Ratzinger vs. Rahner

Dall’autobiografia dell’allora cardinale Joseph Ratzinger, scopriamo la distanza chilometrica tra il futuro Benedetto XVI e il gesuita tedesco Karl Rahner, il mito del cattoprogressismo.

di Joseph Ratzinger

L’INIZIO DEL CONCILIO E IL TRASFERIMENTO A MÙNSTER

Mentre i miei rapporti con l’arcivescovo di Monaco, il cardinal Wendel, non erano rimasti del tutto senza complicazioni, tra l’arcivescovo di Colonia, cardinal Frings, e me nacque subito un’intesa serena e cordiale.

1-la-mia-vita-parte-prima-2_543d098c6bec9A ciò può aver concorso il fatto che il suo segretario, l’attuale vescovo di Essen, Hubert Luthe, era un amico e compagno di studi degli anni di Furstenried, dove avevo potuto fare amicizia con molti sacerdoti di Colonia, come per esempio l’attuale vescovo ausiliare Dick.

Nel frattempo Giovanni XXIII aveva annunciato il concilio Vaticano II, ravvivando, per molti fino all’euforia, quel sentimento di rinascita e di speranza che, malgrado le minacce dell’era nazionalsocialista, era vivo fin dalla conclusione della prima guerra mondiale.

Il cardinal Frings venne ad ascoltare una conferenza sulla teologia del Concilio, che avevo tenuto su invito dell’Accademia Cattolica di Bensberg, e subito dopo mi coinvolse in una lunga conversazione, che fu l’inizio di una collaborazione durata per anni.

Come membro della commissione centrale per la preparazione del Concilio il cardinal Frings ricevette gli schemi preparatori (Schemata), che dovevano essere presentati ai padri dopo la convocazione dell’assemblea conciliare per essere discussi e approvati. Questi testi egli me li inviò ora regolarmente, per avere un mio parere e delle proposte di miglioramento. Ovviamente, su diversi punti avevo qualcosa da osservare, ma non trovavo nessuna ragione per rifiutarli del tutto, come poi, durante il Concilio, fu da molti richiesto e, infine, anche ottenuto.

Indubbiamente, il rinnovamento biblico e patristico, che aveva avuto luogo nei decenni precedenti, aveva lasciato solo poche tracce in questi documenti; essi davano quindi un’impressione di rigidità e di scarsa apertura, di un eccessivo legame con la teologia scolastica, di un pensiero troppo professorale e poco pastorale; ma si deve riconoscere che essi erano stati elaborati con cura e solidità di argomentazioni.

Venne infine la grande ora del Concilio. Il cardinal Frings portò con sé a Roma il suo segretario Luthe e me come suoi consulenti teologici; fece anche in modo che verso la fine della prima sessione io ricevessi la nomina ufficiale come teologo del Concilio (perito).

Ora non posso e non voglio descrivere qui l’esperienza particolarissima di quegli anni, in cui abitavamo nell’accogliente collegio sacerdotale germanico-austriaco dell’Anima, vicino a Piazza Navona; né raccontare il dono dei molti incontri – con uomini della statura di Henri de Lubac, Jean Daniélou, Yves Congar, Gérard Philips – per fare solo qualche nome eccellente; e neppure riferire degli incontri con vescovi provenienti da tutti i continenti, delle conversazioni personali con alcuni di loro.

Anche il dramma teologico-ecclesiale di quegli anni non rientra nell’intento di questi ricordi.

Ma il lettore mi consenta almeno due eccezioni.

La prima questione che si poneva, era come cominciare il Concilio, quale compito si dovesse più precisamente attribuirgli.

Il Papa aveva indicato solo in termini molto generali la sua intenzione riguardo al Concilio lasciando ai Padri uno spazio quasi illimitato per la concreta configurazione: la fede doveva tornare a parlare a questo tempo in modo nuovo, mantenendo pienamente l’identità dei suoi contenuti, e, dopo un periodo in cui ci si era preoccupati di fare definizioni restando su posizioni difensive, non si doveva più condannare, ma usare “la medicina della misericordia”.

C’era, certo, un tacito consenso circa il fatto che la Chiesa sarebbe stato il tema principale dell’adunanza conciliare, che in tal modo avrebbe ripreso e portato a termine il cammino del concilio Vaticano I, precocemente interrotto a causa della guerra franco-prussiana del 1870.

I cardinali Montini e Suenens predisposero dei piani per un impianto teologico di vasto respiro dei lavori conciliari, in cui il tema “Chiesa” doveva essere articolato nelle questioni “Chiesa ad intra” e “Chiesa ad extra”.

La seconda articolazione tematica doveva permettere di affrontare le grandi questioni del presente dal punto di vista del rapporto Chiesa-mondo.

Per la maggioranza dei padri conciliari la riforma proposta dal movimento liturgico non costituiva una priorità, anzi per molti di loro essa non era nemmeno un tema da trattare.

Per esempio, il cardinale Montini, che poi come Paolo VI sarebbe divenuto il vero papa del Concilio, presentando una sua sintesi tematica all’inizio dei lavori conciliari aveva detto con chiarezza di non riuscire a trovare qui alcun compito essenziale per il Concilio.

