Il “sensus fidelium”, o senso dei fedeli, è la capacità soprannaturale, donata dallo Spirito Santo, che permette a tutti i fedeli, dal vescovo all’ultimo laico, di avere un consenso universale in materia di fede e di morale. In altre parole, è la consapevolezza e la certezza interiore, condivisa da tutta la comunità dei credenti, di ciò che è conforme alla più autentica dottrina della fede e perciò è “universale”, ossia, cattolica.. che sfida le intemperie e le tempeste di ogni tempo testimoniando, nel tempo, Gesù Cristo: Via, Verità e Vita..
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IL SENSUS FIDELIUM: BUSSOLA TEOLOGICA PER IL DISCERNIMENTO ECCLESIALE NELLA FASE ATTUATIVA DEL CAMMINO SINODALE (Don Mario Proietti cpps)
Da oggi desidero condividere con voi due riflessioni legate al tema del sensus fidelium, dono prezioso dello Spirito Santo alla Chiesa e fondamento di ogni autentico discernimento comunitario. Prima ci soffermiamo sulla sua base teologica, alla luce della Sacra Scrittura, della Tradizione e del Magistero, per capire cosa sia davvero e perché non possa essere confuso con un semplice consenso di opinioni. In seguito posterò anche un testo più breve e diretto, per collegare questi fondamenti alla partecipazione concreta di ciascuno di noi al Cammino sinodale che riprenderà a settembre.
La Chiesa, dopo la pubblicazione del documento, approvato dal Santo Padre Leone XIV, il 7 luglio scorso, da settembre entrerà nella terza fase sinodale: la fase attuativa. Un lungo ed articolato percorso di formazione che coinvolgerà, in modo capillare, ogni comunità parrocchiale e diocesana. In questa terza tappa si parla molto di ascolto, partecipazione, corresponsabilità. Ma un termine ritorna con frequenza, spesso senza la chiarezza che meriterebbe: il sensus fidelium. Lo si invoca come fondamento del discernimento ecclesiale, ma talvolta lo si riduce a una fotografia dell’opinione media dei fedeli. È una semplificazione pericolosa, perché il sensus fidelium non nasce da un processo democratico, ma da un carisma dello Spirito Santo.
Il Concilio Vaticano II, nella costituzione Lumen gentium, insegna: «La totalità dei fedeli, che hanno ricevuto l’unzione dello Spirito Santo (cfr. 1 Gv 2,20.27), non può sbagliarsi nel credere, e manifesta questa proprietà mediante il senso soprannaturale della fede (sensus fidei) di tutto il popolo quando “dai vescovi fino all’ultimo dei fedeli laici” esprime l’universale suo consenso in materia di fede e di costumi» (LG 12).
Questo significa che il sensus fidelium è una partecipazione soprannaturale alla funzione profetica di Cristo. Non è la somma delle percezioni personali, né il frutto di sondaggi interni alla Chiesa, ma la consonanza profonda con la verità rivelata, custodita nella Scrittura e nella Tradizione, e interpretata autenticamente dal Magistero.
La Commissione Teologica Internazionale, nel documento Il sensus fidei nella vita della Chiesa (2014), avverte: «Il sensus fidei non è da confondere con l’opinione pubblica all’interno della Chiesa, e non può essere determinato semplicemente mediante sondaggi o consultazioni formali» (n. 74).
E ancora: «Esso può manifestarsi solo là dove i fedeli sono veramente partecipi della vita della Chiesa e vivono nella comunione della fede e della carità» (n. 80).
In altre parole, il sensus fidelium non è automatico: è legato alla vita di grazia, alla docilità allo Spirito Santo, alla fedeltà alla Tradizione. Il vero sensus fidelium si riconosce per alcuni segni chiari: coerenza con la Parola di Dio, continuità con la fede ricevuta dagli Apostoli, comunione con i Pastori, radicamento nella vita sacramentale. Dove questi elementi mancano, ciò che emerge può essere una legittima percezione pastorale o una critica utile, ma non è criterio di verità in materia di fede.
Per il Cammino sinodale questo è decisivo: i momenti di ascolto non servono a inventare una fede nuova, ma a riconoscere insieme come la fede di sempre illumini le sfide di oggi. Il sensus fidelium è come una bussola: non indica mete arbitrarie, ma orienta verso il Nord immutabile della verità di Cristo.
Nei commenti che ho ricevuto in questi mesi, ho percepito che molti fedeli, pur amando la Chiesa, si sentono distanti o disillusi rispetto al Cammino sinodale. C’è chi pensa di disertare gli incontri, chi ritiene che “tanto non serve a nulla”, chi teme derive dottrinali e per questo preferisce stare alla larga. Comprendo le preoccupazioni, ma restare assenti non è la via. La Chiesa non è un’assemblea a cui si partecipa solo quando si è d’accordo con l’ordine del giorno. Siamo membra vive del Corpo di Cristo, e una membra viva non smette di pulsare sangue perché un’altra è malata: piuttosto si impegna a portare vita e ossigeno a tutto l’organismo.
Partecipare al Cammino sinodale, anche da critici, significa assumere la responsabilità di custodire la fede, portando luce e verità nelle discussioni. È proprio nei momenti in cui percepiamo rischi o ambiguità che la presenza di chi ama la fede cattolica diventa più necessaria. Come insegna ancora la Lumen gentium: «I fedeli, in forza della loro conoscenza della fede, hanno il diritto e talvolta il dovere di manifestare ai Pastori sacri la loro opinione su ciò che riguarda il bene della Chiesa» (LG 37).
