Non aggiungeremo nulla di “nostro”, piuttosto in comunione e immensa gratitudine vogliamo far nostre queste riflessioni di Padre Mario Proietti cpps.
MODERNISMO E OLTRE: CAPIRE LE RADICI TEOLOGICHE DELLA CRISI ATTUALE
Cari amici, con questo articolo inizia un ciclo di riflessioni che vuole aiutarci a guardare con maggiore lucidità la crisi della Chiesa contemporanea. Ho letto in questi giorni molti vostri commenti: alcuni davvero preziosi, altri purtroppo vicini all’oltraggio. Questo significa che, talvolta, ci siamo abbeverati a fonti che non hanno nutrito la nostra ragione, ma hanno acceso soltanto l’istinto, lasciandoci più polemici che illuminati.
Il mio desiderio è diverso: non fermarci a reazioni emotive, ma crescere insieme in un confronto più elevato e meno ideologizzato. Così potremo imparare ad amare di più la Chiesa, comprenderne le ferite inflitte dagli uomini e allo stesso tempo rafforzare il nostro cammino spirituale ed ecclesiale personale. Non solo critici e contestatori, ma collaboratori capaci di offrire ai pastori consigli saggi, frutto di conoscenza e discernimento.
Per questo vi invito a non ridurre questi post a sfoghi di sentimento, ma a viverli come occasioni per nutrire anche la ragione e ampliare la visione della situazione che stiamo vivendo. Solo così resteremo sereni e uniti, senza cedere alle contrapposizioni sterili, ma camminando insieme nella verità e nella carità.
Ho proposto già tre riflessioni:
primo articolo, La crisi non cominciò con il Concilio: tre letture a confronto
dove ho cercato di far emergere come il crollo vocazionale ed ecclesiale degli anni Sessanta non nasca dal nulla, né solo dal Vaticano II, ma da dinamiche più ampie.
Nella seconda,
secondo articolo, Dallo smarrimento del carisma alla crisi delle vocazioni: un passo oltre la liturgia
ho approfondito come la perdita di identità dei carismi religiosi, e il rifugio in appartenenze parziali, abbiano prodotto un vuoto che non la sola liturgia può colmare.
Nella terza,
leggi qui terzo articolo, Dalle radici del Settecento all’esplosione del Novecento: un terreno già minato
ho allargato lo sguardo alle cause remote della crisi, mostrando come idee illuministe, gianseniste, liberali e moderniste abbiano lentamente eroso la compattezza del clero e preparato il terreno all’esplosione degli anni Sessanta.
Ora, a partire da questa prima riflessione, desidero sviluppare un percorso più ampio: dal Sinodo di Pistoia alle figure di Lamennais e Rosmini, dal modernismo di Loisy, Tyrrell e Buonaiuti ai precursori del rinnovamento come Blondel, de Lubac, Congar e Rahner, fino al metodo pastorale di Giovanni XXIII e alle ambiguità del postconcilio, con i casi emblematici di Küng e Schillebeeckx. L’obiettivo è mostrare come l’attuale polarizzazione Vetus/Novus sia un falso problema, se non si riconosce il nodo più profondo: la persistenza del modernismo nella prassi pastorale.
Il Concilio Vaticano II non è stato il male assoluto né la panacea universale. È stato un dono dello Spirito, ma dentro una Chiesa già segnata da secoli di tensioni. Solo se superiamo le ideologie, e torniamo a fondare la nostra vita ecclesiale sulla verità oggettiva custodita dalla Chiesa, potremo affrontare la crisi con speranza.
Per capire davvero il presente, occorre tornare ai protagonisti di questa lunga vicenda: teologi che tra fine ’700 e Novecento hanno segnato il cammino ecclesiale, talvolta con fedeltà, talvolta con deviazioni, talvolta con ambivalenze. Non si tratta di giudicare il Magistero, che resta saldo e assistito dallo Spirito, ma di comprendere come certe derive abbiano finito per condizionare la prassi pastorale, anche senza mutare la dottrina.
Per questo, nei prossimi approfondimenti, prenderò in esame queste figure: da Scipione de’ Ricci e il Sinodo di Pistoia a Lamennais, da Rosmini a Loisy e Tyrrell, fino a Blondel, de Lubac, Congar, Rahner, Balthasar, Küng e Schillebeeckx. Un percorso che ci aiuterà a capire come le idee abbiano inciso sulla formazione del clero, sulla trasmissione della fede e sullo sviluppo pastorale, preparando il terreno alla crisi esplosa dopo il Concilio.
Non per dividere, ma per vedere con chiarezza. Non per alimentare ideologie, ma per tornare all’unica radice che dà vita: la verità oggettiva della fede custodita dalla Chiesa.
LAMENNAIS, ROSMINI E NEWMAN: TRE VIE DELL’OTTOCENTO TRA FEDE E MODERNITÀ
Cari amici, proseguiamo il nostro percorso. Dopo aver guardato al Sinodo di Pistoia del 1786 e come fermenti nati fuori dalla tradizione cattolica abbiano provato a ridurre la liturgia, la pietà popolare e l’autorità della Chiesa, anticipando in qualche modo le sfide che torneranno più avanti, ora facciamo un passo avanti, entrando nell’Ottocento. Dopo la Rivoluzione francese e in pieno clima di modernità nascente, la Chiesa si trovò davanti a un bivio: come rapportarsi a un mondo che cambiava rapidamente?
La Chiesa non poteva rimanere indifferente: doveva affrontare il problema di come annunciare il Vangelo in un mondo che stava cambiando. Due figure emblematiche rappresentano bene questo dilemma: Félicité de Lamennais, sacerdote francese, e Antonio Rosmini, sacerdote trentino e filosofo. Entrambi cercarono di interpretare la fede alla luce delle sfide moderne, ma le loro strade furono opposte. E proprio per questo ci aiutano a capire come il modernismo del Novecento non sia nato dal nulla, ma da tensioni già presenti nell’Ottocento.
Nato in Francia nel 1782, Lamennais iniziò come difensore appassionato della Chiesa e del Papa contro i gallicani. Nel suo Essai sur l’indifférence en matière de religion (1817–1823) denunciava con forza il relativismo e l’indifferentismo religioso, che vedeva come i grandi mali del secolo.
Ma negli anni Trenta dell’800 la sua traiettoria cambiò radicalmente. Attratto dal romanticismo e dalle correnti liberali, fondò il giornale L’Avenir con il motto «Dieu et liberté». Da quel momento cominciò a proporre un cattolicesimo “democratico”, costruito sulle categorie del liberalismo politico: libertà di coscienza, libertà di stampa, libertà di associazione, separazione netta tra Stato e Chiesa.
Roma reagì con decisione. Gregorio XVI, con l’enciclica Mirari vos (1832), affrontò di petto il cuore della questione: non si può confondere la libertà con la verità, perché la libertà senza verità diventa arbitrio. Il Papa condannò l’indifferentismo religioso, cioè l’idea che tutte le religioni siano equivalenti, e con parole forti denunciò la deriva del pensiero moderno: «Da questa corrottissima sorgente dell’indifferentismo deriva quell’assurda e perversa opinione o piuttosto delirio, che deve essere ammessa e garantita per ciascuno la libertà di coscienza» (DS 2730).
Lamennais rifiutò di obbedire e si allontanò dalla Chiesa. La sua parabola mostra il pericolo sempre attuale: se la modernità diventa il metro con cui misuriamo la fede, non è più la fede a purificare il mondo, ma il mondo a dissolvere la fede. È l’anticipo di ciò che sarà il modernismo: la perdita della verità oggettiva in favore delle categorie del tempo.
A questo punto si comprende il valore di una figura come John Henry Newman (1801–1890), convertito dall’anglicanesimo, poi cardinale e santo, che la Chiesa si appresta a proclamare Dottore.
Lui affrontò con lucidità il tema della coscienza, che in quel tempo veniva deformata in senso liberale. Lamennais parlava di libertà di coscienza come diritto assoluto dell’individuo di credere ciò che vuole: per la Chiesa era un delirio, perché separava la libertà dalla verità. Newman, al contrario, difese la coscienza come “vicario di Cristo nell’anima”: non libertà di arbitrio, ma obbedienza interiore alla verità di Dio. Per lui, la coscienza non è mai un rifugio soggettivo, ma il luogo in cui l’uomo si riconosce responsabile davanti al Creatore. Celebre resta la sua affermazione: “La coscienza ha diritti perché ha doveri”.
Non meraviglia che fosse guardato con sospetto. Tuttavia, Leone XIII lo elevò al cardinalato, riconoscendo la grandezza del suo contributo. Newman ci mostra che la risposta cattolica al liberalismo religioso non è la chiusura, ma la fedeltà illuminata: una libertà vera, radicata nella verità di Dio. La sua via fu quella della verità che purifica la libertà, un principio che offre un criterio positivo per rapportarsi al mondo moderno.
A lui si affianca anche la vicenda di Antonio Rosmini (1797–1855), sacerdote trentino, filosofo e fondatore dell’Istituto della Carità. Anche lui affrontò la questione del rapporto tra Chiesa e modernità, e lo fece rimanendo dentro l’obbedienza ecclesiale, con un approccio diverso da quello di Newman. Se Newman offriva un principio dottrinale per risolvere la tensione, Rosmini cercava una riforma dall’interno, partendo dalle necessità concrete della Chiesa del suo tempo.
Le sue opere più note, Le cinque piaghe della Santa Chiesa (1832) e La costituzione secondo la giustizia sociale (1848), proponevano riforme che toccavano punti nevralgici: la partecipazione più attiva del popolo, il rinnovamento della predicazione, un maggiore spirito di povertà evangelica.
Queste idee, però, non furono subito comprese. Nel 1849 alcune tesi furono condannate (Propositiones damnatae), e nel 1887, dopo la sua morte, furono censurate 40 proposizioni tratte dalle sue opere (Post obitum). Rosmini, prossimo alla morte, non protestò mai, non lasciò mai la Chiesa: accettò le condanne con umiltà, nella convinzione che l’ultima parola non fosse la sua, ma quella dello Spirito che guida la Chiesa.
Col tempo, la sua fedeltà venne riconosciuta: nel 2001 Giovanni Paolo II lo presentò come “modello luminoso di fedeltà”, e nel 2007 Benedetto XVI lo proclamò beato. Rosmini non fu modernista, ma un profeta di metodo: tentò di coniugare la fedeltà alla tradizione con l’ascolto delle istanze nuove, sapendo che alcune intuizioni hanno bisogno di tempo per maturare e di essere purificate dal vaglio del Magistero.
In questo senso, egli anticipa il metodo che Giovanni XXIII avrebbe proposto al Concilio: non cambiare la verità, ma presentarla con un linguaggio che il mondo moderno possa comprendere. È un cammino rischioso, un vero filo di rasoio: mediare senza tradire, aprirsi senza dissolversi. Rosmini ci mostra che questo è possibile solo con una fedeltà obbediente, che non si mette mai al di sopra della Chiesa ma dentro di essa.
Guardando a queste tre figure, vediamo tre direzioni possibili che si aprirono nell’Ottocento. Lamennais: la strada della rottura, che adotta le categorie del liberalismo e anticipa il modernismo. Newman: la via cattolica della coscienza, radicata nella verità, che offre un criterio positivo per rapportarsi al mondo moderno. Rosmini: la fedeltà obbediente che cerca di mediare senza uscire dalla Chiesa, aprendo vie di dialogo che il Concilio avrebbe poi percorso. Ma il secolo non finisce qui.
Presto la Chiesa si troverà a vivere la grande tragedia del Risorgimento, con la perdita del potere temporale e il Papa ridotto a “prigioniero in Vaticano”. I nuovi Stati nazionali, spesso sostenuti da ambienti massonici e dalle potenze europee, vedevano nella Chiesa un concorrente scomodo da eliminare.
In questo clima, il Concilio Vaticano I (1869–1870) tentò di fissare dei paletti dottrinali chiari, riaffermando la fede cattolica e il primato papale, ma fu interrotto bruscamente dalla presa di Roma. La Chiesa apparve così sempre più marginalizzata nello scenario politico, confinata quasi ai margini della società.
Intanto, nella seconda metà dell’Ottocento, avanzavano nuove discipline scientifiche: archeologia, filologia, critica storica. I grandi studi biblici protestanti tedeschi, con le loro teorie sulle fonti e sulla formazione dei testi, iniziarono a esercitare un fascino forte anche su parte del clero cattolico. Si trattava di un metodo che riduceva la Bibbia a documento storico, negando in pratica l’unità e l’ispirazione divina.
Ed è qui che troviamo il collegamento diretto col modernismo: alcuni teologi cattolici, affascinati dalla pretesa scientificità della critica protestante, cercarono di conciliarla con la fede. Ma così finirono per subordinare la Rivelazione al giudizio della scienza.
Per questo, il modernismo non nascerà dal nulla nel Novecento, ma troverà un terreno già preparato: le istanze del Sinodo di Pistoia, nella scia dell’Illuminismo, la rottura di figure come Lamennais, il tentativo di mediazione di Rosmini, le pressioni politiche e culturali del Risorgimento e, infine, l’ingresso nel mondo cattolico dei metodi di critica biblica protestante.
È in questo crocevia che matureranno le figure di Loisy, Tyrrell e Buonaiuti, e che la Chiesa, con San Pio X, dovrà affrontare con decisione nella grande condanna del modernismo. Ma di questo parleremo nella prossima riflessione.
ATTENZIONE: è bene far notare che la Chiesa non ha ritrattato la condanna di alcuni errori di Rosmini: ad es., la “Nota su Rosmini”, tra l’altro dice: “Il rispetto della verità storica esige inoltre che venga sottolineato e confermato il ruolo importante svolto dal Decreto di condanna delle “Quaranta Proposizioni”, in quanto non solo esso ha espresso le reali preoccupazioni del Magistero contro errate e devianti interpretazioni del pensiero rosminiano, in contrasto con la fede cattolica, ma anche ha previsto quanto di fatto si è verificato nella recezione del rosminianesimo nei settori intellettuali della cultura filosofica laicista, segnata sia dall’idealismo trascendentale sia dall’idealismo logico e ontologico”. Errori in buona fede, sanati soggettivamente dall’obbedienza alla Chiesa, per cui nonostante gli errori si è fatto santo.
Quando San Pio X prese le difese del cardinale J. Henry Newman, oggi Dottore della Chiesa
IL MODERNISMO: LOISY, TYRRELL, BUONAIUTI E LA CONDANNA PROFETICA DI PIO X
Cari amici, dopo aver visto come il Sinodo di Pistoia (1786) avesse introdotto fermenti illuministi, e come l’Ottocento abbia visto emergere figure come Lamennais, Newman e Rosmini, il Novecento si apre con un fenomeno che scuote profondamente la vita della Chiesa: il modernismo. San Pio X lo definirà «la sintesi di tutte le eresie» (Pascendi dominici gregis, 8 settembre 1907), perché in esso confluivano razionalismo, storicismo, relativismo e soggettivismo religioso.
Prima di entrare nel vivo del modernismo, è bene chiarire un punto. Qualcuno potrebbe pensare che figure come Antonio Rosmini fossero una sorta di “modernisti ante litteram”. In realtà, la Chiesa non ha mai ritrattato la condanna delle Quaranta Proposizioni (1849), tratte dalle sue opere e censurate con il decreto Post obitum (1887).
La Nota della Congregazione per la Dottrina della Fede (2001) ha ribadito: «Restano fermi i motivi di preoccupazione dottrinale che determinarono a suo tempo la condanna delle 40 proposizioni» (CDF, Nota su Rosmini, 1 luglio 2001). La differenza stava nell’atteggiamento del soggetto: Rosmini, pur toccato dalla condanna, accettò con umiltà e obbedienza. Fu proprio questa fedeltà al Magistero che la Chiesa ha riconosciuto nella sua beatificazione del 2007. Gli errori non furono “assolti”, ma sanati dalla sua obbedienza.
Quella condanna non fu un eccesso di zelo, ma un atto profetico. Alcune espressioni di Rosmini, pur nate in buona fede, si prestarono a usi che lui stesso non avrebbe voluto: in certi ambienti accademici furono lette in chiave idealista e liberalista, mentre nei decenni successivi il modernismo sviluppò proprio quelle derive: rivelazione ridotta a coscienza storica, grazia confusa con un sentimento interiore. Più tardi, anche nel postconcilio, certe interpretazioni soggettiviste della coscienza e della salvezza ripresero quegli schemi.
Con il modernismo non si trattava più di singole intuizioni, ma di un vero sistema che pretendeva di reinterpretare tutta la fede cattolica alla luce della modernità. Tre figure, provenienti da contesti diversi, ne divennero il simbolo: Alfred Loisy in Francia, George Tyrrell in Inghilterra ed Ernesto Buonaiuti in Italia.
Il punto di partenza fu Alfred Loisy (1857–1940), sacerdote e biblista francese, che scrisse nel suo celebre volume L’Évangile et l’Église (1902): «Jésus annonçait le Royaume, et c’est l’Église qui est venue». Tradotto: «Gesù annunciava il Regno, ed è venuta la Chiesa».
In questa frase era racchiusa la sua visione: Cristo non avrebbe fondato la Chiesa, ma questa sarebbe sorta in seguito, come frutto di uno sviluppo storico. La Rivelazione, per Loisy, non era un deposito immutabile, ma un’esperienza evolutiva della coscienza umana. Dogmi e sacramenti non erano più realtà soprannaturali, ma forme mutevoli della religione. Con lui, la critica biblica protestante entrava nel cuore della teologia cattolica.
A questa prospettiva si affiancò George Tyrrell (1861–1909). Mentre Loisy insisteva sulla dimensione storica ed evolutiva della Chiesa, Tyrrell spinse ancora più avanti il discorso sul piano soggettivo: l’esperienza religiosa personale doveva prevalere sulla dottrina oggettiva. Nei suoi scritti invocava un cristianesimo più “spirituale”, meno legato a dogmi e strutture, più vicino ai sentimenti dell’individuo. La Rivelazione diventava un processo interiore, e la Chiesa un organismo umano in continua trasformazione. Se Loisy aveva dissolto la Chiesa nella storia, Tyrrell la dissolveva nella coscienza. Dopo avere criticato apertamente Pascendi in articoli pubblicati su The Times, fu scomunicato il 3 ottobre 1907.
In Italia, infine, il volto più noto del modernismo fu Ernesto Buonaiuti (1881–1946). Sacerdote e storico del cristianesimo, volle proporre un cattolicesimo “moderno”, capace di convivere con la cultura del tempo. Come Loisy e Tyrrell, criticava la dogmatica tradizionale e diffidava dell’autorità ecclesiastica, ma la sua opera ebbe un peso particolare perché cercò di tradurre queste idee in una proposta pastorale e culturale italiana. Nel 1926 fu colpito da scomunica “vitandus” e ridotto allo stato laicale. La sua opera rimase un punto di riferimento per i modernisti italiani fino alla morte. Con lui il modernismo non era più solo un dibattito accademico, ma un movimento che pretendeva di riformare la vita concreta della Chiesa.
Tre figure, tre contesti diversi, ma un’unica crisi: la fede cattolica veniva piegata alle categorie della modernità, perdendo la sua radice soprannaturale. Loisy dissolse la Chiesa nella storia, Tyrrell nella coscienza, Buonaiuti nella cultura del tempo.
Di fronte a questa minaccia, la Chiesa reagì con grande decisione. Il 3 luglio 1907 fu pubblicato il decreto Lamentabili sane exitu, che condannava 65 proposizioni moderniste: tra esse, ad esempio, l’idea che la rivelazione non si fosse conclusa con gli apostoli, o che i dogmi non fossero verità rivelate ma interpretazioni mutabili.
Pochi mesi dopo, l’8 settembre 1907, San Pio X promulgò l’enciclica Pascendi dominici gregis, un testo lungo e articolato che analizzava il modernismo come un vero sistema. Il Papa ne mise a nudo le radici filosofiche, agnosticismo, che nega la possibilità di conoscere Dio, e immanentismo, che riduce la fede a un sentimento umano, e ne mostrò le conseguenze devastanti: svuotare la rivelazione, relativizzare i dogmi, dissolvere la Chiesa stessa. Le sue parole furono chiarissime: «Il modernismo racchiude in sé tutte le eresie, e chi lo abbraccia distrugge non solo la religione cattolica, ma ogni religione» (ASS 40 [1907], 619).
Per rafforzare la vigilanza, nel 1910 Pio X impose a tutti i chierici e docenti il Giuramento antimodernista, con il motu proprio Sacrorum antistitum (1 settembre 1910), rimasto obbligatorio fino al 1967. Era il segno che la Chiesa aveva compreso la gravità del pericolo e intendeva difendere con decisione l’integrità della fede.
È facile comprendere come queste idee abbiano attratto molti intellettuali cattolici dell’epoca: l’agnosticismo sembrava offrire rigore “scientifico”, mentre l’immanentismo sembrava vicino alla sensibilità moderna. Ma insieme portavano a svuotare la fede: il primo negava che Dio potesse essere conosciuto, il secondo lo riduceva a semplice emozione.
Il modernismo fu colpito duramente e arginato sul piano dottrinale, ma non scomparve del tutto. Molti suoi fautori si spostarono verso la ricerca storica o filosofica, diffondendo le idee in forme meno appariscenti. Rimase così una tensione di fondo: da un lato chi vedeva nella modernità un pericolo da respingere in blocco, dall’altro chi, pur restando fedele, sentiva l’urgenza di trovare linguaggi e strumenti nuovi per annunciare la fede.
