiaramente il Concilio Vaticano II: “Ecumenismo vero non c’è senza interiore conversione; poiché il desiderio dell’unità nasce e matura dal rinnovamento della mente, dall’abnegazione di se stessi e dalla liberissima effusione della carità” (Decr. Unitatis redintegratio, 7).

Deus caritas est (1 Gv 4, 8.16), Dio è amore. Su questa solida roccia poggia tutta intera la fede della Chiesa. In particolare, si basa su di essa la paziente ricerca della piena comunione tra tutti i discepoli di Cristo: fissando lo sguardo su questa verità, culmine della divina rivelazione, le divisioni, pur mantenendo la loro dolorosa gravità, appaiono superabili e non ci scoraggiano. Il Signore Gesù, che con il sangue della sua Passione ha abbattuto “il muro di separazione” dell'”inimicizia” (Ef 2, 14), non mancherà di concedere a quanti lo invocano con fede la forza per rimarginare ogni lacerazione. Ma occorre sempre ripartire da qui: Deus caritas est. Al tema dell’amore ho voluto dedicare la mia prima Enciclica, che proprio oggi è stata pubblicata e questa felice coincidenza con la conclusione della Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani ci invita a considerare questo nostro incontro, ma, ben più in là, tutto il cammino ecumenico nella luce dell’amore di Dio, dell’Amore che è Dio. Se già sotto il profilo umano l’amore si manifesta come una forza invincibile, che cosa dobbiamo dire noi, che “abbiamo riconosciuto e creduto all’amore che Dio ha per noi” (1 Gv 4, 16)? L’amore vero non annulla le legittime differenze, ma le armonizza in una superiore unità, che non viene imposta dall’esterno, ma che dall’interno dà forma, per così dire, all’insieme. È il mistero della comunione, che come unisce l’uomo e la donna in quella comunità d’amore e di vita che è il matrimonio, così forma la Chiesa quale comunità d’amore, componendo in unità una multiforme ricchezza di doni, di tradizioni. Al servizio di tale unità d’amore è posta la Chiesa di Roma che, secondo l’espressione di sant’Ignazio di Antiochia, “presiede alla carità” (Ad Rom 1, 1). Davanti a voi, cari fratelli e sorelle, desidero oggi rinnovare l’affidamento a Dio del mio peculiare ministero petrino, invocando su di esso la luce e la forza dello Spirito Santo, affinché favorisca sempre la fraterna comunione tra tutti i cristiani.

Il tema dell’amore lega in profondità le due brevi letture bibliche dell’odierna liturgia vespertina. Nella prima, la carità divina è la forza che trasforma la vita di Saulo di Tarso e ne fa l’Apostolo delle genti. Scrivendo ai cristiani di Corinto, san Paolo confessa che la grazia di Dio ha operato in lui l’evento straordinario della conversione: “Per grazia di Dio sono quello che sono, e la sua grazia in me non è stata vana” (1 Cor 15, 10). Da una parte sente il peso di essere stato di ostacolo alla diffusione del messaggio di Cristo, ma nel contempo vive nella gioia di avere incontrato il Signore risorto e di essere stato illuminato e trasformato dalla sua luce. Egli conserva una costante memoria di quell’evento che ha cambiato la sua esistenza, evento talmente importante per la Chiesa intera che negli Atti degli Apostoli vi si fa riferimento ben tre volte (cfr At 9, 3-9; 22, 6-11; 26, 12-18). Sulla via di Damasco, Saulo sentì lo sconvolgente interrogativo: “Perché mi perseguiti?”. Caduto a terra e interiormente turbato, domandò: “Chi sei, o Signore?”, ottenendo quella risposta che è alla base della sua conversione: “Io sono Gesù, che tu perseguiti” (At 9, 4-5). Paolo comprese in un istante ciò che avrebbe espresso poi nei suoi scritti, che la Chiesa forma un corpo unico di cui Cristo è il Capo. Così, da persecutore dei cristiani diventò l’Apostolo delle genti.

Nel brano evangelico di Matteo, che poc’anzi abbiamo ascoltato, l’amore opera come principio che unisce i cristiani e fa sì che la loro preghiera unanime venga esaudita dal Padre celeste. Dice Gesù: “Se due di voi sopra la terra si accorderanno per domandare qualunque cosa, il Padre mio che è nei cieli ve la concederà” (Mt 18, 19). Il verbo che l’evangelista usa per “si accorderanno” è synphōnēsōsin: c’è il riferimento ad una “sinfonia” dei cuori. È questo che ha presa sul cuore di Dio. L’accordo nella preghiera risulta dunque importante ai fini del suo accoglimento da parte del Padre celeste. Il chiedere insieme segna già un passo verso l’unità tra coloro che chiedono. Ciò non significa certamente che la risposta di Dio venga in qualche modo determinata dalla nostra domanda. Lo sappiamo bene: l’auspicato compimento dell’unità dipende in primo luogo dalla volontà di Dio, il cui disegno e la cui generosità superano la comprensione dell’uomo e le sue stesse richieste ed attese. Contando proprio sulla bontà divina, intensifichiamo la nostra preghiera comune per l’unità, che è un mezzo necessario e quanto mai efficace, come ha ricordato Giovanni Paolo II nell’Enciclica Ut unum sint: “Sulla via ecumenica verso l’unità, il primato spetta senz’altro alla preghiera comune, all’unione orante di coloro che si stringono insieme attorno a Cristo stesso” (n. 22).

Analizzando poi più profondamente questi versetti evangelici, comprendiamo meglio la ragione per cui il Padre risponderà positivamente alla domanda della comunità cristiana: “Perché – dice Gesù – dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro”. È la presenza di Cristo che rende efficace la preghiera comune di coloro che sono riuniti nel suo nome. Quando i cristiani si raccolgono per pregare, Gesù stesso è in mezzo a loro. Essi sono uno con Colui che è l’unico mediatore tra Dio e gli uomini. La Costituzione sulla Sacra Liturgia del Concilio Vaticano II si riferisce proprio a questo passo del Vangelo per indicare uno dei modi della presenza di Cristo: “Quando la Chiesa prega e canta i Salmi, è presente Lui che ha promesso: “Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io  sono in mezzo a loro” (Mt 18, 20)” (Sacrosanctum Concilium, 7).

Commentando questo testo dell’evangelista Matteo, san Giovanni Crisostomo si chiede: “Ebbene, non ci sono due o tre che si riuniscono nel suo nome? Ci sono – egli risponde – ma raramente” (Omelie sul Vangelo di Matteo, 60, 3). Questa sera provo un’immensa gioia nel vedere una così nutrita ed orante assemblea, che implora in modo “sinfonico” il dono dell’unità. A tutti e a ciascuno rivolgo il mio cordiale saluto. Saluto con particolare affetto i fratelli delle altre Chiese e Comunità ecclesiali di questa Città, uniti nell’unico battesimo, che ci fa membra dell’unico Corpo mistico di Cristo. Sono appena trascorsi 40 anni da quando, proprio in questa Basilica, il 5 dicembre del 1965, il Servo di Dio Paolo VI, di felice memoria, celebrò la prima preghiera comune, a conclusione del Concilio Vaticano II, con la solenne presenza dei Padri conciliari e la partecipazione attiva degli Osservatori delle altre Chiese e Comunità ecclesiali. In seguito, l’amato Giovanni Paolo II ha continuato con perseveranza la tradizione di concludere qui la Settimana di preghiera.

Sono certo che questa sera entrambi ci guardano dal Cielo e si uniscono alla nostra preghiera. Fra coloro che prendono parte a questa nostra assemblea vorrei specialmente salutare e ringraziare il gruppo dei delegati di Chiese, di Conferenze Episcopali, di Comunità cristiane e di organismi ecumenici che avviano la preparazione della Terza Assemblea Ecumenica Europea, in programma a Sìbiu, in Romania, nel settembre del 2007, sul tema: “La luce di Cristo illumina tutti. Speranza di rinnovamento e unità in Europa“. Sì, cari fratelli e sorelle, noi cristiani abbiamo il compito di essere, in Europa e tra tutti i popoli, “luce del mondo” (Mt 5, 14). Voglia Iddio concederci di raggiungere presto l’auspicata piena comunione. La ricomposizione della nostra unità darà maggiore efficacia all’evangelizzazione. L’unità è la nostra comune missione; è la condizione perché la luce di Cristo si diffonda più efficacemente in ogni angolo del mondo e gli uomini si convertano e siano salvati. Quanta strada sta dinanzi a noi! Eppure non perdiamo la fiducia, anzi con più lena riprendiamo il cammino insieme. Cristo ci precede e ci accompagna. Noi contiamo sulla sua indefettibile presenza; da Lui umilmente e instancabilmente imploriamo il prezioso dono dell’unità e della pace.


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NELLA FESTA DELLA CONVERSIONE DI SAN PAOLO
A CONCLUSIONE DELLA SETTIMANA DI PREGHIERA
PER L’UNITÀ DEI CRISTIANI

OMELIA DI SUA SANTITÀ BENEDETTO XVI

Basilica di San Paolo fuori le Mura
Giovedì, 25 gennaio 2007

Cari fratelli e sorelle!

