Ammaestrate tutte le genti insegnando loro

Dal testo 365 giorni con il Papa — Collaboratori della Verità, Benedetto XVI condivide centinaia di prediche, omelie e conferenze per far fede a quell’andare ed ammaestrare tutte le genti, insegnando loro non opinioni personali, ma ciò che Gesù ha detto e fatto.

“Secondo l’espressione paolina, la Chiesa ha un «capo» e un «corpo», dal momento che è un organismo vivente. Un corpo senza capo non è più un corpo vivo, ma un cadavere. Il capo della Chiesa è però Cristo. Questo è il contenuto più profondo e l’essenza più intima del sacramento, che devono essere difesi ben al di là d’ogni sondaggio d’opinione e senza dei quali la Chiesa e l’umanità sarebbero solo dei cadaveri. La parola di Cristo non è mai stata affatto così banale, così zuccherosa e sentimentale come vorrebbe far credere una certa lettura pseudo-romantica della figura di Gesù. Essa proveniva dallo sguardo acuto dell’amore vero, che non si lascia separare dalla verità, e l’ha perciò condotto fin sulla croce. Essa fu pietra d’inciampo per la pubblica opinione d’ogni partito, e oltre qualsiasi misura; e da allora nulla è cambiato a questo proposito. Ma quando ci si vuole dare a intendere che la storia del magistero ecclesiastico sia stata unicamente la storia d’una resistenza ottusa contro il progresso, e che soltanto la storia delle eresie rappresenti la storia della vera «illuminazione» dell’umanità, allora a quest’interpretazione si oppone l’intera schiera dei santi: da Paolo a Giovanni, da Clemente Romano e Ignazio d’Antiochia fino a Massimiliano Kolbe e a tutti gli altri martiri cristiani di questo secolo. E quando siamo continuamente martellati dalla propaganda ideologica della pubblicistica marxista, secondo la quale l’autorità non è che potere e il potere nient’altro che uno strumento d’oppressione, allora è tempo di opporsi decisamente a tale mescolanza confusa di verità e di falsità. Il potere ha oggi più di un volto. Una delle sue forme principali è il potere di formare le opinioni, e di incatenare gli uomini ai ceppi dei grandi opinion-makers (i «professionisti dell’opinione pubblica»). Questo potere « sociale » non esiterà a fare a pugni con chiunque lo voglia contraddire; ma proprio quest’essere « segno di contraddizione» san Paolo l’ha indicato come la posizione e la condizione fondamentale dell’apostolo e del testimone di Gesù Cristo nel mondo (cfr. ICor 4,12s). (Zeitfragen und christlicher Glaube, pp. 23ss)

0002-365libro-bvi-1_5439447f0558a«Ammaestrate tutte le genti, insegnando loro tutto ciò che vi ho comandato di osservare»: la fede non può esimersi dall’offrire indicazioni e precetti riguardanti la dottrina etica e la condotta morale, non s’accontenta del vago sentimento d’una realtà trascendente e ineffabile. La fede imprime certamente il proprio sigillo nel cuore dell’uomo: ma a partire da questa profondità la sua impronta traluce anche nell’intelletto e nella volontà. La fede non può rinunciare a una permanente educazione di ogni aspetto della personalità umana, né alla disponibilità a imparare finché dura il nostro vivere e a essere per sempre scolari alla scuola di Cristo. Insegnare è una vocazione cristiana e un’opera di misericordia, poiché l’assenza del vero e una conoscenza inadeguata sono forme di povertà più gravi di quella puramente materiale. Non è possibile insegnare se non ci si impegna, facendo lezione, a fare i conti con l’essenza dell’uomo, se non si trasmette una concezione ampia e comprensiva di quanto è umano. D’altra parte, ogni educazione a una vita « buona » deve fare riferimento all’arte di essere uomini, e al fatto che il nucleo di quest’arte è proprio la fede. Al giorno d’oggi, viene in molti modi elaborata e diffusa una concezione puramente intellettualistica dell’insegnamento. Ogni tentativo di un’educazione che voglia partire dalla verità del nostro essere finisce allora per essere subito interpretato come un’aggressione contro la libertà e l’autodeterminazione del singolo. Quest’idea sarebbe accettabile, se non esistesse verità alcuna che ci preceda e che sia data originalmente al nostro vivere. Ma, se così fosse, anche l’autonoma autodeterminazione del singolo resterebbe senza più ragione alcuna e non potrebbe che andare a finire nel nulla. Se però si dà una verità dell’uomo, se la nostra esistenza è l’attuazione di un raggio della verità eterna che è Dio, allora la proclamazione di questa verità e l’aiuto a incamminarsi sulla via di questa verità costituiscono il passo decisivo della liberazione dell’uomo, della liberazione dall’assurdo e dal nulla, per entrare nella pienezza della sua destinazione. (Omelie romane, 23 gennaio 1985)