La liturgia e la sua riforma erano divenute, dalla fine della prima guerra mondiale, una questione pressante solo in Francia e in Germania, e più precisamente nella prospettiva di una restaurazione la più pura possibile dell’antica liturgia romana; a ciò si aggiungeva anche l’esigenza di una partecipazione attiva del popolo all’evento liturgico.

Questi due paesi, allora teologicamente in primo piano (a cui bisognava ovviamente associare il Belgio e l’Olanda), nella fase preparatoria erano riusciti a ottenere che venisse elaborato uno schema sulla sacra liturgia, che si inseriva piuttosto naturalmente nella tematica generale della Chiesa.

Che, poi, questo testo sia stato il primo a essere esaminato dal Concilio non dipese per nulla da un accresciuto interesse per la questione liturgica da parte della maggioranza dei Padri, ma dal fatto che qui non si prevedevano grosse polemiche e che il tutto veniva in qualche modo considerato come oggetto di un’esercitazione, in cui si potevano apprendere e sperimentare i metodi di lavoro del Concilio.

A nessuno dei Padri sarebbe venuto in mente di vedere in questo testo una “rivoluzione”, che avrebbe significato la “fine del medioevo”, come nel frattempo alcuni teologi hanno ritenuto di dover interpretare. Il tutto, poi, era visto come una continuazione delle riforme avviate da Pio X e portate avanti con prudenza, ma anche con risolutezza, da Pio XII.

Le norme generali come “i libri liturgici siano riveduti quanto prima” (n. 25) intendevano appunto dire: in piena continuità con quello sviluppo che vi è sempre stato e che con i pontefici Pio X e Pio XII si è configurato come riscoperta delle classiche tradizioni romane.

Ciò comportava naturalmente anche il superamento di alcune tendenze della liturgia barocca e della pietà devozionale del secolo XIX, promuovendo una sobria sottolineatura della centralità del mistero della Presenza di Cristo nella Sua Chiesa.

In questo contesto non sorprende che la “messa normativa”, che doveva subentrare all’Ordo missae precedente, e di fatto poi vi subentrò – venne respinta dalla maggioranza dei Padri convocati in un sinodo speciale nel 1967.

Che, poi, alcuni (o molti?) liturgisti, che erano presenti come consulenti, avessero fin dal principio intenzioni che andavano molto più in là, oggi lo si può dedurre da certe loro pubblicazioni; sicuramente, però, essi non avrebbero avuto il consenso dei Padri conciliari a questi loro desideri.
In ogni caso di essi non si parla nel testo del Concilio, anche se in seguito si è cercato di trovarne a posteriori le tracce in alcune delle norme generali.

Il dibattito sulla liturgia fu tranquillo e procedette senza vere tensioni.

Vi fu, invece, uno scontro drammatico quando venne presentato per la discussione il documento sulle “fonti della rivelazione”.

Per “fonti della rivelazione” si intendevano la Scrittura e la tradizione; il rapporto tra loro e con il magistero aveva trovato una solida trattazione nelle forme della scolastica post-tridentina, sul modello dei manuali allora in uso.

Nel frattempo, però, il metodo storico-critico dell’esegesi biblica aveva trovato un suo posto stabile anche all’interno della teologia cattolica.

Di per sé questo metodo, per sua stessa natura, non tollera alcuna delimitazione a opera di un magistero autoritativo; esso non può, cioè, riconoscere alcuna istanza diversa da quella dell’argomento storico.

Di conseguenza anche il concetto di tradizione era divenuto problematico, dato che, partendo dal metodo storico, non si riesce a comprendere una tradizione orale, che procede accanto alla Scrittura e risale fino agli Apostoli, che possa rappresentare una fonte di conoscenza storica accanto alla Bibbia: proprio questo aveva già reso tanto difficile e insolubile la disputa sul dogma dell’assunzione corporea di Maria in cielo. Con questo testo era quindi in discussione tutto il problema dell’esegesi biblica moderna, ma soprattutto la questione di come storia e spirito possano rapportarsi e comporsi nella struttura della fede.

Determinante per la forma concreta che assunse questo dibattito si rivelò una presunta scoperta storica che il teologo di Tubinga, J. R. Geiselmann, riteneva di aver fatto negli anni Cinquanta.

Negli atti del concilio di Trento egli aveva scoperto che, nell’elaborazione del decreto sulla tradizione, in un primo tempo era stata proposta una formula secondo cui la rivelazione sarebbe “in parte nella Scrittura, in parte nella tradizione”.

Nel testo finale, però, l'”in parte – in parte” fu evitato e sostituito da “e”: Scrittura e tradizione ci trasmettono insieme la rivelazione.

Geiselmann ne deduceva che Trento aveva voluto insegnare che non esiste alcuna divisione dei contenuti della fede tra Scrittura e tradizione, ma che, piuttosto, ambedue – Scrittura e tradizione – contengono, ciascuna per conto proprio, il tutto, siano cioè in se stesse complete.