Non dobbiamo lasciarci scoraggiare o demotivare. La voce dello Spirito si ascolta meglio quando siamo dentro il cammino, non quando ne restiamo spettatori esterni. Un processo sinodale senza la partecipazione di chi custodisce la fede nella sua integrità rischia di perdere l’equilibrio e la direzione. Invece, con la presenza attiva e orante di tutti, diventa un’occasione di vera crescita ecclesiale.
Il sensus fidelium non è un lusso per teologi o un concetto astratto: è un dono che lo Spirito affida a ciascun battezzato per il bene dell’intero Corpo di Cristo. Riceverlo è grazia; viverlo e comunicarlo, soprattutto nei momenti di discernimento comunitario, è un dovere. La Chiesa cresce quando i suoi figli, anche tra prove e fatiche, scelgono di essere presenti, vigilanti, oranti e operativi. Questa è la sinodalità che non si perde in parole, ma cammina nello Spirito verso la verità tutta intera.
IL SENSUS FIDELIUM: PARTECIPARE CON FEDE AL CAMMINO SINODALE (Don Mario Proietti cpps)
A settembre il Cammino sinodale entrerà nella sua terza tappa attuativa e tutte le diocesi saranno coinvolte in incontri e momenti di discernimento. Non sarà un semplice evento organizzativo: sarà una fase decisiva, in cui la voce del Popolo di Dio sarà chiamata a risuonare in comunione con i Pastori. Ma per comprendere davvero cosa significa “ascolto” nella Chiesa, dobbiamo chiarire un concetto che sta alla base di ogni processo sinodale: il sensus fidelium.
Spesso lo si traduce come “il sentire del popolo di Dio”, ma se non lo si capisce correttamente, si rischia di confonderlo con l’opinione della maggioranza. Il sensus fidelium non è un sondaggio di parrocchia e non è la media delle voci più forti: è un dono soprannaturale dello Spirito Santo, che rende i fedeli capaci di riconoscere e aderire alla verità rivelata.
Questa verità è la stessa prima e dopo il Concilio Vaticano II. Prima del Concilio, il sensus fidelium era soprattutto visto come segno dell’indefettibilità della Chiesa: l’unanime consenso dei fedeli nella fede era criterio certo per riconoscere l’origine apostolica di una dottrina. Pio IX, nella bolla Ineffabilis Deus (1854), usò proprio questo argomento per confermare il dogma dell’Immacolata Concezione: la fede universale e costante del popolo cristiano era prova della sua verità.
Il Concilio Vaticano II non ha cambiato questa dottrina, ma l’ha approfondita e resa più viva nella visione ecclesiale. Lumen gentium (n. 12) insegna che «la totalità dei fedeli, che hanno ricevuto l’unzione dello Spirito Santo, non può sbagliarsi nel credere». Qui il sensus fidelium non è solo memoria di ciò che è sempre stato creduto, ma partecipazione attiva di ogni battezzato alla missione profetica di Cristo: custodire, comprendere e trasmettere la fede in comunione con i Pastori.
Questo comporta due conseguenze per noi oggi. La prima: il sensus fidelium non può mai andare contro la Scrittura, la Tradizione e il Magistero, perché è proprio in comunione con essi che nasce e si sviluppa. La seconda: non si manifesta in chiunque sia battezzato solo di nome, ma in chi vive realmente nella grazia, nella preghiera, nella vita sacramentale e nella fedeltà alla Chiesa.
Ecco perché è un errore pensare di “boicottare” il Cammino sinodale restando assenti. In questi mesi ho ricevuto commenti di persone che, pur amando la Chiesa, dicono: “Non ci andrò, tanto è inutile” o “Non mi fido del processo”. Comprendo le paure e i dubbi, ma l’assenza è un danno doppio: toglie la voce a chi può portare luce e lascia più spazio a ciò che si teme. La Chiesa è un Corpo vivo: se un membro smette di agire, l’intero organismo ne risente.
Il sensus fidelium è un dono e una responsabilità. È dono, perché ci viene dallo Spirito Santo. È responsabilità, perché chiede a ciascuno di essere presente e di testimoniare la verità nella carità. Anche quando si è critici, la fedeltà ci spinge a rimanere, a parlare con rispetto, a costruire invece di disertare. Partecipare al Cammino sinodale non significa approvare tutto in anticipo, ma impegnarsi a far sì che tutto resti radicato nella fede di sempre.
Un’ultima precisazione è necessaria. In alcuni ambienti sinodali si invoca il sensus fidelium quasi fosse il semplice consenso della maggioranza dei battezzati, misurato in base al clima culturale del momento. Ma il sensus fidelium non è un sondaggio d’opinione: è la consonanza soprannaturale con la fede trasmessa dagli Apostoli, custodita dalla Tradizione e garantita dal Magistero. Per questo non può mai contraddirla. Un esempio concreto: oggi, in diversi Paesi, cresce la simpatia per la benedizione di coppie irregolari o unioni omosessuali. Alcuni presentano questo come espressione del sensus fidelium, sostenendo che lo Spirito indicherebbe così una nuova via. Ma questo è un errore teologico: anche se un’opinione fosse molto diffusa, non avrebbe il carattere del sensus fidelium se non fosse conforme alla rivelazione e alla morale cattolica costante. Il vero discernimento sinodale, quindi, deve distinguere tra il consenso culturale e la fede autentica. Solo quando il sentire del popolo di Dio nasce dalla vita di grazia, dall’ascolto della Parola, dalla fedeltà ai sacramenti e dalla comunione con i Pastori, esso diventa eco della voce di Cristo che guida la sua Chiesa.