In questo clima, nella prima metà del Novecento, compaiono altre figure che non vanno confuse con i modernisti. Maurice Blondel, Henri de Lubac, Yves Congar, Karl Rahner non cercarono di piegare la fede alle categorie moderne, ma di rispondere alle stesse domande della modernità partendo dall’interno della tradizione cattolica. Furono teologi fedeli, anche se talvolta fraintesi o temporaneamente sospettati, che con il loro lavoro aprirono sentieri nuovi: non di rottura, ma di rinnovamento autentico.
Qui occorre essere chiari: non possiamo considerarli modernisti nel senso condannato da Pio X. È vero che alcuni loro scritti suscitarono sospetti, ed è vero che furono corretti o temporaneamente limitati, ma non negarono mai la Rivelazione, non dissolsero i dogmi nella storia o nella coscienza, non rifiutarono l’autorità della Chiesa. Anzi, rimasero sempre nella comunione ecclesiale, e col tempo furono riconosciuti come contributori validi: basti pensare a Giovanni XXIII che li chiamò come periti al Concilio, e a Giovanni Paolo II che elevò al cardinalato de Lubac e Congar.
La polemica tradizionalista spesso confonde i piani: attribuisce a questi autori l’etichetta di “modernisti”, e da lì accusa di modernismo la Chiesa conciliare, fino a Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II. Ma si tratta di un errore di prospettiva: il modernismo vero e proprio fu condannato e rifiutato; ciò che si sviluppò più tardi fu un’altra cosa, un tentativo di dialogo con la modernità senza rinunciare alla verità della fede. Con tutti i rischi e le ambiguità del caso, ma su un piano diverso da quello di Loisy o Buonaiuti.
Il loro contributo, pur diverso nello stile e negli approcci, avrebbe preparato il terreno su cui il Concilio Vaticano II avrebbe poi potuto muoversi. Per questo, capire il modernismo è indispensabile: da una parte mostra la deriva che la Chiesa ha dovuto respingere con decisione, dall’altra spiega perché fosse necessario aprire nuove vie di riflessione, non per tradire la fede ma per renderla comprensibile all’uomo moderno. Di queste vie parleremo nel prossimo articolo.
Una considerazione finale ci aiuta a collegare questo discorso anche al nostro tempo. Non è raro, infatti, che il magistero recente, e in particolare quello di Papa Francesco, venga letto da alcuni in chiave modernista. È bene chiarire: il magistero di Francesco non assume le premesse filosofiche del modernismo, né riduce la fede a un sentimento soggettivo. Tuttavia, come già avvenne per Rosmini, alcune sue espressioni pastorali, ad esempio l’accento sul discernimento della coscienza o la sottolineatura della misericordia universale di Dio, possono essere deformate da chi le interpreta fuori dal contesto della tradizione.
Il rischio non è nel magistero in sé, che resta fedele, ma nell’uso che se ne fa: se la coscienza viene ridotta a criterio ultimo in senso soggettivista, o se la grazia è intesa come salvezza automatica senza Cristo, allora si cade in quelle derive che il modernismo aveva già proposto e che la Chiesa ha condannato. La lezione della storia è chiara: ciò che salva non è l’apertura alle categorie moderne, ma la fedeltà al deposito della fede.
Un esempio recente mostra quanto sia sottile questo confine. Quando Papa Francesco ha riconosciuto come “autentico magistero” l’interpretazione data dai vescovi argentini ad Amoris laetitia, si è creato un precedente delicato: non si tratta più solo di un documento universale, ma anche di una prassi locale che viene assunta a livello magisteriale. Questo gesto non significa affatto che il Papa sia modernista, ma rende possibile che alcuni leggano quella scelta in chiave soggettivista, quasi fosse un avallo a una coscienza autonoma sganciata dalla verità oggettiva.
Qui si vede bene il rischio che accompagna sempre il rapporto tra pastorale e dottrina. San Pio X riuscì a smascherare e condannare il modernismo “canonico”, quello dottrinale, che pretendeva di reinterpretare la fede alla luce della modernità filosofica. Ma una volta respinta quella sfida sul piano teologico, se ne è aperta un’altra più sottile e più difficile da affrontare: un modernismo pratico, o pastorale.
In questo secondo filone, la dottrina resta formalmente intatta, custodita nei testi del Magistero, ma nella prassi concreta, predicazione, catechesi, accompagnamento spirituale, si introducono atteggiamenti e interpretazioni che riprendono le stesse categorie moderniste: relativismo, soggettivismo della coscienza, riduzione del cristianesimo a semplice esperienza umana. È un fenomeno che non si dichiara mai apertamente, ma che di fatto produce lo stesso esito: una frattura tra dottrina e vita, tra verità e prassi.
Ecco perché la lezione della storia resta attuale: non è l’apertura in sé a salvare, ma la fedeltà al deposito della fede. È dentro questa fedeltà che anche le aperture pastorali trovano il loro equilibrio e la loro verità.
Nei prossimi articoli vedremo come questo nodo emergerà con chiarezza al Concilio Vaticano II, dove si passerà da una visione prevalentemente dogmatica della Chiesa a una visione pastorale. Un cambiamento di paradigma che, se non ben compreso, aprirà la strada al rischio di interpretazioni soggettivistiche e relativiste, generando quella frattura tra dottrina e prassi che ancora oggi dobbiamo imparare a sanare.
LA SFIDA ECUMENICA: DALLA DIFESA ALL’INCONTRO
Nell’articolo precedente abbiamo visto come autori come Blondel, de Lubac, Congar e Rahner abbiano preparato il terreno a un nuovo modo di pensare la fede nel Novecento, occorre guardare a un tema che sarebbe diventato decisivo per la vita della Chiesa: l’ecumenismo. Per secoli la posizione cattolica verso i cristiani separati era rimasta chiara e ferma: la Chiesa di Cristo sussiste pienamente nella Chiesa cattolica, e chi si era allontanato era chiamato a ritornare all’unico ovile.
Il movimento ecumenico, nato soprattutto in ambito protestante a fine Ottocento, prese corpo con conferenze e assemblee comuni, fino alla nascita nel 1948 del Consiglio Ecumenico delle Chiese. Roma rimase estranea a tali organismi, perché tendevano a ridurre la verità rivelata a un minimo comune denominatore.
Emblematica, in questa linea, è l’enciclica Mortalium animos di Pio XI (6 gennaio 1928), che condanna il “falso ecumenismo”. Scrive il Papa: «Sedes Apostolica nullo pacto talibus conatibus favere potest; idcirco catholicos… minime licere aut eiusmodi coitionibus nomen dare, aut easdem ullo modo iuvare» (AAS 20 [1928], 5; DS 3685). In italiano: «La Sede Apostolica non può in alcun modo partecipare a tali congressi; perciò ai cattolici non è in alcun modo lecito né prender parte a tali riunioni, né favorirle in alcun modo». Qui non è in discussione la carità verso i fratelli separati, ma il rischio dell’indifferentismo dottrinale, che confonde la ricerca dell’unità con il relativismo.
Già nel 1949, tuttavia, il Sant’Uffizio pubblicò un’Istruzione che, pur ribadendo il divieto di irenismo, apriva alla possibilità di colloqui con i cristiani separati sotto l’autorità dei vescovi e affidati a teologi competenti. È in questo solco che si colloca Giovanni XXIII. Con il motu proprio Superno Dei nutu (5 giugno 1960) egli istituì il Segretariato per la promozione dell’unità dei cristiani, affidandolo al cardinale Bea. Nel testo si legge: «ut Nostram erga eos, qui nomen Christianorum profitentur sed a hac Apostolica Sede seiuncti sunt, peculiarem benevolentiam Nostram testificemur» (AAS 52 [1960], 433), cioè: «per mostrare in maniera speciale il Nostro amore e la Nostra benevolenza verso coloro che portano il nome di cristiani, ma sono separati da questa Sede Apostolica».
Quando poi il Concilio Vaticano II affrontò il tema, il decreto Unitatis redintegratio (21 novembre 1964) fissò il principio teologico: «Promovere restaurandam unitatem inter omnes Christianos est inter praecipua Concilii Vaticani II proposita» (UR 1), tradotto: «Promuovere il ristabilimento dell’unità fra tutti i cristiani è uno dei principali intenti del Concilio Vaticano II». Per la prima volta, la Chiesa cattolica si dotava di uno strumento ufficiale per il dialogo ecumenico, senza rinunciare alla sua identità, ma aprendosi a percorsi di incontro ordinati alla verità.
Queste tappe mostrano un percorso organico, non una rottura: dalla difesa contro l’indifferentismo (Mortalium animos), al discernimento prudente dei colloqui (1949), fino all’istituzionalizzazione del dialogo (Superno Dei nutu e Unitatis redintegratio).
Proprio qui, però, si inserisce il rischio che abbiamo chiamato modernismo pratico. Mentre il Magistero ha mantenuto ferma la dottrina, alcune prassi ecumeniche hanno finito per ridurre l’incontro a fatto sociologico o culturale, dove la verità rivelata appare come sfondo secondario. In questo modo riaffiorano, sotto forma pastorale, le stesse radici del modernismo dottrinale: l’agnosticismo si riflette quando il dialogo viene inteso come ricerca infinita senza approdo alla verità; l’immanentismo appare quando le celebrazioni comuni si riducono a segni di fraternità senza riferimento al Sacrificio di Cristo; il relativismo traspare quando tutte le posizioni sembrano equivalenti; il soggettivismo emerge quando la coscienza individuale diventa criterio ultimo di appartenenza ecclesiale.
I meccanismi di deformazione sono concreti: sul piano psicologico, il credente tende a leggere parole di apertura come conferma delle proprie scelte; sul piano sociologico, i media amplificano frasi isolate e tacciono le precisazioni dottrinali; sul piano teologico, si perde la distinzione tra apertura pastorale e verità oggettiva. Gli anticorpi ci sono e sono precisi: Veritatis splendor (n. 54) afferma che la coscienza non crea la norma ma la riconosce; Dominus Iesus (n. 14) ribadisce «l’unicità e l’universalità salvifica di Gesù Cristo e della Chiesa»; il Catechismo (CCC 84) proclama che «il deposito della fede è stato affidato una volta per tutte alla Chiesa». Ma occorre un metodo: leggere sempre le aperture nella luce della Tradizione e applicare la misericordia come cammino di verità, non come semplice conferma soggettiva.
Su questo punto, è prezioso il richiamo di Mons. Brunero Gherardini, maestro di ecclesiologia alla Lateranense. Egli sottolineava che l’ecumenismo cattolico, per essere autentico, deve mantenere l’ermeneutica della continuità: «Il dialogo non può mai essere negoziazione sulla verità, ma annuncio della verità in carità». Per Gherardini, Mortalium animos conserva il suo valore di principio, mentre Unitatis redintegratio è sviluppo legittimo solo se letto in questa luce, e mai come cedimento relativista.
L’ecumenismo diventa così un banco di prova della fedeltà cattolica: non è in discussione l’apertura, che è doverosa, ma il criterio con cui viene vissuta. L’apertura autentica è quella che si fonda sulla verità custodita dalla Chiesa. Così il Concilio e i Papi hanno voluto e vogliono l’unità: non come compromesso, ma come piena comunione nella fede. Nel prossimo articolo parleremo proprio di questo: Dal modernismo al Concilio Vaticano II: il cambio di paradigma pastorale.

GIOVANNI XXIII, IL METODO DELL’INTEGRAZIONE E LE AMBIGUITÀ DEL POSTCONCILIO
Dopo aver considerato i precursori del rinnovamento teologico, da Blondel a de Lubac, da Congar a Rahner, e aver visto come una delle prime applicazioni concrete di quelle istanze sia stata la sfida ecumenica, che ha condotto la Chiesa dal tempo della difesa a quello dell’incontro, ci troviamo ora davanti al passaggio decisivo: l’annuncio del Concilio Vaticano II da parte di Giovanni XXIII. È in questo gesto che si manifesta un metodo nuovo, quello dell’integrazione: non erigere nuove barriere, ma mostrare la bellezza della fede in un linguaggio comprensibile al mondo contemporaneo. Questo metodo, tanto fecondo quanto rischioso, ha segnato l’intero Concilio e, più ancora, la sua recezione. È su questo punto che rifletteremo ora, prima di incontrare nella prossima tappa la figura di Hans Urs von Balthasar, che fungerà da cerniera tra il Concilio e il tempo del postconcilio.
Quando papa Giovanni XXIII annunciò il Concilio Vaticano II, il 25 gennaio 1959 nella basilica di San Paolo fuori le Mura, parlò di «un balzo innanzi verso una penetrazione dottrinale e una formazione delle coscienze, in corrispondenza più perfetta alla fedeltà alla genuina dottrina, ma nello stesso tempo con uno sguardo pastorale che abbraccia tutto». L’intento era chiaro: non un Concilio difensivo, ma un’assemblea che integrasse senza condannare, che mostrasse la bellezza della fede al mondo moderno, respirando l’aria del tempo senza perdere la propria identità.
L’approccio di Giovanni XXIII si radicava nella convinzione che la dottrina cattolica fosse solida e capace di reggere al confronto. Nell’allocuzione di apertura del Concilio, Gaudet Mater Ecclesia (11 ottobre 1962), egli parlò di «usare la medicina della misericordia piuttosto che imbracciare le armi del rigore» (AAS 54 [1962], 786).
Con questo spirito, molte istanze a lungo attese trovarono riconoscimento: la centralità della Scrittura, il ritorno ai Padri, la liturgia come partecipazione attiva, l’apertura ecumenica. Tuttavia, il metodo dell’integrazione ebbe come conseguenza la marginalizzazione della tradizione scolastica e della teologia tridentina, mentre correnti fino ad allora sospettate, de Lubac, Congar, Rahner, divennero protagoniste.
Se i testi conciliari rimasero equilibrati e fedeli al deposito della fede, la loro ricezione fu segnata da ambiguità. L’atteggiamento pastorale fu spesso interpretato come nuovo paradigma dottrinale. Così nacque il cosiddetto “spirito del Concilio”: più forte del Concilio stesso, usato come bandiera per giustificare cambiamenti non previsti dai testi. Che affronteremo in un articolo a parte.
Paolo VI descrisse con dolore questa stagione: «Si credeva che dopo il Concilio sarebbe venuta una giornata di sole per la storia della Chiesa. Invece è venuta una giornata di nubi, di tempesta, di buio, di ricerca, di incertezza. […] Da qualche fessura è entrato il fumo di Satana nel tempio di Dio» (omelia del 29 giugno 1972, Insegnamenti di Paolo VI, X [1972], 707).
Molti pastori, privi di adeguata formazione, interpretarono il cambiamento come un nuovo dogma: la fede ridotta a sociologia, la liturgia a laboratorio di sperimentazione, la catechesi a dialogo senza contenuti. In questo modo, il metodo dell’integrazione degenerò in tolleranza verso categorie segnate da soggettivismo e relativismo.
Il teologo svizzero Hans Küng, perito conciliare, divenne simbolo di questa deriva. Nel 1970 pubblicò Infallibile? Una domanda, mettendo in discussione il dogma proclamato dal Vaticano I. Nel 1979 la Congregazione per la Dottrina della Fede gli revocò la missio canonica. Rimase sacerdote e docente, ma le sue tesi incarnarono l’uso ideologico del Concilio come trampolino per contestare i fondamenti stessi della fede.
Analoga parabola per il domenicano Edward Schillebeeckx, anch’egli perito conciliare. Collaborò alla Lumen gentium e ai testi sulla liturgia, ma nel postconcilio propose interpretazioni innovative dell’eucaristia, del sacerdozio e della rivelazione, sottoposte più volte a esame dalla Congregazione per la Dottrina della Fede. Anche qui non fu il Concilio a generare deviazioni, ma una lettura che andava oltre quanto i testi affermavano.
Il metodo dell’integrazione voluto da Giovanni XXIII fu generoso e in parte necessario: la Chiesa non poteva restare chiusa in difesa. Ma la tolleranza verso correnti teologiche ambigue permise che esse, pur non vincendo sul piano dottrinale, esercitassero un influsso sproporzionato sulla prassi.
La dottrina restò intatta nei testi conciliari, ma la vita ecclesiale fu segnata da categorie estranee: soggettivismo, relativismo, storicismo. Mons. Brunero Gherardini, maestro di ecclesiologia alla Lateranense, ricordava che il Concilio può e deve essere interpretato solo nella luce della Tradizione: non come rottura, ma come sviluppo organico. Qualsiasi altra lettura lo snatura. Questo richiamo resta attualissimo: il Concilio è autentico se letto nell’ermeneutica della continuità.
Il metodo dell’integrazione voluto da Giovanni XXIII rimane una lezione preziosa: la Chiesa non deve mai chiudersi in difesa, ma allo stesso tempo non può confondere l’apertura con la rinuncia alla verità. È qui che si gioca il discernimento tra fecondità e ambiguità. Nei decenni successivi, infatti, la forza di questo metodo pastorale ha mostrato sia la sua capacità di rinnovamento sia il pericolo di letture ideologiche che hanno oltrepassato i testi conciliari.
Per comprendere come la teologia abbia cercato di interpretare e accompagnare questa fase, occorre ora rivolgere l’attenzione a Hans Urs von Balthasar. In lui troveremo una figura che, pur rimanendo profondamente fedele alla Tradizione cattolica, seppe innovare il linguaggio della teologia e collocarsi come cerniera tra il Concilio e il postconcilio. Balthasar diventa così un punto di osservazione privilegiato per capire come la recezione del Vaticano II potesse aprire a percorsi di bellezza e fedeltà, senza scivolare nei riduzionismi di un “modernismo pratico” che aveva già mostrato i suoi limiti.
primo articolo, La crisi non cominciò con il Concilio: tre letture a confronto
secondo articolo, Dallo smarrimento del carisma alla crisi delle vocazioni: un passo oltre la liturgia
terzo articolo, Dalle radici del Settecento all’esplosione del Novecento: un terreno già minato
quarto articolo, Modernismo e oltre: capire le radici teologiche della crisi attuale
quinto articolo, Il sinodo di Pistoia (1786): tra illuminismo e riforma cattolica, una “rivoluzione francese” dentro la chiesa
sesto articolo, Lamennais, Rosmini e Newman: tre vie dell’Ottocento tra fede e modernità
settimo articolo, Il modernismo: Loisy, Tyrrell, Buonaiuti e la condanna profetica di Pio X
ottavo articolo, I precursori del rinnovamento: Blondel, de Lubac, Congar, Rahner
nono articolo, La sfida ecumenica: dalla difesa all’incontro
A QUESTO RIGUARDO
ASCOLTIAMO LA VOCE DEL CARDINALE BIFFI
HANS URS VON BALTHASAR: TRA FEDELTÀ E INNOVAZIONE – UNA CERNIERA TRA CONCILIO E POSTCONCILIO
Cari amici, il nostro cammino ci ha condotti a vedere dapprima il Sinodo di Pistoia (1786), anticipatore dei fermenti illuministi, poi la parabola di Lamennais, Newman e Rosmini nell’Ottocento, e infine il modernismo condannato da san Pio X all’inizio del Novecento. Abbiamo quindi incontrato figure come Blondel, de Lubac, Congar e Rahner, i cosiddetti “precursori del rinnovamento”, e ci siamo soffermati sulla sfida ecumenica che ha condotto la Chiesa dal tempo della difesa a quello dell’incontro. Ora ci fermiamo su un autore che non si colloca in nessuna di queste categorie in modo netto, ma che funge da ponte tra il Concilio e il postconcilio: Hans Urs von Balthasar (1905–1988).
Teologo svizzero, gesuita poi dimessosi dall’ordine, fondatore con Adrienne von Speyr della Comunità di San Giovanni, Balthasar ha lasciato un’opera immensa e poliedrica. La sua trilogia, La Gloria. Una estetica teologica, Teodrammatica e Teo-logica, è un tentativo di rifondare la teologia su tre pilastri: il bello, il dramma e il vero. In apertura della Gloria scrive: «Noi non osiamo più credere nella bellezza, eppure senza di essa non possiamo volere nulla, conoscere nulla» (H. U. von Balthasar, Gloria, I, Einsiedeln 1961, p. 18).
Per lui la fede cristiana non poteva più essere trasmessa soltanto con categorie concettuali o giuridiche, ma doveva apparire come splendore che attrae, come dramma che coinvolge Dio e l’uomo, come logica interiore del mistero.
Balthasar non fu mai condannato dal Magistero. Non è un modernista come Loisy o Tyrrell: non riduce la fede a sentimento soggettivo né a pura coscienza storica. Anzi, si proclamò sempre fedele alla Chiesa. Ma non fu nemmeno un neoscolastico tradizionale: a suo giudizio, le categorie tomiste e manualistiche non bastavano più per rispondere alle sfide del presente. Cercò così una via originale, che suscitò insieme entusiasmi e sospetti.
Insieme a Henri de Lubac e Joseph Ratzinger, fondò la rivista Communio, alternativa al progressismo di Concilium. Giovanni Paolo II lo stimava profondamente: lo volle cardinale, ma Balthasar morì due giorni prima della nomina, il 28 giugno 1988. In quell’occasione, il Papa lo ricordò come «un grande teologo del nostro tempo, che ha saputo unire la fedeltà alla Chiesa con la ricerca appassionata del volto di Cristo» (Giovanni Paolo II, Angelus, 28 giugno 1988).
Il merito maggiore di Balthasar è stato quello di riportare al centro della teologia la categoria della bellezza, mostrando che la fede non è solo verità da credere e bontà da praticare, ma anche splendore che attrae. Tuttavia, il suo linguaggio estetico e drammatico, privo di chiavi interpretative univoche, si prestava a usi ambigui. Alcuni ambienti tradizionalisti lo accusarono di “modernismo estetico”, mentre settori progressisti lo bollavano come “conservatore travestito”. In realtà, il suo pensiero si colloca su un crinale sottile: fedeltà alla Chiesa, ma in forme così nuove da essere esposte a interpretazioni divergenti.