L’idea che, in ultima analisi, sia indifferente utilizzare questa o quella formula, seguire l’una o l’altra tradizione, è penetrata profondamente nel mondo occidentale. La verità sembra altrimenti irraggiungibile, e reputare che la fede cristiana sia vera precisamente nel suo nucleo fondamentale — che sia cioè la verità — ci ripugna, ci appare esattamente come una presunzione da occidentali. Ma se fosse davvero così, tutto ciò per cui ci affatichiamo non sarebbe se non apparenza. Anche il nostro culto sarebbe allora insincero, noi stessi saremmo esseri senza alcuna verità sostanziale. Ma dove non c’è più verità alcuna, si può allora modificare qualsiasi criterio valutativo, e, in ultima istanza, dovunque fare in un modo e nell’esatto suo contrario. L’aver rinunciato alla verità mi pare il vero e proprio nucleo della nostra crisi odierna. Dove però la verità non offre più terreno solido, là anche la solidarietà comunitaria — peraltro, ancora tanto considerevole — finisce per sfilacciarsi, poiché anch’essa resta in ultima istanza senza radici. In quale misura, dunque, noi viviamo secondo l’interrogativo di Pilato, apparentemente tanto umile, ma in realtà così presuntuoso: «Ma che cosa è la verità?». Proprio così, però, noi prendiamo posizione contro Cristo. Certo, quando degli uomini credono di poter disporre a buon mercato e con troppa fiducia della verità è il momento in cui si corre un rischio davvero enorme. Ma un pericolo ancora maggiore incombe là dove l’evidenza comune, la validità e l’obbligatorietà vincolante dell’affermazione del vero vengono addirittura considerate come un qualcosa che non sarebbe più in alcun modo possibile e attuabile. (Zeitfragen und christlicher Glaube, p. 18)

Per quanto il ritorno alle origini sia essenziale al movimento ecumenico per la purificazione della Chiesa, e per quanto fondamentali debbano considerarsi per la Chiesa stessa la tensione all’unità e la rinuncia alle auto-giustificazioni di parte, non si può tuttavia negare che da ciò derivino anche dei problemi. L’autentico sensus Ecclesiae — che è qualcosa di più che una organizzazione o un apparato — si appanna, e così finiamo per chiederci sempre più pressantemente: ma perché mai non si dovrebbe finalmente riconoscere la parità di tutte le confessioni cristiane? Diventa sempre più incontenibile una diffusa tendenza a sminuire quella che è la propria particolare appartenenza — facendone un fatto di mera tradizione confessionale — e a retrocedere in questo modo lo « specifico » cristiano non nel suo essere nella Chiesa, ma per così dire dietro ad essa. A ciò è connessa una tendenza al biblicismo, cioè a isolare la sacra Scrittura, che si vuole ora considerare entità del tutto autonoma, disarticolata dal contesto di qualsivoglia tradizione ecclesiale. Una volta compiuto il primo passo in quest’opera tanto rilevante di «riconciliazione», la portata della questione si dilata però rapidamente, e si pone da sé un secondo interrogativo: il dibattito critico tra il cristianesimo e le altre religioni non è forse, in fondo, una qualche forma di auto-giustificazione da parte cristiana, così come un tempo la disputa confessionale non fu forse il tentativo d’una confessione di legittimarsi rispetto alle altre? Di questo passo, presto la questione non riguarda più ciò che è specificamente «cristiano», ma semplicemente quanto è in genere «religioso». Quest’ultimo traspare da una molteplicità di «cifre» diffuse nelle vicende dell’umanità, in cui ultimamente poco importa il contenuto che muta continuamente, quanto invece la quintessenza del «religioso», che può assumere un’infinità di «figure» e non ha affatto bisogno della parola di Dio per esprimersi. La catechesi finisce così per ridursi da un lato a puro momento informativo, dall’altro a un richiamo o a un orientamento non meglio definiti che avvalorano una condotta di vita genericamente religiosa. Senza far troppo rumore, la fede cristiana esce così di scena. (Die Situation der Kirche, pp. 17s)