Per chi desidera comprendere più a fondo il significato teologico di questo dono dello Spirito e la sua importanza per il discernimento della Chiesa, ho pubblicato precedentemente l’articolo “Il sensus fidelium: bussola teologica per il discernimento ecclesiale”. È un testo che offre le basi magisteriali e dottrinali di quanto oggi abbiamo richiamato in forma più semplice e diretta.
AGGIORNAMENTO OTTOBRE 2025 Don Mario Proietti cpps
IL BIVIO TRA LEONE XIV E IL DOCUMENTO CEI
Nel decimo anniversario della canonizzazione dei Santi Luigi e Zelia Martin, Leone XIV ha scritto parole che segnano una svolta nel linguaggio ecclesiale: «In questi tempi turbati e disorientati, in cui tanti contro-modelli di unioni effimere, individualiste ed egoiste, dai frutti amari e deludenti, vengono proposti ai giovani, la famiglia, così come il Creatore l’ha voluta, può sembrare superata o noiosa».
In questa frase si raccoglie un’intera visione di Chiesa. Tre aggettivi, effimere, individualiste, egoiste, descrivono la malattia spirituale dell’amore senza verità. L’amore che nasce solo dal sentimento che non resiste al tempo, non costruisce comunione e non genera vita. Leone XIV restituisce al matrimonio la sua forma originaria: stabile, reciproca, feconda, radicata nella grazia.
Tre parole che, insieme, smontano l’illusione di una felicità senza radici.
Effimere, perché fondate sul sentimento mutevole e non sul dono stabile di sé. L’effimero è l’opposto del sacramento: il matrimonio, invece, è segno di un amore che resiste al tempo, come Dio che ama per sempre.
Individualiste, perché non cercano la comunione ma l’affermazione dell’io. Dove manca la reciprocità del dono, l’amore si spegne, lasciando due solitudini accostate, non una carne sola.
Egoiste, perché rifiutano la fecondità: non solo quella biologica, ma anche spirituale e sociale. L’egoismo chiude il cuore, rende sterile la vita, e trasforma l’amore in possesso.
Il Papa aggiunge che da queste unioni nascono “frutti amari e deludenti”: l’esperienza concreta della disillusione, dell’instabilità, del vuoto affettivo che il mondo contemporaneo conosce bene. Il giudizio non è solo morale, è realistico: dove si nega il disegno del Creatore, la vita si piega su se stessa e si spegne.
Da questa lettura risulta chiaro che Leone XIV toglie ogni legittimità morale e antropologica alle unioni che non corrispondono alla verità della natura umana, cioè alla complementarità uomo-donna aperta alla vita e alla grazia. Non si tratta di esclusione, ma di chiarezza: la Chiesa difende la famiglia non come un’istituzione culturale, ma come una forma di salvezza dell’umano.
Il Papa non analizza le mode del momento, ma indica la strada per ritrovare la gioia dell’amore cristiano. La sua parola riporta la Chiesa sul terreno della realtà.
Questo procedimento, limpido e diretto, contrasta con quanto emerge nella bozza del Documento sinodale della CEI, ormai prossima all’approvazione. In quel testo, i vescovi italiani propongono percorsi di “accompagnamento, discernimento e integrazione” per le “situazioni affettive e familiari stabili diverse dal sacramento del matrimonio”, includendo seconde unioni, convivenze di fatto, matrimoni e unioni civili.
Un tale linguaggio, pur animato da intenzioni pastorali, rischia di spostare il baricentro dall’oggettività della verità all’esperienza soggettiva, perché l’accento non cade più sulla conversione e sul ritorno alla grazia del sacramento, ma sulla gestione di stati di vita che restano distanti dal disegno originario del Creatore.
Il linguaggio appare distante da quello pontificio. Da una parte l’indicazione chiara di contro-modelli che allontanano dall’ordine del Creatore, dall’altra una proposta che sembra voler includere tutto, smarrendo il confine tra verità e desiderio.
La Chiesa non cresce nella confusione. Cresce nella luce della verità. Il matrimonio è via di santità, non ideale irraggiungibile. È la forma dell’amore che unisce e santifica, la sorgente da cui rinasce la società. Ogni parola che lo relativizza o lo pone accanto ad altre forme di unione indebolisce la testimonianza evangelica e confonde i fedeli.
Leone XIV ha scelto la via della chiarezza. Il suo linguaggio non esclude, orienta. La carità nasce dalla verità, non dal compromesso. La Chiesa che parla con voce limpida non giudica, ma illumina. In un tempo in cui molti costruiscono un’idea di Chiesa come luogo di sentimenti, il Papa ricorda che essa è la casa della realtà, la dimora di Dio che fa nuove tutte le cose.
Il Magistero nazionale è chiamato ad armonizzarsi con questa linea. Il popolo di Dio attende parole che confermino nella fede, non che aggiungano incertezza. La grazia non vive di ambiguità. Vive della chiarezza che guida, corregge e consola.
Luigi e Zelia Martin restano il volto di questa verità vissuta. La loro casa, fatta di lavoro e di preghiera, di prove e di gioie, dimostra che la felicità nasce quando Gesù è al centro. L’amore vero non teme la durata, perché trova in Dio la sua stabilità.
