Il card Siri, non conservatore ma vero pastore

Padre Raimondo Spiazzi, grande teologo del secolo scorso, conobbe bene il cardinale Giuseppe Siri: in un libro del 1992, ne riportò un profilo inedito.

“Non si può capire il Cardinale Siri senza conoscere l’uomo Siri”. Con queste parole si apre il primo capitolo di un intenso libro di circa trecento pagine (1) sul cardinale Giuseppe Siri, scritto dal domenicano e teologo Padre Raimondo Spiazzi al quale, il cardinale stesso consegnò le sue Memorie essendo i due legati da una lunga e grande amicizia. Non staremo qui ad analizzare la biografia del cardinale Siri, quanto piuttosto far emergere, da questo libro, i comportamenti, i consigli di Siri attraverso il suo rapporto ecclesiale con i Papi con cui ha vissuto e lavorato.

0017-cardinale-siri-1_57419e3b48b8fIl cardinale Siri (classe 1906) partecipò a ben quattro conclavi dai quali uscirono Papi: Giovanni XXIII (1958), Paolo VI (1963), Giovanni Paolo I (1978) e Giovanni Paolo II (1978), in tutti questi – sottolinea p. Spiazzi – entrò papabile, almeno per la stampa… Siri era favorevole all’abolizione del segreto del conclave: “Creda – insistette -, la Chiesa ci guadagnerebbe molto. Io, se non ci fosse il segreto, scriverei volentieri la storia dei quattro conclavi ai quali ho partecipato”. Diceva questo, Siri, anche con l’intento che, se fosse stato tolto quel divieto, egli avrebbe potuto spiegare meglio i giochi che si fanno, e pure a spiegare le molte fantasie raccontate dai giornali in quei momenti così importanti per la vita della Chiesa.

Siri aveva anche una profonda preoccupazione per le nomine che i Papi facevano, e diceva sconsolato: ” Bisogna che un Papa pensi bene in quali mani lascia il pontificato romano alla sua morte, e sia ben sicuro su coloro che entreranno in conclave”. Padre Spiazzi cerca di ripulire l’immagine di un Siri “oppositore del concilio o fortemente conservatore”, termine questo, specifica, creato a tavolino dai progressisti per dividere la Chiesa al suo interno e portare dissidi anche fra coloro che più che conservatori avevano semplicemente amore e passione per la Chiesa, come affermava essere Siri.

Egli piuttosto abbracciò il concilio quale evento soprannaturale ispirato dal vero Spirito Santo e, purtroppo, spesso manipolato nei lavori, da gente “senza scrupoli” che non amava né il papato, e neppure la santa Chiesa. Egli vedeva – riporta padre Spiazzi – delinearsi in concilio (e prima e dopo) due vie: quella dell’autentico profetismo, ma il vero disturbato dal presunto più chiassoso e clamoroso spesso tradotto in protagonismo, forse anche necessario ma certamente non costruttivo e assai pericoloso; e la via di quel magistero equilibrato, ben dosato, documentato, aperto alle nuove sfide e per nulla impaurito, ma anzi coraggioso, una via molto più proficua, anche se spesso troppo silenziosa e quindi apparentemente in minoranza.

Quando ci fu il concilio, Siri era in trincea già da 20 anni, e non gli interessavano le discussioni che non conducevano a nulla, ma sopra ogni cosa andava difesa la fede della Chiesa e la sua Tradizione, e per questo fu dipinto dalla stampa come “conservatore”. In realtà, spiega padre Spiazzi, egli fu il “vir catholicus”, il nuovo cattolico che con la maggioranza dei Padri nel concilio sosteneva la necessità di urgenti cambiamenti nei modi di insegnare, rimanendo fedeli alla tradizione ed alla dottrina, alla fede della Chiesa negli insegnamenti dei Padri e dei Dottori di ogni tempo. Siri era un equilibrato che non aveva timore di unire il vecchio al nuovo, ma non era neppure incosciente e sapeva perfettamente che nel concilio subentrarono prepotentemente quelle novità per nulla buone, e di questo non ebbe remore a discuterne con i Papi del suo tempo. Siri soffrì molto per la Chiesa a tal punto di soffrire di un esaurimento nervoso fra il 1964 e il 1965 che non gli permise di intervenire più incisivamente come avrebbe voluto.

Ritratto del card. Giuseppe Siri.
Ritratto del card. Giuseppe Siri.

