Quando la terra trema… Dio castiga?

Il recente terremoto in Myanmar (ma potremo pensare anche a quanto sta accadendo a Napoli nei Campi Flegrei ed anche per le esondazioni che nel solo mese di marzo hanno davvero preoccupato il mondo; e persino il pericolo di una guerra mondiale sempre più reale…) ha lasciato ancora una volta il mondo sgomento di fronte alla brutalità di una calamità naturale. Politici e scienziati s’interregno come evitare o limitare i danni ma, quel che interessa a noi battezzati è: gli uomini di fede su cosa s’interrogano? Riusciamo ancora a “pensare o interpretare” in modo cattolico gli eventi naturali?

“A peste, a fame, a bello libera nos, Domine!”, è la preghiera che la Chiesa implora a Dio per salvare gli uomini dai tre flagelli universalmente temuti, essendo gli unici a poter colpire trasversalmente tutta l’umanità, senza distinzioni. Dopo il diluvio universale, Dio promise a Noè che non avrebbe più sterminato l’umanità peccatrice, non che non l’avrebbe più punita. Dunque un terremoto può essere un castigo di Dio?

A questa domanda provò a rispondere Roberto de Mattei nella sua rubrica a Radio Maria il 16 marzo 2011, cinque giorni dopo il terremoto in Giappone. Le reazioni, dentro e fuori la Chiesa, furono violentissime, così il mese successivo il prof. de Mattei replicò ai suoi accusatori. Pubblichiamo entrambi i testi delle sue conferenze, ritenendo che siano molto utili per meditare durante il tempo di Quaresima.

RICORDA ANCHE: In questo video sant’Annibale Maria di Francia che aveva previsto il gravissimo terremoto di Messina, spiega come le CONSEGUENZE DEI NOSTRI PECCATI impongono a Dio stesso un intervento decisivo alla CORREZIONE e per un risveglio delle nostre coscienze…. il fatto fu raccontato dallo stesso professor de Mattei e riportato, appunto, nel libro sotto consigliato “Dio castiga il mondo“?



Il mistero del male e la Divina Provvidenza

di Roberto de Mattei (16 marzo 2011)

Cari amici di Radio Maria,

vorrei fare questa sera con voi alcune riflessioni che partono da fatti drammatici di attualità.

Il primo fatto è la tragedia del Giappone: lo spaventoso terremoto e maremoto, con il conseguente rischio nucleare che è profilato all’orizzonte.

Il secondo è l’acuirsi delle persecuzioni anticristiane recentemente culminate nell’assassinio del ministro pakistano Shahbaz Bhatti.

In entrambi i casi ci troviamo di fronte al problema del dolore e del male. Ma con una fondamentale differenza. La sofferenza che consegue alle catastrofi naturali, come in Giappone, è indipendente dalla volontà dell’uomo, costui la subisce non la sceglie.

Le sofferenze di chi viene perseguitato, invece, non sono mali fisici provenienti dalle forze della natura, ma derivano dalle azioni di altri uomini. In questo caso, i danni fisici sono una conseguenza di atti morali. Non c’è male morale nel terremoto giapponese. Al contrario, c’è male morale nell’uccisione del ministro pakistano. In quest’ultima azione vi è la volontà deliberata di commettere un atto terroristico, c’è il terrore come scelta, c’è l’odio, c’è il fanatismo. Le passioni disordinate del cuore umano sono alle origini delle persecuzioni.

Il terremoto in Giappone

Non c’è male morale nel terremoto perché il terremoto viene dalla natura, che è in sé buona, è creata da Dio e se Dio permette i terremoti e altre sciagure esistono ragioni che Egli conosce e che noi non sappiamo.

Per questo dobbiamo combattere i persecutori, per evitare le persecuzioni, e dobbiamo invece accettare la volontà di Dio dinanzi alle catastrofi naturali, pur facendo tutto quanto è in nostro potere per evitarle. Il male morale va contrastato, innanzitutto in noi stessi, e poi nel prossimo, mentre il male fisico va accettato, nella misura in cui è indipendente dalla nostra volontà.

Oggi, al contrario, c’è la tendenza ad assuefarci alle persecuzioni, a considerarle quasi come eventi naturali ineluttabili e, al contrario, quando accadono le catastrofi naturali se ne rifiuta l’imponderabilità cercando sempre i responsabili, rifiutando l’idea che qualche cosa possa sfuggire al controllo dell’uomo. Su questo punto vi suggerisco di leggere un articolo del prof. Corrado Gnerre apparso sull’agenzia Corrispondenza Romana il 19 marzo 2011. Cosa dice Gnerre? Afferma che:

«L’uomo di oggi vive come se Dio non esistesse e quindi è portato ad osservare e a ritenere la vita in cui agisce come un palcoscenico in cui egli è tanto attore quanto autore della trama. Si tratta di un rifiuto dell’imponderabilità intesa come imprevedibilità. Può esserci qualcosa che sfugga alla capacità umana di ordinare e programmare? Questa eventualità è rifiutata dall’uomo contemporaneo che ama leggere la realtà con una prospettiva utopica, nella convinzione che nella forza dell’uomo e del suo pensiero il mondo possa essere totalmente trasformato, eliminando da esso ogni imperfezione e ogni incidente. La conseguenza di questo errore è però una duplice contraddizione.

La prima di carattere culturale: da una parte, l’uomo può risolvere tutto; dall’altra, lo stesso uomo può errare, se è vero che poi si va alla ricerca ossessiva del colpevole. E ancora: la tecnica può redimere l’uomo, ma la stessa tecnica può fallire, se è vero che si ricerca sempre il cosiddetto “errore tecnico”.

La seconda contraddizione è di carattere antropologico: nella prospettiva utopica di onnipotenza umana non c’è spazio per un dio che giudica, che esige e che condanna gli errori umani; eppure il perfezionismo utopico non tollera gli erranti, condannandoli a mo’ di capri espiatori da sacrificare a beneficio dell’ideologia della “nessuna-imprevedibilità-sulla-faccia-della-terra”».

L’imponderabile, l’imprevedibile, è ciò che non può essere previsto e programmato dagli uomini.

L’imponderabile esiste, fa parte della nostra vita, ma esso non è il caso. Quest’ultimo, che è l’assenza di significato degli eventi, non esiste. Dobbiamo ripetere con forza che il caso non esiste: tutto ciò che accade, nella nostra vita e in quella dell’universo, ha un significato. Il fatto che noi non lo comprendiamo, non significa che vi sia qualcosa priva di significato. Solo Dio conosce il significato di ogni cosa, e solo Lui attribuisce a ogni cosa il suo significato. Pretendere di conoscere il significato di tutto significa voler essere Dio, farci Dio noi stessi; e vuol dire negare l’esistenza di un Dio creatore e regolatore dell’universo: perché Dio non crea l’universo per poi abbandonarlo, ma lo conserva nell’essere, lo guida al suo fine, dà significato a tutto, nulla escluso. Se Dio è la causa prima dell’universo, l’origine e il fine ultimo di tutte le cose, nulla sfugge alla sua potenza e al suo governo. Tutto ciò che esiste è da Lui creato, amato e condotto al suo fine: in una parola tutto ciò che esiste e accade è raccolto nelle mani della Divina Provvidenza. Lo dice il Vangelo quando afferma che tutti i capelli del nostro capo sono contati. Se qualche cosa potesse sfuggire all’azione creatrice e conservatrice di Dio, Egli non sarebbe tale.

La grandezza della Divina Provvidenza si manifesta soprattutto nella capacità di Dio di trarre il bene dal male fisico e morale dell’universo, quel male che egli non causa, ma che permette per un fine superiore. Non è che Dio subisca il male: se volesse potrebbe fare in modo che non accada e spesso interviene per evitarlo; ma altre volte preferisce permettere l’esistenza del male per realizzare il bene attraverso quel male. Si pensi solo al male enorme del peccato originale, che Dio non voleva, ma che ha permesso che avvenisse, per trarne il bene immenso dall’Incarnazione.

Per comprendere l’azione della Provvidenza, che dà una ragione a tutto ciò che avviene, anche alle tragedie, come i terremoti, bisogna però avere una prospettiva soprannaturale: la prospettiva di chi crede nell’esistenza di un Dio creatore e rimuneratore della vita eterna.

Chi nega Dio, come gli atei e i laicisti militanti, ma anche coloro che pur non professando l’ateismo vivono di fatto nell’ateismo pratico, non può concepire l’idea della Provvidenza.

Il 1° novembre del 1755, un terribile terremoto del 9° grado della scala Richter colpì Lisbona, capitale del grande Impero portoghese, e la rase al suolo. Lisbona era uno dei più influenti centri europei dell’Illuminismo: si parlò di castigo divino e la mente degli illuministi, Voltaire, scese in campo con un poema sul disastro di Lisbona pieno di invettive contro l’idea di Provvidenza divina. Voltaire, in quello scritto, chiede provocatoriamente: “Ai deboli lamenti di voci moribonde, alla vista pietosa di ceneri fumanti, direte: è questo l’effetto delle leggi eterne che a un Dio libero e buono non lasciano la scelta? Direte, vedendo questi mucchi di vittime: fu questo il prezzo che Dio fece pagare per i loro peccati? Quali peccati, quali colpe hanno commesso questi infanti sul seno materno schiacciati e sanguinanti?”.

Si aprì da allora un dibattito filosofico che non si è mai spento e che riemerse con un altro terribile terremoto, quello che il 28 dicembre del 1908 distrusse la città di Messina, facendo quasi centomila vittime.

Mons. Orazio Mazzella (1860-1939), arcivescovo di Rossano Calabro, all’indomani della tragedia fece una serie di riflessioni che vi riassumo.

In primo luogo le grandi catastrofi sono una voce terribile ma paterna della bontà di Dio, che ci scuote e ci richiama col pensiero ai nostri grandi destini, al fine ultimo della nostra vita, che è immortale.

Infatti, se la terra non avesse pericoli, dolori, catastrofi, eserciterebbe sopra di noi un fascino irresistibile, non ci accorgeremmo che essa è un luogo d’esilio, e dimenticheremmo troppo facilmente, che noi siamo cittadini del cielo. Scrive mons. Mazzella:

Come quei viaggiatori che, passando per una regione incantevole ove tutto è azzurro di cielo, sorriso di prati, trasparenza di onde tranquille, provano il desiderio di fermarsi, di abbandonarsi ad un dolce riposo, e sentono meno vivo il tormento della patria lontana, così noi sotto un cielo sempre senza nubi, alla riva di un mare senza tempeste, sopra una terra che mai tremasse, saremmo colpiti da un sonno dolce, ma fatale nell’oblio delle nostre immortali speranze. Le grandi catastrofi sono la voce di Dio, che ci sveglia dal sonno letale, e ci fa pensare alla patria lontana; sono, dirò meglio, il cerchio di ferro, col quale Dio ci stringe per farci sentire che la terra è angusta per noi e non è che luogo di passaggio per la nostra anima immortale. La terra ci attira, perché ci attira il piacere. Quando la terra trema, l’uomo riscopre la fragilità delle cose terrene e solleva lo sguardo dalla terra al Cielo.

