Padre Calmel OP “Ah! Roma mi ha fatto male”

Cari Amici, dopo avervi offerto – del grande domenicano Padre Roger Thomas Calmel – “Il Papa è solo il Vicario” vedi qui; e “La Chiesa è più grande del Papa” vedi qui; facciamo ora un ulteriore passo in avanti, questa volta più articolato e che divideremo anche in due video perchè, riguardo al testo integrale, consigliamo l’acquisto qui.

Parliamo di “Breve apologia della Chiesa di sempre” di Padre Calmel, scritta tra il 1971 e il 1972, una preziosa raccolta di riflessioni su quanto stava accadendo all’interno della Chiesa. Padre Calmel sarà molto severo con le scelte fatte da Paolo VI, scelte nefande e disastrose per le quali, profetizzava già l’attento teologo, il futuro della Chiesa ne avrebbe risentito molto con una grande tribolazione, apostasia, eresia d’ogni sorta… Per Padre Calmel non si è trattato di errori marginali, ma di un vero cedimento: Paolo VI ha consegnato ai Modernisti la gestione del cuore stesso della Chiesa, ossia, i Sacramenti, la sana Dottrina, la stessa Liturgia… e nella disamina di vari fatti concreti, il Padre domenicano, giunge però a conclusioni piene di speranza… perchè – la Chiesa – non è “del Papa” ma è la Sposa di Gesù Cristo, sulla quale varrà sempre la promessa dello Sposo “e le porte degli inferi non prevarranno contro di essa“.

Riguardo al fatto di aver citato nel video Tito Casini, consigliamo di scaricare tutta l’opera cliccando qui: La Tunica stracciata di Tito Casini: nel fumo di satana, verso ultimo scontro.

Quanto segue è tratto dal sito della FSSPX, di nostro vi aggiungeremo due video, a termine dell’articolo, attraverso i quali abbiamo tentato di leggere, in forma catechetica, il capitolo in questione: “La Chiesa e il Papa“.


Breve apologia della Chiesa di sempre

di Padre Roger Thomas Calmel O.P.

Invito alla lettura

Esiste un testo molto prezioso, che oggi dovrebbe essere ricuperato per la sua straordinaria attualità. Si tratta della Breve apologia della Chiesa di sempre di Padre Roger Thomas Calmel (1914-1975) dell’ordine dei Predicatori: è la raccolta di alcune meditazioni sull’attuale crisi della Chiesa, causate dalle idee moderniste infiltratesi con il Concilio Vaticano II.

Padre Calmel illustra, con dottrina e pietà, il dovere dei figli della Chiesa (vescovi, sacerdoti e laici), quale sia l’atteggiamento che un buon fedele deve avere nei confronti del Vicario di Cristo. Gli illuminanti insegnamenti di Padre Calmel sono uno strumento efficace per comprendere quale sia veramente la strada del sincero e devoto cattolico, che vuole realmente e sinceramente appartenere alla Chiesa, senza sentimenti di ira o di amaro zelo, che non appartengono, e non hanno mai appartenuto, al sentire cattolico.

Padre Calmel conduce per mano, passo passo, a comprendere che cosa sia la Chiesa e quale ruolo abbia il Papa.

«Come i poteri della Chiesa derivano dai poteri di Cristo, come la santità della Chiesa è la santità di Cristo “diffuso e comunicato” (Bossuet), così il messianismo: quello di Gesù Cristo, Nostro Signore e Re» e il Suo Regno non appartiene a questo mondo. Il Vangelo in tre precisi punti, dice il padre domenicano,  esprime il grande disegno messianico della Chiesa: «Cercate innanzitutto il Regno di Dio e la sua giustizia e il resto vi sarà dato in sovrappiù» (Mt 6,33); «Una sola cosa è necessaria; Maria ha scelto la parte migliore, che non le è stata tolta» (Lc 10,42); «Io sono re, ma il mio regno non è di quaggiù» (Gv 18, 36-37).

Cristo è Re nel Regno di Dio ed è Re della Chiesa. La Chiesa gli appartiene e su di essa imprime la sua regia autorità. Il Papa è il suo vice in terra. A causa della crisi della Chiesa e delle tempeste che si sono abbattute su di Lei, accade che molti fedeli siano talmente sofferenti, talmente angosciati, talmente delusi da essere tentati di affermare «ma questa non è la mia Chiesa!». Ebbene è una tentazione, una satanica tentazione, dalla quale occorre resistere con tutte le proprie forze.