Durante la “Settimana di preghiera”, che questa sera si conclude, si è intensificata, nelle varie Chiese e Comunità ecclesiali del mondo intero, la comune invocazione al Signore per l’unità dei cristiani. Abbiamo meditato insieme sulle parole del vangelo di Marco proclamate poc’anzi: “Fa udire i sordi e fa parlare i muti” (Mc 7,37), tema biblico proposto dalle Comunità cristiane del Sud Africa. Le situazioni di razzismo, di povertà, di conflitto, di sfruttamento, di malattia, di sofferenza, nelle quali esse si trovano, per la stessa impossibilità di farsi comprendere nei propri bisogni, suscitano in loro un acuta esigenza di ascoltare la parola di Dio e di parlare con coraggio. Essere sordomuto, non poter cioè né ascoltare né parlare, non può infatti essere un segno di mancanza di comunione e un sintomo di divisione? La divisione e l’incomunicabilità, conseguenza del peccato, sono contrarie al disegno di Dio. L’Africa ci ha offerto quest’anno un tema di riflessione di grande importanza religiosa e politica, perché “parlare” e “ascoltare” sono condizioni essenziali per costruire la civiltà dell’amore.

Le parole “Fa udire i sordi e fa parlare i muti” costituiscono una buona notizia, che annuncia la venuta del Regno di Dio e la guarigione dalla incomunicabilità e dalla divisione. Questo messaggio si ritrova in tutta la predicazione e l’opera di Gesù, il quale attraversava villaggi, città e campagne, e dovunque giungeva “ponevano gli infermi nelle piazze e lo pregavano di potergli toccare almeno la frangia del mantello; e quanti lo toccavano guarivano” (Mc 6,56). La guarigione del sordomuto, su cui abbiamo meditato in questi giorni, avviene mentre Gesù, lasciata la regione di Tiro, si dirige verso il lago di Galilea, attraversando la cosiddetta “Decapoli”, territorio multi–etnico e plurireligioso (cfr Mc 7,31). Una situazione emblematica anche per i nostri giorni. Come altrove, pure nella Decapoli presentano a Gesù un malato, un uomo sordo e difettoso nel parlare (moghìlalon) e lo pregano di imporgli le mani, perché lo considerano un uomo di Dio. Gesù conduce il sordomuto lontano dalla folla, e compie dei gesti che significano un contatto salvifico – pone le dita nelle orecchie, tocca con la propria saliva la lingua del malato –, e poi, volgendo lo sguardo al cielo, comanda: “Apriti!”. Pronuncia questo comando in aramaico (“Effatà”), verosimilmente la lingua delle persone presenti e dello stesso sordomuto, espressione che l’evangelista traduce in greco (dianoìchthēti). Le orecchie del sordo si aprirono, si sciolse il nodo della sua lingua: “e parlava correttamente” (orthōs). Gesù raccomanda che non si dica nulla del miracolo. Ma più lo raccomandava, “più essi ne parlavano” (Mc 7,36). Ed il commento meravigliato di quanti avevano assistito ricalca la predicazione di Isaia per l’avvento del Messia: “Fa udire i sordi e fa parlare i muti” (Mc 7,37).

Il primo insegnamento che traiamo da questo episodio biblico, richiamato anche nel rito del battesimo, è che, nella prospettiva cristiana, l’ascolto è prioritario. Al riguardo Gesù afferma in modo esplicito: “Beati coloro che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica” (Lc 11,28). Anzi, a Marta preoccupata per tante cose, Egli dice che “una sola è la cosa di cui c’è bisogno” (Lc 10,42). E dal contesto risulta che questa unica cosa è l’ascolto ubbidiente della Parola. Perciò l’ascolto della parola di Dio è prioritario per il nostro impegno ecumenico. Non siamo infatti noi a fare o ad organizzare l’unità della Chiesa. La Chiesa non fa se stessa e non vive di se stessa, ma della parola creatrice che viene dalla bocca di Dio. Ascoltare insieme la parola di Dio; praticare la lectio divina della Bibbia, cioè la lettura legata alla preghiera; lasciarsi sorprendere dalla novità, che mai invecchia e mai si esaurisce, della parola di Dio; superare la nostra sordità per quelle parole che non si accordano con i nostri pregiudizi e le nostre opinioni; ascoltare e studiare, nella comunione dei credenti di tutti i tempi; tutto ciò costituisce un cammino da percorrere per raggiungere l’unità nella fede, come risposta all’ascolto della Parola.

Chi si pone all’ascolto della parola di Dio può e deve poi parlare e trasmetterla agli altri, a coloro che non l’hanno mai ascoltata, o a chi l’ha dimenticata e sepolta sotto le spine delle preoccupazioni e degli inganni del mondo (cfr Mt 13,22). Dobbiamo chiederci: noi cristiani, non siamo diventati forse troppo muti? Non ci manca forse il coraggio di parlare e di testimoniare come hanno fatto coloro che erano i testimoni della guarigione del sordomuto nella Decapoli? Il nostro mondo ha bisogno di questa testimonianza; attende soprattutto la testimonianza comune dei cristiani. Perciò l’ascolto del Dio che parla implica anche l’ascolto reciproco, il dialogo tra le Chiese e le Comunità ecclesiali. Il dialogo onesto e leale costituisce lo strumento imprescindibile della ricerca dell’unità. Il Decreto sull’ecumenismo del Concilio Vaticano II ha sottolineato che se i cristiani non si conoscono reciprocamente non sono neppure immaginabili dei progressi sulla via della comunione. Nel dialogo infatti ci si ascolta e si comunica; ci si confronta e, con la grazia di Dio, si può convergere sulla sua Parola accogliendone le esigenze, che sono valide per tutti.

Nell’ascolto e nel dialogo i Padri conciliari non hanno intravisto un’utilità indirizzata esclusivamente al progresso ecumenico, ma hanno aggiunto una prospettiva riferita alla stessa Chiesa cattolica: “Da questo dialogo – afferma il testo del Concilio – apparirà anche più chiaramente quale sia la vera situazione della Chiesa cattolica” (Unitatis redintegratio, 9). E’ indispensabile certo “esporre con chiarezza tutta la dottrina” per un dialogo che affronti, discuta e superi le divergenze esistenti tra i cristiani, ma al tempo stesso “il modo ed il metodo di enunciare la fede cattolica non deve in alcun modo essere di ostacolo al dialogo con i fratelli” (ibid., 11). Bisogna parlare correttamente (orthōs) e in modo comprensibile. Il dialogo ecumenico comporta l’evangelica correzione fraterna e conduce a un reciproco arricchimento spirituale nella condivisione delle autentiche esperienze di fede e di vita cristiana. Perché ciò avvenga occorre implorare senza stancarsi l’assistenza della grazia di Dio e l’illuminazione dello Spirito Santo. E’ quanto i cristiani del mondo intero hanno fatto durante questa speciale “Settimana”, o faranno nella Novena che precede la Pentecoste, come pure in ogni circostanza opportuna, elevando la loro fiduciosa preghiera affinché tutti i discepoli di Cristo siano una cosa sola, e affinché, nell’ascolto della Parola, possano dare una testimonianza concorde agli uomini e alle donne del nostro tempo.

In questo clima di intensa comunione desidero rivolgere il mio cordiale saluto a tutti i presenti: al Signor Cardinale Arciprete di questa Basilica, al Signor Cardinale Presidente del Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani e agli altri Cardinali, ai venerati Fratelli nell’Episcopato e nel sacerdozio, ai Monaci benedettini, ai religiosi e alle religiose, ai laici che rappresentano l’intera comunità diocesana di Roma. In modo speciale vorrei salutare i fratelli delle altre Chiese e Comunità ecclesiali che prendono parte alla celebrazione, rinnovando la significativa tradizione di concludere insieme la “Settimana di Preghiera”, nel giorno in cui commemoriamo la folgorante conversione di san Paolo sulla via di Damasco. Sono lieto di sottolineare che il sepolcro dell’Apostolo delle genti, presso il quale ci troviamo, è stato recentemente oggetto di indagini e di studi, in seguito ai quali si è voluto renderlo visibile ai pellegrini, con un opportuno intervento sotto l’altare maggiore. Per questa importante iniziativa esprimo le mie congratulazioni. All’intercessione di san Paolo, infaticabile costruttore dell’unità della Chiesa, affido i frutti dell’ascolto e della testimonianza comune che abbiamo potuto sperimentare nei molti incontri fraterni e dialoghi avvenuti nel corso del 2006, tanto con le Chiese d’Oriente quanto con le Chiese e Comunità ecclesiali in Occidente. In questi eventi è stato possibile percepire la gioia della fraternità, insieme alla tristezza per le tensioni che permangono, conservando sempre la speranza che ci infonde il Signore. Ringraziamo quanti hanno contribuito ad intensificare il dialogo ecumenico con la preghiera, con l’offerta della loro sofferenza e con la loro infaticabile azione. E’ soprattutto al nostro Signore Gesù Cristo che rendiamo fervide grazie per tutto. La Vergine Maria faccia sì che quanto prima possa realizzarsi l’ardente anelito di unità del suo divin Figlio: “Che tutti siano una cosa sola… affinché il mondo creda” (Gv 17,21).