Ora, però, in quel momento non interessava la presunta o reale completezza della tradizione; quel che interessava era l’affermazione che secondo la dottrina di Trento la Scrittura conteneva l’intero deposito della fede. Si parlava della “completezza materiale” della Bibbia nelle questioni di fede.

Questa formula, che ora girava dappertutto e che era considerata la nuova, grande scoperta, si svincolò ben presto dal suo punto di partenza, che era l’interpretazione del decreto tridentino.

L’inevitabile conseguenza fu che si cominciò a ritenere che la Chiesa non potesse insegnare nulla che non fosse espressamente rintracciabile nella Sacra Scrittura, dato che quest’ultima contiene appunto in modo completo tutto ciò che riguarda la fede.

E dato che interpretazione della Scrittura ed esegesi storico-critica venivano identificate, ciò significava che la Chiesa non poteva insegnare nulla che non reggesse alla prova del metodo storico-critico.

Con ciò era ampiamente messo in ombra il principio luterano della “sola Scriptum”, che era poi ciò di cui si era trattato a Trento. Infatti, questa nuova tendenza significava che nella Chiesa l’esegesi doveva diventare l’ultima istanza, ma, dato che per la stessa natura della ragione umana e della ricerca storica non può sussistere la piena unanimità tra gli esegeti di testi tanto difficili (poiché in gioco ci sono sempre delle opzioni pregiudiziali, siano esse consce o inconsce), la conseguenza era che la fede doveva ritrarsi nell’indeterminatezza e nella continua mutabilità di ipotesi storiche o apparentemente tali: alla fine “credere” significava qualcosa come “ritenere”, avere un’opinione soggetta a continue revisioni.

Naturalmente il Concilio dovette opporsi a teorie così formulate, ma nell’opinione pubblica ecclesiale la parola d’ordine della “completezza materiale”, con tutte le sue conseguenze, era ben più forte del testo finale del Concilio.

Il dramma dell’epoca postconciliare è stato ampiamente determinato da questa parola d’ordine e dalle sue conseguenze logiche.

Personalmente avevo già avuto modo di conoscere le tesi di Geiselmann nell’aprile del 1956, durante il già citato convegno dogmatico di Kònigstein, in cui il professore di Tubinga presentò per la prima volta la sua presunta scoperta (che, peraltro, egli non estendeva fino alle conseguenze fin qui descritte, che si sono sviluppate in questi termini solo nella “propaganda conciliare”).

All’inizio ne fui affascinato, ma molto presto mi balzò agli occhi che il grande tema del rapporto tra Scrittura e tradizione non poteva essere risolto in maniera così semplice. In seguito ho io stesso minuziosamente studiato gli atti di Trento e ho potuto constatare che la variante redazionale, che Geiselmann considerava di importanza centrale, non era stata che un insignificante aspetto secondario nel dibattito tra i Padri conciliari, che si spinse molto più a fondo per illuminare la questione fondamentale di come la rivelazione possa tradursi in parola umana e, quindi, in parola scritta. In questo fui aiutato dalle conoscenze acquisite con i miei studi sul concetto di rivelazione di Bonaventura.

Trovai che l’orientamento di fondo dei Padri di Trento nel modo di pensare la rivelazione nella sostanza era rimasto stesso del tardo medioevo. Proprio a partire da queste acquisizioni, che ora non posso certo sviluppare oltre, le mie obiezioni nei confronti dello schema conciliare che ci era stato sottoposto erano di tutt’altra natura rispetto alle tesi sostenute da Geiselmann e alla loro grossolana volgarizzazione nell’eccitato clima conciliare.

Tuttavia vorrei almeno accennare al suo aspetto essenziale: la rivelazione, cioè il volgersi di Dio verso l’uomo, il Suo venirgli incontro, è sempre più grande di quanto può essere espresso in parole umane, più grande anche delle parole della Scrittura.

Come si è già visto a proposito dei miei lavori su Bonaventura, nel medioevo e a Trento sarebbe stato impossibile definire la Scrittura semplicemente come “la rivelazione”, come invece oggi avviene nel linguaggio corrente.

La Scrittura è la testimonianza essenziale della rivelazione, ma la rivelazione è qualcosa di vivo, di più grande – perché sia tale essa deve giungere a destinazione e deve essere percepita, altrimenti essa non è divenuta “rivelazione”.

La rivelazione non è una meteora precipitata sulla terra, che giace da qualche parte come una massa rocciosa da cui si possono prelevare dei campioni di minerale, portarli in laboratorio e analizzarli.

La rivelazione ha degli strumenti, ma non è separabile dal Dio vivo, e interpella sempre la persona viva a cui essa giunge.

Il suo scopo è sempre quello di raccogliere gli uomini, di unirli tra loro – per questo essa implica la Chiesa. Ma se si da questa sporgenza della rivelazione rispetto alla Scrittura, allora l’ultima parola su di essa non può venire dall’analisi dei campioni minerali – il metodo storico-critico -, ma di essa fa parte l’organismo vitale della fede di tutti i secoli.

Proprio questa sporgenza della rivelazione sulla Scrittura, che non può a sua volta essere espressa in un codice di formule, è quel che noi chiamiamo “tradizione”.