La sofferenza del cardinale Siri è presto detta. Una antica questione teologica era quella della possibilità di perdere la fede. Siri, tra le conseguenze della “mentalità storicistica” ne descrive una che non può lasciarci indifferenti e turbati anche a causa di una visione profetica della medesima denuncia: “la negazione dell’Incarnazione e alterazione della realtà di Cristo”. Quando si è giunti qui, spiega padre Spiazzi citando sempre Siri, si è al fondo di tutto, cioè al tentato affondamento del cristianesimo. Ma come è stato possibile?

Ci si deve chiedere se è mai possibile professare ed insegnare la fede della Chiesa, anche in scuole cattoliche, negandone il contenuto essenziale. Quali sono le verità essenziali? Il catechismo risponde che esse sono: la Trinità, l’Incarnazione e la Redenzione. Si noti come il catechismo e il dogma precedono la teologia, ne sono la base. È questa la scala delle verità essenziali dalla quale tutto il resto è solo conseguenza. Se la teologia si mangia il dogma — spiega padre Spiazzi — si autodistrugge come teologia cristiana cattolica. Perciò in molte tesi e posizioni di autori recenti di teologo non c’è più nulla. Si tratta di presunta filosofia cristiana, di pretesa ermeneutica, di interpretazione libera della fede: indipendente da ogni dogma, dal catechismo.

E qui il cardinale Siri mette con le spalle al muro il caso più devastante del nostro tempo: il gesuita Karl Rahner e il suo rahnerismo. Quanto segue è riportato integralmente dal libro citato.

Il cardinale Siri porta un caso ben preciso, quello di Rahner, con annessi e connessi. Di lui sottolinea le molte parafrasi usate, l’ermetismo del linguaggio, e individua ed espone alcune affermazioni che cambiano radicalmente la dottrina cattolica.

1. Le fonti del dogma, secondo Rahner, sono: a) la dottrina del Nuovo Testamento su Gesù; b) la dottrina ecclesiastica; e c) la predicazione odierna.

2. Nella cristologia che risulta dal N.T. ci sarebbero delle concezioni di fondo diverse, ma che non si eliminano a vicenda, secondo che si preferisce uno schema di ascesa o di discesa. Sono già teologie che vanno al di là dell’autotestimonianza di Cristo. Ma nella “nuova Cristologia trascendentale” di Rahner si può andare ben oltre.

3. In particolare viene così superato il problema della “preesistenza” di Cristo (Verbo) derivata dalla dottrina giudeo-ellenista. Secondo Rahner la cristologia odierna deve tornare alla cristologia dell’ascesi che in Paolo e Giovanni divenne “troppo presto” cristologia della discesa e quindi dell’Incarnazione. La Chiesa la prese da Paolo e Giovanni. E dunque oggi, la nuova predicazione più che dell’Incarnazione deve parlare di “vicinanza assoluta” dell’uomo a Dio: Cristo (ci troviamo qui di fronte ad un vero ribaltamento dei valori dottrinali). Ci si chiede: Chi è quest’uomo che si trascende? L’individuo Cristo o il genere umano? Che cosa rimane del Cristo del N.T. e dei dogmi? Che cosa significa “vicinanza assoluta”? Linguaggio trascendentale, ermetismo speculativo o dotte espressioni per coprire ciò che si dice?

4) Secondo il cardinale Siri queste “proposizioni esplicite e implicite… non possono velare la netta negazione”. (..) Hans Kung è stato meno ermetico e meno diplomatico, ma in perfetta linea col suo maestro Rahner, quando ha negato la divinità di Cristo sia prima sia dopo il battesimo, riducendo tutti i dati evangelici a leggende…

Tutta questa premessa è stata necessaria per comprendere almeno un minimo dell’uomo Siri e di quanto, cardinale della Chiesa, ha dovuto affrontare e combattere per la buona battaglia. Egli fu anche sostenitore dell’origine della CEI (la Conferenza Episcopale Italiana), nata da una richiesta di Pio XII da parte del cardinale Ruffini (2).

Pio XII nutriva una grandissima stima verso il card. Siri.
Papa Pio XII nutriva una grandissima stima verso il card. Siri.

Vediamo ora cosa ci insegna Siri sul comportamento da tenere con il Papa.