Il cuore della preghiera eucaristica è il racconto della sera che precede la passione di Gesù. Quand’esso viene proclamato, il sacerdote non racconta una storia del passato, non richiama semplicemente alla memoria l’evento di allora, bensì annuncia qualcosa che accade nel presente. «Questo è il mio corpo»: ciò è detto al presente. Ma quest’affermazione è un’affermazione di Cristo: nessun uomo può da sé parlare in questo modo. Ne deriva che quest’espressione può venire pronunciata soltanto nel contesto dell’azione sacramentale della Chiesa indivisa, solo nella pienezza di potestà che soltanto a essa, nella sua unità e totalità, è propria. La grandezza dell’Eucarestia non dipende dalla nostra capacità organizzativa. Dovremmo davvero imparare di nuovo che essa non è mai esclusivamente opera di una comunità umana: noi riceviamo in verità dal Signore quanto egli dona alla comunione della Chiesa. Ogni volta mi commuovono racconti dei campi di concentramento o della prigionia in Russia, nei quali gli uomini dovettero per settimane e mesi fare a meno dell’Eucarestia; eppure non ricorsero all’arbitrio di apprestarsela da sé, bensì la celebrarono in forma di memoria e di desiderio. In questa eucarestia del desiderio essi divennero, in un modo nuovo, maturi per il dono del Signore e lo ricevettero in tutta novità, non appena accadeva a un sacerdote di trovare da qualche parte del pane e del vino. (Dienst an der Einheit, pp. 177s)

Sarebbe certamente folle aspettarsi in un prossimo futuro un’unione universale della cristianità che faccia perno sul papato, nel senso del riconoscimento della successione apostolica nel vescovo di Roma. Forse, appartiene ai vincoli e ai limiti costitutivi di tale ministero anche il fatto che esso non può mai essere compiutamente adempiuto e che perciò deve sperimentare le resistenze di quegli stessi credenti in Cristo, che di esso sottolineano quanto non è potere apostolico vicario bensì potestà giurisdizionale o personale. Proprio in tal modo, però, può trovare attuazione anche ima funzione unificatrice del pontefice, che trascende i confini della comunione della Chiesa cattolica romana. Anche quando viene contestata l’istanza di autorità inerente al suo ministero, infatti, il papa rimane punto di riferimento di una responsabilità personalmente assunta e testimoniata, al cospetto del mondo, per l’annuncio della fede. Egli rappresenta una provocazione e una sfida, da tutti percepita e a tutti rivolta, a perseguire la più grande fedeltà possibile a quella Parola; come anche un’istanza e una sfida a lottare per l’unità, e a portarne le responsabilità per ciò che la rende ancora incompleta. In questo senso, pur nella separazione fra le confessioni è dato rinvenire nel papato una funzione che agisce a favore dell’unità della Chiesa: una funzione che, in ultima analisi, nessuno può seriamente pensare di comprendere se non ponendola in correlazione alla vicenda storica, spesso drammatica, della cristianità. Per il papato e per la Chiesa cattolica, la critica rivolta al papato stesso dalla cristianità non cattolica resta un pungolo a cercare una realizzazione del servizio di Pietro sempre più conforme alla missione di Cristo. E, d’altro canto, per la cristianità non cattolica il pontefice rappresenta la visibile istanza e il permanente richiamo alla concreta unità, che è compito affidato alla Chiesa e che dovrebbe essere il suo specifico volto di fronte al mondo. Possa riuscirci — da entrambe le parti — di accettare sempre, senza riserve, l’interrogazione che ci è rivolta e il compito che ci viene assegnato; e così, nell’obbedienza al Signore, possa accaderci di diventare quel «luogo di pace» che anticipa la «nuova creazione», il regno di Dio. (Dienst an der Einheit, pp. 177s)