Nel clima generale del 1962, che si era impadronito delle tesi di Geiselmann nella forma sopra descritta, mi fu impossibile far comprendere questa mia prospettiva, che avevo acquisito dallo studio delle fonti e rispetto alla quale, del resto, già nel 1956 non ero stato capito.

La mia posizione venne semplicemente annoverata nell’opposizione generale allo schema ufficiale e valutata come un’altra voce in direzione di Geiselmann.

Per desiderio del cardinal Frings, misi allora per iscritto un piccolo schema, in cui cercavo di esprimere la mia prospettiva; alla sua presenza, potei quindi leggere quel testo a un gran numero di influenti cardinali, che lo trovarono interessante, ma sul momento non vollero, né potevano esprimere alcun giudizio in proposito.

Ora, quel piccolo saggio era stato scritto in gran fretta e non poteva nemmeno lontanamente competere per solidità e precisione con lo schema ufficiale, che aveva avuto origine in un lungo processo di elaborazione ed era passato attraverso molte revisioni di studiosi competenti. Era chiaro che il testo doveva essere ulteriormente elaborato e approfondito. Un simile lavoro richiedeva anche l’intervento di altre persone.

Ratzinger e Rahner, due pianeti diversi

Fu dunque stabilito che io redigessi insieme con Karl Rahner una seconda redazione, più approfondita. Questo secondo testo, che va ascritto molto più a Rahner che a me, fu poi fatto circolare tra i Padri e suscitò in parte delle aspre reazioni.

Ratzinger e Rahner al Vaticano II.
Ratzinger e Rahner al Vaticano II.

Lavorando insieme con lui, mi resi conto che Rahner e io, benché ci trovassimo d’accordo su molti punti e in molte aspirazioni, dal punto di vista teologico vivevamo su due pianeti diversi.

Anch’egli, come me, era impegnato a favore di una riforma liturgica, di una nuova collocazione dell’esegesi nella Chiesa e nella teologia e di molte altre cose, ma le sue motivazioni erano parecchio diverse dalle mie.

La sua teologia — malgrado le letture patristiche dei suoi primi anni — era totalmente caratterizzata dalla tradizione della scolastica suareziana e dalla sua nuova versione alla luce dell’idealismo tedesco e di Heidegger. Era una teologia speculativa e filosofica, in cui, alla fin fine, la Scrittura e i Padri non avevano poi una parte tanto importante, in cui, soprattutto, la dimensione storica era di scarsa importanza.

Io, al contrario, proprio per la mia formazione ero stato segnato soprattutto dalla Scrittura e dai Padri, da un pensiero essenzialmente storico: in quei giorni ebbi la chiara percezione di quale fosse la differenza tra la scuola di Monaco, da cui io ero passato, e quella di Rahner, anche se dovette passare ancora qualche tempo prima che la distanza che separava le nostre strade fosse pienamente visibile all’esterno.

Ora era chiaro che lo schema di Rahner non poteva essere accolto, ma anche il testo ufficiale andò incontro alla bocciatura con un’esigua differenza di voti. Si dovette quindi procedere al rifacimento del testo.

Dopo complesse discussioni, solo nell’ultima fase dei lavori conciliari si poté arrivare all’approvazione della Costituzione sulla parola di Dio, uno dei testi di spicco del Concilio, che peraltro non è stato ancora recepito appieno. All’inizio si impose in pratica solo quello che era passato come la presunta novità nel modo di pensare questi argomenti da parte dei Padri. Il compito di comunicare le reali affermazioni del Concilio alla coscienza ecclesiale e di plasmarla a partire da queste ultime è ancora da realizzare.

Nel frattempo, però, mi trovai di fronte a una difficile decisione personale. Hermann Volk, il grande dogmatico di Munster a cui, malgrado la differenza di età, ero legato da amicizia, nell’estate del 1962 divenne vescovo di Magonza.

Mi giunse allora la richiesta di occupare la sua cattedra.

Amavo la Renania, amavo i miei studenti e il mio lavoro all’università di Bonn; oltre tutto mi sentivo ulteriormente obbligato nei confronti di questo compito in forza del mio legame con il cardinal Frings. Ma il vescovo Volk insistette perché io accettassi; alcuni amici mi esortavano sostenendo che la dogmatica era il mio vero campo e che essa mi avrebbe aperto prospettive d’azione ben più ampie della teologia fondamentale; anche la mia preparazione scritturistica e patristica sarebbe stata lì meglio valorizzata.

In tal modo, però, la decisione, di per sé facile, diventava davvero difficile, ma dopo averci pensato su parecchio decisi di rifiutare.

Doveva essere questa l’ultima parola in proposito, ma mi era rimasto dentro un pungolo, che si fece dolorosamente sentire quando nella situazione carica di tensioni della facoltà di Bonn venni a urtare in alcune considerevoli resistenze riguardo a due tesi di dottorato, che rischiavano con ogni probabilità di finire in un fallimento per i due giovani studiosi.