Pio XII nutriva una profonda stima di Siri tanto da esprimergli il desiderio di averlo a Roma, con lui, ma lasciato libero di scegliere, Siri preferì rimanere a Genova. Con Pio XII Siri si trovava in perfetta sintonia sulla “visione” del futuro della Chiesa, entrambi avevano chiare le innovazioni da farsi con il mantenimento, indiscutibile, della dottrina. Non si trattava di una “stima” superficiale o di rispetto, fra i Due c’era qualcosa di molto più soprannaturale che li univa. Pio XII si fidava di lui riconoscendogli anche l’impulso alla “nuova pastorale” necessaria in quei tempi in cui il mondo si andava modificando vertiginosamente.

Così riporta padre Spiazzi un episodio: durante un’udienza, Pio XII gli aveva fatto una lunga esposizione dei mali del mondo e delle tribolazioni della Chiesa, da lui particolarmente avvertite in quel periodo. Alla fine dello sfogo il cardinale Siri gli disse: “Santità, da quando i Papi scrivono encicliche, sono soliti descrivere le sorti del mondo in termini come questi: Ingravescentibus malis, et prope ad finem vertente saeculo… (la crescente pressione degli empi, e verso la fine della svolta del secolo); ma poi succede che il mondo si riprende e la Chiesa è sempre viva. C’è dunque da farsi coraggio…”. Pio XII concluse il colloquio con una franca risata.

Con Giovanni XXIII, il cardinale Siri confidò questo fatto a padre Spiazzi che così lo riporta: il Papa condusse Siri fino alla statua della Madonna della Guardia nei Giardini Vaticani, molto cara al popolo genovese. In questa riservatezza il Papa gli chiese un parere sull’invito all’udienza di Aleksei Adjubei, il genero di Kruscev, con la moglie (visita che poi avvenne il 7 marzo 1963). In confidenza il Papa si aspettava una risposta sfavorevole del Cardinale, il quale invece gli disse: “Ma lo riceva, Santità! Lei sa che, quando cercano noi preti, è segno che sentono avvicinarsi la fine…”. Anche in questo caso il colloquio si concluse con una risata del Papa che si sentì incoraggiato nel suo desiderio.

Il card. Siri ebbe un rapporto sofferto con Paolo VI.
Il card. Siri ebbe invece un rapporto sofferto con Paolo VI.

Con Paolo VI il rapporto fu più che sofferto. Siri descrive molte volte l’animo angosciato e sofferente di Montini: un uomo sofferente in cammino sul Calvario, portare i pesi delle tragedie del mondo, e le ferite di molte diserzioni in ambito ecclesiale, i molti tradimenti di coloro che egli riteneva suoi amici, e quindi ne descrive la solitudine. Paolo VI si fidava di Siri, ma non gli dette molto ascolto mentre egli continuava a rimanergli accanto, specialmente negli ultimi anni, confortandolo e sostenendolo nel suo ministero petrino. Un giorno, in una udienza privata, Siri vede Paolo VI accendersi di indignazione a causa di alcuni servizi, vergognosi, che apparivano in pubblicazioni cattoliche. Il Cardinale cercò di calmarlo.

Siri descrive un Paolo VI afflitto ma mai vinto, uomo di grande fede e di profonda preghiera, si corroborava con atti di fede pubblici e privati, così come in privato profondi atti di penitenza. Paolo VI a sua volta aveva capito che di Siri si poteva fidare a tal punto che gli confidò: “Quando c’è lei mi sento sicuro: lei chiarisce le questioni… Lei riesce a tirarmi su di morale, tutti gli altri mi deprimono… venga più spesso a trovarmi”.

Peccato però che Paolo VI non ascoltava i veri amici. È il caso dell’enciclica Popolorum Progressio del 1967. Paolo VI aveva mandato le bozze a Siri pregandolo di rivedere il testo. Il Cardinale era diventato un esperto nella materia e aveva esperienza in campo economico. Quando lesse la bozza rimase esternato e disse: “Impossibile!! C’è una leggerezza tale che si riderà del Papa!”, e questo davvero non lo poteva sopportare. Professionale e serio, Siri consultò grossi esperti a livello europeo, chiedendo pareri su alcune tesi (senza rivelare la fonte), e tutti gli confermarono il suo giudizio. Allora scrisse al Papa: “Bisogna rivedere totalmente, sembrano le riflessioni di un vice-parroco…”. Ma Paolo VI non osò contraddire gli esperti incaricati all’enciclica e così senza rispondere nulla a Siri, pubblicò il testo con tutti gli errori. Quando uscì l’enciclica Paolo VI fu sommerso da autorevoli proteste di mezzo mondo, anche dai governi. E guarda caso, tutti battevano proprio su quei punti che Siri aveva chiesto al Papa di modificare.