Padre Calmel afferma che, in effetti, «quando accettiamo di guardare in faccia la realtà, siamo obbligati a dire: «Ah! Roma mi ha fatto male» a causa dei novatori e dei negatori dei mezzi di santificazione che sono penetrati nelle mura vaticane… e si è permesso che esse entrassero, senza opporvi debita resistenza. Ma un giorno Roma guarirà dalla sua malattia: «la Chiesa apparente ben presto sarà smascherata. Tosto cadrà in polvere, perché la sua forza principale nasce dal fatto che la sua intrinseca menzogna passa per la verità, non venendo mai efficacemente sconfessata dall’alto».

Gesù governa la sua Chiesa e, d’altro canto non «c’è Chiesa senza Vicario di Cristo, infallibile ed investito del primato». Nessuno può confutare che c’è «un Capo della Chiesa che è sempre infallibile, sempre senza peccato, sempre santo, che ignora intermittenze o arresti nella sua opera di santificazione. È Lui il solo Capo, perché tutti gli altri, compreso il più alto [il Pontefice], non hanno autorità se non da Lui e per Lui».

Da quando Gesù Cristo è asceso al Cielo si è procurato, fino ad oggi, 265 Papi. Spiega padre Calmel: «Alcuni, un piccolo numero soltanto, sono stati dei Vicari così fedeli che noi li invochiamo quali amici di Dio e Santi intercessori; un numero ancora più ridotto è caduto in mancanze gravissime; il maggior numero dei Vicari di Cristo, invece, furono più o meno convenienti; nessuno di loro, essendo ancora Papa, ha tradito e potrà tradire fino ad insegnare esplicitamente l’eresia nella pienezza della sua autorità. Tale essendo il rapporto di ogni Papa e della serie dei Papi col Sommo Sacerdote Gesù Cristo, le debolezze di un Papa non debbono farci dimenticare, sia pure per poco, la saldezza e la santità della signoria del nostro Salvatore, impedendoci di vedere la potenza e la sapienza di Gesù, che tiene in mano anche i Papi insufficienti e contiene la loro insufficienza nei limiti invalicabili».

Pensiero lucidissimo, spiegazioni nette e inequivocabili: si tratta davvero di un magnifico libro da leggersi quando lo sconforto assale nel constatare le ferite inferte alla Chiesa. Si comprenderà, allora, che la Chiesa, amatissima Sposa di Cristo, proprio perché malata deve essere ancora più seguita, soccorsa, difesa, protetta. Quando c’è un ammalato, egli va ancor più amato di quando il suo stato era sano. L’amore di Cristo per la Sua Chiesa non muta mai, è costante, è perseverante, è perfetto. E quando è piagata Egli è dolorante per quelle piaghe. I fedeli, chiamati ad imitarLo in tutto, come il Vangelo insegna, possono sì soffrire per Lei, ma non per questo smettere di amarla, ripudiandola.

R.T. Calmel, Breve Apologia della Chiesa di sempre, Editrice Ichthys 2007. Disponibile nei Priorati e centri di Messa.


I due video che seguiranno contengono il capitolo “La Chiesa e il Papa” dal testo di Padre Calmel OP nel quale viene trattata la questione dell’obbedienza al Papa e della fedeltà alla Chiesa, un equilibrio costantemente fragile e sottile che non deve mai farci perdere la speranza nel Cristo Gesù che è il Capo della Chiesa e che ha vinto lo scontro finale contro satana. Le riflessioni affrontate dal Padre domenicano sono di una attualità sconvolgente, sembrano scritte per noi oggi e ci aiutano a trovare le forze e le vere ragioni per non cedere alle tentazioni che ci impongono, spesse volte, l’unica alternativa apparentemente possibile: volgersi “contro Roma”…. ma non è così, spiega Padre Calmel, non è questa la soluzione. Abbiamo sempre una alternativa, se rimaniamo davvero con Cristo e “con/per Roma” nella MISTICA DELLA RIPARAZIONE….

Ecco il primo video:

P.S. il Commentorio di san Vincenzo Lerins citato da Padre Calmel:

Il canone di Vincenzo di Lérins è una regola formulata da San Vincenzo di Lerino nell’opera Commonitorio.
L’opera fu scritta circa quattro anni prima del Concilio di Efeso (450): di fronte al diffondersi nel suo tempo di insegnamenti cristiani eterodossi (le eresie), il santo propose un criterio per stabilire ciò che dovesse essere considerato rispondente alla fede della Chiesa universale rispetto ad innovazioni e nuove dottrine che rischiavano di alterare e pregiudicare l’integrità della dottrina cristiana ricevuta (la tradizione apostolica conservata autorevolmente nel Nuovo Testamento).
Il canone afferma: “Bisogna soprattutto preoccuparsi perché sia conservato ciò che in ogni luogo, sempre e da tutti è stato creduto”, riassunto in latino dall’espressione: “Quod ubique, quod semper, quod ab omnibus“.
Insieme alla compatibilità con quanto stabilito dagli antichi Concili ecumenici, Vincenzo lo propose come mezzo per testare ogni novità che nasca in un qualsiasi luogo riguardo ad un aspetto della dottrina cristiana.
Vincenzo mostrò come la sua teoria debba essere intesa in senso relativo e disgiuntivo, non in modo assoluto. Si tratta, cioè, di unire tre criteri in uno: ubique (in ogni luogo), semper (sempre), ab omnibus (da tutti). Il termine antichità non deve essere inteso con un significato relativo, ma nel senso di un unanime consenso relativo all’antichità.

Sostanzialmente lo scritto contiene il cosiddetto canone lerinese, che si articola in due criteri o momenti. Anzitutto, quando ci si trova di fronte a una varietà di interpretazioni bibliche su un dato testo, è indispensabile ricorrere alla norma del senso ecclesiale e cattolico, così formulata:

  • «Nella Chiesa cattolica dobbiamo con ogni cura attenerci a ciò che stato è stato creduto dovunque, sempre e da tutti» (2/5). Quando perciò sorge un conflitto di interpretazioni su un medesimo testo, l’interprete dovrà «consultare e interrogare le opinioni degli antichi, mettendole tra loro a confronto, ma solamente le opinioni di coloro che, sia pure in diversi tempi e in diversi luoghi, sono rimasti nella comunione dell’unica Chiesa cattolica e sono stati quindi maestri degni di approvazione; e qualsiasi cosa saprà che non uno o due soltanto, ma tutti in ugual modo con uno stesso atto di consenso hanno mantenuto, scritto, insegnato, apertamente a più riprese con perseveranza, quella comprenda che deve essere da lui stesso creduta senza alcuna ombra di dubbio».
    Questo criterio non vuole affermare un immobilismo o conservatorismo nella comprensione della fede. Esso deve completarsi e conciliarsi con un secondo criterio ugualmente essenziale. Il vero progresso dogmatico deve avvenire secondo la legge di una crescita graduale e organica della fede trasmessa senza alterazioni e cambiamenti, così come si verifica nella crescita di un bambino. Diventando via via adulto, egli conserva le stesse membra e gli stessi elementi fisici che erano in lui in modo embrionale fin dalla nascita, per cui rimane lo stesso, pur cambiando aspetto e dimensioni.
    Il criterio è così espresso: «È opportuno che cresca e grandemente sia l’intelligenza, la scienza, la sapienza di ogni singola questione come della loro globalità, sia di ogni uomo che di tutta la Chiesa, nel corso delle età e dei secoli, ma rimanendo dello stesso tipo, nello stesso dogma, nello stesso senso e nello stesso significato» (23/3).
    Perciò «si può parlare di progresso quando una questione si approfondisce sempre di più rimanendo se stessa, mentre si tratta di cambiamento quando una cosa viene cambiata in un’altra» (22/2). Se questi sono i criteri da seguire nella comprensione storica del dogma, è opportuno il ricorso ai Padri, e si precisa che «devono essere raccolte solo le opinioni dei quei Padri che hanno vissuto, insegnato e perseverato nella fede e nella comunione cattolica santamente, sapientemente, costantemente, oppure hanno meritato di morire fedelmente in Cristo o di essere felicemente uccisi per Cristo» (28/6).
    Si porta quindi l’esempio del concilio di Efeso (431 d.C.), in cui, per condannare Nestorio, si citano espressamente una decina Padri greci e latini, aggiungendo gli scritti di due papi, Sisto III e Celestino.

Ecco il celebre capitolo II dell’opera di S. Vincenzo di Lerino, nell’originale latino:

  • Dicente scriptura et monente: Interroga patres tuos et dicent tibi, seniores tuos et adnuntiabunt tibi, et item: Verbis sapientium adcommoda tuam aurem, et item: Fili, meos sermones ne obliuiscaris, mea autem uerba custodiat cor tuum, uidetur mihi minimo omnium seruorum Dei Peregrino, quod res non minimae utilitatis Domino adiuuante futura sit, si ea quae fideliter a sanctis patribus accepi, litteris conprehendam, infirmitati certe propriae pernecessaria, quippe cum adsit in promptu, unde inbecillitas memoriae meae adsidua lectione reparetur.
    Ad quod me negotium non solum fructus operis, sed etiam consideratio temporis et opportunitas loci adhortatur.
    Sed tempus, propterea quod, cum ab eo omnia humana rapiantur, et nos ex eo aliquid in inuicem rapere debemus, quod in uitam proficiat aeternam; praesertim cum et adpropinquantis diuini iudicii terribilis quaedam exspectatio augeri efflagitet studia religionis, et nouorum haereticorum fraudulentia multum curae et adtentionis indicat.
    Locus autem, quod urbium frequentiam turbas que uitantes remotioris uillulae et in ea secretum monasterii incolamus habitaculum, ubi absque magna distractione fieri possit illud quod canitur in psalmo: Vacate, inquit, et uidete quoniam ego sum Dominus…
    Hic forsitan requirat aliquis: Cum sit perfectus scripturarum canon sibi que ad omnia satis super que sufficiat, quid opus est ut ei ecclesiasticae intellegentiae iungatur auctoritas? Quia uidelicet scripturam sacram pro ipsa sui altitudine non uno eodem que sensu uniuersi accipiunt, sed eiusdem eloquia aliter atque aliter alius atque alius interpretatur, ut paene quot homines sunt, tot illinc sententiae erui posse uideantur.
    Aliter namque illam Nouatianus, aliter Sabellius, aliter Donatus exponit, aliter Arrius, Eunomius, Macedonius, aliter Photinus, Apollinaris, Priscillianus, aliter Iouinianus, Pelagius, Caelestius, aliter postremo Nestorius.
    Atque idcirco multum necesse est propter tantos tam uarii erroris anfractus, ut propheticae et apostolicae interpretationis linea secundum ecclesiastici et catholici sensus normam dirigatur.
    In ipsa item catholica ecclesia magnopere curandum est, ut id teneamus quod ubique, quod semper, quod ab omnibus creditum est; hoc est etenim uere proprie que catholicum, quod ipsa uis nominis ratio que declarat, quae omnia fere uniuersaliter conprehendit.
    Sed hoc ita demum fiet, si sequamur uniuersitatem antiquitatem consensionem.
    Sequemur autem uniuersitatem hoc modo, si hanc unam fidem ueram esse fateamur, quam tota per orbem terrarum confitetur ecclesia; antiquitatem uero ita, si ab his sensibus nullatenus recedamus, quos sanctos maiores ac patres nostros celebrasse manifestum est; consensionem quoque itidem, si in ipsa uetustate omnium uel certe paene omnium sacerdotum pariter et magistrorum definitiones sententias que sectemur…

L’onore sacerdotale impone di non celebrare il Novus Ordo.

Il 27 novembre 1969, tre giorni prima dellʼentrata in vigore del Novus Ordo Missae, il domenicano p. Calmel (1914-1975) manifestò il fermo suo rifiuto. Basta leggere questo testo per indovinare da quale sguardo di fede, da quale sicurezza teologica, da quale amore di Dio, da quale profondità proviene. Lo scrisse di getto senza neanche tenersene una copia prima di inviarlo allʼamico Jean Madiran per la pubblicazione sulla rivista Itinéraires (n° 139, gennaio 1970).

Padre Calmel è forse stato il primo sacerdote – se si eccettuano i Cardd. Bacci e Ottaviani – ad aver manifestato in pubblico un netto rifiuto, non soltanto dottrinale, ma anche pratico della nuova messa. La sua storica reazione illuminò ed incoraggiò molti sacerdoti e fedeli suoi contemporanei. A quasi cinquantʼanni dalla sua pubblicazione, questo scritto lungimirante e di grande attualità possa confortare ancora tante anime sacerdotali e tanti fedeli cattolici.

* * *

«Mi attengo alla Messa tradizionale, quella che fu codificata, ma non fabbricata, da san Pio V nel XVI secolo, conformemente ad un uso plurisecolare. Rifiuto quindi lʼOrdo Missae di Paolo VI.

Perché? Perché, in realtà, questo Ordo Missae non esiste. Ciò che esiste è una rivoluzione liturgica universale e permanente, recepita o voluta dal Papa attuale [Paolo VI], e che per questo riveste la maschera dellʼOrdo Missae del 3 aprile 1969. Ogni prete ha il diritto di rifiutare di portare la maschera della rivoluzione liturgica. E ritengo essere mio dovere di sacerdote di rifiutare di celebrare la messa in un rito equivoco.

Se noi accettassimo questo rito nuovo, che favorisce la confusione tra messa cattolica e cena protestante – come parimenti dicono due cardinali e come lo dimostrano solide analisi teologiche – cadremmo presto da una messa intercambiabile (cosa peraltro riconosciuta da un pastore protestante) ad una messa chiaramente eretica e quindi nulla. La riforma rivoluzionaria, cominciata dal Papa e poi lasciata alle chiese nazionali, continuerà la sua folle corsa. Come possiamo accettare di diventarne complici?