Ripensai al dramma della mia abilitazione e vidi in Munster la via indicatami dalla Provvidenza per poter aiutare quei due studiosi. La cosa divenne ancora più convincente, quando mi resi conto che anche in altri casi avrei dovuto aspettarmi a Bonn difficoltà di quel genere, che, invece, non dovevo certo temere nella situazione di Munster.

Insieme con l’argomento precedentemente accantonato della mia maggiore vicinanza alla dogmatica, queste ragioni divennero una forza a cui mi inchinai. Naturalmente, ne avevo parlato anche con il cardinal Frings e ancor oggi posso solo essere riconoscente per la sua paterna comprensione e la sua umana generosità.

Nell’estate del 1963 cominciai così il mio insegnamento a Munster, davanti a un vasto uditorio e con una dotazione di personale e materiale, che andava ben oltre quella di cui disponevo a Bonn. L’accoglienza da parte del corpo docente fu oltremodo cordiale, le condizioni non avrebbero potuto essere migliori. Ma devo confessare che mi è comunque rimasta la nostalgia di Bonn, la città sul fiume, della sua serena allegria e del suo dinamismo spirituale.

L’anno 1963 segnò però un’altra profonda cesura nella mia vita. Già da gennaio mio fratello aveva notato che nostra madre riusciva sempre di meno ad assumere cibo. A metà agosto il medico ci diede la triste certezza che si trattava di cancro allo stomaco, che ormai procedeva velocemente e inesorabilmente per la sua strada. Fino alla fine di ottobre, benché ridotta a pelle e ossa, continuò a sbrigare le faccende domestiche per mio fratello, finché ebbe uno svenimento in un negozio e da allora non potè più lasciare l’ospedale.

Abbiamo rivissuto con lei la stessa esperienza già fatta con nostro padre. La sua bontà era divenuta ancor più pura e trasparente e continuò a brillare anche nelle settimane in cui il dolore andava crescendo. Il giorno dopo la domenica Gaudete, il 16 dicembre 1963, ella chiuse per sempre i suoi occhi, ma la luce della sua bontà è rimasta e per me è divenuta sempre più una concreta dimostrazione della fede da cui lei si era lasciata plasmare.

Non saprei indicare una prova della verità della fede più convincente della sincera e schietta umanità che la fede ha fatto maturare nei miei genitori e in molte altre persone che ho potuto incontrare.

MUNSTER E TUBINGA

Quasi subito dopo la dipartita di nostra madre, nel febbraio del 1964, mio fratello fu chiamato a succedere a Theobald Schrems come maestro della cappella del duomo di Ratisbona e, quindi, come direttore dei celeberrimi “Piccoli Cantori della Cattedrale di Ratisbona”.

1-la-mia-vita-parte-prima-1_543d0c6cab49aCosì l’idillio di Traunstein era davvero finito per sempre e Ratisbona, l’antica città imperiale sul Danubio, che finora era stata ai margini della nostra vita divenne per noi un comune punto di riferimento; era là che ci incontravamo durante le ferie e là ci sentivamo sempre di più a casa nostra.

Ma nel frattempo il Concilio andava avanti, io vivevo diviso tra Munster e Roma. L’interesse per la teologia, che già prima era stato grande, cresceva ancor di più sotto l’impressione delle notizie, spesso cariche di eccitazione, sulle dispute dei Padri. Ogni volta che tornavo da Roma trovavo nella Chiesa e tra i teologi uno stato d’animo sempre più agitato.

Sempre più cresceva l’impressione che nella Chiesa non ci fosse nulla di stabile, che tutto può essere oggetto di revisione. Sempre più il Concilio pareva assomigliare a un grosso parlamento ecclesiale, che poteva cambiare tutto e rivoluzionare ogni cosa a modo proprio.

Evidentissima era la crescita del risentimento nei confronti di Roma e della Curia, che apparivano come il vero nemico di ogni novità e progresso. Le discussioni conciliari venivano sempre più presentate secondo lo schema partitico tipico del parlamentarismo moderno. Chi veniva informato in questo modo, si vedeva indotto a prendere a sua volta posizione per un partito.

In Germania, c’era ancora un sostanziale consenso nei confronti delle forze che sostenevano il rinnovamento, a poco a poco, però, le tensioni e le divisioni che venivano attribuite al Concilio cominciarono a delinearsi anche all’interno del nostro paesaggio ecclesiale.

Ma qui era in atto un processo ancora più radicalmente profondo.

Se a Roma i vescovi potevano cambiare la Chiesa, anzi, la stessa fede (così almeno pareva), perché solo ai vescovi era lecito farlo? La si poteva cambiare e, al contrario di quello che si era sino ad allora pensato, questa possibilità non pareva più sottratta alla capacità umana di decidere, ma, secondo tutte le apparenze, era posta in essere proprio da essa.

Ora, però, si sapeva che il nuovo che i vescovi sostenevano, lo avevano appreso dai teologi; per i credenti si trattava di un fenomeno strano: a Roma i loro vescovi parevano mostrare un volto diverso da quello di casa loro.

Dei pastori che fino a quel momento erano ritenuti rigidamente conservatori apparvero improvvisamente come i portavoce del progressismo – ma era farina del loro sacco?