Il Vaticano andò letteralmente in tilt, con buon gioco della cattiva stampa che ne approfittò per umiliare pesantemente il Pontefice. A quel punto Paolo VI chiama Siri e lo prega di venire a Roma a risolvere il problema. Ed ecco il fedele Cardinale che invece di dirgli: “santità, te lo avevo detto, io! ma non mi hai voluto ascoltare, ora arrangiati!”, l’autentico ed indomito Siri invece, prende di corsa l’aereo precipitandosi a Roma e, a Radio Vaticana, prende le difese del Papa e dell’enciclica spiegando tutti quei punti che Paolo VI non ebbe il coraggio di correggere, facendoli passare quali intenzioni vere del Papa. Il cardinale era così. Poteva anche non essere d’accordo con il Papa, e in molte circostanze Siri si trovò in disaccordo con Paolo VI, ma quando un testo era ufficiale, quella parola doveva essere difesa, corretta sì, ma senza incolpare il Pontefice difendendo il quale ne scaturiva il bene della Chiesa intera.

Siri non si trovava in accordo con le simpatie di Paolo VI verso Maritain. Il Cardinale affermava che la grande crisi della teologia veniva dalla cattiva concezione del rapporto tra “grazia e natura”. “Se non è il soprannaturale che illumina ogni cosa e offre la liberazione a ogni ambito della vita, allora devo trovare un’altra liberazione, che non è più quella di Cristo: siamo sulla strada che va da Maritain alla teologia della liberazione..” Importante su questo aspetto, dall’Opera Omnia di Siri, il vol. III “Il primato della verità. Pastorali sull’ortodossia”, una raccolta di pastorali sull’ortodossia della dottrina, in relazione ai temi scottanti che, scaturiti nel dopo concilio, potevano risultare distorti.

Senza dire di cosa si trattava, padre Spiazzi racconta anche questo episodio. Un giorno Paolo VI aveva lacerato sotto i suoi occhi un documento già pronto per essere pubblicato e che, a giudizio di Siri, manifestato sinceramente al Papa, avrebbe portato non poco scompiglio, addirittura, nella struttura della Chiesa. È probabile, aggiungiamo noi, che poteva trattarsi del famoso testo sulla collegialità dei Vescovi che, concepito in un primo momento, minava fortemente l’autorità petrina e che, come riporta anche il Diario del cardinale Felici, fu dato un testo a Paolo VI per il quale egli rimase addolorato e costernato, e che dopo averlo fatto leggere anche ad un cardinale di sua fiducia, lo avrebbe appunto rigettato, distruggendolo.

Il rapporto tra Paolo VI e il cardinale Siri, è stato davvero il più sofferto perché fra i due vi era una differente impostazione più psicologica (in Montini) che teologica, ma entrambi li univa l’amore al vero e all’essenza dell’ortodossia dottrinale. A Castelgandolfo in una udienza privata del 3 agosto 1964, Paolo VI confessava a Siri: “Abbiamo tra le mani delle cose che non ci appartengono, delle cose divine, non abbiamo il potere di cambiarle”. Ma Siri soffrì molto quando certa stampa andava dichiarando che egli non era in comunione con Paolo VI. L’essere definito colui che era all’opposizione del Papa, fu una lacerazione interiore che si portò dietro come una spina nel fianco. Certo, Siri entrava spesso in conflitto tra la sua coscienza e la sua funzione di Principe della Chiesa a servizio del Papa, il quale Papa, poi, era la causa di questi conflitti, ma non si sognava lontanamente di diventare un pubblico scandalo nell’opporsi alle direttive del Pontefice.

Il cardinale Siri, abituato a difendere l’ortodossia, dovette riconoscere che questa doveva essere distribuita con paterna sollecitudine e caritatevole pastorale. Era per lui un dovere resistere al modo di governo di Paolo VI — che non condivideva — in nome dell’ortodossia, o doveva egli invece sostenerlo in nome del papato e dell’autorità petrina? Questa domanda fu la piaga e la spina più dolorosa che accompagnarono Siri per ben diciotto anni, in un cammino erto e difficile.