Mons. Mazzella ricorda “che la sera precedente al famoso terremoto del 1908, un medico, spirito forte in tempo tranquillo, bestemmiava sulle cose più sante: durante la notte la terra trema, ed il medico è il primo a gridare preghiere e voti a san Francesco di Paola!”. Ciò fu il principio di una conversione che non sarebbe potuta avvenire senza la tragedia.

In secondo luogo, osserva l’arcivescovo di Rossano Calabro, le catastrofi sono talora esigenza della Giustizia di Dio, della quale sono giusti castighi.

Alla colpa del peccato originale si aggiungono infatti, nella nostra vita, le nostre colpe personali; nessuno di noi è immune dal peccato e può dirsi innocente e le nostre colpe possono essere personali o collettive: possono essere le colpe di un singolo o quelle di un popolo; ma, mentre Dio premia o castiga i singoli nell’eternità, è sulla terra che premia o castiga le nazioni, perché le nazioni non hanno vita eterna, hanno un orizzonte terreno.

Nessuno può dire con certezza se il terremoto di Messina o quello del Giappone sia stato un castigo di Dio. Sicuramente è stata una catastrofe e, dice mons. Mazzella:

«La catastrofe è un fenomeno naturale, che Dio ha potuto introdurre nel suo piano di creazione per molteplici fini, degni della sua sapienza e bontà. Ha potuto farlo per raggiungere un fine della stessa natura, ottenendo per mezzo di una catastrofe un bene fisico più generale, come quando con una tempesta di venti, che produce danni, si purifica l’aria: ha potuto farlo per un fine di ordine morale, come, per esempio, acuire il genio dell’uomo, stimolarlo a studiare la natura per difendersi dalla sua potenza distruttrice, e così determinare un progresso della scienza; ha potuto farlo per uno dei fini per i quali la fede ci dice, che talora l’ha fatto, come sarebbe quello d’infliggere ad una città un esemplare castigo: ha potuto farlo per un fine a noi ignoto. Per quale fine in concreto Dio ha operato in un caso speciale? Per quale fine Messina e Reggio sono state distrutte? Chi potrebbe dirlo? È possibile fare delle congetture, non è possibile affermare alcuna cosa con certezza. Intanto per noi, al nostro scopo, basta la sicurezza, che le catastrofi possono essere, e talora sono esigenza della giustizia di Dio».

Ora questo concetto che Dio, talora, si serva delle grandi catastrofi per raggiungere un fine alto della sua giustizia, si trova in tutte le pagine della Bibbia. Che cosa furono il diluvio, il fuoco caduto su Sodoma e Gomorra e quello che non si abbatte su Ninive, se non castighi di Dio?

Ma – si dice – la catastrofe è cieca, punisce il colpevole e colpisce l’innocente; come si conciliano con la Provvidenza queste stragi dell’innocenza e della virtù? La risposta è che Dio non potrebbe fare in modo che un terremoto colpisca il colpevole e rispetti l’innocente, senza moltiplicare miracoli, o modificare profondamente il piano della creazione divina. Senza dubbio talvolta Iddio salva l’innocente operando un miracolo; ma Dio non è obbligato a moltiplicare i miracoli, o a rinunziare al piano della sua creazione per salvare la vita di un innocente.

Dio, inoltre, è padrone della vita e della morte, misura i giorni dell’uomo sulla terra, e stabilisce l’ora e il modo della morte di ciascuno. Quindi l’innocente che muore sotto una catastrofe generale che punisce i colpevoli, si trova nelle stesse condizioni nella quale si trovano tutti gli innocenti che sono sorpresi dalla morte: per loro questa morte non è un castigo di colpa personale, ma è l’esecuzione di un decreto di colui che è il padrone della vita e della morte.

Ogni giorno vediamo fanciulli innocenti, uomini virtuosi che muoiono di morte naturale o violenta, perché meravigliarsi quando vediamo molti innocenti morire sotto le rovine di un terremoto? La loro morte, presa isolatamente, non è diversa da quella di tanti uomini innocenti e virtuosi, che sono vittime di un accidente, e muoiono, ad esempio, schiacciati da una macchina o investiti da un treno.

Terzo punto: le grandi catastrofi sono spesso una benevola manifestazione della misericordia di Dio.

Abbiamo detto infatti che nessuno, mettendosi la mano sulla coscienza, potrebbe dare a se stesso un certificato d’innocenza. Un giorno, quando il velo che copre l’opera della Provvidenza sarà sollevato, e alla luce di Dio vedremo ciò che Egli avrà operato nei popoli e nelle anime, ci accorgeremo che per molte di quelle vittime, che oggi compiangiamo, il terremoto è stato un battesimo di sofferenza che ha purificato la loro anima da tutte le macchie, anche le più lievi, e grazie a questa morte tragica la loro anima è volata al cielo prima del tempo perché Dio ha voluto risparmiare loro un triste avvenire.

“Noi – scrive mons. Mazzella – pensiamo con raccapriccio a quei momenti terribili passati da loro tra la vita e la morte sotto le rovine, ma forse appunto in quei momenti discese su quelle anime il torrente di una speciale misericordia di Dio, sotto forma di profonda contrizione e rassegnazione. Chi può dire ciò che è passato tra quelle anime e la misericordia di Dio negli ultimi momenti? Chi sa quali slanci Dio, misericordioso e buono, nelle terribili sofferenze ha toccato i loro cuori per unirli a lui? Chi potrebbe, in una parola, scandagliare l’abisso di espiazione, di merito e di doni di Dio, che in quelle anime fu scavato per occasione del terremoto?”.

Non si tratta di pie illusioni. Sta scritto che nella tribolazione Dio rimette più facilmente i peccati (Tb 3,13) e versa più abbondantemente i suoi doni (Na 1,7), perché Dio manda la morte prematura agli innocenti per liberarli da triste avvenire.

Davanti alle grandi catastrofi noi vediamo la superficie delle cose e non la loro intima sostanza: vediamo la potenza livellatrice del cataclisma, ma non vediamo il disegno di Dio nascosto sotto la forza cieca della natura.

Questo disegno divino non è sempre uguale: talora è mistero di giustizia, talora è mistero di misericordia, ma sempre è mistero degno di un’infinita sapienza e di un’infinita bontà.

Qualcuno dirà che il terremoto è un fenomeno di natura, risultato di forze fatali, perché governate da leggi precise e costanti, e che per questo non può essere legato alle esigenze variabili della giustizia o della misericordia di Dio. È vero, ma Dio è l’autore dell’universo con le sue forze e con le sue leggi. Chi potrebbe negare a Lui la scienza e la potenza di disporre il meccanismo delle forze e delle leggi della natura in modo da produrre un fenomeno secondo le esigenze della sua giustizia o della sua misericordia? Dio sa tutto, può tutto, è infinitamente buono: è per questo che la sua Provvidenza trae il bene da ogni male, piccolo o grande che sia.

Le grandi catastrofi sono certamente un male, però non sono un male assoluto, ma un male relativo, dal quale sorgono beni di ordine superiore e più universali. La luce della fede ci insegna che le grandi catastrofi, o sono un richiamo paterno della bontà di Dio, o sono esigenze della divina giustizia, che infligge un castigo meritato, o sono un tratto della divina misericordia, che purifica le vittime aprendo loro le porte del Cielo. Perché il Cielo è il nostro destino eterno.

Molti eventi naturali catastrofici si stanno susseguendo negli ultimi anni. Non si è ancora spento il ricordo dello tsunami che ha flagellato le coste dell’Indonesia, e ora giungono le terribili notizie dal Giappone. Ci chiediamo se c’è un messaggio di Dio in questi eventi.

È curioso che al centro di questi fatti sia sempre, almeno per ora, l’Oriente. Significherà anche questo qualcosa? Non sarà come un vento che prima di abbattersi in Occidente soffia da Oriente, come supremo monito all’Occidente? La tradizione dice che Gesù, morendo in Croce, volgesse lo sguardo all’Occidente, all’Europa, alla terra privilegiata che avrebbe dovuto diffondere il suo Vangelo nel mondo, che avrebbe dovuto ospitare la Cattedra di Pietro.

I cristiani continuano a essere perseguitati in Cina e in India, i due Stati più popolati del mondo, i Paesi considerati emergenti nell’economia mondiale: in India da parte dei fondamentalisti indù in numerosi Stati, come l’Orissa e il Kandhamal, in Cina da parte dello Stato comunista; nei Paesi arabi da parte dei Fratelli Musulmani.

 Sono passati quasi cent’anni, ma il massacro dei cristiani pare non avere fine in Iraq, dove l’assalto terroristico contro la chiesa siro-cattolica di Nostra Signora del Perpetuo Soccorso, avvenuto a Baghdad il 31 ottobre 2010, è l’apice di una serie di attentati, che non risalgono al dopo Saddam, ma che già avvenivano sotto di lui. Tra le quarantasei vittime di Baghdad, vi erano anche il sacerdote che celebrava la Messa, Thair Abd-Al, 32 anni, e l’altro che confessava, Wasim al-Kas Butros, 29 anni; ad essi vanno aggiunti il sacerdote caldeo Ragheed Ganni, 35 anni, assassinato a sangue freddo insieme con tre suddiaconi a Mosul il 3 giugno 2007 e l’arcivescovo caldeo Paulos Farj Rahho, trovato morto il 13 marzo 2008 dopo due settimane di sequestro.

Il martirio è una realtà quotidiana anche per i cristiani d’Egitto, dove il 2011 si è aperto con l’attentato alla chiesa dei Santi di Alessandria che ha provocato ventitré morti e settantasette feriti. Un anno prima, nella notte fra il 6 e il 7 gennaio 2010, tre uomini aprirono il fuoco sui fedeli che uscivano dalla messa di Natale a Nagaa Hammadi, nell’Alto Egitto. Commentando l’accaduto, il patriarca Shenouda III parlò di mille e ottocento omicidi di cristiani negli ultimi trent’anni, mai giudicati e tanto meno puniti, e di duecento atti di vandalismo contro i loro beni.

L’assassinio di Shalbaz Bhatti

Ma voglio soffermarmi soprattutto sull’ultimo episodio, l’assassinio di Shalbaz Bhatti, il ministro pakistano per le Minoranze ucciso il 2 marzo 2011 a colpi d’arma da fuoco a Islamabad, la capitale del Pakistan. Aveva 42 anni ed era l’unico cristiano presente nell’esecutivo di quel Paese musulmano. Tre mesi prima, Bhatti aveva previsto la sua fine in un video testamento registrato a futura memoria. Questo documento è reperibile su Internet. Io voglio leggere questa toccante testimonianza per fare l’eco, con la mia voce, della sua e per ritrasmetterla a voi, cari amici di Radio Maria, così come lui l’ha voluta trasmettere attraverso la telecamera.