La parte che i teologi avevano assunto al Concilio creò tra gli studiosi una nuova consapevolezza: essi cominciarono a sentirsi come i veri rappresentanti della scienza e, proprio per questo, non potevano più apparire sottoposti ai vescovi. Difatti, come avrebbero potuto i vescovi esercitare la loro autorità magisteriale sui teologi, dal momento che derivavano le loro prese di posizione dai pareri degli specialisti e dipendevano dagli indirizzi loro offerti dagli studiosi?

A suo tempo, Lutero aveva sostituito l’abito sacerdotale con quello dello studioso, per mostrare che nella Chiesa gli esperti di Sacra Scrittura sono coloro che veramente possono prendere delle decisioni; poi questo rivolgimento era stato in qualche modo attenuato dal fatto che la professione di fede era comunque ritenuta come il criterio ultimo di giudizio.

Il Credo era dunque criterio ultimo anche per la scienza.

Ma ora nella Chiesa Cattolica, quanto meno a livello della sua opinione pubblica, tutto appariva oggetto di revisione, e persino la professione di fede non pareva più intangibile, ma soggetta alle verifiche degli studiosi.

Dietro questa tendenza, poi, dietro il predominio degli specialisti, si percepiva già qualcosa d’altro, l’idea di una sovranità ecclesiale popolare, in cui il popolo stesso stabilisce quel che vuole intendere col termine Chiesa, che anzi appariva ormai chiaramente definita come popolo di Dio.
Si annunciava così l’idea di “Chiesa dal basso”, di “Chiesa del popolo”, che poi, soprattutto nel contesto della teologia della liberazione, divenne il fine stesso della riforma.

Se al ritorno in patria dal primo periodo conciliare mi ero sentito ancora sostenuto dal sentimento di gioioso rinnovamento che regnava dovunque, provavo ora una profonda inquietudine di fronte al cambiamento che si era prodotto all’interno del clima ecclesiale e che era ormai sempre più evidente.

In una conferenza sul vero e falso rinnovamento della Chiesa, tenuta presso l’università di Munster, cercai di lanciare un primo segnale di allarme, che però non fu quasi per nulla notato.

Più energico fu il mio intervento al Katholikentag di Bamberga del 1966, tanto che il cardinale Dopfner si stupì dei “tratti conservatori” che gli era parso di cogliere.

Ma nel frattempo si preparava per me un altro cambiamento personale.

Come già detto, a Munster avevo trovato un’accoglienza e una stima nel corpo docente della facoltà, un favore da parte del mio uditorio e una sistemazione quali non avrei potuto sperarne di migliori. Cominciai ad amare sempre di più questa bella e nobile città, ma c’era comunque un aspetto negativo: la troppa distanza dalla mia terra natale, la Baviera, a cui ero e sono profondamente e interiormente legato. Avevo nostalgia del sud. La tentazione divenne irresistibile quando l’università di Tubinga, che già nel 1959 mi aveva offerto la cattedra di teologia fondamentale, mi chiamò alla seconda cattedra di dogmatica, da poco istituita.

A insistere sulla mia chiamata e a ottenere il consenso degli altri colleghi era stato Hans Kung. Lo avevo conosciuto nel 1957, durante il convegno dei teologi dogmatici a Innsbruck, nel momento in cui avevo appena concluso la mia recensione della sua tesi di dottorato su Karl Barth.

Avevo alcune questioni da sollevare circa questo libro, il cui stile teologico non era il mio, ma lo avevo comunque letto con gusto, riconoscendo i meriti dell’autore, di cui mi piacquero la simpatica apertura e la schiettezza.

Ne era così nato un buon rapporto personale, anche se già poco tempo dopo la recensione del suo libro ci fu tra noi una controversia piuttosto seria sulla teologia del Concilio.

Ma ambedue consideravamo questo come legittima differenza di posizioni teologiche, necessarie per un fecondo avanzamento del pensiero, e non sentivamo affatto compromesse da queste differenze la nostra simpatia personale e la nostra capacità di collaborare.

Con il progredire degli eventi teologici ed ecclesiali, sentii che le nostre strade sarebbero andate in direzioni ben più divergenti, ma pensavo che ciò non avrebbe intaccato il nostro consenso di fondo di teologi cattolici. Devo dire che in quel momento mi sentivo più vicino al suo lavoro che a quello di J. B. Metz, che proprio su mio consiglio era stato chiamato alla cattedra di teologia fondamentale di Munster.

Trovavo il dialogo con lui estremamente stimolante, ma quando si delineò l’orientamento verso la teologia politica, sentii crescere un contrasto che poteva raggiungere punti fondamentali.

Comunque sia, mi decisi ad accettare Tubinga – il sud mi allettava, ma anche la grande storia della teologia in questa università sveva, in cui, oltre tutto, potevo aspettarmi degli interessanti incontri con importanti teologi evangelici.

Cominciai le mie lezioni a Tubinga fin dal semestre estivo del 1966, peraltro in uno stato di salute piuttosto precario, dopo le eccessive fatiche del periodo conciliare, della conclusione del Concilio e dell’iniziale pendolarismo tra Munster e Tubinga.