Con Giovanni XXIII e Paolo VI, la Chiesa scelse un Concilio “pastorale” più che dogmatico. Balthasar offrì gli strumenti culturali e teologici per tradurre questa scelta: non modificò la dottrina, ma cercò una lingua capace di rendere visibile il mistero. In questo sta la sua funzione di cerniera: la sua teologia poteva essere interpretata in fedeltà alla Tradizione, ma anche piegata a letture di rottura, a seconda della ricezione.
La crisi non è nei testi del Concilio, ma nel loro uso ideologico e nella prassi pastorale che vi si è appoggiata. Balthasar illumina proprio questa tensione: il passaggio dal modernismo dottrinale condannato da san Pio X al “modernismo pratico” del postconcilio. Non una rottura della dottrina, ma un’interpretazione pastorale che in certi casi ha introdotto categorie di soggettivismo e relativismo difficili da sradicare.
Per comprendere correttamente Balthasar occorre evitare due rischi opposti: l’entusiasmo acritico che lo fa bandiera di un nuovo corso teologico, o il rifiuto totale che lo riduce a sospetto modernista. Tre criteri possono orientare una lettura equilibrata:
Alla luce del Magistero: Le categorie estetiche e drammatiche vanno sempre lette in riferimento al deposito della fede, alla centralità del Mistero pasquale e all’autorità del Magistero.
Distinguere genio e ambiguità: Valorizzare il suo apporto sulla bellezza senza lasciarsi trascinare in usi impropri o riduttivi.
Usarlo come ponte, non come bandiera: Balthasar è utile se visto come cerniera tra Concilio e postconcilio: non un idolo, non un nemico, ma una tappa che aiuta a comprendere le dinamiche della crisi.
Hans Urs von Balthasar resta uno dei teologi più influenti del XX secolo. Non modernista, non neoscolastico, ma ponte che aiuta a capire perché, dopo il Vaticano II, non basti leggere i testi per comprendere la crisi: occorre guardare a come essi sono stati recepiti e tradotti nella vita della Chiesa.
Ed è proprio qui che si apre la prossima tappa del nostro percorso: il Concilio Vaticano II e la sua recezione. Con esso la Chiesa scelse consapevolmente un metodo pastorale più che dogmatico. Nel prossimo capitolo vedremo cosa ha significato passare “dal dogma alla pastorale” e come questa scelta, pur animata da fedeltà, abbia aperto una nuova fase che resta decisiva per comprendere la crisi che viviamo ancora oggi.
primo articolo, La crisi non cominciò con il Concilio: tre letture a confronto
secondo articolo, Dallo smarrimento del carisma alla crisi delle vocazioni: un passo oltre la liturgia
terzo articolo, Dalle radici del Settecento all’esplosione del Novecento: un terreno già minato
quarto articolo, Modernismo e oltre: capire le radici teologiche della crisi attuale
quinto articolo, Il sinodo di Pistoia (1786): tra illuminismo e riforma cattolica, una “rivoluzione francese” dentro la chiesa
sesto articolo, Lamennais, Rosmini e Newman: tre vie dell’Ottocento tra fede e modernità
settimo articolo, Il modernismo: Loisy, Tyrrell, Buonaiuti e la condanna profetica di Pio X
ottavo articolo, I precursori del rinnovamento: Blondel, de Lubac, Congar, Rahner
nono articolo, La sfida ecumenica: dalla difesa all’incontro
PARTE 1: NEL CUORE DEL VATICANO II. I TESTI, NON “SPIRITI”
Cari amici, il percorso che stiamo compiendo insieme ci porta ora dentro al cuore del Concilio Vaticano II. Finora abbiamo ripercorso le radici storiche e teologiche che hanno preparato quell’assise, dal fermento del Settecento e dell’Ottocento fino alla crisi modernista e al lavoro di rinnovamento compiuto dai Papi del primo Novecento. Adesso possiamo finalmente entrare nei testi conciliari, che restano il punto di riferimento autentico per comprendere cosa davvero il Concilio ha insegnato.
Perché parlare dei testi? Perché il Vaticano II non è stato un vago “spirito”, ma un evento che ha lasciato alla Chiesa documenti ufficiali: Costituzioni, Dichiarazioni e Decreti. Sono questi i testi che contano, ed è su di essi che bisogna tornare, distinguendo sempre tra ciò che i Padri conciliari hanno scritto e ciò che, in seguito, altri hanno deformato.
La nostra rassegna si articolerà in tre parti: nella prima vedremo le due Costituzioni dogmatiche, Lumen gentium e Dei Verbum; nella seconda analizzeremo Sacrosanctum Concilium, Gaudium et spes e i principali documenti sulla libertà religiosa, l’ecumenismo e il dialogo interreligioso; nella terza parte ci soffermeremo sui decreti che riguardano il sacerdozio, la vita religiosa, i laici, i seminari e la missione.
Questa divisione ci permetterà di cogliere meglio sia la bellezza dei testi conciliari sia i punti vulnerabili che, se isolati dal loro contesto, sono stati piegati per giustificare interpretazioni arbitrarie. La bussola resta sempre la stessa: leggere il Concilio alla luce della Tradizione, riconoscendo in esso non una frattura, ma uno sviluppo organico della fede cattolica.
Come si presentano i testi del Concilio? I Padri conciliari hanno prodotto diversi tipi di testi ufficiali, che non sono tutti uguali. Le Costituzioni sono i documenti più solenni, in cui il Concilio ha espresso la sua dottrina fondamentale. Le Dichiarazioni sono testi più brevi, su temi particolari ma delicati, come la libertà religiosa o i rapporti con le altre religioni. I Decreti invece riguardano aspetti più pratici e disciplinari, ad esempio la vita sacerdotale, la vita religiosa, la missione, la formazione dei seminaristi.
Le quattro Costituzioni sono il cuore del Concilio: Lumen gentium sulla Chiesa, Dei Verbum sulla Rivelazione, Sacrosanctum Concilium sulla liturgia, Gaudium et spes sul rapporto con il mondo contemporaneo. Sono testi profondi e bellissimi, che hanno riaffermato la fede cattolica con un linguaggio adatto ai tempi. Accanto a queste troviamo le Dichiarazioni, come Dignitatis humanae sulla libertà religiosa e Nostra aetate sulle religioni non cristiane, e i Decreti, come Unitatis redintegratio sull’ecumenismo, Presbyterorum ordinis sul ministero sacerdotale, Perfectae caritatis sulla vita religiosa, Optatam totius sulla formazione nei seminari, Ad gentes sull’attività missionaria, Apostolicam actuositatem sull’apostolato dei laici.
Pastorale e dogmatica: una falsa opposizione
Si sente ripetere spesso che il Vaticano II sia stato solo un concilio “pastorale” e non “dogmatico”. È vero che papa Giovanni XXIII, nel discorso di apertura Gaudet Mater Ecclesia (11 ottobre 1962), parlò della necessità di «usare la medicina della misericordia piuttosto che imbracciare le armi del rigore» (AAS 54 [1962], 786). Questo segnava la scelta di un nuovo stile, più dialogico e meno polemico.
Ma ciò non significa che il Concilio abbia rinunciato alla dottrina. Al contrario, due delle quattro costituzioni principali sono esplicitamente “dogmatiche”: Lumen gentium (1964), costituzione dogmatica sulla Chiesa. Dei Verbum (1965), costituzione dogmatica sulla divina rivelazione.
Il Vaticano II non ha abolito il dogma, ma lo ha presentato in forma pastorale, cioè cercando di mostrarne la bellezza e l’attualità per l’uomo contemporaneo. Non è stata una riduzione, ma un’applicazione.
I testi fondamentali
Prendiamo ora in rassegna questi documenti del Concilio, evidenziando i punti vulnerabili che sono stati sfruttati per costruire lo “spirito del Concilio”. È importante chiarire subito un punto: la presenza di queste vulnerabilità non significa che i Padri conciliari avessero in mente un progetto malvagio per scardinare la dottrina. No. È piuttosto una conseguenza naturale quando si vuole esprimere una verità dogmatica in forma pastorale.
Un principio dogmatico, infatti, è per sua natura breve, preciso, conciso, perché deve trasmettere una verità senza possibilità di equivoco. Quando però si passa al piano pastorale, lo stesso principio deve essere spiegato, articolato, adattato al dialogo con chi ascolta. E proprio questo linguaggio più ampio, spesso più “borioso” perché vuole essere accogliente e dialogico, può diventare occasione di fraintendimenti. Non perché sia falso, ma perché, nella complessità del discorso, alcuni isolano un passaggio e lo usano come grimaldello per giustificare altro.
Iniziamo la nostra rassegna dei testi conciliari partendo dal nucleo dogmatico del Vaticano II. Due Costituzioni, Lumen gentium e Dei Verbum, rappresentano il fondamento dottrinale dell’intero Concilio. Esse affrontano, rispettivamente, il mistero della Chiesa e la divina Rivelazione. È qui che si coglie con chiarezza il metodo scelto dai Padri conciliari: mantenere intatta la sostanza della fede e, nello stesso tempo, esprimerla con un linguaggio che potesse dialogare con l’uomo contemporaneo. In queste pagine non si trova una rinuncia alla dottrina, ma un suo sviluppo pastorale che, proprio per il registro più ampio e meno definitorio rispetto alle formule dogmatiche tradizionali, ha aperto la possibilità di interpretazioni divergenti.
Lumen gentium: la Chiesa, Popolo di Dio e corpo gerarchico
Lumen gentium è uno dei testi più importanti e anche più discussi del Concilio Vaticano II. Presenta la Chiesa come “Popolo di Dio” (capitolo II), ma non come una comunità democratica: la Chiesa rimane sacramento di salvezza e corpo gerarchico. Celebre è l’affermazione: «Questo sacro Concilio… insegna e dichiara che Gesù Cristo, pastore eterno, edificò la santa Chiesa inviando gli Apostoli» (Lumen Gentium 18). La Chiesa, dunque, non nasce da un accordo tra uomini, ma da Cristo stesso che l’ha voluta e fondata sugli Apostoli e sui loro successori.
Il punto vulnerabile è la formula del capitolo I: «L’unica Chiesa di Cristo… subsistit in Ecclesia catholica» [Lumen Gentium 8]. I Padri conciliari vollero dire che la Chiesa di Cristo sussiste pienamente e totalmente nella Chiesa cattolica, ma che al di fuori di essa si trovano “elementi” di verità e santificazione. Questi elementi non sono autonomi, ma hanno valore solo in rapporto alla pienezza che è custodita nella Chiesa cattolica.
La deformazione abusiva dello “spirito del Concilio” è stata invece questa: interpretare “subsistit in” come se la Chiesa di Cristo fosse divisa tra varie confessioni, quasi che la cattolica fosse solo una “parte” accanto alle altre. Da qui è nata la lettura relativista che ha minato la coscienza ecclesiale: alcune teologie hanno parlato di “pluriformità” della Chiesa, o di “rami” equivalenti (cattolici, ortodossi, protestanti), mentre il Concilio aveva chiarito che la pienezza è una sola, nella Chiesa cattolica.
Dei Verbum: la divina rivelazione
La costituzione Dei Verbum chiarisce che la rivelazione non è un’esperienza soggettiva dell’uomo, ma dono oggettivo di Dio, trasmesso attraverso la Sacra Scrittura e la Tradizione. Al n. 10 leggiamo: «La sacra Tradizione e la sacra Scrittura costituiscono un solo sacro deposito della parola di Dio affidato alla Chiesa». E continua: «L’ufficio di interpretare autenticamente la parola di Dio, scritta o trasmessa, è affidato al solo Magistero vivo della Chiesa».
Il punto vulnerabile si trova nella scelta di sottolineare la “complementarietà” tra Scrittura e Tradizione. Alcuni hanno letto questa affermazione come se la Tradizione fosse un semplice “contesto storico” e non un canale vivo e normativo della rivelazione.
La deformazione abusiva è stata quella di ridurre la rivelazione a “Parola di Dio contenuta solo nella Scrittura”, aprendo la strada a un “neo-protestantesimo cattolico”. Alcune catechesi e teologie postconciliari hanno messo in ombra la Tradizione, privilegiando la Bibbia come unica fonte, o hanno interpretato la rivelazione come esperienza religiosa che evolve con la coscienza storica. Ma Dei Verbum è chiaro: Scrittura e Tradizione formano un unico deposito, e il loro autentico interprete è il Magistero della Chiesa.
PARTE 2: NEL CUORE DEL VATICANO II. I TESTI, NON “SPIRITI”
Cari amici, questa seconda parte ci conduce ai documenti che hanno inciso maggiormente sulla vita quotidiana delle comunità cristiane e sul rapporto della Chiesa con il mondo moderno. Sono: le restanti due Costituzioni: Sacrosanctum Concilium ha posto le basi della riforma liturgica, Gaudium et spes ha espresso la volontà di dialogo con la società contemporanea: due dichiarazioni: Dignitatis humanae e Nostra aetate, e il Decreto Unitatis redintegratio che hanno toccato i temi sensibili della libertà religiosa, del rapporto con le religioni non cristiane e dell’ecumenismo. Si tratta di testi che rivelano la tensione del Concilio a farsi ponte tra la fedeltà alla Tradizione e l’urgenza di comunicare la fede in un contesto mutato. Anche qui, però, il linguaggio aperto e dialogico ha dato origine a interpretazioni talvolta riduttive o fuorvianti, che hanno generato equivoci ancora oggi discussi.
Sacrosanctum Concilium: la liturgia
La costituzione Sacrosanctum Concilium stabilisce i principi della riforma liturgica, riaffermando con chiarezza che la liturgia è «culmine verso cui tende l’azione della Chiesa e, insieme, fonte da cui promana tutta la sua virtù» (SC 10). Il Concilio ha chiesto una partecipazione più attiva dei fedeli, l’uso più ampio delle letture bibliche, una maggiore comprensione dei segni e dei riti, pur mantenendo saldo il principio che la liturgia resta azione di Cristo e della Chiesa, non dell’assemblea. Al n. 36 afferma con chiarezza: «L’uso della lingua latina, salvo particolari diritti, sia conservato nei riti latini».
Il punto vulnerabile sta proprio nell’apertura concessa all’uso delle lingue volgari: «si può concedere una più ampia parte alla lingua volgare» (SC 36 §2). Questa affermazione, equilibrata nelle intenzioni, fu interpretata come autorizzazione a sostituire del tutto il latino.
La deformazione abusiva è consistita nell’abolizione quasi totale del latino, che il Concilio invece voleva “conservato”, e nell’idea che la “partecipazione attiva” coincidesse con la moltiplicazione dei ruoli e delle parole, fino a trasformare la liturgia in un laboratorio di sperimentazioni comunitarie. Così lo “spirito del Concilio” ha prodotto prassi che il Concilio non aveva mai autorizzato: l’altare ridotto a tavola, il sacerdote assimilato ad animatore, l’assemblea come protagonista. Ma i testi conciliari restano chiari: la liturgia è azione di Cristo, non un’invenzione dell’uomo.
Gaudium et spes: la Chiesa nel mondo contemporaneo
Gaudium et spes è la costituzione pastorale che più di tutte ha fatto discutere. Si apre con parole celebri: «Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo» (GS 1). Qui alcuni hanno visto un cedimento al mondo moderno. In realtà, i Padri volevano riaffermare che la Chiesa non vive fuori dalla storia, ma è solidale con l’uomo di ogni tempo. Non significa mondanizzazione, ma missione: annunciare Cristo all’uomo contemporaneo partendo dalle sue domande reali.
Il punto vulnerabile si trova proprio nello stile aperto e dialogico del documento, che insiste molto sull’ascolto del mondo e sull’attenzione ai segni dei tempi. Questa impostazione, pensata come ponte missionario, è stata letta da alcuni come se il mondo fosse criterio normativo per la Chiesa.
La deformazione abusiva è consistita nell’interpretare Gaudium et spes come un programma di adattamento: la Chiesa che deve conformarsi al mondo moderno per essere credibile. Da qui sono nate derive di secolarizzazione, sociologizzazione della teologia e riduzione del cristianesimo a messaggio etico o umanitario. Ma il testo non dice mai che la Chiesa debba adeguarsi: ribadisce invece che solo in Cristo l’uomo trova la sua verità (GS 22), e che senza Dio l’uomo non comprende se stesso.
Dignitatis humanae: la libertà religiosa
Uno dei documenti più discussi del Concilio è la dichiarazione sulla libertà religiosa. Al n. 2 leggiamo: «La persona umana ha diritto alla libertà religiosa». Alcuni tradizionalisti hanno visto qui una rottura con il Magistero precedente, in particolare con il Sillabo di Pio IX (1864). In realtà, i Padri conciliari hanno ribadito un punto essenziale: la verità resta la stessa, ma l’adesione a Cristo dev’essere libera. La fede non può essere imposta con la forza, perché la dignità della persona esige che la scelta sia consapevole e volontaria. Paolo VI presentò questo testo come un atto di fedeltà al Vangelo: la Chiesa non costringe, ma propone la verità che salva.
Il punto vulnerabile sta nel linguaggio dei “diritti”, che poteva essere frainteso come se il documento intendesse proclamare un diritto all’errore, cioè l’equiparazione della verità e delle false religioni. In realtà, i Padri hanno voluto dire che ogni persona, in quanto dotata di coscienza, ha il diritto di non essere costretta da alcun potere umano nella scelta religiosa.
La deformazione abusiva è stata quella di leggere Dignitatis humanae come legittimazione del relativismo religioso, quasi che tutte le religioni fossero uguali e intercambiabili. Ma il documento non afferma mai questo: anzi, al n. 1 dichiara che «questa libertà religiosa riguarda la verità», e al n. 14 ribadisce che «è compito della Chiesa annunciare incessantemente la verità del Vangelo». La libertà religiosa, quindi, non è indifferenza verso la verità, ma la condizione perché la verità sia accolta nella libertà dell’amore.
Unitatis redintegratio: l’ecumenismo
Il decreto Unitatis redintegratio delinea i principi del dialogo con i cristiani non cattolici. Al n. 3 afferma: «Lo Spirito di Cristo non ricusa di servirsi di esse [le comunità separate] come di mezzi di salvezza». Interpretato correttamente, questo significa che lo Spirito Santo può operare anche fuori dei confini visibili della Chiesa cattolica, ma sempre in ordine all’unità. Non si tratta di un riconoscimento di “pienezza autonoma” delle altre comunità, ma di un invito a vedere l’opera di Dio come dinamismo che spinge verso la piena comunione nella Chiesa cattolica.
Il punto vulnerabile è la formula che riconosce la presenza dello Spirito e dei mezzi di salvezza nelle comunità cristiane non cattoliche: se letta superficialmente, poteva sembrare che il Concilio attribuisse loro la stessa dignità ecclesiale della Chiesa cattolica.
La deformazione abusiva è consistita nel ridurre questo testo a indifferentismo, come se tutte le confessioni fossero equivalenti e intercambiabili. Da qui si è sviluppato un ecumenismo di facciata, che appiattisce le differenze e rinuncia all’unità nella verità. Ma Unitatis redintegratio è molto chiara: al n. 2 dichiara che «questa unità, che Cristo ha donato alla sua Chiesa fin dall’inizio, crediamo che sussista indefettibilmente nella Chiesa cattolica» e che il dialogo deve avere sempre come fine la piena comunione visibile nella verità.
Nostra aetate: le religioni non cristiane
Nostra aetate è forse il testo più controverso del Concilio. Al n. 2 si legge: «La Chiesa cattolica nulla rigetta di quanto è vero e santo in queste religioni». Alcuni hanno interpretato questa frase come apertura al relativismo religioso, quasi che tutte le religioni fossero equivalenti. Il significato autentico è invece diverso: la Chiesa riconosce che in ogni cultura e tradizione possono esserci semi di verità e di bontà, riflessi della luce di Cristo che illumina ogni uomo (cf. Gv 1,9). Tuttavia, lo stesso paragrafo precisa che la Chiesa «annuncia e deve annunciare incessantemente Cristo che è “la via, la verità e la vita” (Gv 14,6), in cui gli uomini trovano la pienezza della vita religiosa».
Il punto vulnerabile sta nella valorizzazione del “vero e santo” presente nelle altre religioni, che, isolata dal resto, poteva essere usata come grimaldello per indebolire l’assolutezza di Cristo e della missione.
La deformazione abusiva è stata quella di trasformare questo riconoscimento in equiparazione, riducendo l’annuncio cristiano a dialogo senza contenuto o a convivenza relativista. Così, lo “spirito del Concilio” ha usato Nostra aetate come bandiera per giustificare sincretismi e indifferenza dottrinale. Ma i Padri conciliari furono chiari: riconoscere semi di verità non significa rinunciare al primato di Cristo, unico Salvatore e Redentore dell’uomo.
PARTE 3: NEL CUORE DEL VATICANO II. I TESTI, NON “SPIRITI”
Cari amici, questa ultima terza parte prende in esame i decreti dedicati ad ambiti specifici della vita ecclesiale: il ministero e la formazione dei presbiteri (Presbyterorum ordinis, Optatam totius), la vita consacrata (Perfectae caritatis), la missione dei laici (Apostolicam actuositatem) e la dimensione missionaria della Chiesa (Ad gentes). Questi testi mostrano l’intento dei Padri di rinnovare la vita interna della Chiesa alla luce del Vangelo, valorizzando i diversi stati di vita e le diverse vocazioni. Anche qui, tuttavia, la scelta di un linguaggio pastorale ha reso possibile letture che hanno talvolta indebolito l’identità sacerdotale, consacrata e missionaria, trasformando ciò che doveva essere un ritorno alle fonti in un adattamento al mondo. Studiare questi documenti significa allora distinguere con rigore tra il testo autentico del Concilio e le interpretazioni che ne hanno falsato lo spirito.