«Il mio nome è Shahbaz Bhatti. Sono nato in una famiglia cattolica. Mio padre, insegnante in pensione, e mia madre, casalinga, mi hanno educato secondo i valori cristiani e gli insegnamenti della Bibbia, che hanno influenzato la mia infanzia. Fin da bambino ero solito andare in chiesa e trovare profonda ispirazione negli insegnamenti nel sacrificio, e nella crocifissione di Gesù. Fu l’amore di Gesù che mi indusse ad offrire i miei servizi alla Chiesa. Le spaventose condizioni in cui versavano i cristiani del Pakistan mi sconvolsero. Ricordo un venerdì di Pasqua quando avevo solo tredici anni: ascoltai un sermone sul sacrificio di Gesù per la nostra redenzione e per la salvezza del mondo. E pensai di corrispondere quel suo amore donando amore ai nostri fratelli e sorelle, ponendomi al servizio dei cristiani, specialmente dei poveri, dei bisognosi e dei perseguitati che vivono in questo paese islamico. Mi è stato richiesto di porre fine alla mia battaglia, ma io ho sempre rifiutato, persino a rischio della mia stessa vita. La mia risposta è sempre stata la stessa. Non voglio popolarità, non voglio posizioni di potere. Voglio solo un posto ai piedi di Gesù. Voglio che la mia vita, il mio carattere, le mie azioni parlino per me e dicano che sto seguendo Gesù Cristo. Tale desiderio è così forte in me che mi considererei privilegiato qualora – in questo mio battagliero sforzo di aiutare i bisognosi, i poveri, i cristiani perseguitati del Pakistan – Gesù volesse accettare il sacrificio della mia vita. Voglio vivere per Cristo, per Lui voglio morire. Non provo alcuna paura in questo paese. Molte volte gli estremisti hanno desiderato uccidermi, imprigionarmi; mi hanno minacciato, perseguitato e hanno terrorizzato la mia famiglia. Io dico che, finché avrò vita, fino al mio ultimo respiro, continuerò a servire Gesù e questa povera, sofferente umanità, i cristiani, i bisognosi, i poveri. Vedo che i cristiani del mondo hanno teso le mani ai musulmani colpiti dalla tragedia del terremoto del 2005, hanno costruito dei ponti di solidarietà, d’amore, di comprensione, di cooperazione e di tolleranza tra le due religioni. Se tali sforzi continueranno sono convinto che riusciremo a vincere il cuore e le menti degli estremisti. Ciò produrrà un cambiamento in positivo: le genti non si odieranno, non uccideranno nel nome della religione, ma si ameranno le une le altre, porteranno armonia, coltiveranno la pace e la comprensione in questa regione. Credo che i bisognosi, i poveri, gli orfani qualunque sia la loro religione vadano considerati innanzitutto come esseri umani. Penso che quelle persone siano parte del mio corpo in Cristo, che siano la parte perseguitata e bisognosa del corpo di Cristo. Se noi portiamo a termine questa missione, allora ci saremo guadagnati un posto ai piedi di Gesù e io potrò guardarLo senza provare vergogna».

Queste sono le parole di un cristiano: sono parole imbevute di sangue, di quel sangue che, diceva Tertulliano, è fecondo perché è seme di cristiani e c’è da credere che l’assassinio di Bhatti non spegnerà, ma ravviverà la fede cristiana in Oriente, come sempre è accaduto in seguito alle persecuzioni. Ma il fatto che le persecuzioni producano martiri e i martiri aprano la strada alla conversione dei popoli non ci deve far dimenticare che è triste la sorte dei persecutori, in questa terra e nell’altra, come hanno affermato i grandi scrittori cristiani dell’antichità, i quali hanno richiamato i persecutori alle loro terribili responsabilità dinanzi a Dio.

Dobbiamo attestare che le persecuzioni non sono eventi naturali, come i terremoti e i maremoti, dietro ad esse ci sono uomini, imbevuti di odio e di false ideologie o false religioni, e dietro agli uomini ci sono questi sistemi religiosi o ideologici che si chiamano induismo, islamismo, comunismo.

Il Cristianesimo è la religione più perseguitata nel mondo, ma nel mondo il Cristianesimo non perseguita nessuno. In nome dell’induismo, dell’islamismo, del comunismo, del laicismo i cristiani vengono perseguitati.

Il laicismo perseguita i cristiani in Occidente; in maniera incruenta, in maniera dolce, ma non meno terribile, attraverso l’emarginazione e l’isolamento morale, che prepara la strada alla condanna giudiziaria, come già sta avvenendo in alcuni Paesi, per chi critica apertamente le false religioni, o la violazione dell’ordine morale, o per chi vuole esporre pubblicamente i propri simboli religiosi. Per questo a mio parere il nome del ministro pakistano Shalbaz Bhatti va iscritto nell’albo dei martiri, accanto a quello di un altro uomo politico martire, il presidente dell’Ecuador, Gabriel García Moreno. Shalbaz Bhatti è stato vittima dell’Islam, all’alba del XXI secolo; García Moreno fu vittima del laicismo massonico, in America Latina, nell’Ottocento.

Entrambi sono stati testimoni di Cristo. Per chi non conosce il nome di García Moreno, ricordiamo che, nato nel 1821, fu professore, giornalista, sindaco di Quito, senatore e rettore dell’Università, finché nel 1861 fu proclamato Presidente della piccola nazione sudamericana dell’Ecuador. La sua azione spirituale e morale culminò nel 1873, in pieno accordo con l’episcopato nazionale e con entrambe le camere legislative, nell’atto di Consacrazione del Paese al Sacro Cuore di Gesù. García Moreno convinse l’arcivescovo di Quito José Ignacio Checa, a convocare l’episcopato per fare una prima solenne consacrazione della nazione, che avvenne il 30 agosto 1873. García la sanzionò ufficialmente con un decreto governativo e poi, il 25 marzo 1874, nella cattedrale di Quito, in qualità di Capo di Stato, egli stesso pronunciò la consacrazione, proclamando l’Ecuador “Repubblica del Sacro Cuore”.

Lo scopo soprannaturale dell’iniziativa era chiaro: instaurare un nuova economia di grazie fra Cristo e la nazione ecuadoriana per portarla ai vertici morali. L’atto, che voleva anche riparare in una certa misura la mancata consacrazione della Francia al Cuore di Gesù, chiesta da Nostro Signore a Luigi XIV per mezzo di santa Margherita Maria Alacoque, fu poi imitato da diversi altri Paesi latinoamericani e infine dalla stessa Spagna.

Con questo atto García Moreno voleva spingere il suo popolo a riparare alle proprie colpe passate e avviare lo Stato verso una riforma cristiana delle proprie istituzioni. Fu proprio per questo che la Massoneria ordinò di assassinare i promotori della Consacrazione. Quando, il 13 aprile 1873 García Moreno ottenne la consacrazione del suo Paese al Sacro Cuore di Gesù, la sua fama si sparse in tutto il mondo, ma al plauso dei cattolici fecero eco le minacce e le intimidazioni delle forze liberal-massoniche. Tutta la stampa liberale sudamericana reclamò la testa del “tiranno”. Subì un primo attentato. Prima ancora che giungesse la notizia che il colpo era andato a vuoto, la stampa dell’America Latina pubblicò il necrologio del Presidente dell’Ecuador. Le veline erano già pronte lo stesso giorno dell’agguato. A chi gli suggeriva di circondarsi di una scorta, García Moreno rispondeva che non avrebbe avuto modo di proteggersi dalla scorta stessa. Così arrivò al 6 agosto 1875. Nonostante le voci che già circolavano insistentemente su un complotto in atto per assassinarlo, García Moreno fece tutto il tragitto a piedi, senza scorta, dalla Chiesa al palazzo, interrompendolo per recarsi un momento nella cattedrale antistante ad adorare il Santissimo Sacramento. Fu aggredito mentre usciva, sulle scale della Chiesa, a colpi di pistola e di machete. Prima di cadere crivellato di colpi gridò con tutte le sue forze: “Dios no muere”, Dio non muore. Fu la sua ultima frase.

Due anni dopo fu ucciso l’Arcivescovo di Quito, in modo doppiamente sacrilego: avvelenando le specie eucaristiche da consumare in cattedrale il Venerdì Santo dell’anno 1877.

I laicisti anticristiani avevano capito tutta la portata dell’atto di consacrazione al Cuore di Gesù e, dopo l’assassinio dei suoi due grandi protagonisti, fecero precipitare la Nazione in un buio periodo di persecuzione religiosa, che a tratti ricorda quella del Messico contro i cristeros. Questa amara notte per il cattolicesimo ecuadoriano durò fino al 1906: in essa vennero sacrificati sacerdoti, religiose e laici; i vescovi furono mandati in esilio e le profanazioni a chiese e tabernacoli divennero ricorrenti. Oggi, però, l’Ecuador, grazie anche a quel sangue versato, continua ad essere uno dei Paesi più fervidamente cattolici del continente latino-americano. Il grande statista riposa nella cripta della cattedrale e il suo cuore, assieme a quello dell’arcivescovo Checa, è custodito nell’immenso santuario neogotico in pietra dedicato al Sacro Cuore di Gesù che svetta nel centro della capitale.

I martiri sono testimoni della fede che tracciano la strada dei cristiani: strada di affermazione della verità e di lotta per diffondere e difendere la verità contro i lupi che la minacciano. Gesù, nel suo grande discorso per la missione degli apostoli (Mt 10), dice: “Io vi mando come pecore in mezzo ai lupi” (v. 16) e preannuncia: “Guardatevi dagli uomini perché essi vi trascineranno nei tribunali e vi flagelleranno nelle loro sinagoghe” (v. 17) “e sarete condotti per causa mia davanti a governatori e ai re, per rendermi testimonianza davanti a loro e davanti ai gentili” (v. 18).

Il significato specifico del termine martirio è connesso con il “rendere testimonianza”, che raggiunge il suo apice nella professione della frase christianus sum. La testimonianza del martire presuppone e conferma la testimonianza di Colui che “era nato e venuto al mondo per rendere testimonianza alla verità” (Gv 18,37).

Ciò che rende il martire tale non è la morte violenta, ma il fatto che la morte sia inflitta in odio alla verità cristiana: questo elemento causale o finalistico distingue l’olocausto cristiano da qualsiasi altro sacrificio. Il martire deve essere messo a morte a motivo della sua fedeltà a uno dei principi di fede o di morale, di cui la Chiesa è maestra infallibile, secondo il detto agostiniano: martyres non facit poena, sed causa. Non è la morte che fa il martire, dice sant’Agostino, ma il fatto che la sua sofferenza e la sua morte siano ordinate alla verità. La morte subìta per testimoniare la verità è il martirio.