Visita pastorale di Giovanni Paolo II a Genova nel 1985.
Visita pastorale di Giovanni Paolo II a Genova nel settembre del 1985.

Con l’avvento di Giovanni Paolo II, Siri comprese il vero cambiamento nel papato, non era molto entusiasta, e comunque non vi fu tempo per il Cardinale di poter fare veri apprezzamenti. Padre Spiazzi riporta un passo di Baget Bozzo che non condivide, ma che è utile conoscere: per Siri era Wojtyla il Papa di “transizione”, nel senso che “l’eccesso” di questo pontificato, destinato ad equilibrare l’eccesso di Paolo VI, avrebbe dovuto riportare poi la Chiesa dov’era, ossia, ai tempi di Pio XI e non per una sdolcinata nostalgia, ma per l’ortodossia della fede. Più che dall’eterno e dal temporale (i Papi passano, Roma e il papato rimangono), la cultura di Siri è affascinata dal perpetuo e dal soprannaturale, questa è l’ecclesiologia romana che egli ha sempre obbedito anche in contrasto con un Papa.

Il cardinale Siri non smentisce questi pensieri pubblicati su un quotidiano, tuttavia reclama con Spiazzi, pur apprezzando molto Bozzo: “Come si sente che non ha avuto una buona formazione filosofica e teologica in scuola!” Ma l’accenno alle differenze — ma non al contrasto — tra il pensiero di Siri e quelle di Montini, spiega padre Spiazzi, apre uno spiraglio reale sulla storia (o la cronaca) di un momento teologico drammatico, e non solo dottrinale…

Giovanni Paolo II apprezzava molto Siri, ed era a conoscenza anche della sua pastorale. Decano dei Cardinali, Siri consegna le sue dimissioni per il compimento dei 75 anni nel 1981, e Wojtyla non ne vuole sentire lasciandolo al suo posto, nonostante le mormorazioni e una certa corrente contraria al Cardinale lo avessero dipinto come uno “attaccato al potere”, persino in disobbedienza al Papa. Lo spirito di Siri è forte, ma il corpo un po’ meno e nel 1985 riesce anche ad accogliere il Papa in visita ufficiale a Genova, nonostante che l’anno prima Siri dovette subire un ricovero con una operazione seria all’intestino. È un trionfo di intenti pastorali ed ecclesiali. Il 6 luglio del 1987 all’età di 81 anni il Papa accetta infine le sue dimissioni e, commosso, fece leggere pubblicamente la lettera mandata dal Papa: “Chi legge i suoi scritti, signor Cardinale, resta colpito non solo dalla chiarezza dottrinale, dalla sicurezza di giudizio, dall’intelligenza e dalla cultura di cui Lei è prova, ma ancor più dalla passione per la Verità che La guida a cercare, in ogni problema, la soluzione coerente col dato di fede, senza cedimenti di sorta alle mode culturali del momento… (..) Può dunque immaginare, venerato fratello, con quali sentimenti accolgo le dimissioni deposte nelle mie mani…”

Il card. Siri, giustamente, vedeva in Rahner la causa principale della crisi della Chiesa cattolica.
Il card. Siri vedeva in Rahner la causa principale della crisi della Chiesa cattolica. E aveva ragione.

Nell’ultima intervista ufficiale, 8 settembre 1988, fece una specie di appello ai gesuiti: “Rahner ha rovinato tutto e non capisco come mai i gesuiti l’abbiano sopportato fino all’ultimo. Chi di voi gesuiti se ne vuole andare se ne vada, ma chi resta deve essere come sant’Ignazio”.

E a proposito della “chiesa in uscita”, così la pensava il Cardinale: “È necessario che il sacerdote oggi, senza abbandonare il tempio, esca da esso, anche se può sembrare una contraddizione, per recarsi là dove si trova la gente: nelle famiglie, nelle scuole, nelle fabbriche, negli ospedali, anche nei luoghi di divertimento, nelle palestre, anche nei cimiteri… (sorridendo dice: mi dicono che non si vede mai un prete in visita ad un cimitero se non per le funzioni di rito). Certo, il prete che fa questo deve trovare anche laici che lo aiutino a mandare avanti la parrocchia. Uscire significa organizzare la propria giornata perché dentro ci sia anche un tempo per uscire e portare Cristo laddove è oggi più trascurato, ma deve portarLo e non farsi portare, lui, altrove…” (e sempre con la talare “vestito da prete”, diceva, ma di questo parleremo in un altro articolo).