Card. Ratzinger (1977): La comunione con il Papa è la comunione con il tutto, senza la quale non vi è comunione con Cristo (Da “Il Dio vicino”)

CHIESA DI OGNI LUOGO E DI OGNI TEMPO

Celebrazione in comunione con il Papa

del cardinale Joseph Ratzinger

(Predica in occasione della domenica per il Papa, 10 luglio 1977, nella Chiesa di San Michele a Monaco di Baviera)

Nella preghiera fondamentale della Chiesa, nell’Eucarestia, il cuore della sua vita non solo si esprime, ma si compie giorno per giorno.
L’Eucarestia ha nel più profondo di sè a che fare solo con Cristo.
Egli prega per noi, pone la sua preghiera sulle nostre labbra, poichè solo lui sa dire: questo è il mio corpo, questo è il mio sangue.
Ci attira dentro la sua vita, nell’atto dell’amore eterno, in cui egli si affida al Padre, così che noi, insieme con lui, consegniamo a nostra volta noi stessi al Padre e, in questo modo, riceviamo in dono proprio Gesù Cristo. L’Eucarestia è quindi sacrificio: affidarsi a Dio in Gesù Cristo e ricevere così in dono il suo amore.
Cristo è lui che dà ed è, allo stesso tempo, il dono: per mezzo di lui, con lui e in lui noi celebriamo l’Eucarestia.
In essa è continuamente presente e vero ciò che dice l’epistola di oggi: Cristo è il capo della Chiesa, che egli acquista mediante il suo sangue.
Allo stesso tempo, in ogni celebrazione eucaristica, seguendo un’antichissima tradizione, diciamo: noi celebriamo insieme al nostro Papa…
Cristo si dà nell’Eucarestia ed è presente tutto intero, in ogni luogo e, per questo, è dovunque presente, là dove viene celebrata l’Eucarestia, il mistero tutto intero della Chiesa.
Ma Cristo è anche in ogni luogo un’unica persona e, per questo, non lo si può ricevere contro gli altri, senza gli altri.
Proprio perchè nell’Eucarestia c’è il Cristo tutto intero, inseparato ed inseparabile, proprio per questo si rende ragione dell’Eucarestia solo se essa è celebrata con tutta la Chiesa.
Noi abbiamo Cristo solo se lo abbiamo insieme con gli altri.
Poichè l’Eucarestia ha a che fare solo con Cristo, essa è il Sacramento della Chiesa.
E per questa stessa ragione essa può essere accostata solo nell’unità con tutta la Chiesa e con la sua Autorità.
Per questo la preghiera per il Papa fa parte del canone eucaristico, della celebrazione eucaristica.
La comunione con lui è la comunione con il tutto, senza la quale non vi è comunione con Cristo.
La preghiera cristiana e l’atto di fede implicano l’ingresso nella totalità, il superamento del proprio limite.
La liturgia non è l’iniziativa organizzativa di un club o di un gruppo di amici; la riceviamo nella totalità e dobbiamo celebrarla a partire da questa totalità e in riferimento ad essa.
Solo allora la nostra fede e la nostra preghiera si pongono in maniera adeguata, quando vivono continuamente in questo atto di superamento di sè, di autoespropriazione, che arriva alla Chiesa di tutti i luoghi e di tutti i tempi: è questa l’essenza della dimensione cattolica.
Si tratta proprio di questo, quando andiamo al di là della nostra piccola realtà, stabilendo un legame con il Papa ed entrando così nella Chiesa di tutti i popoli.

Da Joseph Ratzinger, “Il Dio vicino. L’eucaristia cuore della vita cristiana”, San Paolo Edizioni 2008 (Pag. 127-128)

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