Presbyterorum ordinis: il ministero e la vita dei presbiteri
Il decreto Presbyterorum ordinis è dedicato al sacerdozio ministeriale. È un testo che ribadisce con chiarezza che il sacerdote non è un semplice delegato della comunità, ma partecipa realmente al sacerdozio di Cristo. Al n. 2 leggiamo che il presbitero «agisce in persona Christi Capitis», cioè rende presente Cristo stesso, Capo della Chiesa, specialmente nella celebrazione dell’Eucaristia. Qui si afferma con forza che il centro della vita sacerdotale è l’altare: il sacerdote è ordinato anzitutto per celebrare il sacrificio eucaristico, da cui nasce tutta la sua missione. Di conseguenza, anche la sua vita spirituale deve essere radicata in questo mistero, fatta di preghiera, di dedizione e di conformazione a Cristo.
Il punto vulnerabile sta nel linguaggio usato per descrivere la cooperazione del sacerdote con il Popolo di Dio. Il Concilio voleva sottolineare che il ministero del presbitero non si esercita in solitudine, ma dentro la comunione ecclesiale. Alcuni, però, hanno letto questa cooperazione in senso puramente orizzontale, come se il prete fosse semplicemente un coordinatore di attività comunitarie.
La deformazione abusiva è stata quindi quella di ridurre il sacerdote a un “funzionario della comunità”, un animatore sociale o culturale, spogliato della sua identità sacramentale. Questo scivolamento ha avuto conseguenze pesanti: perdita della coscienza della consacrazione, crisi vocazionali, smarrimento del senso stesso del ministero. Ma Presbyterorum ordinis non dice nulla di tutto ciò: al contrario, riafferma che il prete è anzitutto ministro del sacrificio eucaristico e servo della Parola, reso conforme a Cristo per guidare il Popolo di Dio non in virtù di un mandato umano, ma per grazia sacramentale.
Perfectae caritatis: il rinnovamento della vita religiosa
Il decreto Perfectae caritatis riguarda la vita religiosa e intendeva offrire criteri per il suo rinnovamento. I Padri conciliari chiedevano due cose insieme: da una parte un “ritorno alle fonti”, cioè allo spirito genuino dei fondatori, perché ogni istituto ritrovasse la propria identità carismatica; dall’altra un rinnovamento “adattato alle esigenze dei tempi” (PC 2), cioè una capacità di esprimere quel carisma in forme comprensibili e feconde per l’uomo contemporaneo. L’intenzione era positiva: liberare la vita consacrata da formalismi esteriori e ridarle lo slancio originario, quello della radicalità evangelica vissuta secondo il carisma fondativo.
Il punto vulnerabile sta proprio nell’espressione “adattarsi alle esigenze dei tempi”. È un linguaggio pastorale, non dogmatico, e può essere interpretato in modi diversi. I Padri volevano dire che la vita religiosa non deve irrigidirsi in forme esteriori, ma deve trovare modi nuovi per esprimere la propria fedeltà.
La deformazione abusiva dello “spirito del Concilio” è stata invece quella di leggere questo invito come autorizzazione a secolarizzare la vita religiosa: abbandonare l’abito, la clausura, le osservanze comuni, fino a svuotare intere comunità. Invece di un ritorno alle fonti, in molti casi si è assistito a uno sgretolamento della disciplina e della vita fraterna. Il risultato è stato opposto a quello che i Padri desideravano: invece di rinvigorire il carisma, molte congregazioni hanno perso identità e sono entrate in crisi.
Perfectae caritatis resta un testo prezioso, perché ricorda che la vera riforma non è mai imitazione del mondo, ma conversione evangelica. Il “ritorno alle fonti” resta l’unico criterio sicuro: i fondatori, illuminati dallo Spirito, hanno donato alla Chiesa vie di santità che non vanno abbandonate, ma rinnovate nella fedeltà.
Apostolicam actuositatem: l’apostolato dei laici
Il decreto Apostolicam actuositatem è dedicato ai laici e al loro ruolo nella Chiesa. I Padri conciliari riconoscono la piena dignità e responsabilità dei battezzati nella missione della Chiesa: «l’apostolato dei laici è partecipazione alla missione salvifica della Chiesa stessa» (AA 2). In altre parole, non si tratta di un compito accessorio o secondario: i laici, in forza del battesimo e della confermazione, sono chiamati a testimoniare Cristo nel mondo, nella famiglia, nel lavoro, nella società. La loro missione è portare il Vangelo negli ambienti in cui i sacerdoti non arrivano, facendo penetrare la luce della fede nelle realtà temporali.
Il punto vulnerabile del testo è la forte sottolineatura della corresponsabilità laicale. Il Concilio ha voluto esprimere che la Chiesa non è solo clero, ma corpo di Cristo in cui tutti i battezzati hanno un compito reale. Tuttavia, alcuni hanno letto questa affermazione in chiave di contrapposizione, come se i laici fossero chiamati a “rivendicare spazi” contro i sacerdoti o a prendere il loro posto.
La deformazione abusiva è stata quella di trasformare la corresponsabilità in una forma di rivendicazione di potere: assemblee dove i laici pretendono di “decidere” al posto dei pastori, o una prassi che riduce il prete a un coordinatore e il laico a un “funzionario” liturgico. Il risultato è stata una Chiesa più frammentata, con fratture invece che comunione. Ma il testo del Concilio è chiaro: i laici non sostituiscono i pastori, ma collaborano con loro, ciascuno secondo la propria vocazione. La vera dignità del laico non sta nell’imitare il sacerdote, ma nel santificare il mondo con la sua vita di fede vissuta nel quotidiano.
Optatam totius: la formazione sacerdotale
Il decreto Optatam totius riguarda la formazione dei futuri sacerdoti. I Padri conciliari hanno voluto offrire una visione completa del percorso seminaristico, affermando che la preparazione deve essere «armoniosamente coltivata nelle dimensioni umana, spirituale, intellettuale e pastorale» (OT 4). Non basta avere una buona preparazione accademica o un certo equilibrio umano: il seminarista deve crescere in tutte le dimensioni, così da diventare un sacerdote radicato nella preghiera, nella dottrina, nella vita comunitaria e capace di servire pastoralmente il Popolo di Dio.
Il punto vulnerabile di questo decreto si trova nell’accento sull’“aggiornamento” della formazione. L’intenzione era buona: non formare sacerdoti “fuori dal mondo”, ma capaci di comprendere le sfide contemporanee. Tuttavia, questa apertura poteva essere interpretata male.
La deformazione abusiva è stata infatti quella di privilegiare discipline come la psicologia o la sociologia, trascurando la solida formazione teologica e spirituale che costituisce il cuore del ministero. In molti seminari, negli anni successivi, la dimensione accademica si è indebolita e quella spirituale è stata ridotta a pratiche opzionali, mentre si dava molto spazio a esperienze comunitarie o a letture di carattere sociale. Il risultato è stato l’uscita di generazioni di sacerdoti fragili, senza basi teologiche solide e con poca vita interiore. Ma il decreto non chiedeva questo: invitava piuttosto a una formazione equilibrata, capace di tenere insieme umanità, dottrina e santità.
Ad gentes: l’attività missionaria
Il decreto Ad gentes è dedicato alla missione della Chiesa e si apre con una affermazione decisiva: «la Chiesa peregrinante è missionaria per sua natura» (AG 2). Questo significa che la Chiesa non solo “ha” una missione, ma “è” missione: tutto il suo essere deriva dall’invio del Figlio da parte del Padre e continua nell’invio dei discepoli ad annunciare il Vangelo. Il compito principale della Chiesa, dunque, è portare Cristo a tutti i popoli, proclamare la buona notizia e fondare nuove Chiese locali radicate nella fede cattolica.
Il punto vulnerabile del testo sta nel riferimento al dialogo con le culture. I Padri conciliari vollero dire che il Vangelo non si annuncia in astratto, ma deve incarnarsi nelle lingue, nei simboli e nei modi di vivere dei diversi popoli. Si trattava di ribadire il principio dell’inculturazione: la fede non distrugge le culture, ma le purifica e le eleva.
La deformazione abusiva dello “spirito del Concilio” è stata però quella di sostituire l’annuncio con il semplice dialogo, trasformando la missione in un incontro culturale o interreligioso senza riferimento esplicito alla conversione a Cristo. In alcuni casi la missione è stata ridotta ad attività sociale o di promozione umana, dimenticando che il primo scopo è la salvezza eterna. Ma Ad gentes è molto chiaro: la Chiesa annuncia Cristo perché solo in Lui gli uomini trovano la pienezza della vita e la salvezza. Il dialogo serve all’annuncio, non lo sostituisce.
A conclusione di questa rassegna, dobbiamo riconoscere due cose insieme: la bellezza dei testi conciliari e la presenza reale di alcune vulnerabilità. Bellezza, perché il Concilio ha espresso con freschezza e fedeltà l’eterna verità della Chiesa in un linguaggio nuovo, adatto a parlare all’uomo contemporaneo. Vulnerabilità, perché il linguaggio pastorale, più ampio e dialogico rispetto alla precisione dogmatica, può prestarsi a letture diverse: è come un bivio che interpella la libertà e l’intelligenza di chi legge.
Così come Dio, dando la Legge, non ha tolto all’uomo la possibilità di scegliere, ma gli ha dato un criterio sicuro per scegliere il bene, così la Chiesa, madre e maestra, con il Concilio ha offerto criteri di discernimento. Tocca a noi scegliere: non tra arbitrio e obbedienza cieca, ma tra fedeltà e tradimento. In questa libertà di scelta si manifesta tutta la bellezza di essere creature di Dio: intelligenti, libere e chiamate alla grazia.
Il criterio è stato chiarito con forza da Benedetto XVI nel discorso alla Curia del 22 dicembre 2005, dove ha indicato la bussola ermeneutica: «L’ermeneutica della discontinuità corre il rischio di finire in una rottura tra Chiesa preconciliare e Chiesa postconciliare; l’altra, quella della riforma, vede il rinnovamento nella continuità dell’unico soggetto-Chiesa» (AAS 98 [2006], 40). È questa la chiave: i testi del Concilio devono essere letti come sviluppo organico della Tradizione, non come frattura.
Molte delle tensioni che conosciamo ancora oggi non derivano dai testi del Concilio, ma dalla loro recezione. Da una parte, alcuni hanno invocato lo “spirito del Concilio” per oltrepassare i documenti e introdurre prassi arbitrarie; dall’altra, altri hanno visto nel Concilio stesso una rottura, senza distinguere tra ciò che i Padri hanno realmente scritto e ciò che in seguito è stato deformato.
La verità è un’altra: i testi del Vaticano II, letti alla luce della Tradizione, sono una pietra miliare della fede cattolica e rimangono un riferimento imprescindibile per la vita della Chiesa. Il Concilio non ha mai contrapposto pastorale e dogma: ha insegnato la dottrina in forma pastorale. Solo l’ermeneutica della continuità permette di cogliere questo equilibrio e di vivere il Concilio come dono dello Spirito, non come occasione di divisione.
Ed è proprio a questo punto che si impone la domanda decisiva: che cos’è questo “spirito del Concilio” che tanti hanno invocato? Da dove nasce e come ha potuto deformare testi così chiari e solidi? Nella prossima tappa affronteremo questo nodo, distinguendo con precisione tra il Concilio autentico e lo “spirito del Concilio” che ne ha falsato il volto.
QUANDO LA PASTORALE SI CORREGGE NEL TEMPO
Cari amici, le riflessioni che stiamo portando avanti sul Vaticano II e sulla sua ricezione ci mostrano quanto sia stato dannoso lo “Spirito del Concilio”, inteso come interpretazione arbitraria e disancorata dai testi. In nome di questa lettura, si sono introdotti errori pastorali e liturgici che, pur senza toccare la fede della Chiesa, hanno però minato la sua vita concreta, orientando la prassi in modo ambiguo. Eppure la storia ci insegna che la fede cattolica, custodita nel Magistero, possiede in sé i suoi anticorpi: con il tempo, ciò che non è conforme alla verità viene corretto e purificato.
Un esempio eloquente lo troviamo nella nota che Papa Leone XIV ha inviato in occasione del 70° anniversario della prima Conferenza Episcopale Latinoamericana (Rio, 1955) e della 40ª Assemblea Generale di CELAM. In essa il Papa richiama a non idolatrare la natura. Una frase che potrebbe sembrare secondaria, ma che in realtà tocca il cuore del discernimento ecclesiale: la Chiesa cresce proprio così, distinguendo tra ciò che viene da Dio e ciò che ne offusca la centralità.
Non possiamo dimenticare le immagini che hanno turbato tanti fedeli: il culto alla Pachamama nei Giardini Vaticani e la sua processione dentro San Pietro. Gesti forse pensati come pastorali, ma che si sono rivelati equivoci e scandalosi. Papa Leone XIV, senza nominare episodi o persone per rispetto verso il predecessore, ha però posto un principio inequivocabile: il creato è dono, ma non è Dio; non va idolatrato, perché solo il Signore è degno di adorazione. Con poche parole ha corretto implicitamente una deriva, restituendo alla Chiesa la certezza che Cristo è il centro, anche del creato.
Così è sempre avvenuto nella storia. Il Concilio di Trento, ad esempio, corresse abusi liturgici del Medioevo; e anche dopo il Vaticano II, gli eccessi interpretativi furono gradualmente chiariti dai Pontefici successivi. La Chiesa non si contraddice, ma cammina nella storia purificando ciò che è imperfetto e riportando tutto alla sua sorgente: il Vangelo.
Ecco allora la nostra speranza: se la pastorale può conoscere zone d’ombra, lo Spirito Santo guida il Magistero affinché la rotta non si perda. Con pazienza e fermezza la Chiesa torna sempre all’essenziale. E l’essenziale non è altro che Cristo, nel cui Sangue tutto è redento e nel quale l’universo intero trova il suo compimento.
LO “SPIRITO DEL CONCILIO”: UN EQUIVOCO CHE HA DEFORMATO LA CHIESA
Cari amici, siamo giunti a un punto delicatissimo del nostro percorso. Se finora abbiamo cercato di leggere con attenzione i testi del Vaticano II, dobbiamo ora affrontare una questione che ha pesato enormemente sulla vita della Chiesa negli ultimi sessant’anni: il cosiddetto “spirito del Concilio”. È un’espressione che molti di voi avranno sentito, spesso invocata per giustificare cambiamenti di ogni tipo, ma che non appartiene in alcun modo ai documenti ufficiali. Essa nacque subito dopo la chiusura del Concilio, quando alcuni teologi e gruppi ecclesiali, delusi dal fatto che le loro proposte non fossero state accolte, cominciarono a sostenere che non bisognasse fermarsi alle parole dei testi, ma andare oltre, seguendo un presunto “spirito” che li avrebbe ispirati.
Joseph Ratzinger, che aveva partecipato al Concilio come giovane perito e che in seguito sarebbe diventato Papa Benedetto XVI, denunciò chiaramente questo inganno. Nel Rapporto sulla fede (1985), osservava che si era arrivati a contrapporre “il vero spirito del Concilio” ai testi stessi, quasi che i documenti fossero frutto di compromessi diplomatici e che la verità stesse invece in un impulso più profondo e non scritto. È qui che si annida il problema: uno “spirito” senza testo diventa un pretesto per introdurre qualsiasi cosa, anche quelle che i Padri conciliari avevano consapevolmente rifiutato.
Il metodo era semplice ma devastante. Prima si dichiarava che i testi erano limitati e insufficienti, poi si affermava che il vero Concilio andava cercato nello “spirito” che li oltrepassava. Così, ciò che era stato scartato veniva riproposto come se fosse la logica naturale dell’evento. Paolo VI, negli anni Settanta, avvertì con dolore questa confusione. In una celebre omelia del 29 giugno 1972 disse: «Si credeva che dopo il Concilio sarebbe venuta una giornata di sole per la storia della Chiesa. Invece è venuta una giornata di nubi, di tempesta, di buio, di ricerca, di incertezza… da qualche fessura è entrato il fumo di Satana nel tempio di Dio» (Insegnamenti X, 1972, 707).
Basta fare alcuni esempi concreti per capire la portata di questo equivoco. Sacrosanctum Concilium, la costituzione sulla liturgia, aveva chiesto che si mantenesse l’uso del latino, permettendo al tempo stesso una maggiore presenza delle lingue volgari nelle letture e in alcune preghiere. Il testo affermava chiaramente: «L’uso della lingua latina, salvo particolari diritti, sia conservato nei riti latini» (SC 36). Eppure, in nome dello “spirito del Concilio”, il latino è stato quasi del tutto abolito, fino a diventare oggi un’eccezione rarissima. Un altro esempio lo troviamo in Nostra aetate, che riconosceva i semi di verità presenti nelle altre religioni, ma ribadiva che Cristo è «la via, la verità e la vita» (NA 2; cf. Gv 14,6). In nome dello “spirito”, questo testo è stato letto da alcuni come se mettesse tutte le religioni sullo stesso piano, aprendo la strada a un relativismo che i Padri non avrebbero mai approvato. Lo stesso accadde con Unitatis redintegratio, il decreto sull’ecumenismo: i Padri volevano aprire un dialogo serio con le altre confessioni cristiane, ma sempre in vista dell’unità nella verità. In seguito, invece, si fece strada un ecumenismo di facciata, che riduceva le differenze a dettagli trascurabili.
Dietro a questa deformazione non ci furono solo ingenuità, ma anche precise correnti teologiche e culturali. Teologi come Hans Küng sostennero che il Concilio fosse solo l’inizio di un nuovo paradigma e che lo “spirito” autorizzasse a rimettere in discussione perfino l’infallibilità papale (cfr. H. Küng, Infallible? An Inquiry, Garden City NY, 1971). Edward Schillebeeckx interpretò molti testi come compromessi provvisori, spingendosi oltre sul piano sacramentale ed ecclesiologico (cfr. E. Schillebeeckx, Kerkelijk ambt, 1980).
In questo clima si affermò la cosiddetta scuola di Bologna, diretta da Giuseppe Alberigo, che propose una lettura del Concilio come evento più che come corpus testuale. Nel primo volume della Storia del Concilio Vaticano II scriveva che il Vaticano II «va colto anzitutto come evento, cioè come fatto che nella sua realtà complessiva supera la semplice somma dei suoi testi» (G. Alberigo [ed.], Storia del Concilio Vaticano II, vol. I, Bologna, il Mulino, 1995, p. XIX). In questa prospettiva, il principio dell’aggiornamento diventava autonomo, autorizzando a proseguire oltre le formulazioni conciliari. La conseguenza fu che ciò che i documenti avevano detto con equilibrio veniva reinterpretato alla luce di un presunto spirito innovatore che non conosceva limiti.
In questo stesso orizzonte vanno ricordati anche due episodi significativi. Il primo è il cosiddetto Patto delle Catacombe, firmato nel novembre 1965 da un gruppo di Padri conciliari che si impegnavano a vivere uno stile di povertà radicale. In sé, nulla di contrario al Vangelo; ma nel tempo quel gesto fu assunto come simbolo di un “vero Concilio nascosto”, quasi un manifesto alternativo ai testi approvati in aula. Da lì derivarono letture ideologiche che contrapponevano la “Chiesa dei poveri” al Magistero ufficiale, inaugurando la logica del “magistero del dissenso”. Il secondo è la cosiddetta Mafia di San Gallo, un gruppo di cardinali e vescovi che, negli anni ’90 e 2000, si riuniva informalmente in Svizzera discutendo di scenari futuri per la Chiesa. Anche qui, al di là delle intenzioni personali, l’impressione lasciata fu quella di una regia sotterranea che si richiamava a un presunto “spirito conciliare” per orientare strategie ecclesiali, al di fuori dei canali ordinari della Tradizione e del Magistero. Entrambi i casi mostrano come lo “spirito del Concilio” non sia rimasto una formula astratta, ma abbia dato vita a forme di auto-legittimazione che non trovavano fondamento nei documenti.
In questa dinamica rientra anche il cosiddetto “caso Teilhard de Chardin”. Morto nel 1955, dunque prima dell’annuncio del Concilio, non ebbe alcun ruolo diretto nei lavori conciliari. Tuttavia, le sue opere circolavano ampiamente, al punto che il Sant’Uffizio ritenne necessario pubblicare un monitum nel 1962, pochi mesi prima dell’apertura del Vaticano II, avvertendo che “a prescindere da quanto vi sia di positivo, risultano chiaramente essere pervase di tali ambiguità e persino di errori così gravi da offendere la dottrina cattolica” (AAS 54 [1962], 526).
Nonostante questo richiamo, alcune sue intuizioni, la visione evolutiva del cosmo, l’idea di Cristo come “Punto Omega”, la convergenza di tutta la creazione verso l’unità finale, furono assunte come ispirazione culturale da una parte della teologia postconciliare. Ma qui si verificò lo scivolamento: lo “spirito del Concilio” elevò a paradigma quelle categorie che i testi conciliari non avevano mai accolto né approvato.
A queste derive teoriche si affiancarono poi prassi concrete che, pur non configurandosi come vere e proprie eresie formali, produssero effetti destabilizzanti nella vita della Chiesa, sempre in nome di un presunto “spirito conciliare”.