A questo punto diventa evidente la delicatezza del momento ecclesiale. Le parole di Leone XIV, tanto limpide quanto radicate nella realtà, mettono in luce il rischio contenuto nella formulazione annunciata del Documento sinodale della CEI, che prevede che «le Chiese locali … promuovano percorsi di accompagnamento, discernimento e integrazione …» per le «situazioni affettive e familiari stabili diverse dal sacramento del matrimonio (seconde unioni, convivenze di fatto, matrimoni e unioni civili, etc.)». Alla luce della chiarezza pontificia, un simile impianto pastorale suscita seri interrogativi dottrinali e spirituali.
1. Offuscamento della verità del matrimonio: Leone XIV ha ricordato che solo la famiglia “così come il Creatore l’ha voluta” è fonte di felicità. Parlare di “situazioni diverse” senza affermare che il matrimonio sacramentale è l’unica forma pienamente conforme a quel disegno significa introdurre una zona d’ombra nel cuore della dottrina. Dove la verità si attenua, la norma perde forza e l’amore smarrisce la sua forma.
2. Smarrimento dell’orientamento pastorale: Il Papa indica che la santità nasce dentro, attraverso e per il matrimonio. L’accompagnamento autentico deve condurre a questo traguardo, non stabilirsi lungo la via. Quando l’accoglienza non tende alla trasfigurazione delle situazioni, essa diventa semplice tolleranza spirituale, e la pastorale perde la sua missione profetica.
3. Indebolimento della comunione ecclesiale: La voce del Papa ha restituito unità e coerenza al linguaggio della Chiesa. Se i testi nazionali non la riflettono, si crea una frattura di percezione e di fiducia. I fedeli cercano una parola concorde, capace di guidare e di confermare. Quando la chiarezza pontificia non trova eco nei documenti delle Conferenze episcopali, la testimonianza si indebolisce e il Magistero appare diviso.
4. Rischio di ridurre l’amore a pura emozione: Leone XIV ha mostrato che l’amore cristiano è fecondo e stabile. Un documento che parla di “riconoscimento” di unioni e di famiglie non conformi al disegno divino, senza riferirsi alla necessità della conversione, finisce per confondere l’amore con il sentimento. L’emozione può commuovere, ma non redime. Solo la verità illumina e purifica.
Per queste ragioni diventa urgente che la CEI armonizzi la propria riflessione con la chiarezza di Leone XIV. Il Papa ha restituito alla Chiesa un linguaggio che nasce dal Vangelo, semplice e profondo, capace di distinguere senza ferire. La Chiesa italiana è chiamata a lasciarsi istruire da questa luce, a uscire da ogni bolla sentimentale e a ritrovare la concretezza evangelica che genera santità.
Il popolo di Dio ha bisogno di parole che sostengano, non di formule che confondano. Ha bisogno di una verità che conforta, non di una sensibilità che illude. Leone XIV ha mostrato che la vera misericordia nasce dalla chiarezza e che la pastorale più efficace è quella che restituisce all’amore umano la sua forma divina. In questa luce la Chiesa può camminare sicura, perché solo la verità genera pace e solo la realtà salva l’uomo.
LA CONVERSIONE PASTORALE A RISCHIO
La tensione tra prassi e verità nel Cammino sinodale italiano
Cari amici, dopo l’articolo sul nodo più delicato, propongo ora una lettura d’insieme del Documento di sintesi del Cammino sinodale delle Chiese che sono in Italia, Lievito di pace e di speranza. Il testo parla di futuro e di rinnovamento; nello stesso tempo emerge un dilemma che non consente distrazioni: nel desiderio di rendere la Chiesa più accogliente e missionaria, si profila un’eclissi delle verità che la definiscono.
Il Documento dichiara l’obiettivo di una “conversione sinodale e missionaria” delle comunità. L’intento indica una direzione nobile. La questione si colloca nel metodo proposto e nel linguaggio assunto.
1) L’orizzonte che sovrasta il Mistero
Le pagine adottano un lessico che presenta la Chiesa come “rete di relazioni” e “soggetto comunitario e storico della missione” (n. 12). Ricorre anche l’idea di “ricevere dal mondo ciò che lo Spirito suscita nella storia” (n. 21) e che “l’ascolto reciproco è parte costitutiva della missione” (n. 22). Il profilo sacramentale e soprannaturale arretra. La Chiesa non appare primariamente come Corpo mistico di Cristo e sacramento universale di salvezza, bensì come organismo relazionale che si costruisce nel processo dialogico. La comunione viene esposta con ampiezza; la costituzione gerarchica resta in secondo piano. Così la sinodalità si trasforma in dinamica che rischia di ascoltare se stessa. L’esito è una Chiesa compagna di viaggio, più che segno efficace di salvezza.
2) L’ambiguo labirinto pastorale
Il documento propone “percorsi di accompagnamento e integrazione ecclesiale” per “conviventi, separati risposati, persone omoaffettive e transgender” (n. 30). Si richiede inoltre l’avvio di équipe per “percorsi di formazione alle relazioni e alla corporeità-affettività-sessualità, anche tenendo conto dell’orientamento sessuale e dell’identità di genere” (n. 31b).