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NELLA FESTA DELLA CONVERSIONE DI SAN PAOLO
A CONCLUSIONE DELLA SETTIMANA DI PREGHIERA
PER L’UNITÀ DEI CRISTIANI

OMELIA DI SUA SANTITÀ BENEDETTO XVI

Basilica di San Paolo fuori le Mura
Venerdì, 25 gennaio 2008

Cari fratelli e sorelle,

la festa della Conversione di San Paolo ci pone nuovamente alla presenza di questo grande Apostolo, scelto da Dio per essere il suo “testimone davanti a tutti gli uomini” (At 22,15). Per Saulo di Tarso, il momento dell’incontro con Cristo risorto sulla via di Damasco segnò la svolta decisiva della vita. Si attuò allora la sua completa trasformazione, una vera e propria conversione spirituale. In un istante, per intervento divino, l’accanito persecutore della Chiesa di Dio si ritrovò cieco brancolante nel buio, ma con nel cuore ormai una grande luce che lo avrebbe portato, di lì a poco, ad essere un ardente apostolo del Vangelo. La consapevolezza che solo la grazia divina aveva potuto realizzare una simile conversione non abbandonò mai Paolo. Quando egli aveva già dato il meglio di sé, consacrandosi instancabilmente alla predicazione del Vangelo, scrisse con rinnovato fervore: “Ho faticato più di tutti loro, non io però, ma la grazia di Dio che è con me” (1 Cor 15,10). Infaticabile come se l’opera della missione dipendesse interamente dai suoi sforzi, San Paolo fu tuttavia animato sempre dalla profonda persuasione che tutta la sua forza proveniva dalla grazia di Dio operante in lui.

Questa sera, le parole dell’Apostolo sul rapporto tra sforzo umano e grazia divina risuonano colme di un significato del tutto particolare. A conclusione della Settimana di Preghiera per l’Unità dei Cristiani, siamo ancor più coscienti di quanto l’opera della ricomposizione dell’unità, che richiede ogni nostra energia e sforzo, sia comunque infinitamente superiore alle nostre possibilità. L’unità con Dio e con i nostri fratelli e sorelle è un dono che viene dall’Alto, che scaturisce dalla comunione d’amore tra Padre, Figlio e Spirito Santo e che in essa si accresce e si perfeziona. Non è in nostro potere decidere quando o come questa unità si realizzerà pienamente. Solo Dio potrà farlo! Come San Paolo, anche noi riponiamo la nostra speranza e fiducia “nella grazia di Dio che è con noi”. Cari fratelli e sorelle, questo vuole implorare la preghiera che insieme eleviamo al Signore, affinché sia Lui a illuminarci e sostenerci nella costante nostra ricerca di unità.

Ed ecco allora assumere il suo valore più pieno l’esortazione di Paolo ai cristiani di Tessalonica: “Pregate continuamente” (1 Ts 5,17), che è stata scelta come tema della Settimana di preghiera di quest’anno. L’Apostolo conosce bene quella comunità nata dalla sua attività missionaria, e nutre per essa grandi speranze. Ne conosce sia i meriti che le debolezze. Tra i suoi membri, infatti, non mancano comportamenti, atteggiamenti e dibattiti suscettibili di creare tensioni e conflitti, e Paolo interviene per aiutare la comunità a camminare nell’unità e nella pace. Alla conclusione dell’epistola, con una bontà quasi paterna, egli aggiunge una serie di esortazioni molto concrete, invitando i cristiani a favorire la partecipazione di tutti, a sostenere i deboli, ad essere pazienti, a non rendere male per male ad alcuno, a cercare sempre il bene, ad essere sempre lieti e a rendere grazie in ogni circostanza (cfr 1 Ts 5,12-22). Al centro di queste esortazioni, pone l’imperativo “pregate continuamente”. Gli altri ammonimenti perderebbero infatti forza e coerenza, se non fossero sostenuti dalla preghiera. L’unità con Dio e con gli altri si costruisce innanzitutto mediante una vita di preghiera, nella costante ricerca della “volontà di Dio in Cristo Gesù verso di noi” (cfr 1 Ts 5,18).

L’invito rivolto da San Paolo ai Tessalonicesi è sempre attuale. Davanti alle debolezze ed ai peccati che impediscono ancora la piena comunione dei cristiani, ognuna di queste esortazioni ha mantenuto la sua pertinenza, ma ciò è particolarmente vero per l’imperativo “pregate continuamente”. Che cosa diventerebbe il movimento ecumenico senza la preghiera personale o comune, affinché “tutti siano una cosa sola, come tu, Padre, sei in me ed io in te” (Gv 17,21)? Dove trovare lo “slancio supplementare” di fede, di carità e di speranza di cui ha oggi un particolare bisogno la nostra ricerca dell’unità? Il nostro desiderio di unità non dovrebbe limitarsi ad occasioni sporadiche, ma divenire parte integrante di tutta la nostra vita di preghiera. Sono stati uomini e donne formati nella Parola di Dio e nella preghiera gli artigiani della riconciliazione e dell’unità in ogni fase della storia. È il cammino della preghiera che ha aperto la strada al movimento ecumenico, così come lo conosciamo oggi. A partire dalla metà del XVIII secolo, sono emersi difatti vari movimenti di rinnovamento spirituale, desiderosi di contribuire per mezzo della preghiera alla promozione dell’unità dei cristiani. Fin dall’inizio, gruppi di cattolici, animati da personalità religiose di spicco, hanno partecipato attivamente a simili iniziative. La preghiera per l’unità è stata sostenuta anche da miei venerati Predecessori, come Papa Leone XIII, il quale, già nel 1895, raccomandava l’introduzione di una novena di preghiera per l’unità dei cristiani. Questi sforzi, compiuti secondo le possibilità della Chiesa del tempo, intendevano attuare la preghiera pronunciata da Gesù stesso nel Cenacolo “perché tutti siano una cosa sola” (Gv 17,21). Non esiste pertanto un ecumenismo genuino che non affondi le sue radici nella preghiera.

Quest’anno celebriamo il centesimo anniversario dell’”Ottavario per l’unità della Chiesa”, divenuto in seguito “Settimana di Preghiera per l’unità dei Cristiani”. Cento anni fa, Padre Paul Wattson, all’epoca ancora ministro episcopaliano, ideò un ottavario di preghiera per l’unità, che fu celebrato per la prima volta a Graymoor (New York) dal 18 al 25 gennaio 1908. Questa sera, è con grande gioia che rivolgo il mio saluto al Ministro Generale e alla delegazione internazionale dei Fratelli e delle Sorelle francescani dell’Atonement, Congregazione fondata da Padre Paul Wattson e promotrice della sua eredità spirituale. Negli anni trenta del secolo scorso, l’ottavario di preghiera conobbe importanti adattamenti dietro impulso soprattutto dell’Abbé Paul Couturier di Lione, anch’egli grande promotore dell’ecumenismo spirituale. Il suo invito a “pregare per l’unità della Chiesa così come Cristo la vuole e secondo i mezzi che Lui vuole”, permise a cristiani di tutte le tradizioni di unirsi in una sola preghiera per l’unità. Rendiamo grazie a Dio per il grande movimento di preghiera che, da cento anni, accompagna e sostiene i credenti in Cristo nella loro ricerca di unità. La barca dell’ecumenismo non sarebbe mai uscita dal porto se non fosse stata mossa da quest’ampia corrente di preghiera e spinta dal soffio dello Spirito Santo.

Congiuntamente alla Settimana di preghiera, molte comunità religiose e monastiche hanno invitato ed aiutato i loro membri a “pregare continuamente” per l’unità dei cristiani. In questa occasione che ci vede riuniti, ricordiamo in particolare la vita e la testimonianza di Suor Maria Gabriella dell’Unità (1914-1936), suora trappista del monastero di Grottaferrata (attualmente a Vitorchiano). Quando la sua superiora, incoraggiata dall’Abbé Paul Couturier, invitò le sorelle a pregare e a fare dono di sé per l’unità dei cristiani, Suor Maria Gabriella si sentì immediatamente coinvolta e non esitò a dedicare la sua giovane esistenza a questa grande causa. Oggi stesso ricorre il venticinquesimo anniversario della sua beatificazione da parte del mio predecessore, Papa Giovanni Paolo II. Quell’evento ebbe luogo in questa Basilica precisamente il 25 gennaio 1983, durante la celebrazione di chiusura della Settimana di Preghiera per l’Unità. Nella sua omelia, il Servo di Dio ebbe a sottolineare i tre elementi su cui si costruisce la ricerca dell’unità: la conversione, la croce e la preghiera. Su questi tre elementi si fondarono anche la vita e la testimonianza di Suor Maria Gabriella. L’ecumenismo ha un forte bisogno, oggi come ieri, del grande “monastero invisibile” di cui parlava l’Abbé Paul Couturier, di quella vasta comunità di cristiani di tutte le tradizioni che, senza clamore, pregano ed offrono la loro vita affinché si realizzi l’unità.

Inoltre, da quarant’anni esatti, le comunità cristiane di tutto il mondo ricevono per la Settimana meditazioni e preghiere preparate congiuntamente dalla Commissione “Fede e Costituzione” del Consiglio Ecumenico delle Chiese e dal Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani. Questa felice collaborazione ha permesso di ampliare il vasto circolo di preghiera e preparare i suoi contenuti in maniera più adeguata. Questa sera, saluto cordialmente il Rev. Dott. Samuel Kobia, Segretario Generale del Consiglio Ecumenico delle Chiese, che è venuto a Roma per unirsi a noi nel centenario della Settimana di preghiera. Sono lieto per la presenza dei membri del “Gruppo Misto di Lavoro”, che saluto con affetto. Il Gruppo Misto è lo strumento di cooperazione tra la Chiesa cattolica ed il Consiglio Ecumenico delle Chiese nella nostra ricerca comune di unità. E, come ogni anno, rivolgo il mio saluto fraterno anche ai vescovi, ai sacerdoti, ai pastori delle diverse Chiese e Comunità ecclesiali che hanno qui a Roma i loro rappresentanti. La vostra partecipazione a questa preghiera è espressione tangibile dei legami che ci uniscono in Cristo Gesù: “Perché dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro” (Mt 18,20).