In campo pastorale, ad esempio, figure come don Tonino Bello hanno incarnato un modello di Chiesa solo “del grembiule”, tutta accoglienza e orizzontalità, con intuizioni generose ma talvolta ridotte a un cristianesimo sociologico, che rischiava di oscurare la dimensione sacrale e dottrinale.
In campo liturgico, Andrea Grillo e i suoi seguaci hanno proposto una lettura delle riforme come rottura con la tradizione, giustificata non tanto dai testi conciliari, quanto da un “nuovo spirito” che autorizzerebbe a reinventare la liturgia in chiave culturale e assembleare, mettendo tra parentesi il senso del sacrificio e della continuità.
In campo biblico ed esegetico, Alberto Maggi ha diffuso una interpretazione del Vangelo che riduce i miracoli a metafore e la fede a messaggio di consolazione psicologica, svuotando la dimensione dogmatica e soprannaturale della rivelazione. Anche qui non si tratta di negazioni esplicite della fede, ma di deformazioni pratiche che, appellandosi allo “spirito del Concilio”, finiscono per consegnare al popolo un’immagine di Cristo e della Chiesa impoverita e fragile.
Questi esempi mostrano che lo “spirito del Concilio” non ha operato solo in biblioteche e accademie, ma ha plasmato concretamente mentalità, catechesi, liturgie e stili pastorali, generando una lunga scia di confusioni. È proprio per questo che la fedeltà cattolica non può accontentarsi di evocazioni vaghe: occorre tornare ai testi e alla Tradizione viva, distinguendo con chiarezza ciò che è magistero autentico da ciò che è semplice prassi opinabile.
Non è un caso che ancora oggi si torni a parlare di Teilhard: nel 2009 il cardinale Gianfranco Ravasi scrisse su L’Osservatore Romano che occorrerebbe superare il monitum, e recentemente ha ribadito la richiesta. Ma se ciò avvenisse, si aprirebbe una frattura con il Magistero precedente: Paolo VI, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI non hanno mai revocato quel richiamo, pur riconoscendo in lui alcune intuizioni suggestive.
Il “caso Teilhard” mostra dunque come lo “spirito del Concilio” abbia talvolta trasformato un pensiero problematico in un simbolo di rinnovamento, oscurando la prudenza della Chiesa. Non il Concilio, ma la sua recezione ideologica ha fatto di Teilhard un’icona.
A questo punto occorre aggiungere una riflessione che raramente viene tematizzata con chiarezza. L’equivoco dello “spirito del Concilio” non solo ha deformato la percezione dei testi, ma ha anche oscurato un principio fondamentale della teologia cattolica: la distinzione tra il Magistero infallibile, che riguarda la custodia della fede, e le decisioni pastorali o disciplinari, che possono essere legittime ma non sono garantite da immunità da errore.
In molti ambienti, infatti, si è finito per leggere ogni gesto papale, ogni discorso o scelta contingente, come se avesse lo stesso peso dogmatico di una definizione solenne. Così si è creato un clima di idolatria o di contestazione, entrambe speculari, che hanno fatto perdere il senso della vera obbedienza ecclesiale. Obbedire al Papa significa riconoscere in lui il successore di Pietro e la sua missione di confermare i fratelli nella fede (cf. Lc 22,32), ma non vuol dire attribuire infallibilità a ogni atto prudenziale.
Quando questa distinzione si perde, si cade facilmente nella confusione: o si canonizza ogni innovazione, o si rifiuta in blocco l’autorità del Magistero. In realtà, la via cattolica sta nella Tradizione viva, che legge i testi conciliari e gli atti pontifici alla luce della fede perenne, distinguendo ciò che è essenziale e vincolante da ciò che appartiene al livello prudenziale.
La Chiesa, però, non rimase in silenzio.
Paolo VI pubblicò nel 1968 il Credo del Popolo di Dio, per riaffermare la dottrina cattolica su punti che rischiavano di essere smarriti (AAS 60 [1968], 433–445).
Giovanni Paolo II, con l’enciclica Veritatis splendor (6 agosto 1993), ribadì che la coscienza non crea la verità ma la riconosce (AAS 85 [1993], 1133–1228). La Congregazione per la Dottrina della Fede, con la dichiarazione Dominus Iesus (6 agosto 2000), riaffermò che Cristo è unico Salvatore e che la Chiesa cattolica è la pienezza della sua presenza (AAS 92 [2000], 742–765).
Infine, Benedetto XVI offrì la chiave ermeneutica più importante: non lo “spirito” contro i testi, ma la riforma nella continuità. «L’ermeneutica della discontinuità e della rottura corre il rischio di finire in una frattura tra Chiesa preconciliare e Chiesa postconciliare; l’altra ermeneutica, quella della riforma, vede il rinnovamento nella continuità dell’unico soggetto-Chiesa» (Benedetto XVI, Discorso alla Curia Romana, 22 dicembre 2005, in AAS 98 [2006], 40).
Se vogliamo tracciare un bilancio, possiamo dire che lo “spirito del Concilio” ha avuto tre volti concreti.
È stato, anzitutto, un fenomeno storico, che si è espresso in gesti e reti parallele ai testi, come il Patto delle Catacombe o la cosiddetta Mafia di San Gallo. È stato, in secondo luogo, un fenomeno teologico, promosso da scuole di pensiero come quella di Bologna e da autori che hanno letto il Concilio come rottura, più che come riforma nella continuità. È stato, infine, un fenomeno pastorale e culturale, che ha dato forma a prassi eterodosse in campo liturgico, esegetico e catechetico, capaci di plasmare generazioni di fedeli più di quanto abbiano fatto i testi stessi.
Tre volti diversi, ma accomunati da un medesimo equivoco: sostituire i documenti con un “magistero parallelo”, costruito su simboli, interpretazioni e prassi che non trovavano fondamento nella Tradizione viva della Chiesa. È qui che lo “spirito del Concilio” ha mostrato tutta la sua pericolosità: non come eresia formale, ma come deriva lenta e diffusa, capace di confondere i fedeli e di creare divisioni.
Per questo la fedeltà cattolica non sta nell’inseguire lo “spirito” mutevole, ma nel ritornare sempre ai testi, custoditi e interpretati alla luce della Tradizione perenne. Solo così la Chiesa può distinguere tra ciò che è davvero Vangelo e ciò che è frutto di mode o ideologie.
Ed è qui che si apre la domanda che guiderà la prossima tappa del nostro cammino: come hanno governato i Pontefici questo tempo di incertezza e di tensioni? Da Paolo VI a Francesco, passando per Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, la storia recente della Chiesa è segnata dal tentativo, non sempre riuscito, di ricondurre il Concilio al suo alveo autentico. Nei prossimi capitoli vedremo come ciascun Papa abbia raccolto questa sfida, con decisioni dottrinali e scelte pastorali che hanno inciso profondamente sul volto della Chiesa.
QUINDICESIMO articolo, LO “SPIRITO DEL CONCILIO”: UN EQUIVOCO CHE HA DEFORMATO LA CHIESA

Non aver paura di proporre e difendere la dottrina della Chiesa – Il cristianesimo non è devozione privata, ma impegno per un mondo più fraterno. 🙏😇
Leone XIV riceve in udienza una delegazione di rappresentanti politici e personalità civili provenienti dalla Francia e mette in guardia da “una laicità a volte fraintesa” e dalle “colonizzazioni ideologiche”. La dottrina della Chiesa è dottrina di salvezza, non bisogna temere di promuoverla. L’incoraggiamento ad affrontare le grandi questioni sociali con la forza della carità, in nome del bene comune.
Non “una semplice devozione privata”, bensì “un modo di vivere nella società intriso di amore per Dio e per il prossimo che, in Cristo, non è più un nemico ma un fratello”: il cristianesimo è questo e Leone XIV lo ricorda con chiarezza a una quarantina di membri della delegazione di rappresentanti politici e personalità civili della Val de Marne, nella diocesi francese di Créteil, ricevuta in udienza stamani, giovedì 28 agosto.
Rivolgendosi in francese ai presenti – accompagnati dal vescovo, monsignor Dominique Blanchet – il Papa ricorda che “di fronte alle derive di ogni genere” delle società occidentali, il cristiano deve “volgere lo sguardo verso Cristo” per chiedere il suo aiuto nell’esercizio delle proprie responsabilità.
Una laicità fraintesa mette a rischio la verità
Responsabilità delle quali il vescovo di Roma si dice “ben consapevole”: la difficoltà di “agire e decidere in coerenza con la propria fede” a causa di “una laicità a volte fraintesa”; la complessità di portare avanti “l’impegno apertamente cristiano” in alcune società occidentali dove “Cristo e la sua Chiesa sono emarginati, spesso ignorati, talvolta ridicolizzati”.
Senza dimenticare “le pressioni le direttive di partito e le colonizzazioni ideologiche” – afferma Leone XIV, citando il suo predecessore Francesco – a cui sono sottoposti i politici.
Di fronte a tutto questo, evidenzia ancora il Pontefice, occorre “il coraggio di dire, a volte, ‘No, non posso!’”, soprattutto quando “è in gioco la verità”.
Testimoniare Gesù nella vita pubblica
Uno, dunque, è il consiglio che il Papa offre alla delegazione francese: unirsi sempre più a Gesù, vivere di Lui e testimoniarLo, perché nella personalità di una persona pubblica non si può attuare una separazione: “Non c’è da una parte il politico, dall’altra il cristiano”, bensì “c’è l’uomo politico che, sotto lo sguardo di Dio e della propria coscienza, vive cristianamente i propri impegni e le proprie responsabilità”.
Non aver paura di proporre e difendere la dottrina della Chiesa
Di qui, il richiamo alla dottrina della Chiesa – in particolare alla dottrina sociale – i cui fondamenti, evidenzia ancora il Pontefice, sono “sostanzialmente in sintonia con la legge naturale” che anche i non cristiani e i non credenti “possono riconoscere”. Per questo, “non bisogna temere di proporla e di difenderla con convinzione”, in quanto “è una dottrina di salvezza che mira al bene di ogni essere umano, all’edificazione di società pacifiche, armoniose, prospere e riconciliate”.
Affrontare le questioni sociali con la forza della carità
Leone XVI si sofferma anche sulle “grandi questioni sociali” della regione francese, citando in particolare violenze, insicurezza, precarietà, droga, disoccupazione, scomparsa della convivialità.
Tutte sfide – aggiunge – che il responsabile cristiano è chiamato ad affrontare con “la carità sociale e politica”, la quale fa “amare il bene comune e cercare effettivamente il bene delle persone”.
Anche perché la promozione di valori che, per quanto evangelici, siano “svuotati di Cristo”, non rende possibile “cambiare il mondo”.
L’impegno per un mondo più giusto e fraterno
Infine, il Pontefice augura alla delegazione, giunta a Roma in pellegrinaggio, di tornare ai propri impegni rafforzata nella speranza e più salda nel lavorare “alla costruzione di un mondo più giusto, più umano, più fraterno”, che altro non è che “un mondo più impregnato dal Vangelo”.
QUI IL TESTO UFFICIALE ORIGINALE
Riflessione di Don Mario Proietti:
POLITICI SENZA VOLTO O CRISTIANI INTEGRI? LA CHIAREZZA IDENTITARIA CHE NON SI PUÒ PIÙ RIMANDARE
“Siate sempre di più uniti a Gesù, di viverlo e di testimoniarlo. Non c’è separazione nella personalità di un personaggio pubblico: non c’è da una parte il politico, dall’altra il cristiano. Ma c’è il politico che, sotto lo sguardo di Dio e della sua coscienza, vive i suoi impegni e le sue responsabilità in modo cristiano!
Siete chiamati a rafforzarvi nella fede, ad approfondire la dottrina, in particolare la dottrina sociale, che Gesù ha insegnato al mondo, e a metterla in pratica nell’esercizio dei vostri doveri e nella redazione delle leggi.
I suoi fondamenti sono fondamentalmente in accordo con la natura umana, la legge naturale che tutti possono riconoscere, anche i non cristiani, anche i non credenti. Non dovete quindi aver paura di proporla e difenderla con convinzione: è una dottrina di salvezza che mira al bene di ogni essere umano, alla costruzione di società pacifiche, armoniose, prospere e riconciliate.
L’impegno apertamente cristiano di un funzionario pubblico non è facile, soprattutto in certe società occidentali dove Cristo e la sua Chiesa sono emarginati, spesso ignorati, a volte ridicolizzati. Né ignoro le pressioni, gli ordini di partito e le “colonizzazioni ideologiche” a cui sono sottoposti i politici. Hanno bisogno di coraggio: il coraggio di dire a volte “no, non posso!” quando è in gioco la verità.
Anche in questo caso, solo l’unione con Gesù, Gesù crocifisso!, vi darà il coraggio di soffrire per il suo nome. Egli disse ai suoi discepoli: “Nel mondo voi soffrirete, ma abbiate coraggio! Io ho vinto il mondo” (Gv 16,33).”
Viviamo in un tempo in cui sembra più facile nascondere la propria identità cristiana che mostrarla. In certi contesti, dichiararsi credenti suscita sospetto, se non derisione. E allora tanti scelgono di abbassare il tono, di non esporsi, di ridurre la fede a un fatto privato, a un sentimento personale, da custodire nel cuore ma da non tradurre nelle scelte pubbliche. Questo però genera una scissione interiore: da un lato il cristiano, dall’altro il cittadino, il professionista, il politico, il padre o la madre di famiglia. Ma Cristo non divide, Cristo unifica. Se la fede è reale, essa plasma tutto: pensieri, affetti, decisioni.
Oggi Papa Leone XIV ha ricordato che non esiste separazione tra l’uomo pubblico e l’uomo cristiano. Un battezzato che ha responsabilità nella società non è chiamato a scegliere se agire “da credente” o “da laico neutrale”: egli è semplicemente chiamato ad essere se stesso, a vivere le sue responsabilità nello sguardo di Dio. È questo lo scandalo della chiarezza identitaria: non un potere clericale che invade lo spazio civile, ma una coerenza che rifiuta di nascondere la propria radice.
La verità è che la fede non impoverisce la società, la arricchisce. La dottrina sociale della Chiesa non è un catechismo per pochi, è una proposta umana universale: parla di dignità della persona, di giustizia, di famiglia, di lavoro, di pace. Chi la vive e la traduce nelle scelte quotidiane non sta imponendo un culto, ma sta difendendo ciò che rende la vita degna di essere vissuta.
Ma questa chiarezza chiede coraggio. Il coraggio di dire “no” quando la coscienza illumina che una scelta non è giusta, anche se è la più comoda. Il coraggio di soffrire qualche derisione pur di non svuotare Cristo dei suoi contenuti. Il coraggio di essere visibili, non per orgoglio, ma per fedeltà. Gesù lo ha detto con forza: “Senza di me non potete far nulla” (Gv 15,5). E ancora: “Nel mondo avrete tribolazioni, ma abbiate coraggio: io ho vinto il mondo” (Gv 16,33).
Chiarezza identitaria significa allora scegliere l’unità interiore, non vivere a compartimenti stagni. Non c’è un cristiano della domenica e un uomo del lunedì: c’è una sola persona, che nella sua debolezza si affida a Cristo e prova a vivere il Vangelo in ogni gesto.
La società relativista teme questa chiarezza, perché smaschera le ambiguità e i compromessi. Ma proprio per questo essa è oggi la testimonianza più necessaria. Non servono cristiani che si confondono con tutto, ma cristiani che, senza arroganza, sanno essere diversi, e che nella loro differenza annunciano un mondo più vero e più umano.
CRITERIO METODOLOGICO PER NON PERDERE LA BUSSOLA: LE SCELTE PASTORALI NON SONO INFALLIBILI
Cari amici, abbiamo visto come lo “spirito del Concilio” si sia rivelato un inganno, un artificio ideologico che ha introdotto nella Chiesa ciò che i testi conciliari non avevano mai autorizzato. La fedeltà al Vaticano II sta dunque nel tornare ai testi stessi, letti alla luce della Tradizione viva, e non in una vaga evocazione che ha finito per generare smarrimento. Ma proprio qui nasce una domanda che non possiamo eludere: come sono stati governati questi decenni in cui lo “spirito del Concilio” ha spesso oscurato i testi? Quali scelte hanno compiuto i Pontefici chiamati a custodire l’eredità conciliare e a guidare la Chiesa nel tempo della ricezione?
Per rispondere occorre chiarire subito un criterio di fondo. Non tutte le parole e i gesti dei Papi hanno lo stesso valore: c’è differenza tra ciò che appartiene al nucleo dogmatico e irreformabile, ciò che rientra nel magistero autentico non infallibile e ciò che è frutto di decisioni pastorali o disciplinari. Solo distinguendo questi livelli possiamo leggere senza equivoci la storia recente, comprendere i frutti autentici e riconoscere gli errori o le confusioni che hanno accompagnato il cammino.
Il Concilio Vaticano II stesso, nella Lumen gentium al n. 25, ricorda che il Papa, anche quando non parla ex cathedra, esercita un “magistero autentico” al quale i fedeli devono prestare “ossequio religioso dell’intelletto e della volontà”. Non si tratta dunque di un’opinione da valutare a piacimento, ma nemmeno di una definizione dogmatica irreformabile: è un livello intermedio che chiede rispetto e docilità, pur senza essere protetto da infallibilità. Lo stesso Codice di Diritto Canonico ribadisce questa gerarchia: ci sono verità da credere con fede divina e cattolica (can. 750 §1), altre da ritenere in modo definitivo (can. 750 §2), e infine insegnamenti che meritano adesione pur non essendo definitivi (can. 752).
Confondere questi livelli ha prodotto, in molti casi, conseguenze dannose: si è preteso un assenso assoluto dove non era richiesto, oppure si è rifiutato con leggerezza ciò che invece meritava ascolto e ossequio. Due errori opposti, ma speculari, nati dallo stesso equivoco.
Per comprendere davvero questa dinamica, non basta ragionare in astratto. È necessario guardare alla storia concreta, passo dopo passo, nei decenni successivi al Concilio. Così scopriremo che non furono i Papi a proclamare errori dottrinali, ma spesso i fedeli e gli stessi operatori pastorali a confondere livelli diversi di insegnamento, trattando scelte prudenziali come se fossero dogmi, oppure rigettandole come se fossero errori di fede.
Alcuni esempi significativi
Il latino e le lingue volgari. La costituzione Sacrosanctum Concilium è chiarissima: “l’uso della lingua latina… sia conservato nei riti latini” (SC 36). Si concedeva maggiore spazio alle lingue parlate, ma non si pensava a un’abolizione totale del latino. Nella prassi, però, il latino è quasi scomparso, e ciò che era nato come equilibrio è stato trasformato in cambiamento radicale. Non fu il Concilio a decretarlo, ma una prassi pastorale che si è poi radicata.
La definizione della Messa nel 1969. Un caso simile riguarda la prima edizione dell’Institutio Generalis Missalis Romani. La definizione iniziale sembrava mettere più in risalto l’aspetto assembleare che quello sacrificale. Il cardinale Ottaviani e altri alzarono la voce, e il testo venne rapidamente corretto. Nelle edizioni successive la Messa è descritta come il “Sacrificio del Corpo e del Sangue di Cristo” (IGMR 2002). Non si trattava di dogma, ma di disciplina rivedibile. Tuttavia, la percezione diffusa fu che “la Chiesa avesse cambiato dottrina sulla Messa”, cosa mai avvenuta.
Assisi 1986 e 2002. Il 27 ottobre 1986 Giovanni Paolo II convocò ad Assisi i leader religiosi del mondo per pregare per la pace. Le immagini fecero il giro del mondo, e molti interpretarono quell’incontro come atto di sincretismo. Nel 2002 il Papa precisò che ciascuna religione pregava nel proprio spazio, in momenti distinti, per evitare confusioni. Non era una celebrazione comune, ma un gesto pastorale di testimonianza. La dottrina, del resto, era stata ribadita dalla dichiarazione Dominus Iesus (2000): Cristo è l’unico Salvatore e la Chiesa cattolica possiede la pienezza dei mezzi di salvezza (n. 16). Il gesto pastorale non modificava l’insegnamento, ma fu recepito come se lo facesse.
La Fraternità San Pio X e la remissione della scomunica. Nel 2009 Benedetto XVI decise di revocare la scomunica ai quattro vescovi ordinati da mons. Lefebvre. Fu un gesto di misericordia, non un riconoscimento dottrinale delle loro posizioni. Il Papa lo chiarì con una lettera: la pena canonica era tolta, ma le questioni teologiche restavano aperte. Eppure molti lessero quella decisione come una riabilitazione dottrinale.
Amoris laetitia e i criteri di Buenos Aires. Dopo la pubblicazione dell’esortazione nel 2016, i vescovi della Regione di Buenos Aires offrirono criteri interpretativi sull’accesso ai sacramenti per i divorziati risposati. Papa Francesco li approvò con una lettera, pubblicata negli Acta Apostolicae Sedis, definendoli “magistero autentico”. Questo significa che richiedono ossequio religioso, ma non che siano infallibili. Tuttavia, la loro pubblicazione negli AAS fu percepita da molti come un “sigillo dogmatico”, alimentando polemiche.
La pena di morte nel Catechismo. Nel 2018 il Catechismo fu modificato al n. 2267, dichiarando la pena di morte “inammissibile” e impegnando la Chiesa per la sua abolizione. Non si tratta di una nuova definizione dogmatica, ma di un insegnamento autorevole del Magistero ordinario, che sviluppa la comprensione della dignità umana alla luce del Vangelo e del contesto storico attuale. Il principio resta quello della sacralità della vita, già affermato in precedenza; la formulazione attuale lo applica in modo più radicale. La Chiesa, infatti, non ha cambiato dottrina rivelata, ma ha maturato una valutazione prudenziale e autorevole circa i mezzi più consoni per tutelare la vita e promuovere la giustizia nel nostro tempo.