Nella visione cristiana il martirio è la negazione più radicale del relativismo. Il martirio è il “vertice – come afferma Giovanni Paolo II – della testimonianza alla verità”. Esso è anche il più perfetto atto di carità, poiché ci fa perfetti imitatori di Gesù secondo le parole del Vangelo: “Avendo Gesù, Figlio di Dio, manifestato la sua carità, dando per noi la sua vita, nessuno ha più grande amore di colui che dà la sua vita per Lui e per i suoi fratelli” (Gv 3,16; 15,13).

Il martirio è testimonianza della verità, ma la persecuzione testimonia l’esistenza del male che non tollera la proclamazione della verità. Arriviamo alla conclusione: il male esiste, fisico e morale, ed è ineliminabile.

L’uomo combatte il male e ha ragione di farlo, ma sbaglia quando pensa di poterlo vincere da solo, con le proprie forze.

Il supremo male fisico è la morte: su questo tutti concordano. L’uomo si illude di poter vincere la morte prolungando la vita all’infinito, cercando il segreto dell’immortalità e finché non lo trova, cerca di rimuovere il pensiero della morte, opponendo una filosofia di vita del piacere alla filosofia del Vangelo che parte dall’accettazione della morte e della sofferenza.

Il segreto dell’immortalità esiste, ma è spirituale, è la vita eterna, la vita oltre la morte e l’unica via per raggiungere la felicità nella vita eterna è quella di vincere nella vita temporale il peccato, che è l’unica ragione dei mali fisici che ci inondano perché, come dice san Paolo (Rm 5,12), è attraverso il peccato che è entrata nel mondo la morte e tutti i disordini e i mali del mondo hanno la loro sorgente nel peccato originale trasmesso da Adamo all’umanità e nei peccati attuali, commessi ogni giorno dagli uomini.

Morte, malattie, sofferenze, angosce di ogni tipo, tutto è frutto del peccato e tutto può essere vinto dalla vita della Grazia che, morendo sulla Croce, Gesù ha portato agli uomini spalancandoci le porte della vita eterna, dell’eterna felicità. Sono questi i pensieri a cui ci dovrebbero richiamare le tragedie collettive, come i terremoti, permessi da Dio per ottenere beni spirituali più alti della vita materiale, perché le sofferenze materiali non sono il male supremo e Dio le permette, come castighi o come purificazioni, e comunque, sempre, come strumenti di meditazione, per aprire il nostro cuore a beni più alti di quelli materiali.

Ma accanto al male fisico è entrato con il peccato originale, nella vita degli uomini, anche il male morale, che è il peccato, ovvero l’allontanamento da Dio deliberatamente scelto dall’uomo, la trasgressione voluta della legge divina: il male morale, che san Paolo definisce mistero di iniquità, è un terribile e profondo mistero che apre la storia, si rivela nella Passione di Gesù Cristo e si rinnova ancora oggi nella persecuzione dei cristiani, che provoca l’eroismo dei martiri.

Il loro esempio illumina la storia e deve illuminare la nostra vita. Un modo di testimoniare la verità è anche quello di ricordare che dietro le grandi sciagure naturali della storia c’è sempre la mano sapiente e provvidente di Dio.


Senza giustizia non c’è misericordia

di Roberto de Mattei (20 aprile 2011)

Cari amici di Radio Maria e voi, signori ateisti,

che con tanta attenzione seguite le mie trasmissioni e quelle di Padre Livio, questa sera non posso che chiarire e sviluppare i temi di cui alcuni gruppi e lobby mediatiche si sono serviti per attaccare violentemente questa radio e me, fino al punto di chiedere le mie dimissioni da Vice Presidente del Consiglio Nazionale delle Ricerche, malgrado mai in questa trasmissione io abbia parlato a nome del CNR o abbia fatto riferimento ad esso.

Anche oggi parlo come cattolico e come uomo libero, e come tale, dai microfoni di Radio Maria, una radio cattolica e privata, desidero ribadire una verità elementare, una verità che nasce dal buon senso prima ancora che dalle fede: tutto ciò che accade ha un significato; tutto, in una parola, è Divina Provvidenza.

La Divina Provvidenza non è altro che Dio, considerato non in sé stesso, ma nel suo rapporto con le cose create. I cattolici lo proclamano nella Santa Messa quando recitano: “Credo in Dio onnipotente, Creatore del cielo e della terra e di tutte le cose visibili e invisibili”. È questo il principio della nostra fede, a cui tutto è appeso, da cui tutto discende. Il vecchio Catechismo iniziava perciò con queste domande: “Chi ci ha creato?”; “ci ha creato Dio”; “chi è Dio?”; “Dio è l’Essere perfettissimo, creatore e signore del cielo e della terra”.

Tutto è racchiuso in queste formule. Il cielo e la terra, tutte le cose visibili e invisibili sono state create da Lui. Con questa stessa verità sfolgorante si apre la Sacra Scrittura: “In principio Dio creò il cielo e la terra” (Gn 1,1). E con parole analoghe san Giovanni inizia il suo Vangelo: “In principio era il Verbo e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio. Tutto per Lui è stato fatto e senza di Lui non è stato fatto nulla di ciò che esiste” (Gv 1,1). È un dogma di fede, ma è anche un’evidenza di ragione: tutto ciò che esiste ha la sua origine in Dio e tutte le cose visibili e invisibili da Lui ricevono l’essere che hanno e che le mantiene nell’esistenza.

Affermare che Dio esiste e che è il creatore e signore del cielo e della terra, non è un’opzione fideistica, non è un afflato sentimentale, non è un’esperienza incomunicabile, ma è una verità razionale a cui la nostra ragione può arrivare a partire dalla considerazione delle realtà create, che cadono sotto l’esperienza sensibile, quella del mondo che ci circonda.

A dimostrare l’esistenza di Dio dovrebbe bastare l’evidenza dell’universo creato. La bellezza del firmamento, la vastità dei mari e la maestà dei monti, l’esistenza meravigliosa di tutto ciò che vive, dal più infimo microrganismo al bimbo che prende forma nel grembo della madre, tutto ci parla dell’esistenza di Dio e ci fa dire con sant’Agostino:

“Ecco il cielo e la terra esistono e gridano che sono stati fatti […]. Gridano, anche che non si son fatti da sé: per questo siamo, perché siamo stati fatti. Prima di essere, non eravamo, così da poterci fare da noi. Questo loro parlare è costituito appunto dall’evidenza. Pertanto fosti tu, o Signore, a fare il cielo e la terra, tu che sei bello, perché essi sono belli; tu che sei buono, poiché essi sono buoni; tu che sei, poiché essi sono”.

Noi ripetiamo queste parole e leviamo lo sguardo a Dio che riconosciamo come Essere perfettissimo, abisso di tutte le perfezioni, di cui noi siamo privi, ma di cui siamo anche riflesso. Tutto ciò che di vero, di buono, di bello esiste nell’universo riflette la perfezione di Dio, Essere increato, Atto puro, Causa prima e fine ultimo di tutte le cose che sono.

È per questo che i Salmi definiscono stolto chi non crede in Dio (Ps 13,1) e san Paolo nella Lettera ai Romani leva il suo lamento: “Non c’è persona sapiente, non vi è chi cerchi Dio” (Rm 3,11). Chi nega Dio è uno stolto perché nega l’evidenza che gli stessi sensi ci attestano, non perché i nostri sensi vedano Dio, ma perché i nostri occhi vedono le sue opere, e dalle opere possono risalire al loro autore, e proclamare, con la sua esistenza, la sua gloria, come fanno con il loro muto linguaggio i cieli e la terra (Sal 18,2).

Oggi viviamo un’epoca di follia, perché l’esistenza di un Dio creatore, che ha cura di ogni cosa creata, visibile e invisibile, è apertamente negata dalla falsa sapienza del mondo. Le istituzioni politiche e sociali e i mass media che influenzano l’opinione pubblica, ma anche molti cattolici che vivono immersi nell’ateismo pratico, giudicano insipiente chi proclama pubblicamente l’esistenza di Dio e della sua Provvidenza.

Eppure, se noi siamo, se qualcosa, pur nella sua finitezza, è, non può esistere il nulla assoluto. L’evidenza dell’esistenza di qualcosa smentisce la possibilità del nulla assoluto: il nulla non può che essere relativo a qualcosa che è; questa è la prima evidenza; la seconda evidenza che si impone è che tutto ciò che esiste ha un limite, è contingente, è finito, non ha in sé stesso la sua origine e la sua ragione. Ma da dove viene allora ciò che non è né il nulla assoluto, né l’assoluto essere? Chi, se non un Essere infinito, può avere avuto la forza di trarci dal nulla?

Dal nulla, nulla viene, nulla si fa. Solo una causa infinita può togliere l’infinita sproporzione tra il nulla e l’essere, superarne l’incolmabile distanza. Il nulla assoluto non esiste, ma esiste necessariamente l’Essere assoluto, che è Colui che trae dal nulla tutte le cose che sono. L’uomo può fare molte cose, manipolando con la tecnica la realtà fisica che lo circonda, ma non sarà mai in grado di produrre l’essere dal nulla. Ciò che vale per noi vale per l’universo intero. L’universo ha avuto un’origine che la favola dell’evoluzione non spiega, perché retrocedendo nel tempo per milioni o miliardi di anni, come vorrebbero gli evoluzionisti, arriveremmo comunque a un punto di partenza, a un atomo originario, ad un grumo di materia da cui, con o senza Big Bang, tutto sarebbe scaturito. Ma cosa c’era prima di questa esplosione primordiale? Chi ha tratto il primo pulviscolo di materia dal nulla, se non un Dio assoluto e onnipotente, capace di creare, ovvero di produrre l’essere dal nulla? Oppure riteniamo che la materia stessa sia eterna, infinita, pensante e auto-creante? È questa la vecchia dottrina dei panteisti, più radicale e coerente di quella degli atei, ma altrettanto sciocca e insipiente.

Colui che ha creato le cose dal nulla, le mantiene nell’essere dopo averle create. Tutto ciò che esiste, dal granello di sabbia alle vette dei monti, dal filo d’erba al bimbo che nasce, riceve da Dio l’essere in ogni momento della sua esistenza. Se Dio per un attimo sottraesse al creato l’essere, il creato ripiomberebbe in quel nulla da dove Dio lo aveva tratto. Gli atei che balbettano le loro blasfemie prive di senso possono farlo solo perché Dio lo permette: potrebbero in un attimo precipitare nell’abisso del nulla, se solo Dio lo volesse; ma Egli non lo fa perché, dopo aver creato l’universo, non si limita a conservarlo nell’essere, ma lo dirige a un fine e anche le offese che riceve fanno parte di un progetto di cui i negatori di Dio sono inconsapevoli strumenti.