Vogliamo chiudere questo quadro con le parole tratte dal saluto definitivo di Siri alla sua amata diocesi, era la Festa della Madonna del Rosario del 7 ottobre 1987:

«Abbiamo mantenuto una linea che si è sempre ispirata ai miei grandi antecessori e non ci siamo lasciati incantare mai da coloro che avrebbero oramai preteso di vedere il mondo, da sferico, divenuto piatto. Molti credono di andare avanti e in realtà vanno indietro. Le strade del lassismo non portano mai avanti perché soggiaciamo alla legge del vortice come le tempeste d’alta montagna: si gira in tondo, si crede di camminare e si è sempre allo stesso punto, facilmente mortale. Le sorgenti della forza morale sono le stesse della santità. Nelle cose essenziali non cambiate la rotta».

Laudetur Jesus Christus.


1) Il Cardinale Giuseppe Siri – Arcivescovo di Genova dal 1946 al 1987 – La vita, l’insegnamento, l’eredità spirituale, le memorie, a cura di Padre Raimondo Spiazzi O.P. – Ed. ESD, Edizioni Studio Domenican0 – 1990

2) La prima riunione della CEI si svolse a Firenze nel 1951, alla presenza di tutti i Vescovi delle Regioni ecclesiastiche. Nel 1962 si tenne la prima riunione assembleare di tutti i vescovi italiani, presieduta dal cardinale Siri (dopo i cardinali Schuster e Fossati), fino al 31 agosto 1965.

P.S. Clicca qui: Siri e Ratzinger nella medesima battaglia contro l’eresia rahneriana.

INTERVISTA A 30 GIORNI (1988)
Eminenza a quando risale la sua amicizia con Pio XII?
GIUSEPPE SIRI: Al 25 aprile 1941, giorno della mia prima udienza da lui. Il Papa era rimasto colpito dall’eco avuta a Roma da una serie di conferenze da me tenute nel palazzo dei principi Colonna davanti ad un folto pubblico di professori universitari ed uomini politici. C’erano anche Badoglio ed il ministro Orlando. Tutta la Roma che conta e la stampa ne aveva parlato. Così anche Pio XII, i cui nipoti erano venuti ad ascoltarmi, volle conoscere questo giovane prete. Mi telefonò, per comunicarmi la volontà del Papa, monsignor Montini (allora Sostituto della Segreteria di Stato) che conoscevo da parecchi anni per essere stato da lui invitato a tenere delle conferenze di teologia agli universitari della Fuci. «Il Papa la vuole vedere», mi dice. Io esitavo, mi sentivo imbarazzato ed indegno; infine, dopo le insistenze di Montini, accettai a condizione che fosse lui ad accompagnarmi. Appena fui introdotto nell’appartamento pontificio e vidi quella maestosa figura bianca caddi in ginocchio ai suoi piedi. Ma dopo pochi secondi conversavamo come se ci fossimo conosciuti da sempre. L’udienza durò tredici minuti esatti; non era poco per uno come Pio XII che centellinava il suo tempo. Da quel momento Papa Pacelli non mi ha più perso di vista.

AGGIUNGIAMO un bel commento di Sergio Romano dal corriere della sera del 2006

Vorrei un suo giudizio sulla contraddittoria figura del Cardinal Giuseppe Siri, arcivescovo di Genova, di cui a breve ricorrerà il centenario della nascita. Esistono libri sulla sua persona? 

– Caro Carpani, ho abitato a Genova per parecchi anni e ho conosciuto Siri negli anni in cui la borghesia industriale e mercantile lo chiamava scherzosamente la «First Lady» della città. Ogniqualvolta avevo occasione di sentirlo parlare mi colpiva una straordinaria combinazione di sussiego, solennità, alterigia, paternalismo e familiarità, toni aulici e toni popolareschi, frasi dotte ed espressioni dialettali. Parlava come un manuale teologico (aveva insegnato per molti anni al seminario vescovile), ma poteva accentuare l’ accento genovese e usare parole volutamente sciatte, un po’ rudi.