In questa storica Basilica, il 28 giugno prossimo, si aprirà l’anno consacrato alla testimonianza e all’insegnamento dell’apostolo Paolo. Che il suo instancabile fervore nel costruire il Corpo di Cristo nell’unità ci aiuti a pregare incessantemente per la piena unità di tutti i cristiani! Amen!


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NELLA FESTA DELLA CONVERSIONE DI SAN PAOLO
A CONCLUSIONE DELLA SETTIMANA DI PREGHIERA
PER L’UNITÀ DEI CRISTIANI

OMELIA DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI

Basilica di San Paolo fuori le Mura
Domenica, 25 gennaio 2009

Cari fratelli e sorelle,

è grande ogni volta la gioia di ritrovarci presso il sepolcro dell’apostolo Paolo, nella memoria liturgica della sua Conversione, per concludere la Settimana di Preghiera per l’Unità dei Cristiani. Vi saluto tutti con affetto. In modo particolare saluto il Cardinale Cordero Lanza di Montezemolo, l’Abate e la Comunità dei monaci che ci ospitano. Saluto pure il Cardinale Kasper, Presidente del Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani. Con lui saluto i Signori Cardinali presenti, i Vescovi e i Pastori delle diverse Chiese e Comunità ecclesiali, qui convenuti stasera. Una parola di speciale riconoscenza va a quanti hanno collaborato nella preparazione dei sussidi per la preghiera, vivendo in prima persona l’esercizio del riflettere e confrontarsi nell’ascolto gli uni degli altri e, tutti insieme, della Parola di Dio.

La conversione di san Paolo ci offre il modello e ci indica la via per andare verso la piena unità. L’unità infatti richiede una conversione: dalla divisione alla comunione, dall’unità ferita a quella risanata e piena. Questa conversione è dono di Cristo risorto, come avvenne per san Paolo. Lo abbiamo sentito dalle stesse parole dell’Apostolo nella lettura poc’anzi proclamata: “Per grazia di Dio sono quello che sono” (1 Cor 15,10). Lo stesso Signore, che chiamò Saulo sulla via di Damasco, si rivolge ai membri della sua Chiesa – che è una e santa – e chiamando ciascuno per nome domanda: perché mi hai diviso? perché hai ferito l’unità del mio corpo? La conversione implica due dimensioni. Nel primo passo si conoscono e riconoscono nella luce di Cristo le colpe, e questo riconoscimento diventa dolore e pentimento, desiderio di un nuovo inizio.

Nel secondo passo si riconosce che questo nuovo cammino non può venire da noi stessi. Consiste nel farsi conquistare da Cristo. Come dice san Paolo: “ … mi sforzo di correre per conquistarlo, perché anch’io sono stato conquistato da Gesù Cristo” (Fil 3,12). La conversione esige il nostro sì, il mio “correre”; non è ultimamente un’attività mia, ma dono, un lasciarsi formare da Cristo; è morte e risurrezione. Perciò san Paolo non dice: “Mi sono convertito”, ma dice “sono morto” (Gal 2,19), sono una nuova creatura. In realtà, la conversione di san Paolo non fu un passaggio dall’immoralità alla moralità – la sua moralità era alta -, da una fede sbagliata ad una fede corretta – la sua fede era vera, benché incompleta -, ma fu l’essere conquistato dall’amore di Cristo: la rinuncia alla propria perfezione, fu l’umiltà di chi si mette senza riserva al servizio di Cristo per i fratelli. E solo in questa rinuncia a noi stessi, in questa conformità con Cristo possiamo essere uniti anche tra di noi, possiamo diventare “uno” in Cristo. E’ la comunione col Cristo risorto che ci dona l’unità.

Possiamo osservare un’interessante analogia con la dinamica della conversione di san Paolo anche meditando sul testo biblico del profeta Ezechiele (37,15-28) prescelto quest’anno come base della nostra preghiera. In esso, infatti, viene presentato il gesto simbolico dei due legni riuniti in uno nella mano del profeta, che con questo gesto rappresenta l’azione futura di Dio. E’ la seconda parte del capitolo 37, che nella prima parte contiene la celebre visione delle ossa aride e della risurrezione d’Israele, operata dallo Spirito di Dio. Come non notare che il segno profetico della riunificazione del popolo d’Israele viene posto dopo il grande simbolo delle ossa aride vivificate dallo Spirito? Ne deriva uno schema teologico analogo a quello della conversione di san Paolo: al primo posto sta la potenza di Dio, che col suo Spirito opera la risurrezione come una nuova creazione. Questo Dio, che è il Creatore ed è in grado di risuscitare i morti, è anche capace di ricondurre all’unità il popolo diviso in due. Paolo – come e più di Ezechiele – diventa strumento eletto della predicazione dell’unità conquistata da Gesù mediante la croce e la risurrezione: l’unità tra i giudei e i pagani, per formare un solo popolo nuovo. La risurrezione di Cristo quindi estende il perimetro dell’unità: non solo unità delle tribù di Israele, ma unità di ebrei e pagani (cfr Ef 2; Gv 10,16); unificazione dell’umanità dispersa dal peccato e ancor più unità di tutti i credenti in Cristo.

La scelta di questo brano del profeta Ezechiele la dobbiamo ai fratelli della Corea, i quali si sono sentiti fortemente interpellati da questa pagina biblica, sia in quanto coreani, sia in quanto cristiani. Nella divisione del popolo ebreo in due regni si sono rispecchiati come figli di un’unica terra, che le vicende politiche hanno separato, parte al nord e parte al sud. E questa loro esperienza umana li ha aiutati a comprendere meglio il dramma della divisione tra i cristiani. Ora, alla luce di questa Parola di Dio che i nostri fratelli coreani hanno scelto e proposto a tutti, emerge una verità piena di speranza: Dio promette al suo popolo una nuova unità, che deve essere segno e strumento di riconciliazione e di pace anche sul piano storico, per tutte le nazioni. L’unità che Dio dona alla sua Chiesa, e per la quale noi preghiamo, è naturalmente la comunione in senso spirituale, nella fede e nella carità; ma noi sappiamo che questa unità in Cristo è fermento di fraternità anche sul piano sociale, nei rapporti tra le nazioni e per l’intera famiglia umana. E’ il lievito del Regno di Dio che fa crescere tutta la pasta (cfr Mt 13,33). In questo senso, la preghiera che eleviamo in questi giorni, riferendoci alla profezia di Ezechiele, si è fatta anche intercessione per le diverse situazioni di conflitto che al presente affliggono l’umanità. Là dove le parole umane diventano impotenti, perché prevale il tragico rumore della violenza e delle armi, la forza profetica della Parola di Dio non viene meno e ci ripete che la pace è possibile, e che dobbiamo essere noi strumenti di riconciliazione e di pace. Perciò la nostra preghiera per l’unità e per la pace chiede sempre di essere comprovata da gesti coraggiosi di riconciliazione tra noi cristiani. Penso ancora alla Terra Santa: quanto è importante che i fedeli che vivono là, come pure i pellegrini che vi si recano, offrano a tutti la testimonianza che la diversità dei riti e delle tradizioni non dovrebbe costituire un ostacolo al mutuo rispetto e alla carità fraterna. Nelle diversità legittime di tradizoni diverse dobbiamo cercare l’unità nella fede, nel nostro “sì” fondamentale a Cristo e alla sua unica Chiesa. E così le diversità non saranno più ostacolo che ci separa, ma ricchezza nella molteplicità delle espressioni della fede comune.

Vorrei concludere questa mia riflessione facendo riferimento ad un avvenimento che i più anziani tra noi certamente non dimenticano. Il 25 gennaio del 1959, esattamente cinquant’anni or sono, il beato Papa Giovanni XXIII manifestò per la prima volta in questo luogo la sua volontà di convocare “un Concilio ecumenico per la Chiesa universale” (AAS LI [1959], p. 68). Fece questo annuncio ai Padri Cardinali, nella Sala capitolare del Monastero di San Paolo, dopo aver celebrato la Messa solenne nella Basilica. Da quella provvida decisione, suggerita al mio venerato Predecessore, secondo la sua ferma convinzione, dallo Spirito Santo, è derivato anche un fondamentale contributo all’ecumenismo, condensato nel Decreto Unitatis redintegratio. In esso, tra l’altro, si legge: “Ecumenismo vero non c’è senza interiore conversione; poiché il desiderio dell’unità nasce e matura dal rinnovamento della mente (cfr Ef 4,23), dall’abnegazione di se stesso e dalla liberissima effusione della carità” (n. 7). L’atteggiamento di conversione interiore in Cristo, di rinnovamento spirituale, di accresciuta carità verso gli altri cristiani ha dato luogo ad una nuova situazione nelle relazioni ecumeniche. I frutti dei dialoghi teologici, con le loro convergenze e con la più precisa identificazione delle divergenze che ancora permangono, spingono a proseguire coraggiosamente in due direzioni: nella ricezione di quanto positivamente è stato raggiunto e in un rinnovato impegno verso il futuro. Opportunamente il Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani, che ringrazio per il servizio che rende alla causa dell’unità di tutti i discepoli del Signore, ha recentemente riflettuto sulla ricezione e sul futuro del dialogo ecumenico.