Dio non solo chiama le cose dal nulla all’essere; non solo, dopo averle create, le mantiene nell’essere, ma assegna pure alle cose create un fine da conseguire, e verso questo fine le guida e le dirige. Questo scopo è Dio stesso, il primo principio da cui nulla dipende, da cui tutto deriva, a cui tutto ritorna, “alfa e omega, primo e ultimo, principio e fine” (Ap 22,13). Tutto ciò che Dio ha fatto è stato prodotto per un fine e il fine ultimo di ciò che Egli ha creato non può essere altro che Egli stesso, perché altrimenti bisognerebbe immaginare che l’universo potesse tendere a un fine ultimo estraneo a Dio, che è ciò da cui tutto proviene e a cui tutto necessariamente ritorna. Immaginare che ci sia qualcosa che non ha Dio per fine, sarebbe come dire che c’è qualcosa che non ha Dio per causa; ma, in questo caso, Dio non sarebbe Dio, perché qualcosa gli verrebbe sottratto, né si capirebbe da dove questo qualcosa trarrebbe la sua ragione di essere. Non esistono cause, fini o perfezioni nell’universo indipendenti da Dio: nulla è infatti fuori di Lui, causa prima, ma anche primo fine di tutto ciò che è, e per questo la Scrittura dice che “il Signore ha fatto tutto per la sua gloria” (Prv 16,4).

Tutto va ricondotto a Dio, come causa prima e come fine ultimo, non perché Egli abbia bisogno di nulla, ma perché, essendo Sommo Bene, chiama le creature dal nulla all’essere per farle partecipare ai suoi beni, per diffondergli il suo amore, perché il Bene è per sua natura diffusivo. Dante lo esprime in questi versi:

Non per aver sé di bene acquisto / Ch’esser non può, ma perché suo splendore / Potesse, risplendendo, dir: ‘Subsisto’ / S’aperse in nuovi amor l’eterno amore.

Dio non solo assegna un fine ad ogni cosa, ma fa in modo che ogni cosa raggiunga il suo fine. Se Dio assegnasse un fine a tutte le cose e qualcosa non raggiungesse il suo fine, la Sapienza e l’Onnipotenza di Dio ne uscirebbero diminuite e ciò contraddice all’essenza stessa di Dio. Tutto raggiunge il suo fine, niente si sottrae al governo di Dio.

“Essendo proprio dell’ottimo – dice san Tommaso – fare sempre cose ottime – non conviene che la divina bontà lasci le cose, da essa prodotte, imperfette. E siccome l’ultima perfezione di ogni cosa è rappresentata dalla consecuzione del fine, appartiene alla divina bontà non solo produrre le cose, ma anche guidarle al loro fine; nel che appunto consiste il governare”.

Questo governo dell’universo creato è propriamente la Divina Provvidenza, che san Tommaso definisce “l’ordinamento delle cose verso il loro fine” e, in senso figurato, noi possiamo definire come la mano di Dio che opera nel tempo ciò che la sua mente divina ha pensato e voluto dall’Eternità.

La Sacra Scrittura attribuisce il governo delle cose alla Divina Sapienza che, fin dall’eternità, ha dato ordine ai cieli e alla terra, ha stabilito le leggi misteriose dell’universo e ha disposto “tutte le cose in un certo peso, ordine e misura” (Sap 11,21).

Il Concilio Vaticano I lo ha ribadito:

“Dio per mezzo della sua Provvidenza protegge e governa tutte le cose che ha creato, arrivando da un’estremità all’altra con potenza e tutto disponendo con soavità”.

Dio non è indifferente a ciò che ha creato, ma si occupa del più piccolo, del più dimenticato, del più umile degli esseri che ha creato, perché ognuna delle sue creature reca la sua impronta ed è da Lui amata e guidata al suo fine. Può farlo perché è onnipotente e onnisciente, perché sa e può ogni cosa: è Dio. Non solo può farlo, ma lo fa, perché ama infinitamente le sue creature.

È qui che cade il problema del male, che alcuni vedono incompatibile con l’esistenza di un Dio infinitamente buono. Se tutto dipende da Dio, come si spiega il male nell’universo? Qualcosa è sfuggito alla Provvidenza Divina, oppure si deve ritenere che Dio è l’autore del male?

Dobbiamo rispondere che il male esiste, ma non in sé stesso: esiste solo come privazione di bene. Esiste il Bene assoluto, che è Dio, ma non esiste il male assoluto, così come esiste l’Essere assoluto, ma non esiste il nulla assoluto. In Dio, sommo Bene, non esiste alcun male, perché in Dio non c’è privazione di nulla, c’è solo la pienezza dell’essere e delle sue perfezioni. Il male esiste solo nella creatura, come privazione di bene che consegue alla sua finitezza. Il male, come il falso o il brutto, non è una realtà o entità positiva, qualcosa che esiste per sé stessa, ma è la negazione di una determinata entità in un determinato soggetto. Esiste ad esempio la verità, ma non esiste in se stessa la falsità: il falso, per esistere, ha bisogno di una verità che nega o che deforma; allo stesso modo la bruttezza non esiste in sé, ma solo come negazione o deformazione del bello; il male non esiste in sé, ma solo come privazione dell’essere fisico o morale a cui si riferisce.

 Il male è di due tipi: fisico o morale, a seconda che fisica o morale sia la perfezione che esso nega. Il primo è comune a tutti gli esseri creati: minerali, piante, animali, uomini. Il secondo è quello che solo le creature razionali, uomini o angeli, compiono, esercitando le facoltà che sono loro proprie, ovvero l’intelligenza e la volontà.

Il male morale, che san Paolo definisce mysterium iniquitatis, è un terribile e profondo mistero, che ha le sue radici nella libertà della creatura razionale, chiamata a unirsi alla volontà divina o a separarsi irrimediabilmente da essa. Esso è conseguenza del dono della libertà. Dio infatti ha creato gli uomini per essere felici e perché la loro felicità fosse più grande ha dato loro la libertà. Ma le creature, quali noi siamo, non possiedono una perfetta e assoluta libertà: ciò ci equiparerebbe a Dio; però non siamo neanche animali necessitati a muoversi dai loro istinti, privi di libertà. Siamo uomini capaci di intendere e di volere, liberi come i nostri progenitori, di rispondere sì o no all’amore che Dio ha per noi. Il male morale, che chiamiamo anche peccato, non è altro che il nostro rifiuto dell’amore di Dio, il non riconoscerlo con le parole, o con i fatti, come nostro principio e nostro ultimo fine, come padrone della vita e della libertà che ci ha dato. Il mistero del male morale dell’uomo, non è altro che il mistero di una creatura che si ribella al suo creatore, che proclama la sua autosufficienza, la sua indipendenza, senza avere in sé la possibilità di fare nulla, perché tutto ciò che siamo dipende da Dio e senza di Lui nulla possiamo fare.

Il male fisico è molto più comune e vasto di quello morale, perché mentre il male morale è ristretto alle creature dotate di ragione e di volontà, responsabili delle loro azioni, il male fisico è comune a tutti gli esseri, ragionevoli e irragionevoli. Il male fisico è entrato nella storia dell’umanità con il peccato originale commesso da Adamo ed Eva. San Paolo ce lo insegna: “Come a causa di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo e al peccato la morte, così anche la morte ha raggiunto tutti gli uomini perché tutti hanno peccato” (Rm 5,12). La precarietà del corpo umano, le sofferenze, la morte, dipendono solo dal peccato originale, con il quale Adamo e i suoi discendenti persero il dono dell’immortalità. Dio aveva creato l’uomo immortale: dopo il peccato la vita umana fu, come dice sant’Agostino, “un correre verso la morte”.

Eppure Dio, dal male fisico e morale che permette, sa trarre un bene superiore a questo male, per quanto grave esso sia.

Il male morale, ad esempio, è un’offesa alla suprema autorità di Dio, una violazione della sua legge, ma Egli lo trasforma in una proclamazione della verità. Non ci sarebbero le splendide affermazioni delle verità della fede, senza le negazioni degli eretici e degli empi, così come non ci sarebbe l’eroismo dei martiri senza la crudeltà dei persecutori. Per questo sant’Agostino dice che i cattivi hanno il potere di peccare, ma non hanno quello di assicurare al loro peccato i fini che si sono proposti.

Per quanto riguarda i mali fisici, la loro ragione ultima è riassunta da una frase di san Tommaso:

“I mali che ci assillano in questo mondo ci costringono ad andare a Dio”.

Il male, il dolore, la sofferenza, spesso aprono gli occhi agli uomini e li conducono a Dio. Il male morale dipende dalla volontà dell’uomo ed è permesso da Dio. Il male fisico è anch’esso permesso da Dio ma per un bene più alto. Per questo dobbiamo convincerci che tutto ciò che non dipende dalla nostra volontà dipende dalla volontà di Dio, a cui dobbiamo uniformarci.

Al male fisico nessun uomo può sottrarsi. Al male non è neppure sfuggito Gesù Cristo, l’Uomo-Dio, che pur non avendo commesso alcun male, ha voluto soffrire tutte le conseguenze del male compiuto dagli uomini, incarnandosi per redimerci.

Il mistero dell’amore del Redentore si accompagna al mistero del male degli uomini. È un mistero che la ragione fatica a comprendere, quello dell’immenso amore che porta Dio, dopo averci creato, ad assumere su di sé le pene dei nostri peccati, a soffrire realmente le pene più atroci per salvarci e renderci felici. Ed è un mistero, che la mente fatica a comprendere, la follia degli uomini che chiudono gli occhi di fronte all’evidenza dell’amore di Dio per scegliere liberamente di odiarlo e di essere infelici, nel tempo e nell’eternità. Esiste per gli uomini, alla fine del tempo, un’eternità felice nel Paradiso e un’eternità infelice nell’Inferno, perché Dio, non solo è Provvidente, ma è anche infinitamente giusto e la retribuzione dei meriti o dei demeriti delle creature libere è espressione della sua giustizia.

Dio è buono, Dio è amore, afferma chi rifiuta l’idea di una giustizia infinita. Ma Gesù nel suo ultimo discorso agli Apostoli dice loro: “Se mi amate osservate i miei comandamenti” (Gv 15,21). Chi ama Dio, osserva la sua legge. Non c’è vero amore al di fuori dell’osservanza della legge divina e naturale, perché chi ama fa la volontà dell’amato e la volontà di Dio è espressa innanzitutto nella legge che Egli ha dato agli uomini e che la Chiesa conserva.