Non credo che i toni popolareschi fossero l’ insopprimibile residuo delle sue origini sociali. Credo piuttosto che negli anni trascorsi in curia, come vescovo ausiliario del vecchio cardinale Boetto, avesse imparato a recitare la parte del principe vescovo.

Aveva capito che a Genova un aristocratico deve parlare il dialetto e deve avere un rapporto diretto con il popolo scavalcando i mercanti, gli armatori, gli industriali, i banchieri. Ma deve essere anche ieratico, autoritario e principesco. Fu questo stile che gli permise di regnare su Genova per quarant’ anni e di mobilitare contro i comunisti una larga area di consenso popolare. Fece il suo apprendistato di leader religioso fra il 1943 e il 1945 quando le circostanze lo costrinsero a recitare una parte classica nella storia d’ Italia: quella del vescovo che protegge la pieve contro i barbari e può essere ora umile e implorante, ora energico e minaccioso.

In alcune conversazioni con Benny Lai, pubblicate in un libro del 1994 edito da Laterza («Il Papa non eletto. Giuseppe Siri, Cardinale di Santa Romana Chiesa»), raccontò di avere avuto una tempestosa conversazione con un comandante partigiano che non voleva permettere il transito di un convoglio di viveri. A un certo punto, raccontò a Lai, perse la pazienza: «Vomitai tutte le parolacce udite da bambino nei vicoli di Genova e che mai avevo usato, parlai il linguaggio dei facchini e dei portuali». Poco tempo dopo, dovette trattare con i tedeschi per evitare la distruzione del porto di Genova al momento della ritirata. Poiché la conversazione si prolungava inutilmente, si alzò, dette un pugno sul tavolo e disse, quasi urlando: «Vi garantisco che se toccherete il porto di Genova nessun tedesco ne uscirà vivo perché lei sa meglio di me che prestissimo scapperete tutti».

Un altro pugno sul tavolo lo dette durante un altro negoziato, quello che precedette l’ elezione di Giovanni XIII.

Raccontò a Benny Lai: «Prima dell’ inizio del Conclave, perché solo di quel periodo posso parlare senza cadere nella scomunica, venne un tale a sondarmi circa l’ eventuale candidatura dell’ arcivescovo di Milano (Giovanni Battista Montini, ndr). Detti un pugno sul tavolo così forte da far saltare la pietra dell’ anello che portavo al dito». 
Fu esattamente l’ opposto di Paolo VI. Mentre Montini era sensibile alle suggestioni spirituali di Maritain e alle tesi «democratiche» dell’ intellighenzia cattolica francese sul ruolo dei laici nella vita ecclesiastica, Siri era ostile alle influenze francesi, tedesche, olandesi, e deciso ad affermare l’ influenza della Chiesa nella società e della gerarchia all’ interno della Chiesa.

Mentre Montini accompagnò benevolmente l’ apertura a sinistra della Dc, Siri fece del suo meglio per evitare l’ alleanza con i socialisti e utilizzò a questo fine la Conferenza episcopale sino al giorno in cui Paolo VI gliene tolse la presidenza.

Combatté per le sue convinzioni in ogni sede in cui ebbe posizioni di autorità, ma perdette quasi tutte le sue battaglie e dovette accettare il Concilio, il centro-sinistra, la solidarietà nazionale, il populismo becero di una parte della Chiesa post-conciliare, la riforma della liturgia, la sciatteria vestimentaria dei preti in maglione e giacca a vento. 
Perdette soprattutto la battaglia per un trono che fu, più di una volta, a portata di mano e che in due circostanze, forse, avrebbe potuto avere. Si richiuse nella sua diocesi dove continuò a difendere la «sua» Chiesa opponendosi alla costruzione di altari posticci, alla distribuzione dell’ eucaristia ai fedeli in piedi, all’ abbandono dei paramenti preziosi, al clergyman per i sacerdoti e ai pantaloni per le donne.

Nella sua ultima conversazione con Benny Lai, il 18 settembre 1988, lasciò intendere tutta la sua amarezza per ciò che la Chiesa era diventata dopo la morte di Pio XII. 
Lo fece indirettamente chiedendo perdono a Dio per non avere accettato l’ offerta di elezione nei primi due Conclavi a cui aveva partecipato. «Ho fatto male perché avrei evitato di compiere certe azioni… Vorrei dire, ma ho timore a dirlo, certi errori. Quindi ho avuto un grande rimorso e ho chiesto perdono a Dio. Spero che Dio mi perdoni».