Tale riflessione, se da una parte vuole giustamente valorizzare quanto è stato acquisito, dall’altra intende trovare nuove vie per la continuazione delle relazioni fra le Chiese e Comunità ecclesiali nel contesto attuale. Rimane aperto davanti a noi l’orizzonte della piena unità. Si tratta di un compito arduo, ma entusiasmante per i cristiani che vogliono vivere in sintonia con la preghiera del Signore: “che tutti siano uno, affinché il mondo creda” (Gv 17,21). Il Concilio Vaticano II ci ha prospettato che “il santo proposito di riconciliare tutti i cristiani nell’unità della Chiesa di Cristo, una e unica, supera le forze e le doti umane” (UR, 24). Facendo affidamento sulla preghiera del Signore Gesù Cristo, e incoraggiati dai significativi passi compiuti dal movimento ecumenico, invochiamo con fede lo Spirito Santo perché continui ad illuminare e guidare il nostro cammino. Ci sproni e ci assista dal cielo l’apostolo Paolo, che tanto ha faticato e sofferto per l’unità del corpo mistico di Cristo; ci accompagni e ci sostenga la Beata Vergine Maria, Madre dell’unità della Chiesa.


0 122CELEBRAZIONE DEI VESPRI
A CONCLUSIONE DELLA SETTIMANA DI PREGHIERA
PER L’UNITÀ DEI CRISTIANI

OMELIA DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI

Festa della Conversione di San Paolo Apostolo
Basilica di San Paolo fuori le Mura
Lunedì, 25 gennaio 2010
 

Cari fratelli e sorelle,

riuniti in fraterna assemblea liturgica, nella festa della conversione dell’apostolo Paolo, concludiamo oggi l’annuale Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani. Vorrei salutare voi tutti con affetto e, in particolare, il Cardinale Walter Kasper, Presidente del Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani, e l’Arciprete di questa Basilica, Mons. Francesco Monterisi, con l’Abate e la Comunità dei monaci, che ci ospitano. Rivolgo, altresì, il mio cordiale pensiero ai Signori Cardinali presenti, ai Vescovi ed a tutti i rappresentanti delle Chiese e delle Comunità ecclesiali della Città, qui convenuti.

Non sono passati molti mesi da quando si è concluso l’Anno dedicato a San Paolo, che ci ha offerto la possibilità di approfondire la sua straordinaria opera di predicatore del Vangelo, e, come ci ha ricordato il tema della Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani – “Di questo voi siete testimoni” (Lc 24,48) -, la nostra chiamata ad essere missionari del Vangelo. Paolo, pur serbando viva ed intensa memoria del proprio passato di persecutore dei cristiani, non esita a chiamarsi Apostolo. A fondamento di tale titolo, vi è per lui l’incontro con il Risorto sulla via di Damasco, che diventa anche l’inizio di una instancabile attività missionaria, in cui spenderà ogni sua energia per annunciare a tutte le genti quel Cristo che aveva personalmente incontrato. Così Paolo, da persecutore della Chiesa, diventerà egli stesso vittima di persecuzione a causa del Vangelo a cui dava testimonianza: “Cinque volte dai Giudei ho ricevuto i quaranta colpi meno uno; tre volte sono stato battuto con le verghe, una volta sono stato lapidato… Viaggi innumerevoli, pericoli di fiumi, pericoli di briganti, pericoli dai miei connazionali, pericoli dai pagani, pericoli nella città, pericoli nel deserto, pericoli sul mare, pericoli da parte di falsi fratelli; disagi e fatiche, veglie senza numero, fame e sete, frequenti digiuni, freddo e nudità. Oltre a tutto questo, il mio assillo quotidiano, la preoccupazione per tutte le Chiese” (2 Cor 11,24-25.26-28). La testimonianza di Paolo raggiungerà il culmine nel suo martirio quando, proprio non lontano da qui, darà prova della sua fede nel Cristo che vince la morte.

La dinamica presente nell’esperienza di Paolo è la stessa che troviamo nella pagina del Vangelo che abbiamo appena ascoltato. I discepoli di Emmaus, dopo aver riconosciuto il Signore risorto, tornano a Gerusalemme e trovano gli Undici riuniti insieme con gli altri. Il Cristo risorto appare loro, li conforta, vince il loro timore, i loro dubbi, si fa loro commensale e apre il loro cuore all’intelligenza delle Scritture, ricordando quanto doveva accadere e che costituirà il nucleo centrale dell’annuncio cristiano. Gesù afferma: “Così sta scritto: il Cristo patirà e risorgerà dai morti il terzo giorno, e nel suo nome saranno predicati a tutti i popoli la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme” (Lc 24,46-47). Questi sono gli eventi dei quali renderanno testimonianza innanzitutto i discepoli della prima ora e, in seguito, i credenti in Cristo di ogni tempo e di ogni luogo. E’ importante, però, sottolineare che questa testimonianza, allora come oggi, nasce dall’incontro col Risorto, si nutre del rapporto costante con Lui, è animata dall’amore profondo verso di Lui. Solo chi ha fatto esperienza di sentire il Cristo presente e vivo – “Guardate le mie mani e i miei piedi: sono proprio io!” (Lc 24,39) -, di sedersi a mensa con Lui, di ascoltarlo perché faccia ardere il cuore, può essere Suo testimone! Per questo, Gesù promette ai discepoli e a ciascuno di noi una potente assistenza dall’alto, una nuova presenza, quella dello Spirito Santo, dono del Cristo risorto, che ci guida alla verità tutta intera: “Ed ecco, io mando su di voi colui che il Padre mio ha promesso” (Lc 24,49). Gli Undici spenderanno tutta la vita per annunciare la buona notizia della morte e risurrezione del Signore e quasi tutti sigilleranno la loro testimonianza con il sangue del martirio, seme fecondo che ha prodotto un raccolto abbondante.

La scelta del tema della Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani di quest’anno, l’invito, cioè, ad una testimonianza comune del Cristo risorto secondo il mandato che Egli ha affidato ai discepoli, è legata al ricordo del centesimo anniversario della Conferenza missionaria di Edimburgo in Scozia, che viene considerato da molti come un evento determinante per la nascita del movimento ecumenico moderno. Nell’estate del 1910, nella capitale scozzese si incontrarono oltre mille missionari, appartenenti a diversi rami del Protestantesimo e dell’Anglicanesimo, a cui si unì un ospite ortodosso, per riflettere insieme sulla necessità di giungere all’unità per annunciare credibilmente il Vangelo di Gesù Cristo. Infatti, è proprio il desiderio di annunciare agli altri il Cristo e di portare al mondo il suo messaggio di riconciliazione che fa sperimentare la contraddizione della divisione dei cristiani. Come potranno, infatti, gli increduli accogliere l’annuncio del Vangelo se i cristiani, sebbene si richiamino tutti al medesimo Cristo, sono in disaccordo tra loro? Del resto, come sappiamo, lo stesso Maestro, al termine dell’Ultima Cena, aveva pregato il Padre per i suoi discepoli: “Che tutti siano una sola cosa… perché il mondo creda” (Gv 17,21). La comunione e l’unità dei discepoli di Cristo è, dunque, condizione particolarmente importante per una maggiore credibilità ed efficacia della loro testimonianza.

Ad un secolo di distanza dall’evento di Edimburgo, l’intuizione di quei coraggiosi precursori è ancora attualissima. In un mondo segnato dall’indifferenza religiosa, e persino da una crescente avversione nei confronti della fede cristiana, è necessaria una nuova, intensa, attività di evangelizzazione, non solo tra i popoli che non hanno mai conosciuto il Vangelo, ma anche in quelli in cui il Cristianesimo si è diffuso e fa parte della loro storia. Non mancano, purtroppo, questioni che ci separano gli uni dagli altri e che speriamo possano essere superate attraverso la preghiera e il dialogo, ma c’è un contenuto centrale del messaggio di Cristo che possiamo annunciare assieme: la paternità di Dio, la vittoria di Cristo sul peccato e sulla morte con la sua croce e risurrezione, la fiducia nell’azione trasformatrice dello Spirito. Mentre siamo in cammino verso la piena comunione, siamo chiamati ad offrire una testimonianza comune di fronte alle sfide sempre più complesse del nostro tempo, quali la secolarizzazione e l’indifferenza, il relativismo e l’edonismo, i delicati temi etici riguardanti il principio e la fine della vita, i limiti della scienza e della tecnologia, il dialogo con le altre tradizioni religiose. Vi sono poi ulteriori campi nei quali dobbiamo sin da ora dare una comune testimonianza: la salvaguardia del Creato, la promozione del bene comune e della pace, la difesa della centralità della persona umana, l’impegno per sconfiggere le miserie del nostro tempo, quali la fame, l’indigenza, l’analfabetismo, la non equa distribuzione dei beni.

L’impegno per l’unità dei cristiani non è compito solo di alcuni, né attività accessoria per la vita della Chiesa. Ciascuno è chiamato a dare il suo apporto per compiere quei passi che portino verso la comunione piena tra tutti i discepoli di Cristo, senza mai dimenticare che essa è innanzitutto dono di Dio da invocare costantemente. Infatti, la forza che promuove l’unità e la missione sgorga dall’incontro fecondo e appassionante col Risorto, come avvenne per San Paolo sulla via di Damasco e per gli Undici e gli altri discepoli riuniti a Gerusalemme. La Vergine Maria, Madre della Chiesa, faccia sì che quanto prima possa realizzarsi il desiderio del Suo Figlio: “Che tutti siano una sola cosa… perché il mondo creda” (Gv 17,21).