Il Documento di Abu Dhabi. Il 4 febbraio 2019 papa Francesco e il Grande Imam di Al-Azhar firmarono un testo sulla “Fratellanza umana”. La frase: “La diversità delle religioni è voluta da Dio nella sua sapiente volontà” suscitò perplessità. Alcuni la lessero come approvazione dell’errore religioso. In realtà, la retta interpretazione si colloca nella distinzione classica insegnata da San Tommaso d’Aquino tra volontà antecedente e volontà permissiva di Dio (Summa Theologiae, I, q. 19, a. 9): Dio permette che vi siano molte religioni senza volerle positivamente, rispettando la libertà della creatura. Il Papa stesso chiarì che si trattava di volontà permissiva, non approvazione dell’errore. Era un gesto pastorale di dialogo, non un nuovo dogma di fede.
Le traduzioni del “pro multis”. Per anni si tradusse con “per tutti”. Nel 2006 la Santa Sede ordinò di tornare a “per molti”, più fedele alla Scrittura e alla tradizione. Anche qui si vede come una scelta traduttiva pastorale fosse presentata come “volontà del Concilio”, mentre era questione di disciplina, sempre riformabile.
Quindi il Papa ha sbagliato?
A questo punto, qualcuno potrebbe chiedersi con schiettezza: dunque il Papa ha sbagliato? La fede cattolica ci impedisce di porre la questione in termini semplicistici, ma ci invita piuttosto a distinguere. E la distinzione tradizionale è quella tra il Papa come dottore privato e il Papa come dottore pubblico.
Come dottore privato, il Romano Pontefice è un uomo che pensa, parla, scrive. Può esprimere opinioni teologiche personali, può usare un linguaggio pastorale immediato, può addirittura parlare a braccio, senza pretendere di proporre un insegnamento vincolante. In questo ruolo, il Papa non gode dell’assistenza infallibile dello Spirito Santo e può quindi incorrere in valutazioni discutibili, in formule poco felici, perfino in affermazioni che necessitano di chiarimento. La tradizione cattolica lo riconosce da sempre: già la Relatio di mons. Gasser al Concilio Vaticano I spiegava che l’infallibilità papale riguarda solo il Papa che definisce ex cathedra, non quando parla come dottore privato.
Come dottore pubblico, invece, cioè quando il Papa si rivolge alla Chiesa universale per insegnare come Pastore e Dottore di tutti i fedeli, la sua parola ha un peso ben diverso. Quando definisce solennemente un dogma ex cathedra, gode dell’infallibilità promessa da Cristo. Quando insegna nel magistero ordinario, pur senza definire in modo irreformabile, esercita comunque un’autorità che chiede ossequio religioso dell’intelletto e della volontà. In questo caso non si tratta di opinioni private, ma di un insegnamento autentico, che merita accoglienza e rispetto.
Questa distinzione è decisiva per non cadere né nello scandalo né nella superficialità. Se un Papa, parlando a braccio, pronuncia una frase ambigua, non per questo ha “cambiato la dottrina”: ha parlato da dottore privato, non da maestro pubblico. Se invece insegna in un documento ufficiale, occorre accoglierne l’autorità secondo il grado che la Chiesa stessa riconosce. È in questa prospettiva che le decisioni pastorali vanno comprese: non sono dogmi, non sono irreformabili, ma sono atti del governo della Chiesa che meritano obbedienza e rispetto, pur nella consapevolezza che possono essere riveduti.
Dire che un Papa ha sbagliato non significa dunque negare la fede nell’infallibilità del suo magistero quando parla come dottore pubblico, ma riconoscere che, come dottore privato o come legislatore pastorale, egli resta uomo, soggetto a limiti e condizionato dalle circostanze. La fede della Chiesa non vacilla per questo: sa che il deposito della verità è custodito indefettibilmente, mentre la prassi pastorale può sempre essere purificata e corretta.
Il discernimento cattolico
Eppure, a questo punto, s’impone una riflessione più personale, quasi un’istruzione d’uso che i fedeli attendono da noi pastori. Perché se è vero che i Papi, soprattutto dopo il Concilio, hanno parlato spesso a braccio, improvvisando parole e gesti che non avevano il valore di definizioni dogmatiche, è altrettanto vero che il popolo di Dio percepisce ogni loro parola come carica di un’autorità immensa. E qui nasce la sofferenza: perché non di rado i fedeli hanno dovuto subire scelte pastorali come se fossero volontà divina, senza sapere che appartenevano a un livello diverso, contingente, riformabile.
Il compito del fedele cattolico non è quello di piegarsi con cieca rassegnazione, né quello di ribellarsi con durezza, ma di vivere con docilità intelligente. Se la Chiesa definisce un dogma, la risposta è l’adesione totale della fede. Se propone un insegnamento autentico, la risposta è l’ossequio rispettoso, unito alla consapevolezza che esso può essere chiarito o precisato in futuro. Se si tratta invece di scelte pastorali o disciplinari, la risposta è l’obbedienza ecclesiale, vissuta con spirito di fede, ma senza confondere ciò che è transitorio con ciò che è eterno.
Molti fedeli non hanno ricevuto questo criterio e hanno sofferto molto. Hanno visto decisioni pastorali spacciate per dogmi, o scelte disciplinari presentate come rivelazioni divine. Il loro smarrimento nasceva da un equivoco: nessuno aveva insegnato loro a distinguere i diversi livelli dell’insegnamento ecclesiale. Per questo è dovere dei pastori offrire criteri chiari, non per ridurre l’autorità, ma per custodirne la vera natura.
Così il fedele cattolico non sarà né un suddito cieco né un contestatore permanente, ma un figlio che ama e che obbedisce con intelligenza, nella libertà dei figli di Dio. La sua obbedienza non è mai cieca sottomissione, ma atto d’amore verso Cristo, che ha voluto legare la sua Chiesa a Pietro e ai suoi successori, pur lasciando che le scelte pastorali possano essere perfettibili e rivedibili. È questa la maturità della fede cattolica: fedeltà luminosa, intelligenza vigile, carità filiale.
Schema riassuntivo
Ogni fedele cattolico ha il diritto e il dovere di distinguere, senza confondere, tra diversi livelli di insegnamento ecclesiale:
1. Dogma infallibile: verità rivelate e definite dalla Chiesa, da credere con fede divina e cattolica (can. 750 §1). Qui non ci sono margini: si tratta di articoli di fede, e il rifiuto volontario equivale a eresia.
2. Insegnamenti definitivi: verità connesse strettamente alla rivelazione, proposte in modo definitivo dal magistero, anche se non rivelate direttamente (can. 750 §2). Qui il fedele deve dare assenso fermo e irreformabile.
3. Magistero autentico non infallibile: ciò che il Papa o i vescovi insegnano senza voler definire in modo definitivo (can. 752). Qui è richiesto “ossequio religioso dell’intelletto e della volontà”, cioè rispetto, docilità, disposizione all’ascolto e all’adesione, pur nella consapevolezza che non si tratta di dogmi e che tali insegnamenti possono essere riformati o meglio precisati in seguito.
4. Esortazioni pastorali e decisioni disciplinari: orientamenti pratici, scelte prudenziali, regolamenti. Sono autorevoli e vincolano l’obbedienza esterna dei fedeli finché restano in vigore, nella misura in cui non contrastano con la legge di Dio o con la fede della Chiesa. Non hanno però lo stesso peso di una definizione dogmatica e sono sempre riformabili. Qui il fedele può provare disagio o sofferenza, ma non deve cadere né nel rifiuto ribelle né nell’assimilazione acritica: occorre obbedienza umile e, insieme, legittima libertà di chiarire le proprie difficoltà.
Un criterio pratico per evitare conflitti di coscienza può essere così riassunto:
– se si tratta di verità di fede proclamate come tali, aderire con tutta la mente e il cuore;
– se si tratta di magistero autentico, accogliere con rispetto e docilità, senza assolutizzarlo;
– se si tratta di scelte pastorali, obbedire con spirito ecclesiale, ma senza confondere la disciplina del momento con la volontà eterna di Dio.
Ora che questo criterio metodologico è chiaro e che lo abbiamo visto operare nella prassi, siamo pronti ad affrontare la storia concreta del “governo del dopo-Concilio”. Sarà questo il compito del capitolo successivo: leggere come i Pontefici, da Paolo VI fino a Francesco, hanno tradotto il Concilio in scelte di governo, con coraggio e prudenza, con momenti di chiarezza dottrinale e con rischi di fraintendimenti.

PARTE 1. GOVERNARE IL DOPO-CONCILIO: DA PAOLO VI A FRANCESCO
Continuità, crisi e criteri di lettura
Cari amici, nel capitolo precedente abbiamo cercato di fare chiarezza su un punto decisivo: non ogni parola o gesto del Papa appartiene al Magistero infallibile. Esiste una gerarchia di insegnamenti: ci sono dogmi definitivi e irreformabili, ci sono insegnamenti autentici che richiedono ossequio religioso dell’intelletto e della volontà, e ci sono decisioni pastorali o disciplinari, legittime ma rivedibili. Abbiamo visto esempi concreti in cui, dopo il Vaticano II, scelte pastorali sono state recepite come se fossero dogmi, generando non poca confusione.
Ma non basta distinguere i livelli del Magistero. Occorre guardare anche a come i Pontefici hanno guidato la Chiesa nel dopo-Concilio. Paolo VI, Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e Francesco hanno ricevuto il Concilio come un dono e al tempo stesso come una sfida: da un lato un rinnovato slancio missionario e pastorale, dall’altro il rischio di interpretazioni arbitrarie o deformanti.
Il loro compito non è stato affatto semplice. Dovevano custodire il deposito della fede, dare attuazione alle riforme conciliari, rispondere alle attese dei fedeli e affrontare crisi profonde, interne ed esterne. Alcune scelte si sono rivelate profetiche, altre hanno mostrato i limiti di una prudenza pastorale che non sempre ha evitato fraintendimenti. Ma tutte si collocano dentro la grande corrente della Tradizione viva, in cui la Chiesa non ha mai smesso di professare la stessa fede.
In questo capitolo, diviso in 3 sezioni, proveremo allora a rileggere, uno per uno, i pontificati dei Papi postconciliari. Non lo faremo con occhio ideologico, né per stilare un bilancio parziale, ma con i criteri che ci siamo dati: distinguere tra dogma e disciplina, tra magistero autentico e scelte pastorali, tra fedeltà e deformazioni. Solo così potremo riconoscere la linea di continuità che attraversa la storia recente della Chiesa, senza nascondere le difficoltà e senza negare gli errori pastorali che, inevitabilmente, hanno accompagnato questi decenni.
PAPA POLO VI
Paolo VI fu il Papa che portò a compimento il Concilio e che ne avviò le riforme. Ma al tempo stesso volle tracciare con fermezza i confini della verità, perché la pastorale non degenerasse in relativismo. Lo fece con gesti dottrinali di grande forza.
Nel 1965, con l’enciclica Mysterium fidei, riaffermò la dottrina della Presenza reale di Cristo nell’Eucaristia, ammonendo che «non è lecito… discutere quale sia la maniera più conveniente di esprimere la presenza reale di Cristo nella santissima Eucaristia» (AAS 57 [1965], 753-774, n. 24).
Nel 1967, con l’enciclica Sacerdotalis caelibatus, difese il celibato sacerdotale, dichiarando che «il celibato sacerdotale, conservato nella Chiesa latina attraverso i secoli… deve rimanere fermo e intatto» (AAS 59 [1967], 657-697, n. 14).
Nel 1968, con la coraggiosa enciclica Humanae vitae, disse un no profetico alla contraccezione artificiale: «È esclusa ogni azione che… si proponga, come scopo o come mezzo, di rendere impossibile la procreazione» (AAS 60 [1968], 481-503, n. 14).
Lo stesso anno, turbato dalla confusione, proclamò il Credo del Popolo di Dio, una professione integrale di fede in cui affermava: «Noi crediamo nella santa Chiesa, una, santa, cattolica e apostolica, edificata da Gesù Cristo su questa pietra che è Pietro» (AAS 60 [1968], 433-445, n. 30).
Nel 1975, con l’esortazione apostolica Evangelii nuntiandi, diede un vademecum per l’evangelizzazione, ricordando che «non vi può essere vera evangelizzazione se non nell’annuncio esplicito del nome, della dottrina, della vita, delle promesse, del Regno e del mistero di Gesù di Nazareth» (AAS 68 [1976], 5-76, n. 22).
Accanto a questi interventi dottrinali, Paolo VI guidò l’attuazione della riforma liturgica voluta dal Concilio.
Con la costituzione apostolica Missale Romanum (3 aprile 1969) promulgò il nuovo Messale romano, che entrò in vigore nel 1970. Egli presentò la riforma come un atto di obbedienza al Concilio: «Ci sembra giunto il momento di dare a queste norme il carattere di legge mediante la nostra autorità apostolica» (AAS 61 [1969], 217-222). Tuttavia, era consapevole della portata e delle difficoltà del cambiamento. Nell’udienza generale del 19 novembre 1969, a pochi giorni dall’entrata in vigore del nuovo Ordo Missae, riconosceva: «È un sacrificio che la Chiesa fa della sua lingua, la lingua latina… Ma la Chiesa compie questo sacrificio per un bene più grande: per avvicinare la liturgia al popolo» (Insegnamenti VII [1969], 1126). E pochi anni dopo, nell’omelia del 29 giugno 1972, esprimeva tutta la sua amarezza: «Si credeva che dopo il Concilio sarebbe venuta una giornata di sole… Invece, da qualche fessura è entrato il fumo di Satana nel tempio di Dio» (Insegnamenti X [1972], 707).
Sul piano sociale, Paolo VI fu il Papa dell’enciclica Populorum progressio (1967 – SI LEGGA QUI la testimonianza del cardinale Siri), in cui affermò che «lo sviluppo è il nuovo nome della pace» (AAS 59 [1967], 257-299, n. 76). Con questa visione, la dottrina sociale della Chiesa si aprì in modo più deciso ai temi della giustizia internazionale, del lavoro e delle disuguaglianze, traducendo l’ispirazione di Gaudium et spes in un magistero profetico.
Sul piano ecumenico, Paolo VI fu il Papa che più direttamente incarnò l’apertura del Concilio. Nel 1964, durante il viaggio in Terra Santa, incontrò il patriarca ecumenico Atenagora: un gesto storico, che aprì la strada alla revoca reciproca delle scomuniche del 1054, proclamata l’11 dicembre 1965. Tuttavia, il Papa non ignorava i rischi di letture improprie del decreto Unitatis redintegratio. Per questo, nel 1973, la Congregazione per la Dottrina della Fede pubblicò, con la sua approvazione, la dichiarazione Mysterium Ecclesiae, che ribadiva con forza che «l’unica Chiesa di Cristo… sussiste nella Chiesa cattolica» (AAS 65 [1973], 396-408, n. 1), mettendo in guardia contro ogni tentativo di ridurre l’ecumenismo a semplice relativismo ecclesiologico.
Sul piano interreligioso, Paolo VI diede impulso alla recezione di Nostra aetate. Il suo pontificato vide la nascita del Segretariato per i non cristiani (oggi Dicastero per il Dialogo interreligioso), che inaugurò i primi scambi ufficiali con ebrei, musulmani e rappresentanti delle grandi religioni asiatiche. Tuttavia, anche in questo campo Montini volle ribadire i limiti: il dialogo non significa mai rinunciare all’annuncio di Cristo. In Ecclesiam suam (1964) aveva già delineato il metodo: «Il dialogo non dispensa dall’annuncio, ma lo accompagna» (AAS 56 [1964], 609-659, n. 81).
Appare così come il Pontefice che aprì vie nuove al dialogo, ma senza cedere al rischio di un ecumenismo o di un interreligioso “debole”: la sua bussola rimase sempre la verità cattolica, che sola fonda la comunione e il rispetto autentico.
Paolo VI aveva compreso che le riforme, senza argini dottrinali e senza vigilanza, potevano trasformarsi in disgregazione. Per questo il suo magistero rimase sempre orientato a un principio chiaro: riforma sì, ma nella fedeltà alla verità e nella ricerca della comunione.
Nel prossimo articolo ci soffermeremo su Giovanni Paolo II e Benedetto XVI.
diciasettesimo, PARTE 1. GOVERNARE IL DOPO-CONCILIO: DA PAOLO VI A FRANCESCO
Continuità, crisi e criteri di lettura
diciottesimo articolo, Parte 2. Governare il dopo-concilio: da Paolo VI a Francesco. Giovanni Paolo II e Benedetto XVI
diciannovesimo articolo, Parte 3. Governare il dopo-concilio: da Paolo VI a Francesco. Papa Francesco
PARTE 2. GOVERNARE IL DOPO-CONCILIO: DA PAOLO VI A FRANCESCO
PAPA GIOVANNI PAOLO II E BENEDETTO XVI
Con Giovanni Paolo II la Chiesa entrò in una nuova fase. Eletto nel 1978, Wojtyła vide con chiarezza che occorreva consolidare la recezione del Concilio fissando dei “pilastri” sicuri.
Il primo fu il cristocentrismo, espresso nella sua prima enciclica Redemptor hominis (1979), manifesto della “nuova evangelizzazione”, in cui scriveva: «L’uomo è la via della Chiesa» (AAS 71 [1979], 257-324, n. 14), ma solo perché Cristo è la via dell’uomo.
Il secondo fu il Catechismo della Chiesa Cattolica (1992), promulgato con la costituzione Fidei depositum, definito «un testo di riferimento sicuro ed autentico per l’insegnamento della dottrina cattolica» (AAS 85 [1993], 1150).
Il terzo fu la morale, con l’enciclica Veritatis splendor (1993), che riaffermò con autorità: «Esistono atti che, per se stessi e in se stessi, indipendentemente dalle circostanze, sono sempre gravemente illeciti» (AAS 85 [1993], 1133-1228, n. 80).
Infine, nel 2000, la dichiarazione Dominus Iesus, firmata dalla Congregazione per la Dottrina della Fede, ribadì l’unicità salvifica di Cristo e la permanenza della Chiesa cattolica come la Chiesa di Cristo che “sussiste in” essa (AAS 92 [2000], 742-765, nn. 16 e 21).
Sul piano liturgico ed eucaristico, Giovanni Paolo II diede nuovo vigore alla centralità del sacrificio eucaristico. Con l’enciclica Ecclesia de Eucharistia (2003) affermava: «La Chiesa vive dell’Eucaristia» (AAS 95 [2003], 433-475, n. 1), richiamando alla necessità di custodire il senso adorante e sacrificale della liturgia.
Sul piano sociale, sviluppò la dottrina di Gaudium et spes attraverso tre grandi encicliche: Laborem exercens (1981), in cui affermava che «il lavoro è per l’uomo, non l’uomo per il lavoro» (AAS 73 [1981], 577-647, n. 6); Sollicitudo rei socialis (1987), che propose lo “sviluppo solidale” come via alla pace (AAS 80 [1988], 513-586); e Centesimus annus (1991), in cui rifletté sul crollo dei totalitarismi e sulla dignità della persona al centro dell’economia (AAS 83 [1991], 793-867).
Sul piano ecumenico, Giovanni Paolo II diede impulso straordinario con l’enciclica Ut unum sint (1995), in cui affermava che «l’impegno ecumenico è una priorità della Chiesa cattolica» (AAS 87 [1995], 921-982, n. 3), arrivando a invitare i fratelli cristiani a dialogare sul ministero petrino stesso. Sul piano interreligioso, promosse nel 1986 l’incontro di Assisi, che voleva essere un segno profetico di preghiera per la pace e di dialogo tra le religioni.
L’evento ebbe un impatto enorme, ma suscitò anche forti discussioni per alcune ambiguità: alcune celebrazioni non furono adeguatamente distinte, e si creò l’impressione di una preghiera “comune”, che Nostra aetate non autorizzava. Anche il Card. Ratzinger, allora prefetto della CDF, pur obbedendo al Papa e partecipando, espresse in seguito forti riserve. In un’intervista del 2003 disse: «Non si può pregare insieme. Ci si può radunare insieme, in silenzio, e pregare ognuno separatamente, ma una preghiera comune sarebbe falsa» (Intervista a Ratzinger, 2003, in G. Weigel, Benedetto XVI. Una vita, Milano 2020). Mons. Brunero Gherardini, con rigore teologico, volle specificare che il Papa vi aveva preso parte non come capo della Chiesa cattolica, ma come persona privata.
Più tardi, Benedetto XVI, nel 2011, celebrò il 25° anniversario di Assisi con modalità profondamente diverse: non una preghiera interreligiosa, ma un pellegrinaggio comune per la pace, con tempi distinti, per evitare ogni rischio di sincretismo e ribadire che la missione della Chiesa non è relativizzare Cristo, ma testimoniare la sua unicità davanti a tutti.
La linea di fondo fu chiara: Giovanni Paolo II mostrò che la dimensione pastorale non può mai essere separata dalla verità che salva. La sua ermeneutica del Concilio fu quella di un radicamento dottrinale al servizio della missione, unito a un impegno sociale ed ecumenico che cercava di prolungare nel presente la visione di Gaudium et spes e di Unitatis redintegratio.