Essendo di Dio, misericordia e giustizia sono dunque inscindibili. Egli, trattandoci con giustizia, ci ama e quindi ci tratta con giustizia. Quest’ultima viene unita alla misericordia e diventano perfezione divina che in Dio non si possono separare. All’atto di giustizia della cacciata dell’uomo dal Paradiso terrestre è seguito il supremo atto di misericordia dell’Incarnazione, con cui Dio è venuto per redimere i peccatori, per cercare e salvare quelli che erano perduti. Non c’è nessun peccato che supera la misericordia di Dio. Tutti i peccati immaginabili degli uomini, paragonati alla sua misericordia, sono come una goccia d’acqua equiparata a un oceano infinito. La parabola del Figliol prodigo, che san Luca riporta nel suo Vangelo (15,11-32), è il poema di questa misericordia divina. Ma il Figliol prodigo è perdonato dal Padre perché si è pentito del suo peccato. Il Dio che punisce è anche il Dio che perdona, ma il perdono misericordioso, se cancella la pena, non cancella la gravità della colpa. Dio ha una misericordia infinita per il peccatore, ma un odio altrettanto ardente verso il peccato. A santa Faustina Kowalska, l’apostola della Divina Misericordia, Gesù apparve ricordando che la sua Misericordia non ha limiti, abbraccia e perdona ogni peccatore, ma Dio ha orrore del più piccolo peccato.

“Dì ai peccatori che nessuno sfuggirà alle mie mani. Se fuggono davanti al mio Cuore misericordioso, cadranno nelle mani della mia giustizia”.

La misericordia infinita di Dio ci accompagna fino al momento della nostra morte, ma quando quel giorno giunge, suona irrimediabilmente per l’anima l’ora della giustizia.

La Provvidenza è lo svolgersi di un disegno divino, infinitamente misericordioso, nel tempo e nello spazio creato. Ma se Dio, attraverso i disegni della Divina Provvidenza, esercita la sua misericordia nel tempo, esercita poi la sua Giustizia nell’eternità, perché Egli, Creatore e Signore del cielo e della terra, è anche Giudice: nel giorno del giudizio, secondo il nostro Credo, “verrà a giudicare i vivi e i morti”.

Un giudizio finale attende gli uomini. Dio ci giudicherà perché è giusto. Nel messaggio cristiano l’attesa del Giudizio universale è una verità fondamentale. Se il giudizio particolare che ci attende al momento della morte sarà un fatto invisibile ed intimo tra l’anima e Dio, il giudizio universale sarà al contrario visibile a tutti. Cristo, che fu giudicato dal mondo, siederà come giudice del mondo. Tutti i disegni e le opere di Dio saranno rivelati e il mondo conoscerà le opere di ciascuno. La sentenza del giudice sarà definitiva:

“Allora – dice il Vangelo – il Re dirà a quelli che saranno alla sua destra: ‘Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il Regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo’ e poi dirà a quelli che saranno alla sua sinistra: ‘Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno preparato per il diavolo e per i suoi angeli’” (Mt 25,31-46).

Sarà questa la pena più terribile per i dannati: ero libero; Dio mi chiamava, Dio sussurrava al mio cuore, Dio mi invitava a un banchetto di amore e io scientemente, deliberatamente, ho risposto di no, ho anteposto al banchetto di amore eterno l’effimero banchetto dei piaceri e degli onori del mondo. Ho preferito tuffarmi nell’amaro godimento di un attimo e ho rifiutato la felicità che il Signore aveva preparato per me nell’eternità. Sono io, quell’io di cui mi ero tanto gonfiato, quell’io che avevo posto al centro di tutto, la causa delle mie sofferenze eterne, della mia eterna infelicità. E ormai è troppo tardi. Se solo fosse possibile tornare indietro, si lamenterà il dannato, se fosse possibile lanciarsi nelle braccia del Dio di amore e di misericordia che mi attendeva! Troppo tardi. È finito il tempo della misericordia, è suonata l’ora dell’eterna Giustizia. Dio è infinitamente misericordioso e me lo ha mostrato in ogni modo, nella mia vita; ma è anche infinitamente giusto e l’Inferno e il peccato sono la prova della sua Giustizia. Se non esistessero l’Inferno e il Paradiso, Dio non sarebbe giusto, ma se non fosse giusto non sarebbe neppure misericordioso e se non fosse infinitamente giusto e misericordioso come è, non sarebbe Dio. Dio, invece, è uguale a se stesso nell’eternità. Egli è, è sempre stato e sempre sarà, e i cieli e la terra, il Paradiso e l’Inferno cantano la sua gloria.

Fu quello che annunciò san Paolo all’Areopago di Atene, circondato dai dotti e dagli scienziati del suo tempo. Dio, disse l’Apostolo:

“Ha fissato un giorno nel quale con giustizia giudicherà il mondo; per questo egli ha stabilito un uomo, accreditandolo col farlo risorgere dai morti. Quando gli uditori sentirono parlare di resurrezione di morti, cominciarono a prenderlo in giro, altri invece gli dissero semplicemente: su questi argomenti ti ascolteremo un’altra volta” (Atti 17,31ss).

Il pensiero del giudizio universale deve accompagnare la nostra vita. Dio esiste, Dio ci ha creato, a Lui dovremo rendere conto di ogni parola, di ogni azione, che Lui ci ha donato nella nostra vita e che solo a Lui appartiene. Lo stolto che si proclama ateo non nega Dio, ma nega il Dio che giudica, perché, supponendolo assente, pensa di poter peccare più impunemente. Ma l’alternativa a Dio, ovvero l’esito inesorabile dell’ateismo, è il nichilismo: tutto finisce nel nulla, tutto inizia dal nulla, tutto è nulla, dal nulla le cose emergono e in esso sprofondano. E se tutto è nulla non c’è ragione che guidi la vita e l’universo. Tutto è solo voragine, “abisso orrendo, immenso”, come scrive Giacomo Leopardi nel Canto notturno di un pastore errante dell’Asia. Ma il nulla non esiste: esiste l’eternità.

L’uomo ha un’anima immortale e un destino ultraterreno: se rifiuta la misericordia di Dio nel tempo, conoscerà la sua giustizia nell’eternità. Il tempo è l’ora della misericordia, l’eternità è l’ora della giustizia. Per questo i castighi nell’eternità sono atti di giustizia inappellabili e conclusivi, mentre i castighi nel tempo sono atti di misericordia verso gli uomini o verso i popoli per chiamarli al pentimento.

Tutto è Divina Provvidenza

Tutto è Divina Provvidenza significa che nulla accade senza che sia voluto o permesso da Dio: “Anche i capelli del vostro capo sono tutti contati”, dice Gesù (Lc 12,7). Il detto popolare riassume il concetto in queste parole: “Non si muove foglia che Dio non voglia”. Ma se ogni movimento, seppur minimo, dell’universo è voluto o permesso da Dio e ha quindi una sua ragione, che cosa bisogna pensare quando a scuotersi non è una foglia, ma la terra stessa?

Sempre nell’animo umano i terremoti e le catastrofi naturali furono considerate voci di Dio. Ciò non contrasta col fatto che esiste una spiegazione scientifica dei fenomeni naturali. I terremoti seguono le leggi della natura, che lo scienziato deve indagare, ma l’autore della natura stessa è Dio, che mantiene il perfetto equilibrio dell’ordine fisico naturale e permette talvolta che quest’equilibrio sia sospeso per i suoi misteriosi disegni, ma sempre per una ragione.

Terremoti, epidemie, guerre, sconvolgimenti storici e naturali di ogni genere hanno accompagnato fin dalle origini la vita dell’uomo e sempre l’uomo vi ha visto la mano di Dio, interpretandoli spesso come castighi per l’umanità. Le sofferenze dei singoli, quando non sono volute, ma subìte, non sono castighi, ma purificazioni volute per il bene delle anime. Ma la teologia cristiana della storia insegna che quando è un popolo a soffrire una grande catastrofe si tratta spesso, non necessariamente di un castigo, che serve a scontare i peccati sociali.

Le sciagure collettive non sono permesse da Dio solo per scontare i nostri peccati sociali, ma anche per ricordarci la nostra precarietà e per sollevare il nostro sguardo verso il cielo, o per purificarci attraverso la sofferenza, ma sempre per ottenere un bene maggiore alle anime; tra questi beni ci può essere anche lo slancio di solidarietà tra i sopravvissuti, l’abnegazione e la generosità dei soccorritori e di coloro che aiutano le vittime con preghiere, sacrifici personali e aiuti materiali o spirituali.

Nel corso degli eventi storici, la giustizia di Dio non è mai separata dalla sua misericordia. La collina del Calvario è il luogo e il momento in cui l’opera della creazione trovò il suo compimento e l’Amore di Dio per gli uomini raggiunse il suo apice. Ma il supremo atto di amore di Gesù fu accompagnato da un terremoto che scosse tutta la terra, come a dimostrare l’orrore della natura per il delitto compiuto. Quando Gesù, gettando un grido, rese il suo spirito, “la terra tremò e le pietre si spezzarono” (Mt 27,51) e il centurione e quelli che erano con lui, ricorda Matteo, “visto il terremoto e ciò che accadeva, ebbero gran timore e dicevano: ‘Costui veramente era il Figlio di Dio’” (Mt 27,55).

Nel terremoto il centurione Longino vide la mano di Dio e, intimorito, proclamò la Divinità di Cristo. Quando la terra trema gli uomini sono presi anch’essi da tremore, che è l’inizio della Sapienza, e volgono lo sguardo a Dio. Quando la terra trema, il grido che si leva dai nostri cuori dovrebbe essere quello del centurione: Dio esiste e noi lo abbiamo colpito. Il terremoto convertì Longino, che proclamò la divinità di Cristo, le catastrofi di oggi toccheranno le nostre menti e i nostri cuori?

I terremoti non sono le uniche catastrofi della storia, ma sono le più eccezionali. Anche le guerre e le rivoluzioni sono state considerate castighi di Dio; come pure la fame, dovuta a siccità e carestia; le epidemie, come la peste, che hanno afflitto la storia. A fame, peste et bello libera nos Domine: è l’invocazione liturgica che nel corso dei secoli si è ripetuta nelle Rogazioni, ovvero nelle processioni indette dalla Chiesa per implorare l’aiuto del cielo contro le calamità.

Una processione di questo genere fu promossa a Roma dal Papa san Gregorio Magno, nell’anno 590, all’indomani della sua elezione al pontificato, in un momento in cui la città di Roma era stata colpita da una terribile peste. La processione guidata dal Pontefice si snodò nella Città Santa e, secondo la tradizione, quando giunse davanti alla Mole Adriana, oggi Castel Sant’Angelo, fu visto nel cielo un Angelo rimettere nel fodero una spada insanguinata, come segno della cessazione dell’immane flagello. Fu in quest’occasione che sarebbe nata l’antifona Regina coeli Laetare alleluia, cantata dagli angeli, a cui san Gregorio rispose con la sua voce. Molti potrebbero considerarla una pia leggenda, ma l’Angelo con la spada ancora si staglia su Castel Sant’Angelo, imprimendo il suo monito nella memoria collettiva.