L’intenzione di vicinanza pastorale è evidente. La scelta delle categorie introduce un cambio di paradigma. Le espressioni “orientamento sessuale” e “identità di genere” appartengono a un impianto antropologico non cristiano, perché separano la persona dal dato creaturale. L’assunzione di questo linguaggio orienta la formazione verso competenze esterne alla Chiesa e affida il cuore educativo a specialisti privi di visione cristiana dell’uomo.
L’effetto è una supremazia della prassi. La misericordia non viene collegata in modo esplicito alla conversione, mentre il criterio morale risulta attenuato. La distinzione tra peccato e grazia scivola in periferia e la pastorale perde il suo tratto profetico.
3) Missione e identità: la sociologia che eclissa la soteriologia
Molte pagine valorizzano la pace, la giustizia, il disarmo e il “lavoro in rete con altri soggetti della società civile” (n. 25). Il discorso assume così una tonalità orizzontale. Il simbolo del “lievito” non rimanda più con chiarezza al Vangelo che trasforma, bensì a un processo umano che si auto-alimenta.
La missione viene presentata come scambio e riconoscimento. L’annuncio della salvezza in Cristo rischia di essere percepito come una voce tra le altre. L’evangelizzazione arretra di fronte alla conversazione permanente. La Chiesa diventa piattaforma di mediazione sociale; il Sangue di Cristo non appare più come causa e misura della salvezza.
4) Conversione pastorale o conversione dottrinale?
Il documento persegue una conversione delle prassi. Quando la prassi si erge a criterio, la dottrina viene filtrata e, alla lunga, svuotata. La fede non genera più la pastorale, viene generata dalla prassi. Questo è il profilo di quella che si può definire pre-eresia della prassi: non una negazione formale della verità, bensì la sua diluizione in un linguaggio neutro.
5) Il voto dei pastori: atto di coscienza cattolica
La Terza Assemblea Sinodale affronterà il voto sul Documento di sintesi. La posta in gioco riguarda la direzione della pastorale per gli anni a venire. Il voto non coincide con un atto di cortesia istituzionale. Si configura come atto di coscienza cattolica.
Chiediamo ai Pastori di esaminare “riga per riga” se il linguaggio adottato mantiene il primato della grazia e della Croce sulla sociologia; di discernere con fermezza le proposte che introducono ambiguità morali o dissolvono l’appello alla conversione nella logica dell’inclusione; di verificare con prudenza i passaggi formativi che delegano l’educazione ecclesiale a esperti senza visione cristiana.
La vera conversione missionaria nasce dalla Verità di Cristo. L’accoglienza perde senso quando smette di chiamare le cose con il loro nome. Il compito dei Pastori custodisce la Verità rivelata; il voto esprime fede, non diplomazia. In questa luce il “lievito di pace e di speranza” può essere fermento evangelico e non surrogato del Vangelo.
Ritengo che questo documento, Lievito di pace e di speranza, abbia un intento comprensibile: invita a “rinnovare le strutture e i linguaggi per essere più accoglienti e credibili”. Tuttavia, la vera credibilità nasce dalla fedeltà alla verità. La sinodalità non è la ricerca del consenso, ma l’ascolto dello Spirito. L’obbedienza alla Verità è la condizione della comunione. Quando la verità cede alla prassi, la comunione diventa compromesso. Quando la misericordia si separa dalla grazia, l’inclusione diventa ambiguità.
Pertanto, desidero ribadire l’invito risuonato ieri nella Santa Messa: un appello di un Apostolo, dunque di un Vescovo, rivolto a un altro vescovo. San Paolo parla a Timoteo e, attraverso di lui, oggi parla a ciascuno dei vescovi italiani: «Figlio mio, rimani saldo in quello che hai imparato e che credi fermamente. Conosci coloro da cui lo hai appreso e conosci le Sacre Scritture fin dall’infanzia: esse possono istruirti per la salvezza, che si ottiene mediante la fede in Cristo Gesù. Tutta la Scrittura, ispirata da Dio, è utile per insegnare, convincere, correggere ed educare nella giustizia, perché l’uomo di Dio sia completo e ben preparato per ogni opera buona. Ti scongiuro davanti a Dio e a Cristo Gesù, che verrà a giudicare i vivi e i morti, per la sua manifestazione e il suo regno: annuncia la Parola, insisti al momento opportuno e non opportuno, ammonisci, rimprovera, esorta con ogni magnanimità e insegnamento» (2Tm 3,14–4,2).
Questa parola è oggi profezia per la nostra Chiesa. Ascoltarla significa restare ancorati nella verità, custodire la fede ricevuta, difendere la purezza del Vangelo e confermare i fratelli nella speranza che non inganna.
IL TEMPO DELLA RICEZIONE: LA PROVA CHE ATTENDE LE DIOCESI
Nei giorni scorsi l’analisi teologica, ispirata ai criteri di Newman e di san Tommaso, aveva suggerito la prudenza di non approvare il Documento di sintesi del Cammino sinodale. Le ragioni erano fondate e non di parte. La debolezza dell’impianto teologico, l’ambiguità di alcuni passaggi ecclesiologici e l’assenza di riferimenti chiari alla Tradizione viva della Chiesa rendevano opportuno un ulteriore lavoro di approfondimento. Era evidente che un testo così strutturato, se approvato nella sua forma attuale, avrebbe generato difficoltà di interpretazione e di applicazione nelle diocesi.
Ora che il Documento è stato approvato, si apre la fase più impegnativa e, in un certo senso, più rischiosa: la fase della ricezione. Non si tratta più di valutare se fosse opportuno votarlo, ma di comprendere a quali criticità dovranno far fronte i Vescovi e le comunità ecclesiali nel tempo prossimo. La vera prova comincia adesso.