Da una parte sentivo il fascino della piccola città sveva, dall’altra, dopo la grandiosità di Munster, ero un po’ deluso di fronte alla non proprio esuberante disponibilità di spazi, in cui tutto era un po’ stretto e sacrificato.

La facoltà aveva un corpo docente di altissimo livello, benché incline alle polemiche, e anche a questo io non ero più abituato; devo comunque dire che mi trovai in buoni rapporti con tutti i miei colleghi.

I “segni dei tempi”, che a Munster avevo percepito sempre più chiaramente, assumevano ormai tratti drammatici.

All’inizio il clima generale era ancora dominato dalla teologia di Rudolf Bultmann — con i cambiamenti che a essa aveva apportato Ernst Kasemann.

Il mio corso di cristologia nell’inverno 1966/67 fu tutto pensato in questa situazione di dialogo. Nel 1967 potemmo ancora celebrare splendidamente i centocinquanta anni della facoltà cattolica di teologia, ma si trattò anche dell’ultima festa accademica nel vecchio stile.

Quasi fulmineamente cambiò il “paradigma” culturale, a partire dal quale pensavano gli studenti e una parte dei docenti. Fino ad allora il modo di pensare era stato determinato dalla teologia di Bultmann e dalla filosofia di Heidegger; in breve tempo, quasi nello spazio di una notte, lo schema esistenzialistico crollò e fu sostituito da quello marxista.

Ernst Bloch insegnava allora a Tubinga e nelle sue lezioni denigrava Heidegger come piccolo borghese; quasi contemporaneamente al mio arrivo, nella facoltà evangelica di teologia fu chiamato Jùrgen Moltmann, che nel suo affascinante libro Teologia della speranza ripensava completamente la teologia a partire da Bloch.

L’esistenzialismo andava a pezzi e la rivoluzione marxista si accendeva in tutta l’università, la scuoteva fin dalle fondamenta.

Qualche anno prima ci si sarebbe potuti aspettare che le facoltà di teologia sarebbero state un baluardo contro la tentazione marxista. Ora, invece, avveniva proprio il contrario: esse ne divenivano il vero centro ideologico.

La recezione dell’esistenzialismo, così come era stata attuata da Bultmann, non era rimasta senza conseguenze per la teologia. Come ho già ricordato, nel mio corso di cristologia avevo cercato di reagire alla riduzione esistenzialistica e qua e là – soprattutto nel corso su Dio che tenni subito dopo – avevo persino cercato di porre a essa dei contrappesi desunti dal pensiero marxista, che, proprio per le sue origini giudaico-messianiche, conserva ancora degli elementi cristiani.

Ma la distruzione della teologia, che avveniva attraverso la sua politicizzazione in direzione del messianismo marxista, era incomparabilmente più radicale, proprio perché si basava sulla speranza biblica, ma la stravolgeva, così da conservare il fervore religioso, eliminando, però, Dio e sostituendolo con l’azione politica dell’uomo. Resta la speranza, ma al posto di Dio subentra il partito e, quindi, il totalitarismo di un culto ateistico, che è disposto a sacrificare ogni umanità al suo falso dio.

Ho visto senza veli il volto crudele di questa devozione ateistica, il terrore psicologico, la sfrenatezza con cui si arrivava a rinunciare a ogni riflessione morale, considerata come un residuo borghese, laddove era in questione il fine ideologico.

Tutto ciò è di per sé sufficientemente allarmante, ma diventa una sfida inevitabile per i teologi, quando l’ideologia è portata avanti in nome della fede e la Chiesa è usata come suo strumento. Il modo blasfemo con cui la croce veniva dileggiata come sado-masochismo, l’ipocrisia con cui ci si continuava a dichiarare credenti – quando ciò era ritenuto utile – per non mettere a rischio gli strumenti per i propri scopi, tutto ciò non lo si poteva e non lo si doveva minimizzare o ridurre a una sorta di polemica accademica.

Ho vissuto tutto questo sulla mia pelle, dato che, nel momento del culmine dello scontro, ero decano della mia facoltà, membro del Grande e Piccolo Senato Accademico e membro della commissione incaricata di elaborare una nuova costituzione per l’università. Naturalmente continuavano a esserci molti normalissimi studenti di teologia. A spingere nella direzione sopra descritta era soprattutto un piccolo gruppo di impiegati dell’università. Ma questo gruppo era in grado di condizionare il clima.

Personalmente, non ho mai avuto difficoltà con gli studenti, al contrario nel mio corso ho sempre potuto parlare a un gran numero di uditori attenti. Mi sembrava però un tradimento ritirarmi nella tranquillità della mia aula e lasciare il restò agli altri. Nella facoltà evangelica di teologia la situazione era ben più drammatica che nella nostra. Ma eravamo tutti sulla stessa barca.