0 9CELEBRAZIONE DEI VESPRI
A CONCLUSIONE DELLA SETTIMANA DI PREGHIERA
PER L’UNITÀ DEI CRISTIANI

OMELIA DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI

Festa della Conversione di San Paolo Apostolo
Basilica di San Paolo fuori le Mura
Martedì, 25 gennaio 2011

Cari fratelli e sorelle,

Seguendo l’esempio di Gesù, che alla vigilia della sua passione pregò il Padre per i suoi discepoli “perché tutti siano una sola cosa” (Gv 17,21), i cristiani continuano incessantemente ad invocare da Dio il dono dell’unità. Questa richiesta si fa più intensa durante la Settimana di Preghiera, che oggi si conclude, quando le Chiese e Comunità ecclesiali meditano e pregano insieme per l’unità di tutti i cristiani. Quest’anno il tema offerto alla nostra meditazione è stato proposto dalle Comunità cristiane di Gerusalemme, alle quali vorrei esprimere il mio vivo ringraziamento, accompagnato dall’assicurazione dell’affetto e della preghiera sia da parte mia che di tutta la Chiesa. I cristiani della Città Santa ci invitano a rinnovare e rafforzare il nostro impegno per il ristabilimento della piena unità meditando sul modello di vita dei primi discepoli di Cristo riuniti a Gerusalemme: “Essi – leggiamo negli Atti degli Apostoli – erano perseveranti nell’insegnamento degli apostoli e nella comunione, nello spezzare il pane e nelle preghiere” (At 2,42). È questo il ritratto della prima comunità, nata a Gerusalemme il giorno stesso di Pentecoste, suscitata dalla predicazione che l’Apostolo Pietro, ripieno di Spirito Santo, rivolge a tutti coloro che erano giunti nella Città Santa per la festa. Una comunità non chiusa in se stessa, ma, sin dal suo nascere, cattolica, universale, capace di abbracciare genti di lingue e di culture diverse, come lo stesso libro degli Atti degli Apostoli ci testimonia. Una comunità non fondata su un patto tra i suoi membri, né dalla semplice condivisione di un progetto o di un’ideale, ma dalla comunione profonda con Dio, che si è rivelato nel suo Figlio, dall’incontro con il Cristo morto e risorto.

In un breve sommario, che conclude il capitolo iniziato con la narrazione della discesa dello Spirito Santo nel giorno di Pentecoste, l’evangelista Luca presenta sinteticamente la vita di questa prima comunità: quanti avevano accolto la parola predicata da Pietro ed erano stati battezzati, ascoltavano la Parola di Dio, trasmessa dagli Apostoli; stavano volentieri insieme, facendosi carico dei servizi necessari e condividendo liberamente e generosamente i beni materiali; celebravano il sacrificio di Cristo sulla Croce, il suo mistero di morte e risurrezione, nell’Eucaristia, ripetendo il gesto dello spezzare il pane; lodavano e ringraziavano continuamente il Signore, invocando il suo aiuto nelle difficoltà. Questa descrizione, però, non è semplicemente un ricordo del passato e nemmeno la presentazione di un esempio da imitare o di una meta ideale da raggiungere. Essa è piuttosto affermazione della presenza e dell’azione dello Spirito Santo nella vita della Chiesa. È un’attestazione, piena di fiducia, che lo Spirito Santo, unendo tutti in Cristo, è il principio dell’unità della Chiesa e fa dei credenti una sola cosa.

L’insegnamento degli Apostoli, la comunione fraterna, lo spezzare il pane e la preghiera sono le forme concrete di vita della prima comunità cristiana di Gerusalemme riunita dall’azione dello Spirito Santo, ma al tempo stesso costituiscono i tratti essenziali di tutte le comunità cristiane, di ogni tempo e di ogni luogo. In altri termini, potremmo dire che essi rappresentano anche le dimensioni fondamentali dell’unità del Corpo visibile della Chiesa.

Dobbiamo essere riconoscenti perché, nel corso degli ultimi decenni, il movimento ecumenico, “sorto per impulso della grazia dello Spirito Santo” (Unitatis redintegratio, 1), ha fatto significativi passi in avanti, che hanno reso possibile raggiungere incoraggianti convergenze e consensi su svariati punti, sviluppando tra le Chiese e le Comunità ecclesiali rapporti di stima e rispetto reciproco, come pure di collaborazione concreta di fronte alle sfide del mondo contemporaneo. Sappiamo bene, tuttavia, che siamo ancora lontani da quella unità per la quale Cristo ha pregato e che troviamo riflessa nel ritratto della prima comunità di Gerusalemme. L’unità alla quale Cristo, mediante il suo Spirito, chiama la Chiesa non si realizza solo sul piano delle strutture organizzative, ma si configura, ad un livello molto più profondo, come unità espressa “nella confessione di una sola fede, nella comune celebrazione del culto divino e nella fraterna concordia della famiglia di Dio” (ibid., 2). La ricerca del ristabilimento dell’unità tra i cristiani divisi non può pertanto ridursi ad un riconoscimento delle reciproche differenze ed al conseguimento di una pacifica convivenza: ciò a cui aneliamo è quell’unità per cui Cristo stesso ha pregato e che per sua natura si manifesta nella comunione della fede, dei sacramenti, del ministero. Il cammino verso questa unità deve essere avvertito come imperativo morale, risposta ad una precisa chiamata del Signore. Per questo occorre vincere la tentazione della rassegnazione e del pessimismo, che è mancanza di fiducia nella potenza dello Spirito Santo. Il nostro dovere è proseguire con passione il cammino verso questa meta con un dialogo serio e rigoroso per approfondire il comune patrimonio teologico, liturgico e spirituale; con la reciproca conoscenza; con la formazione ecumenica delle nuove generazioni e, soprattutto, con la conversione del cuore e con la preghiera. Infatti, come ha dichiarato il Concilio Vaticano II, il “santo proposito di riconciliare tutti i cristiani nell’unità di una sola e unica Chiesa di Cristo, supera le forze e le doti umane” e, perciò, la nostra speranza va riposta per prima cosa “nell’orazione di Cristo per la Chiesa, nell’amore del Padre per noi e nella potenza dello Spirito Santo” (ibid., 24).

In questo cammino di ricerca della piena unità visibile tra tutti i cristiani ci accompagna e ci sostiene l’Apostolo Paolo, del quale quest’oggi celebriamo solennemente la Festa della Conversione. Egli, prima che gli apparisse il Risorto sulla via di Damasco dicendogli: “Io sono Gesù, che tu perseguiti!” (At 9,5), era uno tra i più accaniti avversari delle prime comunità cristiane. L’evangelista Luca descrive Saulo tra coloro che approvarono l’uccisione di Stefano, nei giorni in cui scoppiò una violenta persecuzione contro i cristiani di Gerusalemme (cfr At 8,1). Dalla Città Santa Saulo partì per estendere la persecuzione dei cristiani fino in Siria e, dopo la sua conversione, vi ritornò per essere introdotto presso gli Apostoli da Barnaba, il quale si fece garante dell’autenticità del suo incontro con il Signore. Da allora Paolo fu ammesso, non solo come membro della Chiesa, ma anche come predicatore del Vangelo assieme agli altri Apostoli, avendo ricevuto, come loro, la manifestazione del Signore Risorto e la chiamata speciale ad essere “strumento eletto” per portare il suo nome dinanzi ai popoli (cfr At 9,15). Nei suoi lunghi viaggi missionari Paolo, peregrinando per città e regioni diverse, non dimenticò mai il legame di comunione con la Chiesa di Gerusalemme. La colletta in favore dei cristiani di quella comunità, i quali, molto presto, ebbero bisogno di essere soccorsi (cfr 1Cor 16,1), occupò un posto importante nelle preoccupazioni di Paolo, che la considerava non solo un’opera di carità, ma il segno e la garanzia dell’unità e della comunione tra le Chiese da lui fondate e quella primitiva Comunità della Città Santa, un segno dell’unità dell’unica Chiesa di Cristo.

In questo clima di intensa preghiera, desidero rivolgere il mio cordiale saluto a tutti i presenti: al Cardinale Francesco Monterisi, Arciprete di questa Basilica, al Cardinale Kurt Koch, Presidente del Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani, e agli altri Cardinali, ai Fratelli nell’episcopato e nel sacerdozio, all’Abate ed ai monaci benedettini di questa antica comunità, ai religiosi e alle religiose, ai laici che rappresentano l’intera comunità diocesana di Roma. In modo speciale vorrei salutare i Fratelli e le Sorelle delle altre Chiese e Comunità ecclesiali qui rappresentate questa sera. Tra essi mi è particolarmente gradito rivolgere il mio saluto ai membri della Commissione mista internazionale per il dialogo teologico tra la Chiesa cattolica e le Chiese Orientali Ortodosse, la cui riunione si svolge qui a Roma in questi giorni. Affidiamo al Signore il buon successo del vostro incontro, perché possa rappresentare un passo in avanti verso la tanto auspicata unità.

Einen besonderen Gruß möchte ich auch an die Vertreter der Vereinigten Evangelisch-Lutherischen Kirche Deutschlands richten, die unter der Leitung des bayerischen Landesbischofs nach Rom gekommen sind.