Le prossime tappe operative previste dalla CEI saranno: sarà nominato un gruppo di Vescovi, coadiuvati da esperti e dagli organi statutari, incaricato di elaborare priorità, delibere e note operative a partire dal Documento approvato. Questo gruppo avrà il compito di tradurre il testo, ancora generale, in indicazioni pastorali più concrete e in criteri di applicazione per le diocesi.
Poi ci sarà l’81ª Assemblea Generale della CEI, prevista ad Assisi dal 17 al 20 novembre 2025, nella quale il Documento verrà “ricevuto” formalmente e inserito nel quadro delle linee pastorali nazionali. In quell’occasione saranno delineate le prospettive operative per il triennio successivo e definite le modalità di accompagnamento delle diocesi.
Le fasi successive possono essere riassunte così:
Nomina del gruppo esecutivo. Un gruppo di Vescovi, affiancati da esperti, tradurrà il Documento in atti concreti, individuando priorità e percorsi di recezione.
Redazione delle prospettive pastorali. A partire da tali delibere, verranno predisposti strumenti e sussidi destinati alle diocesi, alle parrocchie e agli organismi di comunione.
Diffusione e attuazione locale. Ogni diocesi sarà chiamata a integrare il Documento nei propri cammini formativi e pastorali, con particolare attenzione alla formazione sinodale dei fedeli.
Monitoraggio e adeguamento. Le diocesi dovranno periodicamente verificare la ricezione del testo, apportando eventuali correzioni o approfondimenti teologici.
Integrazione nel ciclo dell’Assemblea Generale. Il Documento diventerà parte integrante del lavoro ordinario della CEI, offrendo orientamenti per i futuri piani pastorali nazionali.
Si tratta, dunque, di un percorso ancora aperto. Il Documento approvato non è un punto d’arrivo, ma un inizio: un laboratorio di ricezione ecclesiale che richiederà lucidità dottrinale, fermezza spirituale e unità tra i Vescovi. È in questa fase che la Chiesa italiana misurerà la propria fedeltà alla verità del Vangelo e la propria capacità di discernimento.
Le sfide non mancheranno: le diocesi si troveranno a dover tradurre un testo ampio, fluido e spesso generico in scelte pastorali concrete. È un compito che richiederà discernimento dottrinale, equilibrio pastorale e una solida vita spirituale. Senza questi tre elementi, il Documento rischierà di moltiplicare le interpretazioni, generando una frammentazione ecclesiale mai sperimentata finora.
Il primo rischio è quello dell’eterogeneità interpretativa. Ogni diocesi sarà chiamata a “contestualizzare” il Documento. Alcune sceglieranno di valorizzare la dimensione sociale e inclusiva, altre quella missionaria e liturgica. In mancanza di riferimenti dogmatici precisi, si delineeranno letture differenti dello stesso testo. Ne nascerà una geografia pastorale discontinua, dove la fede verrà percepita in modo diverso da una diocesi all’altra. L’unità cattolica, fondata sull’unica fede, rischierà di essere sostituita da una pluralità di approcci, legittimi nella forma ma divergenti nel contenuto.
Il secondo rischio riguarda la governabilità ecclesiale. Il Documento esalta la corresponsabilità, ma non definisce con chiarezza i limiti del rapporto tra ministero ordinato e laicato. In molte diocesi si aprirà un confronto delicato tra i Consigli pastorali, le équipe sinodali e la figura del Vescovo. Alcuni interpreteranno la sinodalità come co-decisione, altri come partecipazione consultiva. Se mancherà una visione teologica del ministero, si creeranno tensioni, protagonismi e incomprensioni. Sarà necessario che i Vescovi custodiscano la loro identità episcopale come principio di unità, ricordando che la comunione non nasce dal voto, ma dalla grazia.
Il terzo rischio riguarda la deriva sociologica. La forza spirituale della Chiesa non nasce dai processi, ma dalla grazia che converte e rinnova. Se le diocesi ridurranno il cammino sinodale a dinamiche relazionali, a linguaggi inclusivi o a progetti di partecipazione, la fede si impoverirà. Le comunità finiranno per confondere l’ascolto con l’annuncio, la tolleranza con la verità, l’empatia con la carità. È la tentazione di sostituire il Vangelo con una pedagogia dei sentimenti, perdendo di vista che la missione della Chiesa non è far sentire accolti, ma condurre alla salvezza.
Un’altra sfida sarà la formazione teologica. Il Documento invita tutti a essere protagonisti, ma non indica su quali basi dottrinali debba fondarsi tale partecipazione. Senza un ritorno alla teologia viva, rischia di prevalere il pragmatismo pastorale. Sarà compito delle diocesi e dei centri di formazione restituire al popolo di Dio la consapevolezza che la fede è conoscenza reale, non emozione; che l’evangelizzazione è annuncio della verità, non adattamento culturale.
Infine, resta il fronte della comunicazione ecclesiale. I media laicizzati già hanno cominciato ad evidenziare i passaggi più aperti lasciando nell’ombra i riferimenti alla Tradizione. Le diocesi saranno esposte a narrazioni esterne che deformano il senso del testo, e i Vescovi si troveranno a dover precisare continuamente ciò che il Documento non ha espresso con sufficiente chiarezza. Ciò esigerà una grande capacità di comunicazione ecclesiale, fedele alla verità e immune da retoriche concilianti.