Romano Sergio

Pagina 39
(1 giugno 2006) – Corriere della Sera

RICORDA CHE:

Scrive il cardinale Giuseppe Siri (1907-1989) in “A Te sacerdote”, vol.II, Edizioni Casa mariana

Ritengo di attirare la attenzione su un problema, che sta diventando della massima importanza: quello dell’abito ecclesiastico. […] Di fatto si sta assistendo alla più grande decadenza dell’abito ecclesiastico. […] L’abito condiziona fortemente e talvolta forgia addirittura la psicologia di chi lo porta . L’abbigliamento, infatti, impegna per la vestizione, per la sua conservazione, per la sostituzione. È la prima cosa che si vede, l’ultima che si depone. Esso ricorda impegni, appartenenze, decoro, colleganze, spirito di corpo, dignità! Questo fa in modo continuo. Crea pertanto dei limiti alla azione, richiama incessantemente tali limiti, fa scattare la barriera del pudore, del buon nome, del proprio dovere, della risonanza pubblica, delle conseguenze, delle malevoli interpretazioni. […] L’abito non fa il monaco al 100%, ma lo fa certamente in parte notevole; in parte maggiore, secondo che cresce la sua debolezza di temperamento. […] Per tale motivo la questione della divisa ingigantisce nel campo ecclesiastico e si impone alla attenzione di quanti vogliono salvare vocazioni, perseveranza negli accettati doveri, disciplina, pietà, santità! […] succede che in talune città d’Italia (non citiamo ovviamente i nomi, ma siamo ben sicuri di quello che diciamo) per l’assenza di ritegno imposto dalla sacra divisa si arriva ai divertimenti tuttavia proibiti dal Codice di Diritto Canonico, ai night clubs, alle case malfamate e peggio. Sappiamo di retate di seminaristi fatte in cinema malfamati ed in altri non più consigliabili locali. Tutto per colpa dell’abito tradito! […] Il bilancio che ne consegue . Eccolo:
– disistima;
– sfiducia;
– insinuazioni facili e talvolta gravi;
– preti che, cominciando dall’abito e dallo smantellamento della prima umile difesa, finiscono dove finiscono…
– crisi sacerdotali, del tutto colpevoli, perché cominciate col rifiuto delle necessarie cautele, richieste dal Diritto Canonico e dal consiglio dei Vescovi…, con risultati disgraziati e spostati…
– seminari che si svuotano e non resistono; mentre nel mondo, tanto in Europa che in America, rigurgitano i seminari, ordinati secondo la loro genuina origine, col rigoroso abito ecclesiastico, nella vera obbedienza al Decreto conciliare Optatam totius;
– anime che si trascinano innanzi senza più alcuna capacità decisionale, dopo la loro contaminazione col mondo.
 
[…] Credo difficile possa esistere nel nostro tempo, proprio per le sue caratteristiche, lo spirito ecclesiastico senza il desiderio e il rispetto dell’abito ecclesiastico. […] Qui non parliamo solo di «abito ecclesiastico», ma di talare. E guardiamo bene le cose in faccia, senza alcun timore di quel che si può dire. […] Alcuni, per boicottare l’uso della talare o per giustificarsi nell’aver ceduto alla moda corrente contraria all’abito talare, affermano: «Tanto la talare è un abito liturgico», volendo così esaurire l’eventuale uso della talare alla sola liturgia. Questo è apertamente falso e capziosamente ipocrita! […] Francamente è chiaro che il clergyman […] non è la soluzione più desiderata. Chi non ama la sua talare resisterà ad amare il suo servizio a Dio? Il prossimo non sostituisce Dio! Non è soldato chi non ama la sua divisa. […] L’indirizzo da darsi è:
– che anche se la legge ammette il clergyman, esso non rappresenta in mezzo al nostro popolo la soluzione ideale;
– che chi intende avere l’integro spirito ecclesiastico deve amare la sua talare;
[…]
– che la difesa della talare è la difesa della vocazione e delle vocazioni.
 
Il mio dovere di Pastore mi obbliga a guardare assai lontano. Ho dovuto constatare che la introduzione del clergyman oltre la legge e le depravazioni dell’abito ecclesiastico sono una causa, probabilmente la prima, del grave decadimento della disciplina ecclesiastica in Italia. Chi vuol bene al sacerdozio, non scherzi con la sua divisa!

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