Papa Benedetto XVI
Benedetto XVI proseguì su questa strada, ma offrì una chiave ermeneutica fondamentale che scaturiva anche dal suo vissuto personale al Concilio. Nel discorso alla Curia del 22 dicembre 2005 indicò con chiarezza che ci sono due modi di leggere il Vaticano II: l’ermeneutica della discontinuità e della rottura, che contrappone una “Chiesa preconciliare” a una “postconciliare”, e l’ermeneutica della riforma nella continuità, che vede invece nel Concilio uno sviluppo organico dell’unico soggetto-Chiesa (AAS 98 [2006], 40). Solo quest’ultima, affermava, è autenticamente cattolica, perché riconosce nel Concilio un dono dello Spirito che rinnova la Chiesa senza spezzarne la Tradizione.
Questa visione non era per lui un concetto astratto, ma la sintesi di un’esperienza diretta. Come giovane perito al seguito del cardinale Frings, Ratzinger aveva contribuito ai testi di Sacrosanctum Concilium e ne conosceva bene le intenzioni: mantenere il latino, custodire il gregoriano, favorire la partecipazione attiva senza abolire la dimensione sacrale.
Negli anni successivi vide però come la riforma liturgica postconciliare in alcuni casi si spingesse oltre il mandato dei Padri, assumendo la forma di una “costruzione nuova” più che di uno sviluppo organico. Non nascose questa preoccupazione: nella sua autobiografia scrisse che la liturgia postconciliare «si fece percepire non come un’evoluzione, ma come una creazione ex novo» (La mia vita, Milano 1997, 107), e in Introduzione allo spirito della liturgia (2000) parlò del rischio di una liturgia “fabbricata dall’uomo”.
In questo contesto si comprende il motu proprio Summorum Pontificum (7 luglio 2007), con cui stabilì che il Messale del 1962 «non è mai stato giuridicamente abrogato» e che i due usi, ordinario ed extraordinario, appartengono all’unico rito romano (AAS 99 [2007], 777).
Non si trattava di una controriforma, ma di un atto di riconciliazione: voleva mostrare che la liturgia non è terreno di contrapposizione, ma di unità, e che il Messale antico poteva convivere con quello riformato, servendo da memoria viva e da criterio di confronto per custodire lo spirito autentico di Sacrosanctum Concilium.
In questo senso Summorum Pontificum fu un’applicazione pratica della sua ermeneutica della continuità: non negare la riforma, ma purificarne le applicazioni alla luce della Tradizione.
La linea di Benedetto XVI fu dunque quella di guarire la ricezione del Concilio offrendo un’unica chiave di lettura: dottrina, liturgia e missione tenute insieme nell’unica Chiesa di Cristo. La sua opera fu animata dal desiderio di ricomporre le fratture, evitare le polarizzazioni e mostrare che la vera fedeltà al Concilio non si trova nello “spirito” disincarnato né nella nostalgia sterile, ma nella Tradizione viva che abbraccia e interpreta con fedeltà i testi conciliari.
Sul piano dottrinale, Benedetto XVI proseguì l’opera di consolidamento iniziata dai predecessori, ma con un accento specifico: pur non aggiungendo nuovi “pilastri”, lavorò a purificare il linguaggio teologico e a restituire al Concilio il suo posto autentico. La sua enciclica Deus caritas est (2005) ribadiva che «all’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona» (AAS 98 [2006], 217-252, n. 1). Con Spe salvi (2007) mise in guardia dal ridurre la speranza cristiana a utopia politica; con Caritas in veritate (2009) riprese e approfondì la dottrina sociale, chiarendo che «lo sviluppo ha bisogno di verità» (AAS 101 [2009], 641-709, n. 9).
Sul piano ecumenico e interreligioso, Benedetto XVI segnò una netta correzione rispetto agli eccessi percepiti negli anni precedenti. Se Giovanni Paolo II aveva privilegiato gesti simbolici forti, Benedetto insistette sulla chiarezza teologica: il dialogo è importante, ma non può mai oscurare la centralità unica di Cristo. Per questo confermò la Dominus Iesus (2000), che da prefetto aveva fatto promulgare, riaffermando che la Chiesa cattolica è la pienezza della Chiesa di Cristo.
Il tratto caratteristico del suo pontificato fu dunque la ricomposizione. A Paolo VI, che aveva fissato argini ma sofferto le deformazioni; a Giovanni Paolo II, che aveva dato impulso missionario ed ecumenico ma talvolta con gesti suscettibili di equivoci; Benedetto XVI offrì una chiave di lettura unica: tutto deve essere interpretato alla luce della riforma nella continuità. In questo senso, il suo magistero fu un’opera di guarigione: restituire pace e unità alla Chiesa mostrando che il Concilio non va né idolatrato come rottura né respinto come tradimento, ma accolto come sviluppo organico della Tradizione viva.
Nel prossimo articolo prenderemo in esame il pontificato di papa Francesco.
PARTE 3. GOVERNARE IL DOPO-CONCILIO: DA PAOLO VI A FRANCESCO
PAPA FRANCESCO
Con Francesco il tema dominante è diventato la conversione missionaria. Fin dall’esortazione programmatica Evangelii gaudium (2013), egli ha chiesto una “Chiesa in uscita”, capace di porre la missione al centro e di operare riforme pastorali orientate all’annuncio del Vangelo (AAS 105 [2013], 1019-1137). In questo senso si pone nel solco dell’anelito conciliare di Ad gentes e di Paolo VI con Evangelii nuntiandi, ma con un linguaggio più diretto e pragmatico. Tuttavia, proprio questa impostazione rivela anche una differenza ermeneutica: Francesco sembra privilegiare lo “spirito del Concilio” come impulso di rinnovamento, più che la lettera dei testi come criterio normativo.
L’esortazione Amoris laetitia (2016), soprattutto nel capitolo VIII, ha aperto dibattiti intensi sulla possibilità di accesso ai sacramenti per quanti vivono in situazioni familiari irregolari. La lettera del Papa ai vescovi della Regione di Buenos Aires e i loro Criteri applicativi, pubblicati negli Acta Apostolicae Sedis come magistero autentico (AAS 108 [2016], 1071-1074), mostrano chiaramente il metodo: non modificare la dottrina, ma interpretarne la ricezione in chiave pastorale, con ampio spazio al discernimento concreto. Qui appare il tratto tipico di Francesco: la pastorale come luogo in cui il Concilio continua a vivere, anche oltre il dettato letterale dei documenti.
Sul piano liturgico, la linea di Francesco ha segnato una svolta. Con il motu proprio Traditionis custodes (2021) ha nuovamente regolato l’uso del Messale del 1962, affidando ai vescovi la responsabilità di limitarne l’impiego e subordinandolo al riconoscimento esplicito della validità del Concilio (AAS 113 [2021], 913-916). L’intento era salvaguardare l’unità, ma l’effetto è stato di restringere invece che riconciliare. In questo Francesco si discosta dalla linea di Benedetto XVI: mentre Summorum Pontificum (2007) aveva visto nella coesistenza delle due forme del rito romano un segno di continuità e una medicina per sanare le ferite, Traditionis custodes ha percepito il Vetus Ordo come un pericolo. È qui che emerge l’errore pastorale: nel tentativo di evitare divisioni, si è alimentata una nuova polarizzazione, lasciando che alcuni fedeli si sentissero esclusi piuttosto che integrati.
Sul piano sociale, Francesco ha proseguito la tradizione della dottrina sociale, ma con una forte accentuazione ecologica e globale. L’enciclica Laudato si’ (2015) ha collegato la cura del creato con la giustizia sociale (AAS 107 [2015], 847-945), e Fratelli tutti (2020) ha rilanciato il tema della fraternità universale come chiave di convivenza (AAS 112 [2020], 723-800). Anche qui si nota l’ermeneutica dello “spirito”: il Concilio come apertura al mondo, letto oggi alla luce delle sfide ecologiche e geopolitiche contemporanee.
Sul piano ecumenico e interreligioso, Francesco ha continuato il dialogo avviato dai predecessori, con gesti di grande risonanza simbolica: dal viaggio a Lund nel 2016 per i 500 anni della Riforma, alla firma del Documento di Abu Dhabi con il Grande Imam di al-Azhar (2019). Si tratta di gesti che hanno dato visibilità planetaria al dialogo, ma che in alcuni casi hanno suscitato perplessità per il rischio di equivoci dottrinali.
La linea di fondo di Francesco è chiara: forte impulso missionario, con un’ermeneutica che privilegia lo spirito del Concilio come dinamismo di rinnovamento. Ma proprio qui risiede la tensione: senza un ancoraggio esplicito e saldo ai testi, la “Chiesa in uscita” rischia di scivolare in forme di modernismo pratico, dove la prassi prevale sulla norma. La bussola rimane quella indicata da Benedetto XVI: la riforma nella continuità, non lo spirito senza testo. Per questo il motu proprio Traditionis custodes, pur nato con intento pastorale, appare come un errore che in futuro dovrà essere corretto, se si vorrà ritornare pienamente alla logica della continuità conciliare.
Guardando a questi decenni possiamo tracciare un filo rosso. Giovanni XXIII aveva chiarito che la pastorale è un modo nuovo di annunciare, non una licenza di cambiare la fede. Paolo VI ha avviato le riforme, ma insieme ha fissato argini dottrinali perché non degenerassero. Giovanni Paolo II ha consolidato la rotta, fornendo i pilastri di verità e missione in un mondo segnato da ideologie e relativismo. Benedetto XVI ha offerto la chiave ermeneutica indispensabile per leggere tutto come sviluppo nella continuità, e non come rottura. Francesco ha rilanciato la dimensione missionaria, ma con scelte che, in alcuni casi, hanno rischiato di accentuare la contrapposizione, come il motu proprio Traditionis custodes, che appare più come un errore pastorale che come un atto di riconciliazione.
Resta una domanda che molti si pongono: “Ma allora è entrato un modernismo pratico?”. Il rischio esiste ogni volta che si separano pastorale e dottrina, o quando la prassi viene sganciata dalla verità. La risposta del Magistero è stata chiara: Veritatis splendor ha fissato i limiti morali, Dominus Iesus ha ribadito l’unicità di Cristo e della Chiesa, il Catechismo ha dato l’unità di riferimento. Ogni scelta pastorale deve rimanere dentro questi binari, altrimenti non è sviluppo ma deformazione.
I Papi hanno governato il dopo-Concilio con fedeltà, pur con accenti diversi: Paolo VI ha tracciato gli argini, Giovanni Paolo II ha costruito i pilastri, Benedetto XVI ha dato la chiave ermeneutica, Francesco ha impresso il dinamismo missionario. Dove inciampiamo oggi? Quando si pretende che la pastorale crei eccezioni che la dottrina non ammette, o quando la liturgia diventa bandiera ideologica. La via cattolica resta quella dell’unità dei piani: verità, culto, carità.
Guardando a sessant’anni di storia, vediamo che i Papi non hanno mai inteso il Concilio come rottura, ma come occasione di rinnovamento nella fedeltà. Paolo VI, tra dolori e decisioni coraggiose, ne ha avviato l’attuazione fissando punti sicuri. Giovanni Paolo II ha dato forma solida alla recezione, costruendo i pilastri di un cattolicesimo capace di affrontare la modernità senza smarrire la verità. Benedetto XVI ha indicato la chiave di continuità, ancora oggi irrinunciabile. Francesco ha ricordato che la Chiesa vive per annunciare, ma la missione resta vera solo se radicata nella Tradizione.
Accanto a gesti profetici, non sono mancate difficoltà e limiti. Ma ciò che più ha inciso non sono state tanto le intenzioni dei Pontefici, quanto la recezione del Concilio nelle comunità e nelle strutture ecclesiali.
Qui nasce la vera crisi: non il Concilio in sé, ma la sua interpretazione. Da una parte, il progressismo che ha visto nel Vaticano II una rottura, quasi un nuovo inizio della Chiesa; dall’altra, il tradizionalismo radicale che lo ha percepito come un tradimento, rigettandolo in blocco. Entrambi gli estremi hanno deformato i testi conciliari, contrapponendo la lettera allo “spirito” o annullando la continuità con la Tradizione.
Il risultato è stato che, nella vita ordinaria della Chiesa, molti fedeli non hanno saputo distinguere tra ciò che appartiene al deposito della fede e ciò che è frutto di scelte pastorali contingenti. Questa confusione si è amplificata laddove le nuove strutture nate dal Concilio – conferenze episcopali e sinodi – sono state vissute non come strumenti di comunione cum Petro et sub Petro, ma come luoghi di decisione autonoma o di sperimentazione.
Ecco allora la domanda che guiderà il passo successivo del nostro cammino: come le conferenze episcopali e i sinodi hanno inciso sulla recezione del Concilio? Sono stati luoghi di fedeltà o di deformazione? Strumenti di comunione o di confusione? È ciò che ora proveremo a vedere, guardando prima all’esperienza universale della Chiesa e poi alla realtà italiana.
LA COLLEGIALITÀ DOPO IL CONCILIO CONFERENZE EPISCOPALI E SINODI DEI VESCOVI – TRA COLLEGIALITÀ E DERIVE PASTORALI
Cari amici, siamo quasi giunti al termine del nostro cammino. Il Concilio Vaticano II ha consegnato alla Chiesa non solo testi dottrinali e pastorali, ma anche nuove forme di esercizio della collegialità episcopale. Oltre al ministero del Papa e alla responsabilità personale di ogni vescovo nella propria diocesi, si sono sviluppati strumenti intermedi e universali: le conferenze episcopali e i sinodi dei vescovi. Essi nascono dal desiderio di dare forma visibile all’unità del collegio episcopale, favorendo la comunione e la corresponsabilità. Ma, come sempre accade nella storia della Chiesa, l’uso di questi strumenti ha conosciuto luci e ombre, fedeltà e deformazioni.
Le conferenze episcopali non esistevano, come le conosciamo oggi, prima del Vaticano II. Alcune esperienze di coordinamento episcopale erano già nate nell’Ottocento, soprattutto in Germania, ma è con la costituzione Christus Dominus che il Concilio ha riconosciuto e incoraggiato questa nuova forma di collegialità: «Le conferenze episcopali possono oggi dare un contributo molteplice e fecondo, affinché l’affetto collegiale trovi concreta applicazione» (CD 37).
L’idea era semplice: favorire la collaborazione tra vescovi, senza però intaccare la responsabilità personale di ciascuno come pastore della sua diocesi. Paolo VI sostenne con decisione le conferenze episcopali, al punto da istituire nel 1965 il Consilium Conferentiarum Episcopalium Europae (CCEE), primo organo di coordinamento continentale. Tuttavia, già negli anni Settanta emerse un problema: alcune conferenze cominciarono ad assumere un peso tale da oscurare la voce dei singoli vescovi. In nome della collegialità si rischiava di ridurre l’episcopato a una burocrazia collettiva.
Fu Giovanni Paolo II a intervenire con decisione. Nel 1998 pubblicò il motu proprio Apostolos suos, in cui chiariva i limiti dottrinali delle conferenze episcopali: esse hanno autorità magisteriale solo quando le decisioni vengono prese all’unanimità, oppure con l’approvazione riconosciuta dalla Sede Apostolica (AS 22). In ogni caso, non possono mai sostituire il magistero personale dei singoli vescovi, che restano pastori e maestri nella loro diocesi. Benedetto XVI riprese questo tema più volte, mettendo in guardia dal pericolo di “funzionalizzare” il ruolo del vescovo, riducendolo a esecutore di decisioni prese collegialmente.
Eppure, nella prassi, le conferenze episcopali sono diventate il luogo dove si sono decise molte delle applicazioni più controverse del Concilio. La traduzione liturgica del pro multis con “per tutti”, l’introduzione generalizzata della comunione sulla mano, certe linee guida in materia morale e pastorale: tutte scelte nate dalle conferenze, non dal magistero infallibile. Qui si vede bene la confusione: decisioni pastorali legittime ma non definitive sono state presentate come obblighi dogmatici.
Al tempo stesso, bisogna riconoscere che le conferenze episcopali hanno avuto anche un ruolo positivo, soprattutto nel coordinare l’evangelizzazione e la dottrina sociale. Si pensi ai documenti della Conferenza episcopale latinoamericana (CELAM): da Medellín (1968) a Puebla (1979), fino ad Aparecida (2007), che segnarono profondamente la pastorale del continente e influenzarono lo stesso Jorge Mario Bergoglio, futuro Papa Francesco. Anche in Europa e in Italia, i pronunciamenti comuni hanno permesso di affrontare insieme temi sociali ed etici, dando una voce unitaria della Chiesa in contesti difficili.
Il bilancio è dunque ambivalente. Le conferenze episcopali hanno reso visibile la dimensione collegiale del ministero, ma spesso hanno generato un appiattimento burocratico e una deriva pastorale che ha oscurato la responsabilità personale dei vescovi. L’errore nasce quando si dimentica che la collegialità non è un parlamento, ma una comunione gerarchica, dove ogni vescovo governa cum et sub Petro, mai contro di lui né senza di lui.
In definitiva, il Vaticano II non ha creato un nuovo livello di Magistero intermedio tra il Papa e i vescovi, ma ha chiesto ai pastori di camminare insieme. Quando le conferenze hanno rispettato questo principio, sono state strumenti fecondi di unità. Quando invece si sono sostituite ai singoli vescovi, hanno generato confusione e abusato del nome del Concilio. Anche qui si conferma la regola che abbiamo incontrato più volte: il problema non è il Concilio, ma la sua recezione deformata.
LA CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA – TRA COLLEGIALITÀ E DERIVE PASTORALI
Nella prassi della Chiesa italiana, proprio la CEI è divenuta il luogo dove molte decisioni sono state recepite come se fossero atti dogmatici, mentre erano semplicemente scelte pastorali o disciplinari. Alcuni esempi possono aiutarci a capire come è nata la confusione.
Il primo caso riguarda la comunione sulla mano. Nel 1989 la CEI ottenne dalla Santa Sede la recognitio per introdurre questa possibilità, regolata con chiarezza nelle Modalità per la distribuzione della Comunione. Si trattava di un indulto, legittimo e disciplinato con attenzione. Tuttavia, nella prassi, questa concessione è diventata quasi ovunque la regola ordinaria, e talvolta persino presentata come obbligo, con la conseguenza che il diritto universale di ricevere la Comunione sulla lingua (riconosciuto anche dall’istruzione Redemptionis Sacramentum al n. 92) è stato di fatto compresso. Qui non è il testo CEI a essere problematico, ma l’errore pastorale di chi ha trasformato un’indicazione prudenziale in divieto generalizzato.
Un secondo campo è quello delle traduzioni liturgiche. La CEI, con la terza edizione del Messale Romano (2019), ha introdotto nuove traduzioni, come “non abbandonarci alla tentazione” nel Padre nostro o “amati dal Signore” nel Gloria. Sono scelte approvate dalla Sede Apostolica e quindi legittime. Ma il cambiamento di formule così radicate ha generato in molti fedeli smarrimento e difficoltà catechetiche, mostrando che l’atto traduttivo, pur corretto, esige sempre un’adeguata preparazione pastorale. Ancora più delicato è il caso del pro multis. Nel 2006 la Santa Sede chiese alle conferenze di tradurre fedelmente con “per molti”. L’Italia, però, ha mantenuto “per tutti”, prolungando nel tempo una disomogeneità che ha alimentato la confusione dei fedeli. Anche in questo caso, la legittimità formale non elimina l’ambiguità pastorale: quando la liturgia parla diversamente da quanto richiesto a livello universale, si crea un senso di frattura nell’unità della Chiesa.
Un terzo esempio riguarda l’adeguamento liturgico delle chiese. Con la Nota pastorale del 1996, la CEI ha chiesto di adattare gli spazi sacri secondo le esigenze della riforma liturgica, sottolineando però la necessità di prudenza e di rispetto per il patrimonio artistico. Eppure, in molte parrocchie, quella che doveva essere un’attenta riforma si è trasformata in demolizione frettolosa: altari spostati senza criterio, tabernacoli relegati, arredi storici rimossi. Il testo CEI era equilibrato; ma la sua ricezione è stata talvolta deformata, e la responsabilità degli abusi non è del Concilio né della Conferenza, bensì di applicazioni arbitrarie.
Un quarto episodio riguarda il campo socio-politico. Durante il dibattito sulle unioni civili (DDL Cirinnà, 2016), la CEI denunciò giustamente l’equiparazione con il matrimonio e ribadì la dottrina della famiglia. Tuttavia, la gestione del rapporto con il Family Day organizzato dai laici mostrò un certo oscillare: da un lato apprezzamento per l’iniziativa, dall’altro timore istituzionale di identificarsi con essa. I fedeli ne ricevettero un’impressione ambigua: la dottrina era chiara, ma la comunicazione appariva incerta, con il rischio di lasciare il popolo cattolico senza una guida univoca.
Infine, un quinto ambito è quello del Cammino sinodale italiano (2021–2025). La CEI ha promosso questo percorso con lodevole intenzione di recepire l’impulso di Papa Francesco alla sinodalità. I documenti ufficiali parlano di ascolto, corresponsabilità e missione. Tuttavia, l’assenza di linee unitarie su questioni delicate, come l’applicazione della dichiarazione Fiducia supplicans del 2023, ha prodotto disomogeneità tra le diocesi. Non è in discussione la legittimità del metodo, ma l’effetto pastorale: la diversità di prassi in materia tanto sensibile genera confusione nei fedeli circa l’unità della Chiesa.
Questi esempi mostrano un tratto ricorrente: la CEI ha agito entro le sue competenze, ma spesso le sue decisioni, legittime in sé, sono state recepite o applicate in modo da creare ambiguità pastorali e perfino sensazione di rottura. Non si tratta di tradimenti del Concilio, bensì di errori nella sua recezione. Il criterio resta quello che abbiamo visto nei Papi: distinguere sempre tra ciò che è Magistero autentico, ciò che è disciplina prudenziale e ciò che è semplice orientamento pastorale.