Il lavoro che attende le Chiese locali è dunque arduo. Non si tratta di applicare un metodo, ma di custodire la fede nel processo. Il discernimento ecclesiale non consiste nel decidere secondo il consenso, ma nel riconoscere l’opera dello Spirito alla luce della verità rivelata. È un compito che richiede Pastori forti nella fede e comunità disposte a lasciarsi formare, senza cedere all’illusione di una Chiesa autoreferenziale.
La ricezione di un documento ecclesiale non avviene per decreto, ma attraverso la vita concreta della Chiesa: nella predicazione, nella liturgia, nella formazione, nella carità vissuta. Se queste dimensioni resteranno al centro, anche un testo fragile potrà diventare occasione di grazia. Se invece prevarranno le logiche del consenso, la confusione crescerà e la fede si indebolirà.
È il tempo della verità. Le diocesi italiane sono ora davanti a una scelta decisiva: farsi plasmare dallo Spirito o adattarsi alle mode del momento. Il cammino sinodale può diventare un dono o un bivio. Tutto dipenderà dalla fede di chi lo guida e dalla docilità di chi lo vive.
SUGGERIAMO di Don Mario Proietti:
LA CHIESA VISIONARIA E LA PERDITA DELLA VISIONE. RIFLESSIONE SULL’USO DEL LINGUAGGIO DEL SOGNO
Prendo spunto da un articolo pubblicato da Vatican News a commento dell’incontro che il Papa ha avuto ieri con le équipe sinodali, riunite a Roma per il loro giubileo. Il titolo recita: “Giubileo delle équipe sinodali, un mosaico di buone pratiche per una Chiesa visionaria”, e presenta quindici esperienze da tutto il mondo descritte come progetti, programmi, stili di cooperazione, attitudini e condivisione.
In queste parole si riflette il contesto culturale e spirituale in cui oggi si colloca il nostro cammino ecclesiale: un tempo in cui la Chiesa, pur animata dal desiderio di essere lievito nel mondo, sembra spesso tentata di misurarsi con le stesse categorie che muovono il mondo.
Questo cammino sinodale, lo ribadisco, rappresenta una grande occasione di crescita e di maturazione ecclesiale. È un invito a riscoprire la Chiesa come fermento evangelico dentro una società che, soprattutto in Occidente, ha progressivamente smarrito i fondamenti del lievito cristiano da cui è nata la sua cultura, la sua umanità e la sua bellezza. Tuttavia, di fronte a un mondo che si allontana dal Vangelo, avvertiamo il rischio di un rovesciamento: si tenta di riconquistare la rilevanza ecclesiale accogliendo, più che convertendo, i nuovi criteri culturali. È come se, lentamente, senza accorgercene, avessimo permesso che il mondo convertisse noi.
Così, davanti alla distanza tra il Vangelo e la cultura dominante, si è pensato di ridurla assimilando le diversità, con la pia illusione di poterle poi trasfigurare. Ma ciò che nasce da un compromesso non genera vita. È il sogno di una Chiesa che vuole piacere al mondo per poi evangelizzarlo, dimenticando che il sale perde sapore proprio quando si scioglie nell’acqua. Questo è il nostro sogno, quello che stiamo vivendo da anni, e che rischia di trasformarsi in un risveglio amaro: quello di una Chiesa che non solo ha perso il sapore, ma anche la forza del lievito, perché tenta di produrne uno nuovo, separato dal lievito madre della fede.
Il linguaggio che oggi circola nei documenti, nelle dichiarazioni e nei commenti ufficiali è rivelatore di questa trasformazione: non si parla più di una Chiesa orante, evangelizzatrice, penitente o fedele, ma di una Chiesa visionaria. È un termine che appartiene più al lessico della programmazione e della leadership che alla teologia e alla Tradizione. Già in passato, un articolo dell’Arcidiocesi di Milano intitolato Per sognare la Chiesa di Francesco invitava a “sognare concretamente” la Chiesa del futuro, descrivendo lo stile sinodale come un sogno condiviso, fatto di “umiltà, disinteresse e beatitudine”. Anche qui, dietro il tono gentile delle parole, emerge un cambio di paradigma: la Chiesa non viene più presentata come comunità credente che accoglie un dono, ma come laboratorio che elabora un progetto.
Ecco perché diventa urgente fermarsi a riflettere su questa parola affascinante e insidiosa, che sembra incantare come il pifferaio della fiaba: sogno. Perché dietro di essa si nasconde un interrogativo decisivo: stiamo ancora seguendo il sogno di Dio, o ci stiamo perdendo nei sogni dell’uomo?
Il sogno nella Scrittura
La parola “sogno”, in sé, non è negativa. Nella Scrittura è presente come luogo di rivelazione. Giuseppe fu avvertito in sogno di fuggire in Egitto; Giacobbe vide in sogno la scala che univa cielo e terra; san Giuseppe, sposo di Maria, ricevette in sogno il comando di accogliere il Figlio di Dio. Il sogno, quando è dono di Dio, rivela e salva. Ma la stessa Bibbia mette in guardia dal confondere i sogni ispirati con i sogni nati dall’uomo.
Nel libro di Geremia si legge: «Ho udito ciò che dicono i profeti che profetizzano menzogne nel mio nome, dicendo: “Ho avuto un sogno, ho avuto un sogno!”. Fino a quando durerà nel cuore dei profeti che profetizzano falsità?» (Ger 23,25-26).