Dio, Causa prima, si serve degli angeli come cause seconde. San Tommaso afferma che “tutte le cose fisiche sono governate dagli angeli”. Ciò significa che gli angeli governano tutto ciò che è compreso nell’universo, dal microcosmo degli atomi all’immenso mondo degli astri. Ciò non è anti-scientifico. Il linguaggio della fede e della metafisica non nega il ragionamento della scienza, ma lo oltrepassa. Ed è in questa prospettiva metafisica e soprannaturale che l’uomo di scienza cattolico deve cercare di comprendere le catastrofi, anche recenti, che affliggono l’umanità. Pensiamo ad esempio al terremoto di Messina, analogo a quello del Giappone per le sue tragiche conseguenze.

All’alba del 28 dicembre 1908, una violentissima scossa di terremoto, durata non più di trenta secondi, del decimo grado della scala Mercalli, seguita da un terribile maremoto, distrusse la città siciliana e si estese alle coste calabre. Le vittime furono oltre 80.000 e Messina venne ridotta a un cumulo di macerie. L’Italia e il mondo rimasero sgomenti di fronte alla portata di tale catastrofe. Si creò immediatamente una catena di solidarietà per portare aiuto ai sopravvissuti; tra coloro che più si prodigarono per aiutare le vittime sono scritti a lettere d’oro i nomi di due sacerdoti, poi canonizzati dalla Chiesa: don Luigi Orione e padre Annibale Maria Di Francia.

Padre Annibale Di Francia, fondatore dei Rogazionisti e delle Figlie del Divin Zelo, era un uomo del Sud, nato a Messina nel 1851, che dedicò tutta la sua vita a rispondere all’appello del Signore secondo cui “la messe e abbondante, ma gli operai sono pochi. Pregate dunque il Padrone della messe, perché mandi operai alla sua vigna” (Mt 9,38).

Don Luigi Orione, fondatore della Piccola Opera della Divina Provvidenza, era un uomo del Nord, nato nel 1872 a Tortona, e dedicò tutta la sua vita, come Annibale Di Francia, a un generoso apostolato per portare soccorso spirituale e materiale alle anime, in nome della Divina Provvidenza.

Padre Annibale aveva proprio a Messina la sua base di apostolato, in un quartiere chiamato Avignone, dove aveva raccolto centinaia di orfanelli. Quando venne il terremoto, tutto a Messina crollò, tranne le povere case del quartiere Avignone, dove tutti gli orfanelli di padre Di Francia rimasero illesi. E quando il 14 gennaio 1909 don Orione giunse a Messina, aprendosi un varco tra i ruderi e le voragini della città distrutta, fece proprio del quartiere Avignone, l’unico ancora parzialmente in piedi, quello che fu chiamato il “Quartiere generale della carità”. Fu allora che don Orione, nominato vicario generale della Diocesi, conobbe padre Di Francia e tra i due sacerdoti si strinse un’indissolubile amicizia cementata, nello spazio di tre anni, dalle preghiere e dalle fatiche che li logorarono. Padre Di Francia morì il 1 giugno del 1927; don Orione lo raggiunse in Paradiso il 12 marzo del 1940. Entrambi furono iscritti nell’albo dei santi da Giovanni Paolo II.

Questi due sacerdoti, che nessuno oserebbe accusare di mancanza di cuore o di carità, erano convinti che il terremoto di Messina fosse stato un castigo divino. Nella mattina di domenica del 27 dicembre 1908 erano apparse nella città strisce con la scritta “Gesù Cristo non è mai esistito”, e per dimostrare l’empia affermazione, alla sera, in un pubblico dibattito era seguita una processione blasfema che era giunta fino alla spiaggia: un crocifisso era stato buttato a mare tra lazzi e oscenità, mentre il circolo Giordano Bruno si riuniva per decretare la distruzione della religione in Messina. Sempre quella domenica, 27 dicembre 1908, sul giornale satirico Il Telefono si poteva leggere una parodia di Natale con la sacrilega invocazione a Gesù Bambino, rimasta tristemente famosa: “O Bambinello mio – vero uomo e vero Dio – per amor della tua croce – fa sentir la nostra voce – Tu che sai, che non sei ignoto – manda a tutti un terremoto”.

Poche ore dopo Messina fu rasa al suolo. Questa poesiola fu fatta diffondere da don Orione, mentre tutti i messinesi ricordavano come in una predica fatta in cattedrale, il 16 novembre 1905, sant’Annibale Maria Di Francia avesse preannunziato il terribile terremoto con queste impressionanti parole, che propongo alla vostra meditazione:

«Senza mezzi termini, senza reticenze e timori, io vi dico, o miei concittadini, che Messina è sotto la minaccia dei castighi di Dio: essa non è meno colpevole di tante altre città del mondo che sono state distrutte o dal fuoco o dalle guerre o dai terremoti: deve dunque aspettarsi da un momento all’altro di subire anch’essa la stessa sorte… Ecco il terribile argomento del mio lacrimevole discorso. Io comincio a farvi una enumerazione di tutti quei motivi pei quali i castighi del Signore su questa città appariscono alla mia atterrita fantasia quasi inevitabili.

1) Il primo motivo è che i nostri peccati reclamano i castighi di Dio. Presso di noi “peccato” è una parola di poco peso. Lo commettiamo con la massima facilità, ci abituiamo assai naturalmente, arriviamo a bere l’iniquità come acqua e con l’anima piena di peccati e di delitti ridiamo, scherziamo, dormiamo e pensiamo ad acquistarci il ben vivere per peccare ancora di più. Se qualche volta ci pentiamo, è un pentimento superficiale e momentaneo: ben presto si torna al vomito. Leggiamo la Sacra Scrittura, interroghiamo la storia di tutti i secoli, e noi troviamo che Dio punisce non solo nell’altra vita, ma anche in questa. Diluvi sterminatori, terremoti distruttori, guerre, epidemie devastatrici, carestie, siccità, mali sempre nuovi e incogniti: tutto dimostra che Iddio castiga severamente i peccati anche in questa vita. Messina ha peccati?

O miei concittadini, rispondetelo voi! Qui la bestemmia regna sovrana. Qui l’indifferentismo religioso non è poco; qui l’usura, il furto, gli omicidi apertamente, per strada, di giorno. Qui la cattiva stampa. Qui gl’insegnanti atei, le superstizioni sono all’ordine del giorno.

Vi è lo spiritismo, vi sono le magherie, vi sono i sortilegi. In Messina vi è la disonestà divenuta abitudine; vi è l’avarizia e la durezza del cuore per cui si lasciano perire i poveri e il danaro si spende piuttosto nel lusso. Tutti questi peccati gridano al Signore: “Signore, affrettati punisci!”.

2° Un secondo motivo per cui dobbiamo ritenere per certi i castighi di Dio, è che tante altre città a noi vicine hanno già avuto questi castighi, appunto perché avevano i nostri stessi peccati. Ora, se Dio punì quelle città che avevano questi stessi peccati, perché non punirà anche noi? Dio è giusto.

3° I castighi di Dio verranno su di noi perché abbiamo avuto diversi avvisi e non ne abbiamo fatto caso. Undici anni or sono, la terra ci tremò sotto i piedi. Dopo 4 anni, il 1898, terremoti: minore fervore. Finalmente 40 giorni fa terremoti. Che si fece? Nulla! Il popolo, le famiglie rimasero indifferenti! Ci siamo abituati. Ci sembra che godiamo d’un privilegio d’immunità presso Dio e che possiamo peccare a nostro bell’agio. Ah, non è così! Tutti questi replicati avvisi non sono che i lampi e i tuoni precursori dell’imminente scoppio dell’uragano!

4° La nostra storia, fin dall’origine, ci accerta che Messina, quando in un’epoca quando in un’altra, è stata visitata sempre dal divino flagello. Il passato insegna l’avvenire. Se Iddio per tanti secoli ha fatto così con questa città, perché deve mutare adesso la sua condotta?

E qui non posso nascondervi, fratelli miei, che appunto il terremoto è il flagello col quale io temo che il Signore voglia punirci. Diverse ragioni di ciò mi persuadono:

1° In primo luogo, regna in Messina tale indifferentismo, tale acquiescenza col peccato, tale noncuranza dei castighi di Dio, che abbiamo bisogno di essere scossi: abbiamo bisogno di un castigo che ci scuota, che ci atterrisca, che ci risvegli! E tale è il terremoto, quando è veramente forte sterminatore!

2° Questo è il flagello che pare abbia preso Iddio attualmente nelle sue mani: questo flagello ha fatto rumoreggiare. E le minacce che ci ha fatto non sono state minacce di guerra ma di terremoti!

3° Perché il terremoto per quanto è terribile ha però questo di buono, che apporta una conversione generale! È un gran missionario. Si resiste alle prediche. Ma quando ci sentiamo tremare.

Il terremoto è un gran missionario. Queste parole sono troppo dure? Sono prive di carità e di pietà? Queste sono le parole di un uomo che dedicò la sua vita ai poveri e agli afflitti, l’uomo più santo che viveva a Messina, tanto che don Orione, scavando tra le rovine, ripeteva una frase rimasta nella memoria collettiva: “Ma voi sapete quale grande santo avete in Messina?”. Questo santo era padre Annibale Di Francia, che nel 1905 aveva preannunciato ai suoi concittadini la distruzione della città, come punizione dei loro peccati, e fu canonizzato da Giovanni Paolo II il 16 maggio 2004.

Questo è il linguaggio dei santi, rifiutato dai tiepidi, dai pavidi, da coloro che si fanno un’immagine di Dio a loro uso e piacere, coloro che rifiutano il Dio giusto e non si rendono conto che con ciò rifiutano anche il Dio misericordioso.

Non stiamo ricordando il linguaggio dell’Antico Testamento e neppure le parole profetiche di santi medievali come san Vincenzo Ferreri, che nelle sue prediche in cui annunciava castighi per l’umanità si proclamava l’Angelo dell’Apocalisse. Parliamo di santi del ventesimo secolo, di apostoli della carità, come san Luigi Orione e sant’Annibale Maria Di Francia.

Ma anche il Beato Giovanni XXIII, il Papa Buono, il 28 dicembre del 1958, commemorando il cinquantesimo anniversario del terremoto di Messina, inviò un radiomessaggio Ai diletti figli della città di Messina, in cui, dopo aver invitato i messinesi a sperare sempre nel materno patrocinio della Madre di Dio, diceva:

«Bisogna però che la speranza vostra non sia presunzione; bisogna cioè che voi, accogliendo il consiglio che Ella dava alle nozze di Cana, facciate tutto ciò che Gesù vi dice (cfr. Gv 2,5). Egli vi dice di fuggire il peccato, causa principale dei grandi castighi, di amare Dio al di sopra di tutte le cose, di riporre in Lui solo la vostra speranza e la vostra difesa contro le calamità […] in quest’ora tremenda in cui lo spirito del male adopera ogni mezzo per distruggere il Regno di Dio, debbono essere impegnate tutte le energie per difenderlo, se volete evitare alla vostra città rovine immensamente più grandi di quelle materiali disseminate dal terremoto cinquant’anni orsono».