Voi mi direte: e adesso? La Messa di sempre a qualunque costo, ma avete pensato a cosa andate incontro? Certo. Vado incontro, se così posso dire, a perseverare nella via della fedeltà al mio sacerdozio e, pertanto, a rendere al Sommo Sacerdote, che è il nostro giudice supremo, lʼumile testimonianza del mio ufficio di sacerdote. Vado incontro anche a rassicurare i fedeli sconvolti, tentati dallo scetticismo o dalla disperazione. Infatti, ogni sacerdote che si attiene al rito della Messa codificato da san Pio V, il grande Papa domenicano della Controriforma, dà la possibilità ai fedeli di partecipare al santo sacrificio senza ombra di equivoco; di comunicarsi, senza rischio di essere ingannati, al Verbo di Dio incarnato ed immolato, reso realmente presente sotto le sante specie. Per contro, il sacerdote che si piega al nuovo rito forgiato di sana pianta da Paolo VI, collabora per quanto è in lui ad instaurare progressivamente una messa bugiarda dove la presenza di Cristo non sarà più verace, ma sarà trasformata in un memoriale vuoto; per il fatto stesso, il sacrificio della Croce sarà soltanto più un pasto religioso, dove si mangerà un poʼ di pane e si berrà un poʼ di vino: nientʼaltro, come dai protestanti.

Il non consentire a collaborare allʼinstaurazione rivoluzionaria di una messa equivoca, orientata alla distruzione della Messa, significherà andare incontro a chissà quali disavventure terrene, a quali rovesci in questo mondo? Il Signore lo sa e la sua Grazia è sufficiente. Per davvero la Grazia del Cuore di Gesù, che arriva fino a noi attraverso il santo sacrificio ed i sacramenti, è sufficiente sempre. Per questo nostro Signore dice tranquillamente: «Chi perde la sua vita in questo mondo per causa mia, la salva per la vita eterna».

Riconosco senza esitare lʼautorità del Santo Padre. Tuttavia affermo che ogni papa, nellʼesercizio della sua autorità, può commettere degli abusi dʼautorità. Affermo che il papa Paolo VI commette un abuso di autorità di una gravità eccezionale quando costruisce un rito nuovo della messa su di una definizione di messa che non è più cattolica. «La Cena del Signore o messa – scrive nel suo Ordo Missae – è la sinassi sacra o lʼassemblea del popolo di Dio che si riunisce insieme, sotto la presidenza dal sacerdote per celebrare il memoriale del Signore» (Institutio generalis, art. 7). Questa definizione insidiosa omette a priori ciò che costituisce la messa cattolica, mai riconducibile ad una cena protestante. Infatti, nella messa cattolica non si tratta di un qualunque memoriale; il memoriale è di natura tale che contiene realmente il sacrificio della Croce, perché il Corpo e il Sangue di Cristo sono resi realmente presenti in virtù della duplice consacrazione. Questo appare senza ombra di dubbio nel rito codificato da san Pio V, mentre resta ondivago ed equivoco nel rito fabbricato da Paolo VI. Parimenti, nella messa cattolica il sacerdote non esercita una presidenza qualunque; segnato da un carattere divino che lo consacra per lʼeternità, è il ministro del Cristo, il quale per mezzo di lui realizza la messa; ce ne vuole perché il prete possa essere assimilato ad un qualche pastore, delegato dai fedeli per moderare la loro assemblea. Ciò che è evidente nel rito della messa ordinato da san Pio V, è velato, se non fatto proprio scomparire, nel nuovo rito.

La semplice onestà, quindi, ma infinitamente di più, lʼonore sacerdotale mi chiede di non avere lʼaudacia di adulterare la messa cattolica ricevuta il giorno dellʼordinazione. Dal momento che bisogna essere retti, soprattutto in una materia divinamente grave, non cʼè autorità al mondo, fosse pure quella pontificia, che possa fermarmi. Dʼaltronde, la prima prova di fedeltà e di amore che il sacerdote ha il dovere di offrire a Dio e agli uomini è di conservare intatto il deposito infinitamente prezioso che gli è stato affidato con lʼimposizione delle mani del vescovo. È innanzitutto su questa prova di fedeltà e dʼamore che sarò giudicato dal Giudice supremo. Mi aspetto fiduciosamente dalla Vergine Maria, Madre del Sommo Sacerdote, che mi ottenga di restare fedele sino alla morte alla messa cattolica verace e senza ambiguità. Tuus sum ego, salvum me fac – Sono tuo, sàlvami».

Fonte: sanpiox.it