Ciò che abbiamo visto con le conferenze episcopali vale come criterio generale: non sono un nuovo livello di Magistero, ma uno strumento di coordinamento. Quando restano fedeli a questa identità, aiutano la Chiesa; quando invece si sostituiscono alla voce personale dei vescovi o trasformano scelte pastorali in dogmi, finiscono per generare confusione.
Ma la collegialità post-conciliare non si è espressa soltanto nelle conferenze nazionali. Paolo VI volle dare anche alla Chiesa universale un organismo stabile, capace di manifestare in modo più diretto la corresponsabilità dell’episcopato con il Papa: il Sinodo dei Vescovi. Anch’esso nacque come strumento di comunione, ma anch’esso, nella prassi, ha conosciuto momenti di fedeltà e momenti di ambiguità.
Entriamo allora a considerare come i Sinodi dei Vescovi hanno inciso sulla recezione del Concilio: sono stati davvero un aiuto al ministero petrino o hanno alimentato l’impressione di una Chiesa “parlamentare”?
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CONCILIO VATICANO II – FEDELTÀ E TRADIMENTI NELLA PRASSI DELLA CHIESA
Cari amici, abbiamo visto come il governo del dopo-Concilio non sia stato affidato solo ai Papi, ma anche a nuove forme di collegialità: le conferenze episcopali e i sinodi dei vescovi. In essi si è giocata gran parte della recezione conciliare: decisioni legittime, spesso utili, ma talvolta comunicate con ambiguità o deformate nella loro applicazione.
Ora dobbiamo scendere dal livello delle istituzioni a quello della vita concreta della Chiesa. È nella celebrazione liturgica domenicale, nella catechesi dei bambini, nell’ecumenismo vissuto nelle comunità locali, nella pastorale familiare e sacramentale che si vede se il Concilio è stato accolto con fedeltà oppure tradito. Non basta guardare ai documenti o ai discorsi solenni: la verità della recezione si misura nella prassi ordinaria.
Il primo campo è quello liturgico. Sacrosanctum Concilium non ha mai chiesto l’abolizione del latino, anzi afferma: «L’uso della lingua latina, salvo particolari diritti, sia conservato nei riti latini» (SC 36). Lo stesso vale per il canto gregoriano, che il Concilio definisce «proprio della liturgia romana» e al quale assegna «il posto principale» (SC 116). Tuttavia, nella prassi, il latino è quasi scomparso, il gregoriano relegato a rarità, e in molti luoghi la liturgia è stata trasformata in un laboratorio di creatività.
Un esempio eloquente è la comunione sulla mano: introdotta in Italia come indulto eccezionale e regolato, è stata presto recepita come norma ordinaria e, talvolta, persino come obbligo, di fatto cancellando il diritto universale del fedele a ricevere la comunione sulla lingua. Un altro esempio è dato dai numerosi abusi liturgici tollerati e spesso giustificati ideologicamente. Difficilmente si è saputo governare la prassi desacralizzante, che ha portato altari e chiese a divenire luoghi non più ordinati al culto di Dio, ma spazi di visibilità politica, di propaganda ideologica o di spettacolo mediatico.
Al contrario, non di rado si è visto combattere con eccessiva durezza la devozione, lo zelo e l’osservanza delle rubriche previste, quasi vi fosse una volontà deliberata di dissolvere l’identità liturgica cattolica. Non è stato il Concilio a chiederlo, ma una prassi deformata, ideologizzata e non formata che ha preso il sopravvento.
Il secondo campo è quello della teologia e della catechesi. Dei Verbum ha ribadito con forza che la Rivelazione è dono oggettivo di Dio, trasmesso nella Scrittura e nella Tradizione e interpretato autenticamente dal Magistero (DV 10). Eppure, in molte facoltà teologiche e in non pochi seminari, si è diffusa una lettura che riduce la fede a semplice esperienza soggettiva o a pura coscienza individuale. Manuali di morale hanno negato l’esistenza di atti intrinsecamente cattivi, contraddicendo esplicitamente quanto Giovanni Paolo II ha riaffermato in Veritatis splendor.
Gli esempi concreti non mancano: corsi di esegesi in cui la Scrittura è stata trattata unicamente come documento storico o mitologico, privato della sua ispirazione divina; catechismi locali che hanno minimizzato i novissimi, il peccato e l’inferno, riducendo la fede a messaggio etico o a impegno sociale; manuali di dogmatica in cui il mistero della Trinità è stato presentato come linguaggio simbolico dell’esperienza comunitaria, e non come verità rivelata; teologi che hanno messo in dubbio la storicità dei Vangeli o la divinità di Cristo, presentando queste posizioni come legittime “opzioni” cattoliche.
A ciò si aggiunge la trasformazione delle omelie: spesso poca attinenza ai testi biblici proclamati e alla loro interpretazione secondo il Magistero, mentre prevalgono attualizzazioni sociologiche, comizi travestiti da predicazione, ignoranza teologica e assenza di un vero metodo omiletico. In non pochi casi, i presbiteri si sono ridotti a imitare lo stile dei telepredicatori, più intenti a intrattenere che ad annunciare con chiarezza e profondità il Vangelo di Cristo.
Anche qui non è stato il Concilio ad aprire la strada al relativismo e alla confusione, ma una ricezione scorretta e deformata, che ha travisato il suo insegnamento fino a svuotarne la portata salvifica e oggettiva.
Il terzo campo è l’ecumenismo e il dialogo interreligioso. Unitatis redintegratio insegna che lo Spirito Santo può operare nelle comunità cristiane non cattoliche, ma sempre in vista della piena unità nella verità. Nostra aetate riconosce i semi di verità presenti nelle altre religioni, ma proclama con chiarezza che Cristo è «la via, la verità e la vita» (Gv 14,6).
Eppure, quanti incontri ecumenici e interreligiosi hanno finito per dare ai fedeli l’impressione che tutte le religioni siano equivalenti! Quante volte il dialogo è stato presentato come fine a se stesso, fino a tacere l’annuncio di Cristo. Gli esempi abbondano: celebrazioni comuni in cui si è confusa la preghiera cristiana con riti di altre religioni; partecipazioni liturgiche improprie che hanno mescolato simboli e gesti incompatibili con la fede cattolica; dichiarazioni di docenti e operatori pastorali che hanno ridotto l’evangelizzazione a semplice “scambio culturale”; manuali di catechesi che parlano delle religioni come vie parallele di salvezza, senza ribadire l’unicità del Redentore.
Non sono stati i testi conciliari a insegnare l’indifferentismo, ma una prassi deviata che ha scambiato il rispetto con il relativismo e ha sostituito la missione con il compromesso.
Infine, il campo pastorale. Giovanni XXIII aveva parlato della “medicina della misericordia”, non della rinuncia alla verità. La pastorale è l’applicazione della dottrina, non la sua sostituzione. Eppure, negli ultimi decenni, si è diffusa l’idea che l’eccezione possa diventare norma, che ogni situazione personale possa creare una regola a sé. Il verbo “accompagnare”, sacrosanto se inteso come guida nella verità, è stato interpretato in molti contesti come giustificazione automatica.
Gli esempi sono sotto gli occhi di tutti: confessioni ridotte a dialoghi psicologici senza richiamo al peccato e alla conversione; corsi prematrimoniali trasformati in lezioni di sociologia o psicologia della coppia, con scarsa o nulla dottrina cattolica sul sacramento; benedizioni date a coppie irregolari come se fossero equiparabili al matrimonio; funerali celebrati senza alcun riferimento alla speranza cristiana, ridotti a commemorazioni laiche; prassi pastorali che hanno di fatto annullato la disciplina canonica, sostituendo il discernimento con una generica accoglienza.
Si pensi al dibattito seguito a Amoris laetitia: alcuni hanno letto il documento come se aprisse indiscriminatamente alla comunione per chi vive in situazioni irregolari, mentre il testo stesso chiede discernimento nella verità e nella responsabilità. Lo stesso san Giovanni Paolo II, in Familiaris consortio, aveva ribadito che la Chiesa, tuttavia, ribadisce la sua prassi, fondata sulla Sacra Scrittura, di non ammettere alla comunione eucaristica i divorziati risposati (FC 84), e in Veritatis splendor aveva affermato con forza che esistono atti che, per sé e in sé stessi, indipendentemente dalle circostanze, sono sempre gravemente illeciti (VS 80).
Qui si vede con chiarezza la differenza tra la fedeltà al Concilio e il suo tradimento nella prassi: non è stata la dottrina a mutare, ma un’interpretazione deviata che ha usato la pastorale come alibi per giustificare l’opposto di ciò che il Magistero insegna.
E per comprendere come sia stato possibile che testi così chiari del Concilio venissero poi traditi nella prassi, occorre guardare anche a fermenti già precedenti. Domenico Condito lo ha ricordato in un articolo: “La Chiesa è malata di sociologismo. La colpa è solo del Concilio Vaticano II?” disponibile qui: dove riporta un episodio emblematico: il primo Convegno di Sociologia Religiosa, svoltosi a Milano nel 1954, dove la fede veniva ridotta a fenomeno umano misurabile con la statistica. Il cardinale Schuster ammonì che il fatto religioso è frutto della grazia e non di calcoli sociali, ma fu presto liquidato come fuori tempo; il cardinale Lercaro invece, più in sintonia con i linguaggi della modernità, fu acclamato. È qui che si vede la radice di tanti abusi postconciliari: il Concilio non ha inventato la sociologia, ma la sociologia ha provato a reinventare il Concilio. E la tolleranza montiniana non fu l’ideologia, ma il corridoio in cui quell’ideologia poté correre più spedita.
È in questa luce che possiamo leggere la stagione successiva: non un Concilio tradito nei testi, ma un Concilio deformato nella sua recezione da tendenze culturali già in atto e da scelte di governo troppo tolleranti. Questo ci porta naturalmente all’ultima domanda del nostro cammino: quale eredità lascia oggi il Concilio Vaticano II alla Chiesa? È un dono da custodire o un peso da scrollarsi di dosso? È la continuità della Tradizione o una frattura insanabile?
CONCILIO VATICANO II: TRA VERITÀ E DEFORMAZIONI – QUALE EREDITÀ PER LA CHIESA DI OGGI?
Cari amici, siamo giunti al termine del nostro cammino. Non è stato un trattato accademico, ma un itinerario di fede e di ragione, per comprendere meglio le radici della crisi e nello stesso tempo riconoscere i doni che lo Spirito ha consegnato alla Chiesa attraverso il Concilio Vaticano II.
Abbiamo visto come la storia che precede il Concilio sia segnata da fermenti e crisi: dal Sinodo di Pistoia al modernismo, dalle figure profetiche di Newman e Rosmini alla riflessione di de Lubac e Congar. Abbiamo ascoltato i testi conciliari, letti nella loro chiarezza: non rottura ma sviluppo, non tradimento della Tradizione ma attualizzazione del Vangelo per il mondo contemporaneo.
Abbiamo smascherato l’inganno dello “spirito del Concilio”, artificio ideologico che ha permesso di introdurre nella Chiesa ciò che i Padri non avevano mai approvato.
Abbiamo seguito i Papi, da Paolo VI a Francesco, nei loro sforzi di custodire la fede e guidare la recezione, tra decisioni profetiche e limiti pastorali.
Abbiamo visto come conferenze episcopali e sinodi abbiano reso visibile la collegialità, ma anche generato ambiguità quando vissuti come parlamenti anziché come comunione gerarchica. Infine, abbiamo guardato alla prassi concreta: la liturgia, la catechesi, la pastorale, dove si misura la fedeltà o il tradimento.
Ora dobbiamo chiederci: quale eredità rimane alla Chiesa di oggi?
Il primo punto è distinguere tra Concilio reale e Concilio virtuale. Il Concilio reale è quello dei testi: Sacrosanctum Concilium, Lumen gentium, Dei Verbum, Gaudium et spes. In essi si custodisce la fede cattolica in continuità con la Tradizione. Il Concilio virtuale è quello delle interpretazioni arbitrarie, dei miti contrapposti: da un lato il progressismo che lo legge come rottura, dall’altro il tradizionalismo che lo considera un tradimento. Entrambi sono deformazioni.
Il secondo punto è riconoscere che i Papi, pur con stili diversi, hanno custodito la stessa fede. Paolo VI ha fissato gli argini dottrinali; Giovanni Paolo II ha consolidato i pilastri della nuova evangelizzazione; Benedetto XVI ha offerto la chiave ermeneutica della riforma nella continuità; Francesco ha rilanciato la dimensione missionaria, pur con scelte pastorali talvolta controverse. Non ci sono stati nuovi dogmi, ma una pastorale che ha cercato di rendere viva la Tradizione in un mondo che cambia.
Il terzo punto è guardare alla prassi. Il Concilio non ha mai abolito il latino, non ha mai relativizzato la verità di Cristo, non ha mai autorizzato nuove dottrine morali. Quando questi fenomeni si verificano, non siamo davanti al Concilio, ma al suo tradimento. La pastorale non crea la verità, la serve; non la sostituisce, la traduce nella vita. Separare pastorale e dottrina genera modernismo pratico, che è la vera insidia del nostro tempo.
Da qui nasce la lezione per oggi: la Chiesa non ha bisogno di un nuovo Concilio, ma di vivere questo nella fedeltà. Non serve inventare nuovi “spiriti”, ma tornare ai testi. Non serve agitare bandiere ideologiche, ma ritrovare la serenità della Tradizione viva.
Tuttavia, emerge un’urgenza che non possiamo eludere. Dopo sessant’anni, non si è mai compiuta una verifica organica e autorevole di come il Concilio sia stato recepito. Non dei testi, che restano vincolanti e appartengono al Magistero, ma del linguaggio pastorale che, proprio perché meno definitorio, ha talvolta lasciato spazio ad ambiguità e deviazioni.
Questo non è un fatto inedito nella vita della Chiesa: dopo il Concilio di Nicea fu necessario un lungo cammino per chiarire la dottrina sul Figlio contro le interpretazioni ariane; dopo Trento furono promulgati catechismi e norme concrete per purificare abusi e rendere fruttuosi i decreti; dopo il Vaticano I si dovette precisare l’ambito dell’infallibilità papale per correggere eccessi ultramontani. In tutti questi casi non si è mai messo in discussione il Concilio, ma si è vigilato sulla sua recezione, correggendo deviazioni e fissando criteri chiari di interpretazione.
In questo orizzonte si colloca anche il cammino della sinodalità che la Chiesa sta vivendo oggi. Se ben guidato, esso può essere una grazia per rendere più partecipata la vita ecclesiale e più missionaria la comunità cristiana. Ma se mal gestito, rischia di generare nuove deformazioni che si aggiungerebbero ad un clima già molto divisivo. I rischi che si profilano sono chiari.
Il primo è il rischio di un parlamentarismo ecclesiale. Il Sinodo può essere inteso come una sorta di assemblea politica, dove prevale il voto della maggioranza o la pressione dei gruppi organizzati. Sarebbe un tradimento della sua natura, perché la Chiesa non decide la verità a maggioranza, ma la riceve e la custodisce. Paolo VI, istituendo il Sinodo dei Vescovi con Apostolica sollicitudo (1965), lo definì esplicitamente “organismo consultivo”, non deliberativo. Se il Sinodo venisse vissuto come un parlamento, la sua autorità scadrebbe in democrazia sociologica, riducendo la Chiesa a comunità autoreferenziale.
Il secondo è il rischio di relativismo dottrinale sotto il nome di discernimento. Il discernimento è una via santa, ma se svuotato del suo fondamento nella verità diventa un cavallo di Troia per giustificare tutto. Alcuni processi sinodali già mostrano questa tendenza: ogni situazione personale interpretata come normativa, fino a scivolare verso una morale casistica o soggettiva. È ciò che abbiamo chiamato modernismo pratico: una pastorale separata dalla dottrina.
Il terzo è il rischio di accentuare le divisioni nella Chiesa. Senza chiarezza di principi, ogni Chiesa locale può rivendicare la propria strada. Il risultato sarebbe una frammentazione, con prassi diverse da continente a continente, quasi chiese nazionali. La storia ci insegna che già nel periodo post-tridentino e dopo il Vaticano I, senza una guida chiara, si rischiavano fratture. Per questo il primato petrino resta principio irrinunciabile di unità.
Il quarto è il rischio di marginalizzare la Tradizione. Talvolta la sinodalità è presentata come pura innovazione, come se fosse un “nuovo paradigma” che mette tra parentesi la Tradizione ricevuta. In realtà la sinodalità non è una novità assoluta: è sempre esistita nella Chiesa, dai Concili antichi ai sinodi locali. Ma se intesa come rottura, finisce per oscurare ciò che costituisce l’identità cattolica: gerarchia, sacramentalità, Tradizione apostolica.
Il quinto è il rischio di riduzione sociologica. Se il linguaggio sinodale si appoggia troppo a categorie psicologiche, sociologiche o politiche, la Chiesa rischia di auto-percepirsi come una ONG o un’agenzia di mediazione culturale. Una Chiesa che si auto-analizza secondo criteri mondani smarrisce la sua missione soprannaturale.
Per questo non serve una revisione del Vaticano II, ma una chiarificazione delle sue applicazioni. È il compito che spetta al Magistero: riconoscere dove la prassi si è discostata dalla dottrina, correggere gli abusi, purificare il linguaggio pastorale, restituire unità e serenità alla vita ecclesiale. Questo è il processo più cattolico che ci sia: custodire il dono ricevuto, non lasciarlo in balia delle deformazioni.
Ed è proprio qui che si colloca il pontificato di Leone XIV e, in una visione soprannaturale della storia, possiamo riconoscere in esso un segno di Provvidenza. Il suo ministero appare, nelle speranze, come risposta necessaria a chiarire le ambiguità, sanare le deviazioni e ricomporre quell’unità cattolica che in questi decenni è stata intaccata da letture ideologiche e da interpretazioni parziali. Spesso, infatti, la recezione del Concilio è stata piegata a schemi estranei alla fede: ridotta a sociologia, a psicologia di gruppo, a filosofie secolari o a teologie che più rispecchiavano i conflitti del mondo che la Tradizione viva della Chiesa. Leone XIV, figlio della spiritualità agostiniana, non cede a queste derive, ma sta riportando la Chiesa al cuore del Concilio: non un concilio antropocentrico, ma cristocentrico; non una rottura con la Tradizione, ma il suo sviluppo organico. La sua voce richiama all’essenziale: Cristo, unico Salvatore del mondo, al centro della fede e della vita. È un cambio di rotta provvidenziale: dalla pastorale intesa come concessione alle mode, alla pastorale radicata nella verità che salva.
Come ricordava Benedetto XVI nel 2009, «alcuni interpretarono la nozione di Popolo di Dio secondo una visione puramente sociologica, con un taglio orizzontale che escludeva il riferimento verticale a Dio. Posizione, questa, in aperto contrasto con la parola e con lo spirito del Concilio, che non ha voluto una rottura, ma un vero e profondo rinnovamento, nella continuità dell’unico soggetto Chiesa» (Discorso alla Diocesi di Roma, 26 maggio 2009). Queste parole ci confermano che il Concilio non è la causa delle deformazioni, ma il criterio per sanarle: non sociologia, ma teologia; non ideologia, ma Tradizione viva; non frattura, ma continuità.
Conclusione
Il Concilio Vaticano II: un dono dello Spirito per la fedeltà della Chiesa
Il nostro percorso si chiude qui, ma ciò che rimane non è un libro da archiviare, bensì un invito a vivere con coscienza la nostra appartenenza alla Chiesa. Abbiamo visto che il Concilio Vaticano II, se accolto nei suoi testi e nella Tradizione viva, non è stato una rottura, ma un dono dello Spirito Santo. Lo abbiamo visto tradito quando lo si è ridotto a slogan o a “spirito” senza fondamento; lo abbiamo visto difeso e rilanciato da Papi che, pur con accenti diversi, hanno sempre cercato di custodirne l’eredità.
Oggi, con Papa Leone XIV, la Chiesa riceve un segno di Provvidenza: un ritorno al cuore, al centro, a Cristo. Non un cristianesimo sociologico, non una pastorale di compromesso, ma la freschezza di una Chiesa che sa dire, con umiltà e forza: «Gesù Cristo è lo stesso ieri, oggi e sempre» (Eb 13,8). È questa la bussola che il Concilio ha consegnato, ed è questa la via che dobbiamo percorrere.
Il futuro della Chiesa non dipende dalle mode culturali né dalle ideologie, ma dalla sua fedeltà al Signore. È Lui che guida la sua Sposa con il dono dello Spirito. A noi tocca solo non resistere alla grazia, non deformare il Vangelo, non tradire la Tradizione.
Per questo, se una regola vogliamo portare con noi da tutto questo itinerario, è semplice e luminosa: non inventare un altro Concilio, ma vivere questo nella sua integrità; non opporre pastorale e dottrina, ma unirle nell’unico annuncio della verità che salva; non temere la crisi, perché la Chiesa è di Cristo e in Lui trova sempre il suo riposo.
E mentre chiudiamo queste pagine, lasciamo che a parlare non siano le nostre analisi, ma le parole che hanno aperto e che ancora illuminano il Concilio Vaticano II: «Cristo è la luce delle genti; questo santo Concilio, adunato nello Spirito Santo, desidera ardentemente, annunciando il Vangelo ad ogni creatura, illuminare tutti gli uomini con la sua luce, che risplende sul volto della Chiesa» (Lumen gentium, Proemio).
In questa luce, amici, camminiamo con fiducia: la Tradizione è viva, la Chiesa è di Cristo, e il suo Spirito non smette mai di guidarla verso la pienezza della verità.