Cari fratelli e sorelle, fiduciosi nell’intercessione della Vergine Maria, Madre di Cristo e Madre della Chiesa, invochiamo, dunque, il dono dell’unità. Uniti a Maria, che il giorno di Pentecoste era presente nel Cenacolo insieme agli Apostoli, ci rivolgiamo a Dio fonte di ogni dono perché si rinnovi per noi oggi il miracolo della Pentecoste e, guidati dallo Spirito Santo, tutti i cristiani ristabiliscano la piena unità in Cristo. Amen.


01 bene 2CELEBRAZIONE DEI VESPRI A CONCLUSIONE
DELLA SETTIMANA DI PREGHIERA
PER L’UNITÀ DEI CRISTIANI

OMELIA DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI

Festa della Conversione di San Paolo Apostolo
Basilica di San Paolo fuori le Mura
Mercoledì, 25 gennaio 2012

Cari fratelli e sorelle!

È con grande gioia che rivolgo il mio caloroso saluto a tutti voi che vi siete radunati in questa Basilica nella Festa liturgica della Conversione di San Paolo, per concludere la Settimana di Preghiera per l’Unità dei Cristiani, in quest’anno nel quale celebreremo il cinquantesimo anniversario dell’apertura del Concilio Vaticano II, che il beato Giovanni XXIII annunciò proprio in questa Basilica il 25 gennaio 1959. Il tema offerto alla nostra meditazione nella Settimana di preghiera che oggi concludiamo, è: “Tutti saremo trasformati dalla vittoria di Gesù Cristo nostro Signore” (cfr 1 Cor 15,51-58).

Il significato di questa misteriosa trasformazione, di cui ci parla la seconda lettura breve di questa sera, è mirabilmente mostrato nella vicenda personale di san Paolo. In seguito all’evento straordinario accaduto lungo la via di Damasco, Saulo, che si distingueva per lo zelo con cui perseguitava la Chiesa nascente, fu trasformato in un infaticabile apostolo del Vangelo di Gesù Cristo. Nella vicenda di questo straordinario evangelizzatore appare chiaro che tale trasformazione non è il risultato di una lunga riflessione interiore e nemmeno il frutto di uno sforzo personale. Essa è innanzitutto opera della grazia di Dio che ha agito secondo le sue imperscrutabili vie. È per questo che Paolo, scrivendo alla comunità di Corinto alcuni anni dopo la sua conversione, afferma, come abbiamo ascoltato nel primo brano di questi Vespri: “Per grazia di Dio … sono quello che sono, e la sua grazia in me non è stata vana” (1 Cor 15,10). Inoltre, considerando con attenzione la vicenda di san Paolo, si comprende come la trasformazione che egli ha sperimentato nella sua esistenza non si limita al piano etico – come conversione dalla immoralità alla moralità –, né al piano intellettuale – come cambiamento del proprio modo di comprendere la realtà –, ma si tratta piuttosto di un radicale rinnovamento del proprio essere, simile per molti aspetti ad una rinascita. Una tale trasformazione trova il suo fondamento nella partecipazione al mistero della Morte e Risurrezione di Gesù Cristo, e si delinea come un graduale cammino di conformazione a Lui. Alla luce di questa consapevolezza, san Paolo, quando in seguito sarà chiamato a difendere la legittimità della sua vocazione apostolica e del Vangelo da lui annunziato, dirà: “Non vivo più io, ma Cristo vive in me. E questa vita, che io vivo nel corpo, la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha consegnato se stesso per me” (Gal 2,20).

L’esperienza personale vissuta da san Paolo gli permette di attendere con fondata speranza il compimento di questo mistero di trasformazione, che riguarderà tutti coloro che hanno creduto in Gesù Cristo ed anche tutta l’umanità ed il creato intero. Nella seconda lettura breve che è stata proclamata questa sera, san Paolo, dopo avere sviluppato una lunga argomentazione destinata a rafforzare nei fedeli la speranza della risurrezione, utilizzando le immagini tradizionali della letteratura apocalittica a lui contemporanea, descrive in poche righe il grande giorno del giudizio finale, in cui si compie il destino dell’umanità: “In un istante, in un batter d’occhio, al suono dell’ultima tromba … i morti risorgeranno incorruttibili e noi saremo trasformati” (1 Cor 15,52). In quel giorno, tutti i credenti saranno resi conformi a Cristo e tutto ciò che è corruttibile sarà trasformato dalla sua gloria: “È necessario infatti – dice san Paolo – che questo corpo corruttibile si vesta di incorruttibilità e questo corpo mortale si vesta di immortalità” (v. 15,53). Allora il trionfo di Cristo sarà finalmente completo, perché, ci dice ancora san Paolo mostrando come le antiche profezie delle Scritture si realizzano, la morte sarà vinta definitivamente e, con essa, il peccato che l’ha fatta entrare nel mondo e la Legge che fissa il peccato senza dare la forza di vincerlo: “La morte è stata inghiottita nella vittoria. / Dov’è, o morte, la tua vittoria? / Dov’è, o morte, il tuo pungiglione? / Il pungiglione della morte è il peccato e la forza del peccato è la Legge” (vv. 54-56). San Paolo ci dice, dunque, che ogni uomo, mediante il battesimo nella morte e risurrezione di Cristo, partecipa alla vittoria di Colui che per primo ha sconfitto la morte, cominciando un cammino di trasformazione che si manifesta sin da ora in una novità di vita e che raggiungerà la sua pienezza alla fine dei tempi.

È molto significativo che il brano si concluda con un ringraziamento: “Siano rese grazie a Dio, che ci dà la vittoria per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo!” (v. 57). Il canto di vittoria sulla morte si tramuta in canto di gratitudine innalzato al Vincitore. Anche noi questa sera, celebrando le lodi serali di Dio, vogliamo unire le nostre voci, le nostre menti e i nostri cuori a questo inno di ringraziamento per ciò che la grazia divina ha operato nell’Apostolo delle genti e per il mirabile disegno salvifico che Dio Padre compie in noi per mezzo del Signore Gesù Cristo. Mentre eleviamo la nostra preghiera, siamo fiduciosi di essere trasformati anche noi e conformati ad immagine di Cristo. Questo è particolarmente vero nella preghiera per l’unità dei cristiani. Quando infatti imploriamo il dono dell’unità dei discepoli di Cristo, facciamo nostro il desiderio espresso da Gesù Cristo alla vigilia della sua passione e morte nella preghiera rivolta al Padre: “perché tutti siano una cosa sola” (Gv 17,21). Per questo motivo, la preghiera per l’unità dei cristiani non è altro che partecipazione alla realizzazione del progetto divino per la Chiesa, e l’impegno operoso per il ristabilimento dell’unità è un dovere e una grande responsabilità per tutti.

Pur sperimentando ai nostri giorni la situazione dolorosa della divisione, noi cristiani possiamo e dobbiamo guardare al futuro con speranza, in quanto la vittoria di Cristo significa il superamento di tutto ciò che ci trattiene dal condividere la pienezza di vita con Lui e con gli altri. La risurrezione di Gesù Cristo conferma che la bontà di Dio vince il male, l’amore supera la morte. Egli ci accompagna nella lotta contro la forza distruttiva del peccato che danneggia l’umanità e l’intera creazione di Dio. La presenza di Cristo risorto chiama tutti noi cristiani ad agire insieme nella causa del bene. Uniti in Cristo, siamo chiamati a condividere la sua missione, che è quella di portare la speranza là dove dominano l’ingiustizia, l’odio e la disperazione. Le nostre divisioni rendono meno luminosa la nostra testimonianza a Cristo. Il traguardo della piena unità, che attendiamo in operosa speranza e per la quale con fiducia preghiamo, è una vittoria non secondaria, ma importante per il bene della famiglia umana.

Nella cultura oggi dominante, l’idea di vittoria è spesso associata ad un successo immediato. Nell’ottica cristiana, invece, la vittoria è un lungo e, agli occhi di noi uomini, non sempre lineare processo di trasformazione e di crescita nel bene. Essa avviene secondo i tempi di Dio, non i nostri, e richiede da noi profonda fede e paziente perseveranza. Sebbene il Regno di Dio irrompa definitivamente nella storia con la risurrezione di Gesù, esso non è ancora pienamente realizzato. La vittoria finale avverrà solo con la seconda venuta del Signore, che noi attendiamo con paziente speranza. Anche la nostra attesa per l’unità visibile della Chiesa deve essere paziente e fiduciosa. Solo in tale disposizione trovano il loro pieno significato la nostra preghiera ed il nostro impegno quotidiani per l’unità dei cristiani. L’atteggiamento di attesa paziente non significa passività o rassegnazione, ma risposta pronta e attenta ad ogni possibilità di comunione e fratellanza, che il Signore ci dona.

In questo clima spirituale, vorrei rivolgere alcuni saluti particolari, in primo luogo al Cardinale Monterisi, Arciprete di questa Basilica, all’Abate e alla Comunità dei monaci benedettini che ci ospitano. Saluto il Cardinale Koch, Presidente del Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani, e tutti i collaboratori di questo Dicastero. Rivolgo i miei cordiali e fraterni saluti a Sua Eminenza il Metropolita Gennadios, rappresentante del Patriarcato ecumenico, ed al Reverendo Canonico Richardson, rappresentante personale a Roma dell’Arcivescovo di Canterbury, e a tutti i rappresentanti delle diverse Chiese e Comunità ecclesiali, qui convenuti questa sera. Inoltre, mi è particolarmente gradito salutare alcuni membri del Gruppo di lavoro composto da esponenti di diverse Chiese e Comunità ecclesiali presenti in Polonia, che hanno preparato i sussidi per la Settimana di Preghiera di quest’anno, ai quali vorrei esprimere la mia gratitudine e il mio augurio di proseguire sulla via della riconciliazione e della fruttuosa collaborazione, come pure i membri del Global Christian Forum che in questi giorni sono a Roma per riflettere sull’allargamento della partecipazione al movimento ecumenico di nuovi soggetti. E saluto anche il gruppo di studenti dell’Istituto Ecumenico di Bossey del Consiglio Ecumenico delle Chiese.