E ancora Qoèlet ammonisce: «Molti sogni e molte parole: molti vani. Ma tu temi Dio.» (Qo 5,7).
La Bibbia non disprezza i sogni, ma li sottopone a discernimento. Distingue tra il sogno rivelato, che nasce da Dio, e il sogno umano, che nasce dall’immaginazione. Il primo è luce, il secondo è nebbia.
Dal sogno al progetto
Il linguaggio del sogno esercita oggi un fascino innegabile. Evoca creatività, libertà, apertura. È un linguaggio che seduce, perché promette futuro. Ma nella fede cristiana il futuro non si inventa: si accoglie. Il discepolo non costruisce un sogno, si lascia condurre da una visione che lo precede, quella del Verbo incarnato. Quando la Chiesa parla di sé come “visionaria”, corre il rischio di dimenticare che la vera visione non è un prodotto, ma un dono.
Il sogno ecclesiale, quando nasce dallo Spirito, è teologale: porta a Dio e unisce. Quando nasce dall’uomo, diventa ideologico: divide, confonde, promette ciò che non può dare. È il sogno di Babele, dove tutti vogliono costruire qualcosa di grande “per farsi un nome”, dimenticando che solo Dio salva.
San Tommaso d’Aquino, nella Summa Theologiae, distingue tra la visio intellectualis, dono della grazia che illumina la mente, e le phantasmata, cioè le immagini prodotte dall’immaginazione.
Quando la Chiesa si affida alla phantasia, smarrisce la visio; quando si abbandona alle idee, perde la contemplazione; quando sogna di essere moderna, rischia di non essere più profetica.
L’ermeneutica del consenso improvviso
A questo si aggiunge un interrogativo ecclesiale: come mai, dopo mesi di incertezze, il Documento sinodale è stato approvato quasi all’unanimità, pur restando quasi identico alla versione di aprile che era stata rimandata? La risposta non si trova nel testo, ma nel clima. Dopo la morte di Papa Francesco, si è creato un contesto di equilibrio precario, in cui molti hanno preferito evitare un nuovo scontro.
Non è cambiato il contenuto, è cambiato il tono: dal dibattito si è passati al consenso, dalla discussione alla convergenza.
Le fonti ufficiali parlano di un testo “più profondo” e “capace di sognare insieme il futuro”, ma la sostanza rimane quella di un linguaggio programmatico, costruito per includere più che per chiarire.
In realtà, ciò che è accaduto mostra un fenomeno ricorrente nella vita ecclesiale: quando la teologia lascia il posto alla strategia, la prudenza diventa unanimità. Non è un segno di maturità, ma di stanchezza.
Il consenso ecclesiale non coincide con la verità. La Tradizione insegna che l’unità non nasce dal voto, ma dall’adesione alla fede. Il pericolo è di confondere l’unanimità con lo Spirito Santo, dimenticando che anche la torre di Babele fu costruita “tutti d’uno spirito”.
Il sogno di Dio
Eppure, la Scrittura parla anche del sogno di Dio. Non quello dell’uomo che costruisce, ma di Dio che salva. Il sogno di Dio è che “tutti siano una cosa sola” (Gv 17,21). È il sogno dell’unità nella verità, non dell’uniformità nella confusione. È la Chiesa che nasce dal Sangue di Cristo e non da una delibera.
Il profeta Gioele ne parla così: «Io effonderò il mio Spirito su ogni uomo; i vostri anziani faranno sogni, i vostri giovani avranno visioni» (Gl 3,1). È Dio che dona sogni e visioni, non l’uomo che li progetta.
Mosè vide la terra promessa, ma non la costruì. Isaia vide il Tempio pieno di gloria, ma non lo progettò. Giovanni vide la Gerusalemme celeste, ma la contemplò in adorazione. La vera Chiesa non sogna se stessa, contempla il suo Signore.
Una chiamata al discernimento
Il tempo che si apre dopo l’approvazione del Documento sinodale non sarà un tempo di trionfi, ma di discernimento. Ogni diocesi sarà chiamata a tradurre il testo in prassi e cammini concreti. Sarà il momento decisivo: lì si vedrà se i sogni umani genereranno confusione o se lo Spirito saprà trasformarli in visione.
La Chiesa “visionaria”, se intesa nel senso biblico, è la Chiesa che sa guardare oltre le apparenze, che scorge nei segni dei tempi l’opera di Dio. Ma se “visionaria” significa soltanto “creativa, inclusiva, progettuale”, allora non è più la Chiesa del Vangelo, ma un laboratorio di idee. Il rischio non è solo linguistico: è teologico. Perché la fede non è sogno, ma realtà, e la verità non nasce da un laboratorio, ma da un Altare.
San Pietro, dopo la Trasfigurazione, non disse “che visione meravigliosa abbiamo avuto”, ma “Signore, è bello per noi stare qui”. La visione autentica non esalta l’uomo, adora Dio.
Il cristiano non è un visionario, è un veggente della verità. Non sogna la Chiesa del futuro, ma serve quella presente, come madre e maestra, fino al ritorno del Signore.
Sognare non è peccato, se si sogna con Dio. Ma quando il sogno diventa progetto senza preghiera e visione senza adorazione, allora diventa illusione. E la Chiesa non è chiamata a inseguire illusioni, ma a custodire la verità che salva. «Molti sogni e molte parole: molti vani. Ma tu temi Dio.» (Qoèlet 5,7)