Partecipai allora a un’iniziativa comune con due teologi evangelici, il patrologo Ulrich Wickert e l’esperto di missionologia Wolfgang Beyerhaus. Vedevamo che le controversie confessionali che c’erano state fino ad allora erano molto meno importanti della sfida di fronte alla quale ci trovavamo in quel momento e in cui eravamo chiamati a rappresentare insieme la fede nel Dio vivo e in Cristo, la Parola fatta uomo.

L’amicizia con questi due colleghi resta un’eredità imperitura degli anni di Tubinga. In seguito Wickert ha preso una decisione simile alla mia: non volendo continuare a vivere in un clima tanto conflittuale, ha accettato un’offerta dal seminario teologico di Berlino, per poter continuare a portare avanti la sua teologia in un ambiente meno agitato. Beyerhaus, che per natura è più battagliero di noi due, è divenuto il portavoce degli evangelici e ha portato avanti le sue battaglie a partire da questo contesto capace di offrire un sostegno.

Forse, però, prima di arrivare alla tappa seguente del mio cammino personale, devo ancora ricordare che malgrado tutto anche in quella situazione potei portare avanti il mio lavoro, in maniera considerevole e feconda. Dato che nel 1967 il corso principale di dogmatica veniva tenuto da Hans Kung, io fui finalmente libero di realizzare un progetto che coltivavo silenziosamente ormai da dieci anni. Osai quindi cimentarmi con un corso che si rivolgeva a studenti di tutte le facoltà, con il titolo di Introduzione al cristianesimo.

Da queste lezioni è nato poi un libro, che è stato tradotto in 17 lingue, che è stato ristampato più volte, non solo in Germania, e che continua a essere letto. Ero e sono pienamente consapevole dei suoi limiti, ma il fatto che esso abbia aperto una porta a molte persone è per me motivo di soddisfazione e, insieme, di gratitudine per Tubinga, nella cui atmosfera hanno avuto origine quelle lezioni.

FONTE: La mia vita — Autobiografia (Joseph Ratzinger-Benedetto XVI, LEV, 2005).


e sulla Liturgia….
 
Il Concilio Ecumenico Vaticano II aveva formulato il principio di uno sviluppo organico della liturgia, sostenendo anche la necessità «che non si introducano innovazioni se non quando lo richieda una vera e accertata utilità della chiesa, e con l’avvertenza che le nuove forme scaturiscano organicamente, in qualche maniera, da quelle esistenti» (SACROSANCTUM CONCILIUM 23). Secondo i Padri conciliari, cioè, rinnovare le forme liturgiche non voleva dire stravolgere la liturgia romana che si era formata nel corso dei secoli. Tuttavia, quando fu introdotto il MESSALE DI PAOLO VI, apparve chiaro che non si trattava di una semplice revisione all’interno della grande tradizione della Chiesa, ma di un Messale completamente nuovo che destituiva quello precedente.
Ecco cosa ha scritto al riguardo JOSEPH RATZINGER:
 
–   «Si fece a pezzi l’edificio antico e se ne costruì un altro, sia pure con il materiale di cui era fatto l’edificio antico e utilizzando anche i progetti precedenti. Non c’è alcun dubbio che questo nuovo Messale comportasse in molte sue parti degli autentici miglioramenti e un reale arricchimento, ma il fatto che esso sia stato presentato come un edificio nuovo, contrapposto a quello che si era formato lungo la storia, che si vietasse quest’ultimo e si facesse in qualche modo apparire la liturgia non più come un processo vitale, ma come un prodotto di erudizione specialistica e di competenza giuridica, ha comportato per noi dei danni estremamente gravi. In questo modo, infatti, si è sviluppata l’impressione che la liturgia sia “fatta”, che non sia qualcosa che esiste prima di noi, qualcosa di “donato”, ma che dipenda dalle nostre decisioni» (Joseph Ratzinger, “Aus meinem Leben. Erinnnerungen (1927-1977), München 1998, 173s. Trad. italiana, La mia vita. Autobiografia, San Paolo, Cinisello Balsamo 2005, 114s.).
 
Lo stesso pensiero fu espresso da padre Joseph Gelineau, che pure era stato promotore della riforma liturgica e membro del Consiglio per la sua attuazione: «Bisogna dirlo senza mezze misure: il rito romano, così come lo abbiamo conosciuto, non esiste più. È distrutto. Alcuni muri del primitivo edificio sono caduti, mentre altri hanno cambiato aspetto, tanto che esso ci appare attualmente come una rovina, oppure come una parziale sotto-struttura di un altro edificio».
È indubbio che la riforma della liturgia scaturita dal Concilio, e attuata da Paolo VI, ha provocato una profonda recisione, una rottura molto grave con la secolare e gloriosa tradizione liturgica della Chiesa di Roma. E ciò ha impoverito la liturgia cattolica, dove la forma è anche sostanza, perché noi crediamo l’Eucaristia come la preghiamo. Credo che si possa ravvisare in questa “frattura” uno dei maggiori fattori di crisi della Chiesa del nostro tempo, se è vero, e “noi” lo crediamo, che la celebrazione del Sacrificio eucaristico è l’evento centrale e sommo della vita della Chiesa e della storia dell’umanità.

Lascia un commento

Crea un sito web o un blog su WordPress.com

Su ↑