All’intercessione di san Paolo desidero affidare tutti coloro che, con la loro preghiera e il loro impegno, si adoperano per la causa dell’unità dei cristiani. Anche se a volte si può avere l’impressione che la strada verso il pieno ristabilimento della comunione sia ancora molto lunga e piena di ostacoli, invito tutti a rinnovare la propria determinazione a perseguire, con coraggio e generosità, l’unità che è volontà di Dio, seguendo l’esempio di san Paolo, il quale di fronte a difficoltà di ogni tipo ha conservato sempre ferma la fiducia in Dio che porta a compimento la sua opera. Del resto, in questo cammino, non mancano i segni positivi di una ritrovata fraternità e di un condiviso senso di responsabilità di fronte alle grandi problematiche che affliggono il nostro mondo. Tutto ciò è motivo di gioia e di grande speranza e deve incoraggiarci a proseguire il nostro impegno per giungere tutti insieme al traguardo finale, sapendo che la nostra fatica non è vana nel Signore (cfr 1 Cor 15,58). Amen.


01 bene 17CELEBRAZIONE DEI VESPRI
A CONCLUSIONE DELLA SETTIMANA DI PREGHIERA
PER L’UNITÀ DEI CRISTIANI

OMELIA DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI

Solennità della Conversione di San Paolo Apostolo
Basilica di San Paolo fuori le Mura
Venerdì, 25 gennaio 2013

Cari fratelli e sorelle!

E’ sempre una gioia e una grazia speciale ritrovarsi insieme, intorno alla tomba dell’apostolo Paolo, per concludere la Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani. Saluto con affetto i Cardinali presenti, in primo luogo il Cardinale Harvey, Arciprete di questa Basilica, e con lui l’Abate e la Comunità dei monaci che ci ospitano. Saluto il Cardinale Koch, Presidente del Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani, e tutti i collaboratori del Dicastero. Rivolgo i miei cordiali e fraterni saluti a Sua Eminenza il Metropolita Gennadios, rappresentante del Patriarca ecumenico, al Reverendo Canonico Richardson, rappresentante personale a Roma dell’Arcivescovo di Canterbury, e a tutti i rappresentanti delle diverse Chiese e Comunità ecclesiali, qui convenuti questa sera. Inoltre, mi è particolarmente gradito salutare i membri della Commissione mista per il dialogo teologico tra la Chiesa cattolica e le Chiese ortodosse orientali, ai quali auguro un fruttuoso lavoro per la sessione plenaria che si sta svolgendo in questi giorni a Roma, come pure gli studenti dell’Ecumenical Institute of Bossey, in visita a Roma per approfondire la loro conoscenza della Chiesa cattolica, e i giovani ortodossi e ortodossi orientali che qui studiano. Saluto infine tutti i presenti convenuti a pregare per l’unità tra tutti i discepoli di Cristo.

Questa celebrazione si inserisce nel contesto dell’Anno della fede, iniziato l’11 ottobre scorso, cinquantenario dell’apertura del Concilio Vaticano II. La comunione nella stessa fede è la base per l’ecumenismo. L’unità, infatti, è donata da Dio come inseparabile dalla fede; lo esprime in maniera efficace san Paolo: «Un solo corpo e un solo spirito, come una sola è la speranza alla quale siete stati chiamati, quella della vostra vocazione; un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo. Un solo Dio e Padre di tutti, che è al di sopra di tutti, opera per mezzo di tutti ed è presente in tutti» (Ef 4,4-6). La professione della fede battesimale in Dio, Padre e Creatore, che si è rivelato nel Figlio Gesù Cristo, effondendo lo Spirito che vivifica e santifica, già unisce i cristiani. Senza la fede – che è primariamente dono di Dio, ma anche risposta dell’uomo – tutto il movimento ecumenico si ridurrebbe ad una forma di “contratto” cui aderire per un interesse comune. Il Concilio Vaticano II ricorda che i cristiani «con quanta più stretta comunione saranno uniti col Padre, col Verbo e con lo Spirito Santo, con tanta più intima e facile azione potranno accrescere la mutua fraternità» (Decr. Unitatis redintegratio, 7). Le questioni dottrinali che ancora ci dividono non devono essere trascurate o minimizzate. Esse vanno piuttosto affrontate con coraggio, in uno spirito di fraternità e di rispetto reciproco. Il dialogo, quando riflette la priorità della fede, permette di aprirsi all’azione di Dio con la ferma fiducia che da soli non possiamo costruire l’unità, ma è lo Spirito Santo che ci guida verso la piena comunione, e fa cogliere la ricchezza spirituale presente nelle diverse Chiese e Comunità ecclesiali.

Nella società attuale sembra che il messaggio cristiano incida sempre meno nella vita personale e comunitaria; e questo rappresenta una sfida per tutte le Chiese e le Comunità ecclesiali. L’unità è in se stessa un mezzo privilegiato, quasi un presupposto per annunciare in modo sempre più credibile la fede a coloro che non conoscono ancora il Salvatore, o che, pur avendo ricevuto l’annuncio del Vangelo, hanno quasi dimenticato questo dono prezioso. Lo scandalo della divisione che intaccava l’attività missionaria fu l’impulso che diede inizio al movimento ecumenico quale oggi lo conosciamo. La piena e visibile comunione tra i cristiani va intesa, infatti, come una caratteristica fondamentale per una testimonianza ancora più chiara. Mentre siamo in cammino verso la piena unità, è necessario allora perseguire una collaborazione concreta tra i discepoli di Cristo per la causa della trasmissione della fede al mondo contemporaneo. Oggi c’è grande bisogno di riconciliazione, di dialogo e di comprensione reciproca, in una prospettiva non moralistica, ma proprio in nome dell’autenticità cristiana per una presenza più incisiva nella realtà del nostro tempo.

La vera fede in Dio poi è inseparabile dalla santità personale, come anche dalla ricerca della giustizia. Nella Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani, che oggi si conclude, il tema offerto alla nostra meditazione era: «Quel che il Signore esige da noi», ispirato alle parole del profeta Michea, che abbiamo ascoltato (cfr 6,6-8). Esso è stato proposto dallo Student Christian Movement in India, in collaborazione con la All India Catholic University Federation ed il National Council of Churches in India, che hanno preparato anche i sussidi per la riflessione e la preghiera. A quanti hanno collaborato desidero esprimere la mia viva gratitudine e, con grande affetto, assicuro la mia preghiera a tutti i cristiani dell’India, che a volte sono chiamati a rendere testimonianza della loro fede in condizioni difficili. «Camminare umilmente con Dio» (cfr Mi 6,8) significa anzitutto camminare nella radicalità della fede, come Abramo, fidandosi di Dio, anzi riponendo in Lui ogni nostra speranza e aspirazione, ma significa anche camminare oltre le barriere, oltre l’odio, il razzismo e la discriminazione sociale e religiosa che dividono e danneggiano l’intera società. Come afferma san Paolo, i cristiani devono offrire per primi un luminoso esempio nella ricerca della riconciliazione e della comunione in Cristo, che superi ogni tipo di divisione. Nella Lettera ai Galati, l’Apostolo delle genti afferma: «Tutti voi siete figli di Dio mediante la fede in Cristo Gesù, poiché quanti siete stati battezzati in Cristo vi siete rivestiti di Cristo. Non c’è Giudeo né Greco; non c’è schiavo né libero; non c’è maschio e femmina, perché tutti voi siete uno in Cristo Gesù» (3,27-28).

La nostra ricerca di unità nella verità e nell’amore, infine, non deve mai perdere di vista la percezione che l’unità dei cristiani è opera e dono dello Spirito Santo e va ben oltre i nostri sforzi. Pertanto, l’ecumenismo spirituale, specialmente la preghiera, è il cuore dell’impegno ecumenico (cfr Decr. Unitatis redintegratio, 8). Tuttavia, l’ecumenismo non darà frutti duraturi se non sarà accompagnato da gesti concreti di conversione che muovano le coscienze e favoriscano la guarigione dei ricordi e dei rapporti. Come afferma il Decreto sull’ecumenismo del Concilio Vaticano II, «non esiste un vero ecumenismo senza interiore conversione» (n. 7). Un’autentica conversione, come quella suggerita dal profeta Michea e di cui l’apostolo Paolo è un significativo esempio, ci porterà più vicino a Dio, al centro della nostra vita, in modo da avvicinarci maggiormente anche gli uni agli altri. È questo un elemento fondamentale del nostro impegno ecumenico. Il rinnovamento della vita interiore del nostro cuore e della nostra mente, che si riflette nella vita quotidiana, è cruciale in ogni dialogo e cammino di riconciliazione, facendo dell’ecumenismo un impegno reciproco di comprensione, rispetto e amore, «affinché il mondo creda» (Gv 17,21).

Cari fratelli e sorelle, invochiamo con fiducia la Vergine Maria, modello impareggiabile di evangelizzazione, affinché la Chiesa, «segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano» (Cost. Lumen gentium, 1), annunci con franchezza, anche nel nostro tempo, Cristo Salvatore. Amen.


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