C’è un rapporto dunque tra le rovine materiali e quelle spirituali che colpiscono le città e i popoli. Lo manifestava il Signore a santa Faustina Kowalska, annunciandole il castigo di una città, Varsavia, per i peccati che in essa si commettevano, soprattutto

Soprattutto l’aborto, che è un omicidio che grida vendetta al cospetto di Dio. Varsavia fu distrutta durante la Seconda guerra mondiale. Papa Giovanni Paolo II, devoto di santa Faustina, che alla Divina Misericordia dedicò una delle sue prime encicliche, la Dives in Misericordia (1980), in un’altra enciclica, l’Evangelium Vitae, condannando l’aborto, ricorda che “Dio non può lasciare impunito il delitto” (n. 9) e “dopo il delitto Dio interviene a vendicare l’ucciso” (n. 8). Le parole di Papa Wojtyla non nascono dall’ira, ma esplicitano un concetto che appartiene alla tradizione cattolica. È lo stesso Giovanni Paolo II a spiegare che da questo testo la Chiesa ha ricavato la denominazione di “peccati che gridano vendetta al cospetto di Dio” e vi ha incluso, anzitutto, l’omicidio volontario.

Giovanni Paolo II ricorda l’esistenza di peccati che gridano vendetta al cospetto di Dio e il Nuovo Catechismo della Chiesa Cattolica ribadisce quali sono questi peccati:

“Gridano verso il cielo: il sangue di Abele; il peccato dei sodomiti; il lamento del popolo oppresso in Egitto; il lamento del forestiero, della vedova e dell’orfano; l’ingiustizia verso il salariato”.

Giovanni Paolo II, il Papa che parla dei peccati che gridano vendetta al cospetto di Dio, è anche il Papa della Dives in Misericordia. C’è contraddizione in questo? No, perché Dio è si infinitamente misericordioso, ma è anche giusto, come ribadisce Giovanni Paolo II, quando dice che l’aborto, come la sodomia, è un peccato che grida vendetta al cospetto di Dio.

Sappiamo come Dio punì il peccato di Sodoma e Gomorra con la distruzione di quelle città. Qualcuno potrebbe dire che in quel caso si trattava del Dio del Vecchio Testamento, mentre col Nuovo Testamento, Gesù è venuto a portare l’amore. Ma anch’esso ammonisce severamente le città che rifiutano la sua predicazione: Corazin, Betsaida, Cafarnao, e le considera più colpevoli della stessa Sodoma dicendo loro che “alla terra di Sodoma sarà usato minor rigore nel giorno del giudizio” (Mt 11,24) e a Cafarnao dice: “Sarai abbassata fino all’inferno. Poiché se in Sodoma fossero stati operati i miracoli che sono stati compiuti in te, essa sarebbe rimasta fino a questo giorno” (Mt 11,23).

Che cosa pensare di una società, come quella contemporanea, che ha fatto dell’omicidio volontario e del peccato di Sodoma la regola pubblica e sociale?

Per l’intima solidarietà che lega tra loro gli uomini e le generazioni, il male, come il bene, ha una profonda ripercussione sulla società. Nella Esortazione Reconciliatio et poenitentia del 2 dicembre 1984, Giovanni Paolo II ha affermato che “non c’è alcun peccato, anche il più intimo e segreto, il più strettamente individuale, che riguardi esclusivamente colui che lo commette”. Il peccato è “sociale” perché “ogni peccato si ripercuote, con maggiore o minore veemenza, con maggiore o minore danno, su tutta la compagine ecclesiale e sull’intera famiglia umana”.

Sul piano individuale, la conseguenza del peccato è la morte dell’anima, ossia la perdita della vita eterna; sul piano pubblico, la conseguenza è la disgregazione dei legami sociali, che equivale alla morte dei popoli e delle nazioni.

Nell’omelia tenuta il 2 ottobre per l’apertura del Sinodo dei Vescovi, Benedetto XVI, commentando la parabola evangelica dei vignaioli che uccidono i messaggeri e il Figlio stesso del padrone (Mt 21,23-42; Mc 12,1-18; Lc 20,1-17), ha affermato che quando l’uomo rifiuta Dio e “si fa unico padrone del mondo e proprietario di se stesso”, crea una società senza giustizia, dominata “dall’arbitrio del potere e degli interessi”: “La vigna ben presto si trasforma in un terreno incolto calpestato dai cinghiali”. Secondo il Papa, in conseguenza del rifiuto di Dio, la minaccia del giudizio divino incombe sulla “Chiesa in Europa, sull’Europa e sull’Occidente in generale”, come avvenne per la distruzione di Gerusalemme. Il Signore grida oggi nelle nostre orecchie le parole che nell’Apocalisse rivolse alla Chiesa di Efeso: “Se non ti ravvedrai verrò da te e rimuoverò il candelabro dal suo posto” (2,5). “Anche a noi – continua il Pontefice – può essere tolta la luce e facciamo bene se lasciamo risuonare questo monito in tutta la sua serietà nella nostra anima, gridando allo stesso tempo”. Benedetto XVI non esita a pronunciare la parola castigo, riferendola alle nazioni e alla Chiesa stessa.

Se guardiamo la storia, siamo costretti a registrare non di rado la freddezza e la ribellione di cristiani incoerenti. In conseguenza di ciò, Dio, pur non venendo mai meno alla sua promessa di salvezza, ha dovuto spesso ricorrere al castigo. È spontaneo pensare, in questo contesto, al primo annuncio del Vangelo, da cui scaturirono comunità cristiane inizialmente fiorenti, che sono poi scomparse e sono oggi ricordate solo nei libri di storia. Non potrebbe avvenire la stessa cosa in questa nostra epoca? Nazioni un tempo ricche di fede e di vocazioni ora vanno smarrendo la propria identità, sotto l’influenza deleteria e distruttiva di una certa cultura moderna.

Queste nazioni, dice il Papa, potrebbero essere castigate, come accadde alle comunità cristiane un tempo fiorenti e oggi dimenticate. Accadde a Cartagine, devastata dai Vandali e poi sommersa dall’Islam. Il Cristianesimo fu cancellato da quella terra. E cosa attende le nazioni europee che iscrivono i vizi di Cartagine nelle loro leggi? “Non potrebbe avvenire la stessa cosa in questa nostra epoca?”. Questa domanda drammatica di Benedetto XVI interpella ognuno di noi.

La teologia della storia cristiana oggi è spesso ignorata o accantonata, ma Gesù Cristo continua a restare al centro della storia e a costituire il metro di giudizio di tutto quanto nella storia accade.

La prospettiva di un grande castigo per l’umanità, se quest’ultima non si fosse convertita, costituì il nucleo del segreto di Fatima del 1917. Nelle parole di Benedetto XVI risuona l’eco di quel messaggio che proprio il cardinale Ratzinger, allora prefetto della Congregazione per la Fede, presentò e commentò il 26 giugno del 2000. Il cosiddetto segreto di Fatima consta di due visioni: la prima è la terribile visione dell’inferno, il castigo individuale dei peccatori. Nella seconda un angelo, con una spada di fuoco nella mano sinistra, indica con la mano destra la terra, ripetendo per tre volte con voce forte la parola “penitenza”, mentre il Papa, vescovi, sacerdoti, religiosi e religiose, laici, uomini e donne, cadono colpiti a morte ai piedi di una grande croce su una montagna.

Mentre mostra loro queste drammatiche visioni, la Madonna avverte i tre pastorelli di Fatima che “Dio sta per castigare il mondo per mezzo della guerra, della fame e delle persecuzioni alla Chiesa e al Santo Padre […] i buoni saranno martirizzati, il Santo Padre avrà molto da soffrire, varie nazioni saranno distrutte. Infine il mio Cuore Immacolato trionferà”.

Il Messaggio di Fatima, ufficialmente divulgato dalla Santa Sede, ci ricorda, come la spada di Damocle, del terribile castigo che incombe sull’umanità. La parola chiave di questo segreto, secondo Benedetto XVI, è il forte appello alla penitenza rivolto al mondo e alla Chiesa. Nel suo celebre Rapporto sulla fede, il cardinale Ratzinger affermò che da Fatima “è stato lanciato un segnale severo che va contro la faciloneria imperante, un richiamo alla serietà della vita e della storia, ai pericoli che incombono sull’umanità. È quanto Gesù stesso ricorda assai spesso non temendo di dire: ‘Se non vi convertite tutti perirete’ (Lc 13,3)”. Il Papa cita quel passo del Vangelo di Luca in cui, rivolgendosi agli abitanti di Gerusalemme, dice: “Se non vi convertirete tutti perirete. O quei diciotto, sopra i quali rovinò la torre di Siloe e li uccise, credete che fossero più colpevoli di tutti gli abitanti di Gerusalemme?”. Dio infatti è misericordioso, ma il suo perdono è condizionato al ravvedimento, e se manca il pentimento e la penitenza, il castigo è logico e necessario.

Chi non teme i castighi di Dio è un insipiente, perché è privo di quel timore di Dio che è l’inizio della sapienza. Oggi si ha timore del mondo, ci si piega alle leggi del mondo, ma non si ha timore di Dio, si nega o si ignora la sua legge. Ma per gli uomini che come noi vivono nel tempo, l’ultima parola di Dio non è quella della giustizia, è quella della misericordia. Per questo sant’Agostino, con una delle sue formule folgoranti, dice: “Avete paura di Dio? Salvatevi tra le sue braccia”. Io aggiungo: “Avete paura dei castighi che aspettano il mondo? Salvatevi in Dio tra le braccia di Maria”.

È la Madonna stessa che ci invita a rifugiarci nelle sue braccia con quelle parole piene di misericordia e di speranza che dissipano ogni timore:

“Infine il mio Cuore Immacolato trionferà”.


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Dio castiga il mondo?

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Breve Trattato sulla Divina Provvidenza

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RICORDA ANCHE, senza dimenticare i moniti della Beata Vergine Maria a Fatima:

In questo video sant’Annibale Maria di Francia (poi anche san Tommaso d’Aquino) che aveva previsto il gravissimo terremoto di Messina, spiega come le CONSEGUENZE DEI NOSTRI PECCATI impongono a Dio stesso un intervento decisivo alla CORREZIONE e per un risveglio delle nostre coscienze…. il fatto fu raccontato dallo stesso professor de Mattei e riportato, appunto, nel libro sopra consigliato “Dio castiga il mondo”?

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